Aspettando Canova

May 22, 2017 | Autor: Paolo Rambelli | Categoria: Xix Century
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Aspettando Canova Il teatro italiano tra Settecento e Ottocento

Interventi di

Arnaldo Bruni, Francesco Giardinazzo, Donatella Martinelli, Paolo Rambelli a cura di

Ivano Natali e Paolo Rambelli

Quaderni degli Incontri Internazionali “Diego Fabbri”

Prefazione

“Contrariamente ad un pregiudizio molto diffuso - osserva Anne Ubersfeld in Leggere lo spettacolo - il teatro non è un genere letterario. È, piuttosto, una pratica scenica” Anche gli “Incontri Diego Fabbri” sono spesso caduti nell’errore di privilegiare l’indagine dei cosiddetto TD (= Testo Drammatico) su quella del TS (= Testo Spettacolare), né d’altra parte era facile sottrarvisi, sia perché questo è stato - e continua ad essere per tanta parte - il modello culturale egemone, sia perché i documenti che portano evidenza delle messinscena (ovvero le note di regia, i bozzetti di scene e costumi, le descrizione, o addirittura le registrazioni, delle performance attoriali) sono numericamente molto inferiori - quando si risale oltre la metà del secolo scorso - e molto più complessi da reperire rispetto ai corrispondenti TD. Per cominciare a porre rimedio a questa mancanza abbiamo deciso di ripartire dalle origini stesse del teatro occidentale, mettendo a confronto la dimensione spettacolare de teatro classico con quella testuale, le problematiche proprie degli allestimenti con quelle sviluppate nella letteratura comica. A tal scopo abbiamo ripartito il ciclo di “Incontri” della primavera del 2008 in due momenti, rispettivamente dedicati allo “spazio teatrale” (e, quindi, ai TS) ed allo “spazio testuale” (ovvero, ai TD), senza per questo rinunciare - anche nel secondo - a recuperare l’originaria dimensione drammatica dei passi citati grazie all’intervento dal vivo di due attori emergenti: Giampiero Bartolini e Flaminia Fiano. Gli “Incontri” sono stati così aperti dall’intervento di Nicola Savarese dell’Università di Roma III, membro permanente dell’International School of Theatre Anthropology fin dalla sua fondazione nel 1980, su Il teatro antico a Roma fra musica e danza, che ha attraversato con l’ausilio di un ricco apparato iconografico - che qui riproduciamo in parte - i diversi aspetti dell’organizzazione degli spettacoli, dalla struttura degli edifici teatrali (con i loro molteplici, e talora singolari, accorgimenti come le sparsiones) alle soluzioni tecniche adottate per consentire agli attori di essere visti e sentiti distintamente anche dagli spettatori più lontani, dalle contaminazioni con la musica e la danza alla stratificazione (ed ai comportamenti) del pubblico. Dallo “spazio teatrale” romano siamo quindi risaliti a quello greco con l’analisi de L’organizzazione degli spettacoli teatrali nell’antica Grecia. I codici comunicativi 3

del teatro classico condotta da Angela Maria Andrisano dell’Università di Ferrara, che ha sottolineato il diverso ruolo dell’esperienza teatrale nel contesto culturale ellenico rispetto al mondo romano, una diversità che trovava espressione anche sotto il profilo materiale (ad esempio nella collocazione e nella forma degli edifici teatrali) ma che assumeva particolare evidenza a livello organizzativo con le figure degli arconti preposti all’organizzazione degli spettacoli in occasione delle principali feste religiose. Angela Maria Andrisano ha avuto altresì modo di avanzare l’ipotesi - rispondendo alle sollecitazioni da parte del pubblico - che il pubblico femminile potesse intervenire a tutte le manifestazioni teatrali, anche a quelle comiche, e non solo a quelle tragiche. La seconda parte degli “Incontri”, quelli dedicati allo “spazio testuale” è stata, quindi, affidata a Francesco Giardinazzo dell’Università di Bologna, che ha condotto due approfondite letture de Le Rane di Aristofane (per il mondo greco) e de L’Aulularia di Plauto (per il mondo romano), letture che per la presente pubblicazione ha ulteriormente arricchito con introduzioni volte a contestualizzare sotto il profilo storico - culturale la produzione dei due massimi commediografi dell’antichità, amplificandone ulteriormente il valore divulgativo, in linea con gli obiettivi che contraddistinguono l’attività dell’ass. cult. “Incontri internazionali Diego Fabbri” Chiudendo questa nota introduttiva desideriamo tornare a ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla buona riuscita della rassegna, dalle socie degli “Incontri Internazionali Diego Fabbri” al personale del “Centro Diego Fabbri di studi, ricerche e formazione sul teatro e i linguaggi dello spettacolo” e della “Sala San Luigi”, ovvero del teatro dove Diego Fabbri mosse i primi passi. Un particolare ringraziamento va poi ai relatori degli “Incontri” per la rapidità con cui hanno rivisto i propri interventi consentendoci di procedere alla loro stampa con tempi ormai desueti per quanto riguarda la pubblicazioni di atti di convegni. Paolo Rambelli

Il ciclo di “Incontri” documentato da questo Quaderno e la sua pubblicazione sono stati resi possibili dal contributo essenziale della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, della Banca di Forlì e dell’Amministrazione comunale di Forlì. 4

Sul teatro tragico di Vincenzo Monti: il Galeotto Manfredi di Arnaldo Bruni

Il teatro di Monti apre alla modernità del genere. Guardando all’autore sotto il rispetto della specola teatrale si devono registrare novità sorprendenti che consentono di superare l’immagine corrente del poeta, convenzionale e inamidata. Secondo la considerazione diffusa, Monti, tanto per stringere il giudizio in formula, è il poeta del Neoclassicismo, anzi dell’ala destra del Neoclassicismo, pensando a Foscolo che costituisce l’ala sinistra.1 Se si guarda invece alla sua ricerca sotto il rispetto della diacronia, non ex - post, come si dice con un’espressione discutibile ma efficace, si deve ammettere che la prospettiva muta radicalmente. Il rapporto fra l’«orizzonte di attesa» del pubblico, per adoperare il linguaggio di Hans Robert Jauss, e l’operatività del poeta è costantemente dinamico, cioè legato alla sorpresa e all’innovazione. La peculiarità appare indiscutibile a partire da una stima complessiva della carriera dell’autore perché il complesso della sua letteratura riconduce ai grandi modelli del passato. In particolare, volendo additare un riferimento credibile, vien fatto di pensare per approssimazione ad Ariosto, in quanto egli tenta come il predecessore tutte le corde della tastiera poetica: è senza dubbio un lirico (Pensieri d’amore), si cimenta nella tragedia (Aristodemo, Galeotto Manfredi, Caio Gracco), sperimenterà l’eroicomico (la Pulcella d’Orléans), approderà poi all’epica con la sua opera più famosa e celebrata (la traduzione dell’Iliade), senza sottrarsi peraltro all’avventura della prosa (la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca). Il suo repertorio è distinto dunque da una molteplicità di impegni che con la specializzazione moderna verranno progressivamente meno, a partire dagli scrittori della generazione successiva, pensando a Manzoni e a Leopardi. Si deve precisare tuttavia che su questo dato obiettivo, elementare ma vistoso, si inserisce una novità nella novità. Monti difatti dimostra di frequentare le forme della letteratura con un’originalità d’impostazione 1 Per un profilo rinnovato, cfr. ora Vincenzo Monti nella cultura italiana, a cura di G. Barbarisi et alii, Milano, Cisalpino, 2005 - 2006, voll. 3 in 4 tomi.

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che non ha riscontro nei suoi anni fra gli autori in attività di servizio, almeno prima del 1800. Non si deve dimenticare che il poeta, nato nel 1754 e precocemente attivo almeno dal 1776 (La visione d’Ezechiello), vive per ben ventiquattro anni entro le misure del secolo passato: ha una biografia quasi esattamente bipartita fra i due secoli, morendo nel 1828. Se si considera la sua produzione anteriore all’Ottocento non c’è dubbio che spetti alla tragedia il ruolo determinante nella conquista della sua fama: Aristodemo (1786), Galeotto Manfredi (1788), Caio Gracco (1802) sono tragedie che vengono rappresentate con successo e con grande clamore.2 La constatazione impone di rispondere subito a qualche interrogativo elementare ma dirimente. Perché il teatro, perché questo impegno che pare una deviazione rispetto a una carriera impostata su altri binari, tenendo presente che Monti romano, 1778 - 1797, conquista una rapida fama con le sue prove liriche in Arcadia, dalla Prosopopea di Pericle (1779) alla Bellezza dell’universo (1791), prima ancora del poema della Basvilliana (1793). Per spiegare la singolarità, è necessario tenere presente che il teatro costituisce il genere di moda, sullo scorcio del secondo Settecento, non solo in Italia ma in Europa. Fra il 1776 e il 1783 viene tradotto per intero in francese da Pierre Le Tourneur il teatro di Shakespeare in 20 volumi: è l’evento determinante per la circolazione in tutto il continente dell’opera del drammaturgo.3 Al teatro è applicato anche l’impegno di uno dei maggiori scrittori del tempo, cioè di Voltaire, pensando al Cesare e al Maometto tradotti in italiano nel 1772 da Cesarotti.4 Il caso di Alfieri rientra coerentemente in questo quadro, tenendo conto del debutto del Saul, recitato in prima persona in Arcadia, nel 1783. Con queste sollecitazioni non meraviglia che perfino un letterato fino ad allora estraneo alla poesia come Alessandro Verri pubblichi nel 1779 i suoi Tentativi drammatici: proprio perché la tragedia, prima dell’affermazione del romanzo nell’Ottocento come forma letteraria della modernità, costituisce il genere di punta, polarizzante ed egemonico, riunendo la possibilità della variazione tematica e dell’allargamento della misura verso un pubblico nuovo.5 Un letterato ambizioso e di straordinaria potenzialità come Monti non poteva mancare di cimentarsi in un genere che, aperto come era a una base sociale in espansione grazie alla messa in scena, doveva assicurargli una rapida fama. In effetti il suo esordio e la frequentazione successiva sono tali da procurargli una veloce notorietà. Cominciando con 2 V. Monti, Aristodemo, a cura di A. Bruni, Parma, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda, 1998; V. Monti, Galeotto Manfredi Principe di Faenza. Tragedia, a cura di A. Bruni, Bologna, Clueb, 2005: a queste due edizioni si fa riferimento di seguito anche per la bibliografia implicita e indispensabile. 3 Shakespeare traduit de l’anglois, dédié au Roi, Paris 1776 - 1783. 4 Il Cesare e Il Maometto. Tragedie del signor di Voltaire trasportate in Versi Italiani con alcuni Ragionamenti del Traduttore [M. Cesarotti], In Venezia, Presso Giambatista Pasquali, 1772. 5 Cfr. F. Cicoira, Alessandro Verri: sperimentazione e autocensura, Bologna, Pàtron, 1982.

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l’Aristodemo (1786), egli si colloca subito controcorrente: utilizza con disinvoltura i modelli, ma non esita a ribaltarne i presupposti. In questo dramma, tanto per cominciare, Monti rifiuta lo schema consueto che introduceva l’amore come ingrediente indispensabile. L’Aristodemo è invece la tragedia del potere, la vicenda di un uomo che non si ritrae di fronte all’impegno di uccidere la figlia pur di ottenere il trono, nel solco del biblico Abramo, portando però il gesto a esecuzione. Di qui scaturisce quella patologia del rimorso (lo psicologema può essere definito anche con il termine ‘rimosso’), che attraversa tutto il dramma. Il quale si svolge, a partire dal terzo atto, con la coreografia di una tomba sul palcoscenico, indice delle passioni viscerali che attanagliano il protagonista. Ma la tomba non è solo un simbolo: essa diviene perfino un luogo teatrale in cui si avventura Aristodemo in una vana ricerca della figlia, dunque attraversando idealmente la barriera invisibile ma solidissima che divide i vivi dai morti. In questa figurazione scenica di uno snodo sorprendente appare chiara l’influenza di Shakespeare che nel suo Hamlet aveva per l’appunto rappresentato all’inizio lo spettro del padre del protagonista, secondo un percorso a ritroso (dall’aldilà all’aldiqua) che, pur rovesciando il modulo, ricorda l’itinerario del mito antico, tenendo presente Orfeo, Ulisse ed Enea. La grana innovatrice dell’Aristodemo è stata colta perfettamente da Francesco De Sanctis che individua nella mescidanza delle modalità di Alfieri e della maniera di Metastasio il segno distintivo dello stile della tragedia di Monti.6 Se si tiene conto che Alfieri e Metastasio rappresentano polarità oppositiva, si ricava automaticamente l’idea dell’audacia di un autore che mira a saldare in unità i contrari. Considerando ora il Galeotto Manfredi e procedendo per via di confronto, colpisce immediatamente la svolta operata dall’autore. Il quale ne era a tal punto consapevole dal dichiararlo a tutte lettere: «L’Aristodemo e il Manfredi sono due tragedie che non possono tra loro paragonarsi, perché sono di genere affatto diverso».7 In che cosa consiste questa diversità? Se ne ha chiara percezione in base al modulo attivo nel dramma a livello di strutture. Se nell’Aristodemo Monti si rifà ad Hamlet per il protagonismo del personaggio o per la esibita tendenza alla solitudine esplicitata dal ricorso al monologo, nel Galeotto è riconoscibile come ipotesto la tragedia della modernità, il dramma della gelosia, cioè l’Othello. Questa semplice avvertenza, accusata e indiscutibile, dimostra che il Galeotto è una tragedia fondata per l’appunto sull’amore e sulla gelosia. Un’altra difformità singolare è data dall’argomento assunto a pretesto, cioè la vicenda di Galeotto Manfredi, signore di Faenza, nato nel 1440 e 6 Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana con introduzione di L. Russo e a cura di M. T. Lanza, Milano, Feltrinelli, 19643, vol. II, pp. 822 - 823. 7 Epistolario di V. Monti raccolto ordinato da A. Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1928 - 1931, vol. I, pp. 316 - 317, n. 316 (A F. Torti, 16 Febbraio 1788).

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successivamente sposo di Francesca di Giovanni II Bentivoglio (1482), signore di Bologna. L’argomento riguarda dunque la storia moderna, diversamente dall’Aristodemo, dramma di carattere storico, ma di una storia che sfuma nel mito, visto che egli fu re di Messene dal 731 al 724 a. C. La scelta della nuova tragedia coincide dunque con l’opzione di Alfieri per La congiura dei Pazzi (1777 - 1789). Lo stacco comporta una modernità d’impianto in cui il gesto degli attori si dispone nel segno di un sistema di tensioni contrastanti. Intorno al protagonista, Galeotto Manfredi, si muovono due coppie di personaggi principali: due uomini in aperto conflitto, Ubaldo e Zambrino, e due donne divise dall’amore per Galeotto, dunque fatalmente inclini alla gelosia: Matilde, la moglie, ed Elisa, l’amante. Se Zambrino ha i tratti spiccati della controfigura di Jago, Matilde è il rovescio femminile di Othello: tanto è vero che sarà lei a uccidere il marito, subornata da Zambrino e accecata dall’odio per la rivale. È opportuno precisare tuttavia che l’adozione di un modello privilegiato, si è detto l’Othello di Shakespeare, non è mai passiva acquiescenza. La formula è modificata in profondità con giudiziose sollecitazioni e spostamenti a distanza che conferiscono al dramma i tratti di un’originalità autentica. Basti osservare le modalità del rapporto che distingue la rete delle contrapposizioni drammatiche. Da una parte, l’innesto della politica in un contesto di tipo amoroso determina la polemica fra Zambrino, fautore di un’imposizione di gabelle al popolo, e il democratico Ubaldo che in un primo tempo riesce vittorioso: motivo questo che modifica la centralità dell’erotismo, tipica di Othello. Dall’altra, il conflitto di Matilde ed Elisa è del tutto nuovo rispetto all’Othello, richiamando in parte semmai i temi della femminilità già esplorati da Metastasio. Nell’Othello Desdemona e Emilia sono una coppia solidale, anche se sfortunatamente è proprio la consegna del fazzoletto di Desdemona a Jago da parte di Emilia che scatena la gelosia omicida del Moro. Emilia tuttavia, a delitto consumato dal protagonista, si schiera dalla parte di Desdemona e svergogna la prassi doppia di Jago. Matilde ed Elisa sono invece fatalmente lontane: nel loro linguaggio rivibra una novità di accenti percepibile senza equivoci in qualche scena di confronto diretto. Del resto lo stesso dialogo fra innamorati, costretti a fare i conti con la deontologia sociale del loro ruolo, segna una tappa significativa (II 4, 552 - 567): è il conflitto fra la «virtù sopita» (558) e il «delirio dell’amor» (559), cioè il dramma tipico di ogni passione adulterina. Di qui la prevalenza del dovere matrimoniale conseguita tramite la partenza, sicché la «Ragion» (580) corregge l’«error degli occhi» (579). È il sacrificio del tabù che anticipa i termini freudiani di storia della civiltà. Il motivo della separazione si sviluppa, ampliandosi, in una scena a tre (Manfredi, Elisa e Manfredi), per giunta resa sorprendente attraverso l’irruzione improvvisa di Matilde nel dialogo di Manfredi ed Elisa (II 5, 630 - 671). Matilde può sorprendere i due amanti perché condotta ad ascoltare il loro colloquio da Zambrino: è la tecnica dell’eavesdropping scene, la scena 8

dell’origliare, mutuata da Othello (nell’atto IV Othello si trova a spiare a distanza il dialogo fra Jago e Cassio), ma qui dinamizzata con il colpo di scena dell’interruzione del dialogo altrui. Riesce difficile a questo punto sottrarsi a una considerazione di carattere generale: amore, tradimento, gelosia sono gli ingredienti diretti di una forma drammatica ancora di là da venire nel 1788, la data della pubblicazione del Galeotto. Tali pimenti dilagheranno poi nel teatro romantico, a partire dalla Francesca da Rimini di Silvio Pellico (1815) e soprattutto nel melodramma dell’Ottocento. A favorire questa sorprendente prossimità che depone a favore del carattere innovatore perché in anticipo sui tempi della tragedia di Monti, è perfino una sorta di lieto fine interno che sopraggiunge nell’atto III con una rappacificazione provvisoria fra Matilde ed Elisa. Lieto fine poi smentito dall’abile regia sommersa di Zambrino che insinua in Matilde l’idea di Elisa menzognera e di Manfredi bugiardo. La modernità del dramma risulta del resto anche sul piano documentario, in base alla sua fortuna. In proposito, si registrano due inoppugnabili testimonianze che ne confermano lo statuto avanzato: Galeotto Manfredi melodramma tragico in tre parti del Sig. Girolamo Maria Marini posto in Musica dal Maestro Sig. Pietro Corbi pel Teatro Valle nell’autunno 1839, Roma, Nella Tipografia Olivieri Con Approv., 1839; Galeotto Manfredi. Tragedia lirica in tre atti, musicata dal sig. Maestro Natale Perelli (s. a. ma prima del 1846 per la dedica a Francesco IV). Ancora, a riprova, si deve ricordare un’imitazione, il Galeotus di Lamberto Caffarelli. Poema scenico in 4 azioni per la musica di Lanfranco Caffarelli ornato dalle xilografie di G. Malmerendi, Faenza, Fratelli Lega, 1920. L’indicazione univoca che discende dalla trafila delle testimonianze è esplicitata per via di agnizioni di lettura in una indagine recente. Alberto Bentoglio ha sottolineato la presenza del teatro di Monti nelle compagnie primarie dell’Ottocento e soprattutto ha rilevato persistenti echi del Galeotto Manfredi nel linguaggio di un librettista celebre come Felice Romani, in particolare nel Turco in Italia di Rossini (1814) o nella Norma di Bellini (1831).8 Dovendo a questo punto tirare le fila del discorso abbozzato, è agevole intendere che la proposta del Galeotto Manfredi rappresenti un contributo primario di Monti all’evoluzione della forma drammatica verso le misure moderne. Alla luce dei precedenti rilievi, è possibile registrare il Galeotto come prima tappa di uno sviluppo che apre la strada a esiti sorprendenti. Vista la predominanza del personaggio femminile, ad esempio, è lecito riconoscere, scendendo per li rami, un archetipo perfino del teatro dell’autore eponimo dell’istituzione che qui ci riunisce stasera, rammentando, per esempio, La bugiarda, il dramma di Diego Fabbri scritto per Rossella Falk nel 8 A. Bentoglio, Vincenzo Monti e il linguaggio del melodramma romantico: l’esempio di Felice Romani, in Vincenzo Monti nella cultura italiana, cit., vol. III (Monti nella Milano napoleonica e post napoleonica), pp. 577 - 586.

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1956, poi replicato nel 1964 e nel 1974. C’è poi un ultimo motivo, di carattere generale, che mi preme rilevare in concomitanza prima del congedo, relativo alla figura di Zambrino (V 7, 1726 - 1743). La confessione del traditore, in questi termini, cioè come enunciato di una visione del mondo, è completamente inedita. Nell’Othello, Jago si allontana dopo avere colpito la ribelle moglie Emilia senza spiegazioni. Gesto questo che può essere interpretato sommariamente così: la malvagità non deve essere commentata parla per se stessa, secondo Shakespeare, perché fa parte dell’antropologia corrente. In Monti invece il tradimento è esplicitato dal malvagio di turno come una filosofia di vita: l’abietta pratica viene anzi illustrata con orgoglio, fino a configurarsi come un motivo di vanto. Pare lecito ravvisare nella disposizione insolita della distorta psicologia un’acuta avvertenza. Il poeta sembra avere intuito (perché si sa che i poeti hanno intuizioni profetiche) che erano ormai alle viste i tempi inameni dei bricconi, tipici di una stagione sconosciuta, segnata dalla perfidia come tratto caratteristico. Non credo che sia necessario insistere per cogliere un’allusione che tutti siamo in grado oggi di confermare come fondata attraverso una facile sociologia oggettiva. Penso che questa amara e disillusa constatazione possa chiudere in modo conveniente il nostro incontro. La scoperta consente di rammentare una esperienza risaputa e tuttavia sempre nuova: la frequentazione del teatro permette di mettere a fuoco anche in questo caso una chiave interpretativa capace di illuminare la nostra difficile e turbata contemporaneità.

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Il teatro tragico di Alfieri. Dal conflitto esterno a quello interno di Paolo Rambelli

Testo 12 pagine circa.

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Metastasio “poeta di teatro” di Francesco Giardinazzo “Non è giusto sorridere dell’eroe che, ferito a morte, giace sul palcoscenico e canta un’aria. Noi giaciamo e cantiamo per anni.” (Franz Kafka, Lettere a Milena)

Cenni biografici (1698 - 1782) Pietro Trapassi nasce a Roma nel 1698. Nel 1708 l’abate Gravina cura personalmente l’educazione delle doti innate del ragazzo avviandolo allo studio sistematico di Omero, Virgilio, Orazio ed Ariosto. Gravina lo affida inoltre per due anni al cugino Gregorio Caloprese (1650 - 1714), che lo introduce alla conoscenza di René Descartes. Entrambe le esperienze si riveleranno preziose per la formazione umana ed artistica del poeta. Dopo l’esordio letterario nel 1717, in occasione del quale grecizza in Metastasio il cognome nativo di Trapassi, fu accolto in Arcadia. La morte di Gravina nel 1718 lo induce ad abbandonare Roma e l’Accademia dei Quirini; a Napoli, le sue doti di verseggiatore brillante lo portano al centro dell’attenzione dei salotti aristocratici e degli avvenimenti mondani. Il successo conquistato nel 1721 con la cantata Gli orti Esperidi gli assicura l’affetto della cantante Marianna Benti Bulgarelli, che lo introduce nel vivace mondo del teatro musicale napoletano. La frequentazione assidua di musicisti come Pergolesi, Scarlatti e Porpora lo induce ad applicare le proprie doti e capacità al genere più in voga nei teatri partenopei. Nel 1724 il suo primo dramma per musica, la Didone abbandonata, ottenne un immediato e clamoroso successo. Dopo aver condiviso tra il 1724 e il 1730 con Marianna Bulgarelli la buona accoglienza tributata dal pubblico di Venezia e di Roma ai sei melodrammi di quegli anni (tra cui il Catone in Utica e l’Artaserse), nel 1730 Metastasio accettò l’invito a subentrare al veneziano Apostolo Zeno (1668 - 1750) nell’incarico di “poeta cesareo” alla corte di Vienna. I dieci anni successivi costituiscono il periodo più intenso e positivo della sua attività: ad esso risalgono ben undici melodrammi, tra i quali il Demetrio (1731), l’Olimpiade e il Demofoonte (1733) sono comunemente indicati come i suoi capolavori assoluti. Il grado di coerenza raggiunto in queste opere tra invenzione delle vicende e mezzi espressivi, tra organizzazione del testo ed elementi scenici e musicali, le profonde innovazioni introdotte nella rappresentazione della psicologia dei personaggi fanno del melodramma metastasiano un punto di riferimento obbligato per tutta la produzione teatrale del secolo. Se Me23

tastasio continua a scrivere melodrammi fino al 1771, le opere successive al 1740 non presentano più quella intensità e quell’equilibrio mirabile tra ordine razionale e ricchezza emozionale che erano stati raggiunti nel primo decennio viennese. Dopo l’Attilio Regolo scritto nel 1740 ma rappresentato nel 1750, inizia la fase di declino, dalla quale gli studiosi ritengono immuni alcune opere di minore estensione: le azioni sceniche L’isola disabitata e Le cinesi (entrambe del 1753), e le canzonette La partenza e Palinodia (1746), che - con La libertà (1733) - costituiscono uno dei risultati più alti della poesia lirica dell’Arcadia. Agli ultimi anni appartengono alcuni scritti di carattere teorico come l’Estratto della “Poetica” di Aristotile e considerazioni sulla medesima (1773), che dimostrano come alla base della naturalezza e dell’apparente semplicità della sua opera stia una costante pratica della riflessione estetica e morale sui meccanismi psicologici che regolano il funzionamento dell’opera poetica e teatrale e una conoscenza estremamente sapiente delle tecniche. In queste opere egli definisce la creazione poetica come “finzione” finalizzata a suscitare nel destinatario una commozione emotiva, una reazione insieme liberatoria e riequilibrante, rasserenante, attraverso un ben calcolato dosaggio di temi e di effetti, perfettamente adeguati allo scopo grazie a un controllo magistrale della tecnica versificatoria e narrativa. Muore a Vienna nel 1782 nella stessa casa in cui aveva abitato senza interruzione dal giorno del suo arrivo nella capitale austriaca. L’attività di “poeta di teatro” (e “poeta cesareo” nel suo lungo periodo viennese) è suddiviso in tre periodi. Periodo italiano

Il regno di Carlo VI

L’età teresiana

Didone abbandonata Siroe Catone in Utica Ezio Semiramide Alessandro nell’Indie Artaserse

Demetrio Issipile Adriano in Siria Olimpiade Demofoonte La clemenza di Tito Achille in Sciro Ciro riconosciuto Temistocle Zenobia

Ipermetra Antigono Attilio Regolo Il re pastore L’eroe cinese Nitteti Il trionfo di Clelia Romolo ed Ersilia Il Ruggiero o vero L’eroica gratitudine

(1724 - 1730)

(1730 - 1740)

(1740 - 1771)

L’Arcadia Quando nel 1703 Ludovico Antonio Muratori propone l’istituzione di un’accademia nazionale, la “Repubblica dei letterati”, che unisca e coordini gli sforzi innovativi degli intellettuali italiani, egli ha ben chiara l’espe24

rienza avviata nel 1690 - in campo strettamente letterario, di produzione di una letteratura poetica in versi - con la fondazione dell’Accademia d’Arcadia, della quale Muratori è socio. L’Accademia d’Arcadia nasce il 5 ottobre 1690 a Roma in occasione dell’incontro nel convento della chiesa di San Pietro in Montorio di quattordici letterati uniti dalla comune appartenenza al circolo letterario della regina Cristina di Svezia, morta nel 1689 in quella Roma dove si era trasferita nel 1655, in seguito alla conversione alla fede cattolica e alla conseguente abdicazione al trono. Il nome prescelto per il sodalizio rinvia al mondo della poesia pastorale o “bucolica”, secondo la terminologia greca, evocato nel romanzo in versi di Jacopo Sannazzaro, Arcadia (1501, rivisto nel 1504 e riedito in centinaia di edizioni successive). Li accomuna l’adesione ad un programma ideologico minimo: la restaurazione del “buon gusto”, la messa al bando del “disordine” seicentesco, degli eccessi personali del “cattivo gusto” barocco. Programma, come si vede, più negativo che positivo; e vago, perché per giudicare su un “eccesso” è necessario accordarsi con precisione sulla definizione di una norma e di un limite. Ma la natura ideologica della posizione moralizzatrice, grazie alla vaghezza e all’imprecisione teorica della soluzione suscitò vasti e immediati consensi in tutta Italia, così che l’Arcadia raccolse l’adesione dei più significativi poeti del tempo. L’attenzione con cui il primo “custode” vigila sull’ortodossia ideologica dei membri, fatta sostanzialmente di moderatismo costringe uno dei soci fondatori, il giurista casentino Gian Vincenzo Gravina (1664 - 1718), estensore delle “leggi” dell’Accademia e acceso sostenitore di una poesia modellata sull’esempio della grandezza morale e civile di Omero e di Dante, ad abbandonare nel 1711, disgustato, il consorzio poetico che così divenne ben presto espressione della politica culturale della Curia romana: controllare le aspirazioni al nuovo che animano la cultura letteraria italiana mediante un modello operativo capace di larga circolazione e tale da offrire una parvenza di innovazione, soddisfacendo sul nascere e bloccando ogni sviluppo pericoloso dell’esigenza di rinnovamento morale e politico che percorre il mondo dei letterati italiani. Discussioni, generi e tendenze estetiche dell’Arcadia: Vico e Muratori Giambattista Vico pone al centro della propria attenzione di storico l’evoluzione dei “segni” della cultura: lingua, pensiero e creazione letteraria si identificano e diventano specchio ed espressione della “mentalità” di un’epoca intera, di una fase di sviluppo della civiltà dell’uomo. Inoltre Vico dedica amplissimo spazio allo studio dell’opera di Omero e di Dante, considerate come massima espressione della cultura umana in due epoche nodali della storia della civiltà. Se in Vico lo sviluppo della letteratura offre la traccia più utile per ricostruire e comprendere in tutta la sua complessità la linea di tendenza seguita dallo sviluppo generale delle facoltà umane, in Ludovico Antonio Muratori il “vero” umano, e cioè la pienezza della co25

noscenza legata all’esperienza dell’uomo, può essere colto soltanto attraverso l’abilità percettiva, conoscitiva e creativa del poeta, nell’opera del quale si rispecchia la sensibilità umana del suo tempo. I saggi su Petrarca (Della perfetta poesia italiana, 1706; Osservazioni sopra le “Rime” del Petrarca, 1712) si configurano insieme come studi teorici sulle caratteristiche sostanziali della poesia di ogni tempo e come primi abbozzi di una storia della cultura nazionale attraverso la ricostruzione delle linee di sviluppo della poesia da Petrarca ai suoi tempi passando per Tasso e i barocchi. Il melodramma e l’estetica del settecento Il tema dell’indipendenza del letterato e i rapporti col mecenatismo (Mozart è un esempio di indipendenza artistica già moderna). L’autentico scrittore, secondo Rousseau, non scrive per interesse ma per passione. Rousseau e Diderot, maestri dell’Illuminismo, esprimono un’ammirazione senza riserve per Metastasio, poiché l’estetica illuministica, meno settaria e coartante di quella romantica, è più liberale, riesce a giudicare senza tener conto della destinazione, cioè quella di divertire l’aristocrazia e compiacere a un despota. In Metastasio, Rousseau credeva di trovare l’esaltazione del valore pieno e totale della vita affettiva: quel valore che, entro certi limiti, poteva conciliarsi con quella teoria cartesiana delle passioni a cui la sensibilità metastasiana su questo problema era ricondotta. Ancora Diderot nel Neveu de Rameau, vede nel melodramma metastasiano il modello che potrà ridare vigore alla poesia lirica ormai in decadenza. Ma soprattutto, Rousseau trovava in Metastasio modelli di rinunzia che corrispondevano a una componente fondamentale della sua sensibilità. In Metastasio la rinunzia, pur essendo frequente, è un momento dello sviluppo drammatico, mentre in Rousseau è la chiave di volta di un sistema in cui, al centro, è la convinzione che l’illusione e l’attesa sovrastino sempre, in ogni caso, la gioia del possesso tangibile: “rien n’est beau que ce qui n’est pas”. Come Rousseau vedeva Julie nelle eroine dei melodrammi preferiti, Così Stendhal vede l’annuncio dei suoi personaggi negli eroi che Metastasio ha inventati. Anche i suoi eroi saranno eroi solitari, “esseri a parte”, eroi sempre distaccati e purissimi, concentrati in una loro nonchalance che è disprezzo per ciò che li circonda e rimpianto dei sogni chimerici, “regret de quelque chimère absente”. Stendhal idoleggia il mondo metastasiano come si guarda, da lontano, il favoloso mondo delle chimere assenti. Nel volgere del secolo nuovo cambieranno gli umori e i giudizi. Dalla cerchia di Coppet a Madame de Staël a Sismondi, pur riconoscendogli ancora la musicalità e l’ingegno, la straordinaria idealità dei suoi personaggi qualità che affascineranno Stendhal - i critici si preoccupano di sottolineare la dipendenza del poeta dal potere e la leggerezza con la quale tratta i temi politici se non quando, addirittura, con la Clemenza di Tito omaggia l’imperatore Carlo VI che non aveva esitato a sacrificare i fedeli catalani alle atroci vendette di Luigi XIV e Filippo V. 26

Friedrich Schlegel nel suo Corso di letteratura drammatica è ancora più severo: le pagine su Metastasio assumono una dimensione del tutto politica, e mettono così del tutto da parte la “galanteria” metastasiana se non per stigmatizzarne la sua valutazione in termini di servilismo. Né va dimenticato che da noi già Alfieri prima e Foscolo dopo non esitarono ad accogliere tale giudizio. Il Foscolo in particolare nel Saggio sopra la poesia del Petrarca, sottolinea il voler compiacere la corte di Vienna da parte di Metastasio, il quale “ridusse la sua lingua e versificazione a tale penuria di parole, frasi e cadenze, che paiono sempre le stesse, e nella fine non fa più effetto di un flauto, il quale apporta anzi dilettosa melodia, che vive e distinte sensazioni.”9 La presenza di Metastasio fin dentro la cultura romantica pone delle questioni di fondo sul ruolo e sulla continuità di una cultura anche in presenza di una rottura, di una innovazione che apparentemente si pone a distanza da ciò che la precede. Lo stesso melodramma, considerato nel Settecento un’eterogenea miscela, viene accettato a fatica, cercando di arginare le pretese dei musicisti e invitando i poeti a far valere e prevalere la propria arte, regina di tutte le arti. Recitazione e canto convivono nel genere dell’opéra - comique, progenitore del Singspiel tedesco; la poetica teatrale di Ranieri de’ Calzabigi, autore con Gluck della cosiddetta riforma del melodramma, nasce dal confronto con Metastasio e Alfieri, Lulli e Rameau, i tragici greci, Racine e Shakespeare, la cui riscoperta condiziona il realismo di Lessing e quello di Mozart che raccomandava ai cantanti di seguire una scuola di recitazione per poter cogliere sul palcoscenico quella naturalezza teorizzata in quell’epoca. Ma il punto cruciale del ruolo della musica nell’opera sta nel fatto che la musica modifica la scansione del tempo drammatico. Nel “recitar cantando” delle origini si assecondava il tempo lineare della recitazione: le parole erano ripetute occasionalmente per sottolineare qualche concetto o sentimento. Le arie, che andarono formandosi nel corso del Seicento, erano agili, brevi, di struttura leggera, rispettavano la parola e soprattutto non bloccavano il tempo dell’azione, che veniva ampliato certo per lasciar effondere il sentimento, ma continuava a scorrere. “La musica afferma dunque per la prima volta, in modo provocatorio, il potere di sovrapporre al tempo della recitazione un tempo diverso, reversibile, non lineare, e l’opera prende atto immediatamente dello scottante problema drammaturgico che ne deriva: come far convivere il ritmo temporale del testo con quello della musica? È un vantaggio o uno svantaggio per l’effetto generale del dramma che la musica ne arresti lo scorrimento nell’aria col da capo? Il canto è un fatto puramente edonistico, incompatibile con le ragioni del teatro, oppure costituisce un arricchimento espressivo?” (Gallarati 2000: 1126). Se Zeno rimane 9 U. Foscolo, Saggi critici, a cura di E. Bottasso, UTET, Torino 1950, p. 195.

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ancorato al privilegio della parola sulla musica e il canto che a suo avviso impediranno al melodramma di raggiungere le vette della tragedia, Metastasio è invece affascinato dalla musica, la considera come un esaltatore dei sentimenti e delle immagini contenute nel testo in misura superiore al teatro recitato. Se Zeno opera una rigorosa separazione tra musica e dramma collocando le arie non più nella conversazione ma facendone “astrazioni lirico - contemplative piazzate alla fine della scena in cui il canto esprime gli affetti in forma universale” (Gallarati 2000: 1126) dopo che i fatti sono avvenuti durante il dialogo recitativo secco, costituito da una declamazione “appena intonata, veloce come la recitazione, e sostenuta dal solo clavicembalo (Gallarati, ibid.), Metastasio, accogliendo questa regolazione “affida al recitativo secco un intreccio complicato e avvincente condotto con un’arte della suspense degna di un Hitchcock, e svolto in una serie di scene (o gruppi di due, tre scene) ciascuna delle quali è conclusa da un’aria; dopo di che si ricomincia da capo, con una situazione nuova che non si sviluppa organicamente dalla precedente, ma la segue, come ogni ‘azione’ di una partita di calcio, od ogni mossa nel gioco degli scacchi, viene dopo quella che si è appena conclusa, determinando una nuova situazione nei rapporti tra le pedine.” (Gallarati 2000: 1126 - 1127). Nei primi anni del Settecento il Muratori scriveva: “…non si può negare, che la Musica de’ nostri tempi non si sia condotta ad una smoderata effeminatezza, onde ella è più tosto atta a corrompere gli animi de gli uditori, che a purgarli, e migliorarli, come dall’antica Musica si faceva. E questo è il primo difetto dei nostri Drammi (…) Nulla è più evidente, quanto che la Poesia ubbidisce oggi, e non comanda alla Musica…Può, se non erro finalmente conchiudersi, che i moderni Drammi, considerati in genere di Poesia rappresentativa e di Tragedia, sono uno mostro, e un’unione di mille inverisimili.”10 Era il prologo di tutta una ideologia antimusicale che sarebbe rimasta viva per tutto il secolo, per cui anche Alfieri poteva scrivere alla fine del Settecento nella famosa prefazione all’Abele: “Avvezzi dunque gli Italiani a marcir ne’ teatri senza pur aver teatro, coll’opera in musica hanno ritrovato uno stucchevole trastullo all’orecchio, che a poco a poco li ha fatti incapaci di esercitare in questi loro sedicenti teatri nessuna di quelle facoltà intellettuali necessarie per sentire, gustare e giudicare o intendere alcuna vera tragedia. Così tutta orecchi e niente mentale trovandosi essere la platea italiana, da questi orecchiuti giudici ne scaturiscono dei vieppiù orecchiuti scrittori ed attori.”. Il Settecento è il secolo in cui nasce e la drammaturgia musicale moderna, cioè un tipo di opera in cui non è il testo l’elemento dominante bensì la musica, sulla quale poggia il progetto teatrale nel suo complesso. Il me10 L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana (l. III, cap. V), Modena 1706.

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lodramma nasce a Firenze il 6 ottobre del 1600, data della rappresentazione dell’Euridice di Ottavio Rinuccini con la musica di Jacopo Peri. L’intento era quello di riprodurre l’antica unione tra musica a poesia propria della tragedia greca, sentito come una variante del teatro recitato. La musica doveva avere un carattere decorativo, sottolineare l’architettura del testo poetico, rivestendo così un ruolo ancillare rispetto alla parola. Alla fine del XVII secolo il melodramma acquista pieno anche se ancora discusso diritto di vita come fatto sociale, culturale e artistico fra i più significativi dell’epoca. Il libretto d’opera per musica si cristallizza in uno schema piuttosto rigido, che può dirsi il frutto degli arbitrii, delle sopraffazioni, della facilità con cui impresari ed esecutori, musicisti e poeti acconsentivano ai gusti, alle richieste ed ai capricci bizzarri di un pubblico svogliato e disattento che non voleva pensare né giudicare il valore artistico dello spettacolo, ma fare di questo un’occasione di incontri mondani, di passatempo, di diletto spensierato e momentaneo. “Il libretto, generalmente in tre atti (divisi in numerosissime scene), di rado preceduto nella prima metà del secolo da un Prologo, consisteva nell’alternarsi di lunghissimi brani in versi sciolti (endecasillabi o settenari) per il recitativo, brevi strofe di quartine e terzine per le parti liriche la cui disposizione, nell’ambito delle singole scene o degli interi atti, non seguiva un ordine ed una successione precisa (…) I personaggi, più o meno numerosi a seconda delle possibilità economiche della compagnia e delle complicazioni dell’intreccio si presentavano quasi sempre ammantati con costumi incredibili e affatto incongruenti con l’azione; il coro o aveva funzione puramente decorativa o era praticamente scomparso, (…) mentre diventano sempre più frequenti i balli che interrompevano o chiudevano la scena o l’atto, appesantendo - con un fasto inutile - la struttura già di per sé disordinata dell’opera.” (Lanfranchi 1977: 47 - 48). Tuttavia, l’emergere del canto come realtà dotata di una propria fisionomia si pose nel corso del XVI secolo in termini agonistici rispetto alla tragedia e alla commedia. La riforma librettistica di Apostolo Zeno nel primo ventennio del Settecento, e quella di Metastasio, risposero all’esigenza di dare una nuova sistemazione alla musica, divenuta invadente all’interno di un dramma che doveva pur sempre fondarsi sull’autorità regolatrice della parola e della sua chiarezza semantica. Il melodramma, nella sua natura composita, che nasce dall’incontro di diverse arti (la recitazione, il canto, la musica strumentale e la scenografia, la danza e la poesia) doveva inevitabilmente attirare l’attenzione del cartesiano Metastasio. Il carattere altamente convenzionale del genere produceva nello spettatore colto un atteggiamento di distacco, ideale per applicare un giudizio intellettuale all’esperienza ricca delle sensazioni che musica, gesti, parole e azioni producono su di lui provenendo dal palcoscenico È grazie a queste premesse che Metastasio riuscì a realizzare concretamente quella riforma del genere che la critica di ispirazione arcadica aveva indi29

cata come necessaria, per orientare anche questo genere nuovo e popolare (nel senso che attirava tutte le fasce della popolazione). La nascita dei teatri pubblici a pagamento aveva ridotto il melodramma, nato per il divertimento delle corti, a genere di consumo: il nuovo pubblico era certamente sensibile alle invenzioni scenografiche, che offrivano ad esempio lo spettacolo di personaggi che si libravano in alto sulla scena o decine di mutamenti di fondali di ogni atto; certamente era attratto a teatro dai costumi sontuosi e dai virtuosismi di Apostolo Zeno. Ovvie ragioni commerciali inducevano gli impresari a puntare su questi effetti; al librettista veniva richiesto un testo che permettesse di collegare con un minimo di verosimiglianza gli elementi di richiamo dello spettacolo. In questa situazione il libretto era un elemento necessario ma del tutto secondario dello spettacolo; e di conseguenza il librettista non godeva di nessuna autorità all’interno dell’équipe teatrale. Nella sua crociata contro il melodramma di “consumo”, Zeno aveva commesso due errori: aveva sottovalutato l’importanza del rispetto delle convenzioni teatrali e ignorato i gusti del nuovo pubblico; i suoi drammi in musica non erano stati ripresi fuori dall’aristocratica Vienna. Metastasio prese da lui la distinzione tra ariette cantabili e recitativi in endecasillabi, ma la rese sistematica e funzionale alla rappresentazione teatrale. Lo scioglimento della tensione emotiva suscitata dall’azione, accumulata gradualmente nei recitativi, viene fatto da lui coincidere con la fine della scena (arietta d’uscita), cioè con un momento di silenzio e con una pausa, che prelude alla ripresa nel successivo recitativo di un discorso narrativo meno teso, più piano e razionale. Già nel libretto della Didone propone dal punto di vista delle forme due elementi basilari della sua riforma: un chiaro ordine nello svolgimento delle vicende e una distinzione funzionale ben rilevata, basata sulla scelta di ritmi verbali distinti e ben riconoscibili per la resa delle parti a cui è affidato lo sviluppo delle azioni (i recitativi) e le parti cantate (le ariette), cui è affidata l’espressione sintetica e liberatoria delle emozioni dei personaggi e della tensione prodotta dalle vicende. All’alternarsi del metro corrisponde l’alternanza degli effetti psicologici che si vogliono suscitare nel pubblico: commozione nelle ariette, riflessione nei recitativi. Il relazione all’organizzazione delle vicende si distinguono due tipi principali di melodramma: d’intrigo o di situazione, ed eroico. Certo la musica è destinata a divenire sempre più preponderante sulla Poesia, e perciò a riscattarsi dalla condizione ancillare rispetto al testo. Tutta la cultura e l’estetica della prima metà del Settecento, sino agli enciclopedisti e alla famosa querelle des buffons, non hanno saputo indicare altre vie al melodramma che quella di contenere al massimo l’elemento musicale. Si potrebbe forse istituire un parallelo tra la parola (elemento razionale) e il recitativo dell’opera da una parte e la musica (l’elemento irrazionale) e l’aria dall’altra. In Metastasio, gli elementi razionali e irrazionali so30

no costituiti secondo un ordine logico che segue un preciso disegno, quasi che se togliessimo le arie, duetti o cori non ne risulterebbe alterata la struttura narrativa e drammatica, senza che la ragionevolezza del dramma (in cui domina un ordine provvidenziale, in cui trionfa sempre il lieto fine, in cui la virtù vince sempre) venga alterato nel suo impianto essenziale. Apostolo Zeno tenderà a spostare l’aria alla fine della scena, mentre a poco a poco viene abbandonata sia la posizione centrale, che spezza il dialogo intralciandone la continuità, sia quella iniziale, che disturba nel complesso la messa in moto dell’azione affidata al recitativo secco. Il che corrispondeva anche all’esigenza di una maggiore separazione, almeno formale, tra dramma e musica, azione e contemplazione. Va anche rammentato che in Italia manca un vero e proprio teatro tragico, paragonabile al supremo modello antico o quello classico francese. Il melodramma poteva tendere verso l’ideale della tragedia senza però toccare il suo fine supremo indicato da Aristotele nella Poetica: la catarsi attraverso la pietà e il terrore. “In una tragedia - scrive Zeno in una lettera del 6 gennaio 1720 - si possono osservar religiosamente sì fatte regole, anzi si debbono. In un dramma bisogna dar qualche cosa all’abuso del secolo, alla decorazione, alla musica”. È dunque la necessità della musica che impedisce quella piena ed autentica trasformazione del melodramma in tragedia sentita come necessaria, ma di fatto irrealizzabile visto il prevalere della richiesta del pubblico e il carattere essenzialmente festivo imposto all’opera in musica dalla sua funzione sociale. “Quando io da bel principio intrapresi a trattarlo, il nostro dramma musicale non era ancora tragedia; appena s’incominciava a soffrire che fossero escluse dall’intreccio di quello le parti ridicole; ond’era un genere misto più vicino a quello del Ciclope d’Euripide e dell’Anfitrione di Plauto che a quello dell’Edipo, dell’Elettra e del Filottete.” (Lettera di Metastasio a Filippo Hallam, 16 dicembre 1765). Ma se per Zeno l’accostamento al modello supremo doveva, in pratica, limitarsi ad un fatto di contenuto, per Metastasio la presenza della musica e la dialettica di aria e recitativo, lungi dal rappresentare una concessione alla bizzarria edonistica della moda corrente, trovavano, invece, una piena giustificazione innanzitutto nel supremo modello strutturale delle tragedie antiche “nelle quali nei diverbi (che sono i nostri recitativi) si ubbidiva alla sola legge del metro, e ne’ cantici, strofe, antistrofe ed epodi, o cantati da tutto il coro o da un solo istrione, si faceva uso anche del numero e della melodia: come appunto a’ dì nostri, e ne’ moderni cori e nelle strofe che chiamansi ora ariettem per immemorabile e visibilmente a noi dall’antico teatro tramandato costume, universalmente si pratica.” (Estratto dell’Arte Poetica di Aristotile e considerazioni su la medesima, a cura di B. Brunelli, vol. II, Milano 1965, p. 970). L’autorità della tragedia, finalmente riunita alla sua dimensione musicale, sostiene da una parte la riforma metastasiana. Dall’altra, il poeta riconosce l’enorme potere della musica “arte ingegnosa, mirabile, dilettevole, incantatrice, capace di produrre 31

da sé sola portenti, ed abile, quando voglia accompagnarsi con la poesia e far buon uso delle sue immense ricchezze, non solo di secondare ed esprimere con le sue imitazioni, ma d’illuminare ed accrescere tutte le alterazioni del cuore umano.” (Lettera a F. G. di Chastellux, 29 gennaio 1766). Frasi che sembrano un’indicazione preziosa per Stendhal. Il classico: immagine, immaginazione, immaginario “Dall’epoca di Monteverdi all’inizio del XVII secolo fino agli inizi dell’Ottocento, i miti e la storia dell’antica Roma avevano rifornito i librettisti di trame per le loro opere. Lungo questi tre secoli il tema di Roma godette di popolarità come veicolo di effetti speciali e di emozioni forti. Busenello, che scrisse il libretto per L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, scrisse anche il testo per un’opera su Didone, messa in musica da Cavalli nel 1641. Altri temi grandiosi erano Giulio Cesare, Scipione l’Africano e l’imperatore Claudio. L’Agrippina e il Giulio Cesare di Händel erano il prodotto di questo gusto operistico per i soggetti romani. Il prolifico Metastasio produsse, come librettista, numerosi testi sull’antica Roma, compresa, ancora una volta, una Didone che venne messa in musica letteralmente da dozzine di compositori nel XVIII secolo e all’inizio del XIX secolo. Ma verso la fine del XVIII secolo l’interesse per le figure mitiche romane stava declinando in favore di quelle greche. Per evocare la famosa espressione di Edgar Allan Poe, la grandezza di Roma stava cedendo alla gloria della Grecia. Parte di questo cambiamento fu ispirato dalla guerra di indipendenza greca e dalle celebrate imprese di Lord Byron, che era molto ammirato in tutta Europa. Ma c’erano anche altre ragioni. Il mito e la tragedia greca trovavano maggiori rispondenze nella sensibilità romantica. Le due Ifigenie, l’Alcesti e l’Orfeo di Gluck godevano di grande popolarità, e Medea divenne un’eroina familiare nelle versioni di Cherubini e in seguito di Pacini. (…) La Rivoluzione francese e le tumultuose vicende di Napoleone risvegliarono un nuovo interesse per la storia moderna, in opposizione a quella antica, e contribuirono, almeno in musica, a rendere Roma un soggetto fuori moda, proprio mentre lasciavano spazio per la Grecia.” (Bowersock 2007: 91 - 92). Queste riflessioni del grande storico Glen Bowersock spingono a ripensare il ruolo dell’immaginario classico nella cultura dell’epoca di Metastasio. L’illustre emblematicità viene associata alla creazione storica, e anche celebre, di un monumento ideale di multi - inventività “moderna” innalzato a una sfera di assoluti categoricamente immaginari dovendo ancora sorgere scienze come l’archeologia, l’estetica storica, lo studio sistematico delle antichità in senso scientifico. La classicità è ancora patrimonio della letteratura e della tradizione agiografica: mancano ancora le testimonianze delle scienze storiche. Il teatro Olimpico di Vicenza è una caso esemplare di re invenzione umanistica di una idealissima spettacolarità greca - tutta finta, tutta “tradotta” - secondo un canone pluriartistico della sua inaugurazio32

ne scenica. La contraffazione antiquaria con dei trattamenti abbastanza discutibili della langue polifonica della musica sacra o profana, la confezione di materiali immaginativamente arcaici. Una forma mentis apprezzabilmente initerrotta ed essenzialmente coerente ad una rappresentazione dell’antico senza il supporto di riscontri materiali. Il ritorno dell’antico non è solo la querelle des ancien et des modernes, non è solo riaprire e richiudere più o meno polemicamente il testo della Poetica di Aristotele, tema - guida sulla regolamentazione o meno del teatro moderno europeo. Il Medioevo aveva inglobato l’antico nelle sue strutture religiose e civili, attraverso la spoliazione dei materiali preziosi o nell’adeguamento architettonico in un’ottica cristiana. Non sto dimenticando il Rinascimento, anzi si può dire che dopo la cesura barocca, la riscoperta dell’antico ricomincia da dove il Rinascimento aveva sospeso il discorso con le inevitabili distanze. Il Laocoonte ritrovato nel 1506 diventerà solo con Johann Joachim Winckelmann (1717 - 1768) il punto critico di riconsiderazione dell’antico nella tradizione neoclassica (le Osservazioni sull’architettura degli antichi vengono pubblicate in Germania nel 1762) prima della svolta dialettica apollineo - dionisiaco di Nietzsche, grazie all’interesse sistematico, “archeologico - estetico” dello studioso prussiano. La Naturalis historia di Plinio, il De Architectura di Vitruvio da modelli ideali diventano le carte di confronto con i materiali che casualmente si andava sistematicamente recuperando dal sottosuolo: esemplari i casi di Ercolano e Pompei (1711 - 1754), che Goethe e Tischbein nel loro viaggio in Italia nel 1787 consideravano parte integrante del Grand Tour (cfr. Bowersock 2007: 17 - 27). La plurisecolare storia degli scavi di Ercolano, iniziata per caso nei primi anni del 1700, visse una prima stagione per impulso del re Carlo di Borbone che nel 1738 diede ufficialmente inizio alle esplorazioni per cunicoli sotterranei finanziate dall’erario regio e condotte da ufficiali del Genio, utilizzando soldati e forzati. “La tecnica di scavo borbonica è paragonabile a quella di uno scavo in miniera. Per raggiungere il livello delle strutture antiche si praticavano infatti pozzi verticali lungo i quali gli scavatori, i cosiddetti ‘cavamonti’, si calavano legati a corde di canapa. L’argano con il quale gli scavatori venivano calati nel pozzo serviva anche per riportare in superficie gli oggetti rinvenuti. Raggiunto il livello della città antica si procedeva quindi con lo scavo dei cunicoli, larghi mediamente 80 - 100 centimetri e alti meno di due metri. Lo sterro procedeva senza un piano preciso, lentamente, a mano, alla flebile luce di una lanterna appoggiata entro nicchie appositamente scavate nella parete dei cunicoli. Quando si individuava una struttura ricca di reperti si intensificava la maglia dei cunicoli, riempiendo quelli già esplorati con i materiali di scavo delle nuove gallerie e, se necessario, costruendo anche pilastri di rinforzo con pietre portate dal porto del Granatello. Le operazioni di scavo erano sorvegliate dai militari borbonici che annotavano scrupolosamente tutti gli oggetti riportati alla luce: reperti mobi33

li, ma anche pitture e pavimenti tagliati e distaccati dai contesti originari; quelli di particolare pregio venivano trasportati nell’Herculanense Museum ricavato nell’ala del Palazzo Caramanico della Reggia di Portici che frattanto Carlo di Borbone aveva fatto costruire, affinché visitatori di rango e studiosi, previo permesso regio, potessero ammirare. Alla direzione del Museo fu preposto Camillo Paderni. Alla stagione delle esplorazioni borboniche appartengono principalmente il Teatro, la Villa dei Papiri, la Basilica Noniana e l’Augusteum (cosiddetta Basilica); gli imponenti cicli scultorei rinvenuti in questi edifici, trasferiti nel 1822 dall’Herculanense Museum al Palazzo degli Studi di Napoli, sarebbero diventati il fiore all’occhiello del Real Museo Borbonico, l’attuale Museo Archeologico Nazionale. La stagione delle esplorazioni borboniche venne interrotta nel 1780 a favore degli scavi di Pompei, ove lo sterro risultava molto meno faticoso per le diverse condizioni del seppellimento vulcanico. Soltanto nel 1828, sotto il regno di Francesco I, furono per la prima volta intrapresi a Ercolano gli scavi ‘a cielo aperto’ che, pure con interruzioni e riprese, si protrassero fino al 1875.” (Guidobaldi 2008: 43). Le rovine acquistano un nuovo significato, non semplicemente “vedutistico”, ma stimolano alla ricomposizione dell’originario perduto. Si pensi all’opera intera di Piranesi, così come a quella di David (1748 - 1825) che vestirà prima gli ideali rivoluzionari francesi delle atmosfere della Roma repubblicana e poi del cesarismo l’apogeo napoleonico. Atene diviene più accessibile a partire dalla seconda metà del Settecento: si pensi agli studi di David Le Roy (1758), e a quelli più sistematici e attendibili di James Stuart e Nicolas Revett (1762, 1788 - 89, 1794 e 1816 - postumo). Ma per Metastasio è importante anche la cultura figurativa del suo tempo che concorre alla formazione della sua memoria critica e poetica. Nella fase precedente al trasferimento a Vienna, va tenuto presente il ruolo svolto a Roma dal cardinale Pietro Ottoboni, nipote di Alessandro VIII. Egli e il Palazzo della Cancelleria rappresentano un polo di attrazione per una cerchia di artisti e letterati e musicisti. Figura di spicco, Ottoboni riuscì ad evitare la diaspora dei membri dell’Accademia dell’Arcadia dopo la morte di Cristina di Svezia (1690), attraendo nella propria orbita pittori come Trevisani, il Conca e il Baciccio, specie per i disegni delle incisioni che avrebbero ornato i libretti delle opere teatrali da lui scritte o promosse. Ed infatti, “nel Palazzo della Cancelleria aveva organizzato un ambiente teatrale alla cui definizione scenografica provvide lo Juvarra tra il 1708 e il 1712. (…) Il nucleo di artisti gravitanti intorno all’Ottoboni, oltre che in relazione a tematiche sacre, qualificò la sua produzione anche a riguardo a temi mitologici e allegorici. (…) Soprattutto la produzione figurativa del Trevisani e del Guglielmi risultò per Metastasio particolarmente indicativa di una linea di tendenza densa di termini di contaminazione fra sacro e profano” (Pavone 2003: 151 - 152), come nel caso della Maddalena di Francesco Trevisani che appare come una “Didone abbandonata”. 34

Per quanto riguarda la scena artistica napoletana, i contatti dei pittori con l’Austria ed il centro dell’Europa si intensificano a seguito delle vicende relative al viceregno austriaco. Attraverso il rimando all’esemplarità delle figure mitologiche, venivano esaltati con esempi le virtù e la fama dei committenti. “Venivano riprese anche tematiche storiche di argomento piuttosto raro sempre ispirate ad esempi di perfette virtù e legate al repertorio classico, come è testimoniato da alcune opere del De Matteis (…) la Zenobia dinanzi ad Aureliano della Gemäldegalerie di Berlino, che anticipa visivamente un tema rilanciato da Metastasio nel 1740, e la tela raffigurante Muzio Scevola, datata 1700, di collezione privata, che costituisce un importante precedente riguardo alle scelte maturate in tale settore. Nell’ambito delle tematiche sacre ritroviamo, poi, la Morte di Abele, del Museo di Copenhagen, che anticipa l’oratorio metastasiana del 1732. Sempre nel percorso artistico - figurativo del De Matteis, troviamo poi svolte tematiche relative all’Eneide, come nel caso del dipinto Venere che riceve le armi da Vulcano per Palazzo Bonaccorsi a Macerata.” (Pavone 2003: 154 - 155). Un riferimento obbligato è quello a Giambattista Tiepolo, poiché il suo impegno soprattutto nel settore storico, mitologico - allegorico e letterario è di prima importanza per le interconnessioni con il percorso artistico di Metastasio, anche in rapporto ad una figura importante di mediazione come Francesco Algarotti, non solo per i suoi interessi pittorici e teatrali, quanto piuttosto per i consensi da lui ottenuti presso Augusto III di Sassonia. Nelle pagine metastasiane sulla Poetica di Aristotele e all’Ars poetica di Orazio, si possono individuare una serie di riferimenti in relazione all’ut pictura poësis che confermano l’adesione del poeta alla linea interpretativa inaugurata dal Dialogo della pittura intitolato l’Aretino di Ludovico Dolce (1557) che riprende non solo un ormai tradizionale confronto basato su citazioni aristoteliche e oraziane con riflessi nel Plutarco del De gloria Atheniensium (la pittura è poesia muta e la poesia è pittura eloquente) e in Luciano, confluiti nella menzione petrarchesca di Omero quale “Primo pittor de le memorie antiche”, ma che avvalora quella che Lee ha chiamato un’operazione impropria, in quanto aveva indotto i trattatisti del Cinquecento ad applicare nell’ambito artistico canoni legati all’ambito poetico - letterario. Un’altra osservazione riguarda il metro selettivo adottato, basato su “nobiltà, chiarezza, eleganza e sublime”. La considerazione poi del ruolo dell’Eneide, quale componimento esemplare per densità di avvenimenti collaterali che non danneggiano lo svolgimento della trama, introduce lo specifico riferimento pittorico. Tali episodi convengono “purché, se non necessariamente, siano convenevolmente attaccati all’azione, come sono le vesti, i panneggiamenti e cose somiglianti che non sono membri necessari e costitutivi d’una figura umana, ma ad essa perfettamente convengono; purché non rapiscano l’attenzione de’ lettori e degli spettatori, in sì fatta guisa che essi perdano di vista l’oggetto principale della loro curiosità; e purché adornino e diversifichino il poema senza moltiplicarlo, ma inter35

rompendo, con la dilettevole varietà degli oggetti, la secca e noiosa uniformità della via che conduce alla catastrofe.”11. Punto di osservazione privilegiato diviene la vicenda di Enea e Didone: “Or siccome un pittore che volesse rappresentare la morte di Didone con le antecedenti circostanze che la cagionano, non essendogli permesso dalla natura dell’arte sua il poterle esprimere in un quadro solo, sarebbe ben degno di lode se le esprimesse in diversi, presentando, successivamente, in uno, per cagion d’esempio, l’arrivo di Enea a Cartagine, in un altro la cena, nel terzo la caccia, nel quarto gl’inutili sforzi della regina per non essere abbandonata, e finalmente, nell’ultimo, la disperata sua morte; perché sarebbe mai degno di biasimo un poeta che presentasse a’ suoi spettatori, successivamente in diversi gruppi, come in diversi quadri, le diverse azioni, senza le quali non ci sarebbe verisimile la principale? Ogni nuovo quadro, essendo circoscritto e distinto, senza violare qualunque più sofistica regola può supporre altro tempo e altro luogo.”12 Filosofia e poesia: Metastasio e Cartesio. L’educazione cartesiana spinge Metastasio alla ricerca di un “metodo”, di un fondamento su cui basare la certezza e la validità di una nuova concezione del mondo che era stato il punto cruciale del pensiero del filosofo francese. Tale concezione doveva inglobare in sé le scoperte e le nozioni elaborate nel campo dello studio scientifico della natura. Questa ricerca partiva dalla ragionevole speranza, fondata sull’adozione del metodo matematico - scientifico in ogni settore dell’esperienza umana di poter giungere a determinare correttamente la natura di una Verità profonda e generale, che permettesse a sua volta di interpretare in modo sicuro e unitario la straordinaria varietà dell’esperienza e della conoscenza raccolta dall’uomo. E si prestasse così a trasformarsi in “saggezza”: in una conoscenza in grado cioè di dirigerne i passi e le scelte di vita dell’uomo, assicurando un significato “certo” e globale della sua esperienza di vita. La risposta cartesiana consiste nell’elaborazione nei vari settori della realtà concreta “il vero”, i nuclei cioè di quella Verità superiore e generale che si manifesta all’osservatore quando questi, muovendo alla ricerca della certezza, interroghi la realtà secondo il criterio della distinzione e dell’evidenza dei singoli elementi semplici che costituiscono la complessità del reale. Il trattato su Les passions de l’âme (1649), libera l’osservazione psicologica da ogni intento morale e propone un quadro razionale, mosso da forze e leggi sue proprie, di natura affine a quelle che regolano la vita fisica dell’universo. Il giovane Metastasio trova in quest’opera la prova della pos11 P. Metastasio, Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, a cura di E. Selmi, Aesthetica, Palermo 1998, p. 51. 12 Ivi, p. 62.

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sibilità e lo strumento che permette in pratica di applicare il metodo razionale dell’analisi e della distinzione ai dati immediati della coscienza, delle sensazioni e dei sentimenti (degli elementi irrazionali che muovono l’esistenza), fino a quel momento sfuggiti allo studio e al dominio razionale dell’uomo. La complessità della realtà psichica può essere risolta attraverso il distacco assicurato dall’abitudine alla riflessione; la distinzione delle singole componenti di sentimenti equivoci o complessi può essere assicurata dalla condizione di distacco critico indispensabile per ottenere una chiara traduzione delle sensazioni nei termini del linguaggio letterario, negli schemi convenzionali della versificazione e della narrazione. Il carattere vitale e inesauribile del flusso di esperienza in cui l’uomo è immerso (quello stesso elemento che la scrittura di Vico tende negli stessi anni a salvare dallo schematismo cartesiano) può essere reso attraverso le strutture dell’arte insieme la più astratta e la più concreta, fra quelle che operano nella dimensione del tempo: la musica. Il distacco, necessario ad ogni proficua operazione culturale, può essere raggiunto attraverso un uso accorto delle convenzioni rappresentative; ciò sarà tanto più necessario e proficuo là dove più suggestiva si rivela la finzione artistica: nella rappresentazione teatrale, in cui il massimo di realismo e di naturalezza - dato dalla presenza degli attori - si collega con il massimo dell’artificiosità: della finzione appunto, suscitatrice di “vero”. Considerato dunque il rapporto, seppure qui accennato, tra filosofia e poesia, si possono individuare nel melodramma metastasiano alcune caratteristiche che risultano infine importanti innovazioni: a contrappunto del personaggio principale agiscono figure secondarie, confidenti di solito infidi, che contribuiscono al disvelamento di sentimenti e intenzioni; la suspense viene guidata a un’acme che coincide con la fine di ciascun atto; la psicologia dei personaggi, ai quali non sono estranei tratti di comico quotidiano, subisce un trattamento che la adegua a un’antropologia di tipo settecentesco; riprese e ripetizioni modulano, con la mira alla resa musicale e canora, le zone del recitativo in endecasillabi e settenari sciolti, che risulta tuttavia molto animato dalla comparsa di coppie di versi a rima baciata, quinari, frequenti sticomitie e versi spezzati da punti di sospensione, mentre le “arie”, costruite su schemi metrici e rimici quanto mai vari, bloccano l’azione in un approfondimento del clima emotivo. Interessati, fin da questo primo melodramma, le indicazioni “di regía” rivolte alla recitazione, oltre che alla scenografia. Il giudizio di De Sanctis sulla Didone abbandonata assume la funzione di un rendiconto critico circostanziato dalla mutata sensibilità romantica che aveva riconfigurato tutte le categorie estetiche, comprese quelle del melodramma: “Prendiamo il primo suo dramma, la Didone. Volea fare una tragedia. Studiò l’argomento in Virgilio, e più in Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con quell’uomo e con quella società. Non capiva che a quella società e 37

a lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora direttore, con quel Sarro compositore, e col pubblico dell’Angelica e degli Orti Esperidi, e in presenza della sua anima elegiaca, idillica, melodica, impressionabile e superficiale, come il suo pubblico! Ne uscì non una tragedia, che sarebbe stata una pedanteria nata morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita che era in lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con avidità da un capo all’altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto il nome di Didone qui vedi l’Armida del Tasso, messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca cede il posto alla donna terrena, come l’ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue creature la più popolare, dalla quale scappan fuori i più vari e concitati moti della passione femminile, le sue smanie e le sue furie. (…) Una Didone così fatta non ha niente di classico, qui non ci è Virgilio, e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è contemporaneo. La sua passione non ha semplicità e non ha misura, e nella sua violenza rompe ogni freno, perde ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore, la dignità di regina, l’amore de’ suoi, la pietà verso gli iddii, se in lei fosse più accentuata l’eroina, il contrasto sarebbe drammatico, altamente tragico. Ma l’eroina c’è a parole, e la donna è tutto: la passione, unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica e sfrontata sino al grottesco, e scende dritta la scala della vita sino alle più basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte dànno fastidio alcuni tratti comici, e non vede che sotto forme tragiche la situazione è sostanzialmente comica, sicché, se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l’amata, sarebbe il dramma con lievi mutazioni una vera commedia. (…) A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe stato come dire una bestemmia. Il comico è in quei sí e no della passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili, che scoppiano improvvisi e contro l’aspettazione, nell’irragionevole spinto sino all’assurdo, negl’intrighi e nelle scaltrezze, di bassa lega, più da donnetta che da regina, e tutto cosí a proposito, cosí naturale, con tanta vivacità, che il pubblico ride e applaude, come volesse dire: - È vero - . Fu per il poeta un trionfo. (…) Quel suo dramma a superficie tragica, a fondo comico, coglieva la vita italiana nel più intimo, quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di dentro. Il tragico non era elevazione dell’elevazione, ma una semplice fonte del meraviglioso, cosí piacevole alla plebe, come incendi, duelli, suicidi. Il comico riconduceva quelle magnifiche apparenze di una vita fantastica nella prosaica e volgare realtà, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze braverie. Concordare elementi cosí disparati, fondere insieme fantastico e reale, tragico e comico, sembra poco meno che impossibile: pure qui è fatto con una facilità piena di brio e senz’alcuna coscienza, com’è la vita nella sua spontaneità. L’illusione è perfetta. Una vita cosí fatta pare un’assurdità: pure è là, fresca, giovane, vivace, armonica, e t’investe e ti trascina. Il povero Metasta38

sio, inconscio del grande miracolo, si difendeva con Aristotile e Orazio: alle vecchie critiche si aggiunsero le nuove; oggi la ragione e l’estetica condannano quella vita, come convenzionale e incoerente. Ma essa è là, nella sua giovanezza immortale, e le basta rispondere: - Io vivo - . E se l’estetica non l’intende, tanto peggio per l’estetica.”13 Collegando questa riflessione desanctisiana alla dimensione complessiva della figura di Metastasio, aggiungiamo questa sua riflessione lirica nella quale l’arte della scrittura scenica, l’immaginazione e il rapporto con l’arte del passato assurgono quasi ad una professione di fede, all’indicazione di un cammino che rappresenta il movimento stesso dell’esistenza del “poeta di teatro”: Sogni e favole io fingo; e pure in carte mentre favole e sogni orno e disegno, in lor, folle ch’io son, prendo tal parte, che del mal che inventai piango e mi sdegno. Ma forse, allor che non m’inganna l’arte, più saggio io sono? È l’agitato ingegno forse allor più tranquillo? O forse parte da più salda cagion l’amor, lo sdegno? Ah che non sol quelle, ch’io canto o scrivo favole son; ma quanto temo o spero, tutto è menzogna, e delirando io vivo! Sogno della mia vita è il corso intero. Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo, fa ch’io trovi riposo in sen del Vero.

13 F. De Sanctis, La nuova letteratura, in Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, Einaudi, Torino 1996, pp. 726 - 728.

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Tra speranza e innocenza. Invito alla lettura della Ricciarda del Foscolo.14 di Donatella Martinelli

L’invito a parlare della Ricciarda15 mi offre la gradita occasione non solo di promuovere la conoscenza del teatro tragico del Foscolo, e della della Ricciarda in particolare, ma di ricordare chi, per molti lustri, ha coltivato gli studi foscoliani: Franco Gavazzeni, scomparso prematuramente l’estate scorsa. A lui si devono le fondamentali Opere di Foscolo nella collezione «Storia e testi della Ricciardi» (1974 - 1981); a lui i due più recenti volumi della «Pléiade» einaudiana (1994 - 95), nella veste di direttore di valenti studiosi; a lui soprattutto, nel corso di tanti lustri, va il merito di aver promosso, dalla cattedra pavese, alcune capitali indagini filologiche e critiche sul Foscolo, fondate sul nesso storia - letteratura, essenziale per comprendere questo autore. La Ricciarda nell’itineario tragico del Foscolo. L’opera teatrale del Foscolo copre l’intero arco della sua vita artistica (dalla giovinezza, con il Tieste del 1797, alla maturità, con l’Aiace del 1811, sino ai confini ultimi della sua vita di poeta, con la Ricciarda (con l’esilio in Inghilterra, poeta propriamente, non sarà più). Per il Foscolo, come per l’Alfieri, la tragedia fu espressione di libertà, perché offriva la possibilità di mettere in scena, attraverso personaggi di invenzione, i drammi del proprio tempo sfuggendo, se possibile, alle strette maglie della censura. E fu dunque forma ‘politica’ per eccellenza. È questa valenza, evidentissima nel Tieste e nell’Aiace, che va sottolineata anche in Ricciarda, dove certo ‘intimismo’ fa velo a una sostanza schiettamente politica. L’ultima edizione com14 Cito abbreviatamente: U. Foscolo, Opere, ed. diretta da F. Gavazzeni con la collaborazione di M. M. Lombardi e F. Longoni, Einaudi - Gallimard, 1994, vol. I; Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, Firenze, Le Monnier, 1933 (…). In particolare: Tragedie = Tragedie e poesie minori, a cura di G. Bezzola, 1961; Epistolario: vol. IV, genn. 1812 - dic. 1813, a cura di P. Carli, 1954; vol. V (1814 - 15), a cura di P. Carli, 1956; vol. VIII, a cura di M. Scotti, 1974; Lettera apologetica, in Prose politiche e apologetiche (1817 - 1827), a cura di G. Gambarin, vol. XIII, 1964. 15 Colgo l’occasione per ringraziare il prof. Ivano Natali, presidente dell’associazione «Incontri Internazionali Diego Fabbri», il prof. Paolo Rambelli e il pubblico tutto che mi ha a lungo aspettata e poi accolta con interesse e calore affatto inconsueti.

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mentata della Ricciarda, curata da Maria Maddalena Lombardi, ha corretto finalmente il giudizio riduttivo dell’editore della tragedia nell’Edizione Nazionale, il Bezzola, che la giudicò mediocre.16 Il lavorio degli autografi17 fa fede, viceversa, di una ricerca inesausta di perfezione formale, del tutto consona alla qualità del coevo poeta delle Grazie (mirabile l’eccellenza della versificazione, specie in sede di clausola del discorso).18 La Ricciarda rappresenta, come osserva puntualmente la curatrice dell’edizione einaudiana, la prosecuzione di alcune istanze già presenti nell’Aiace: in particolare un ideale originale così illustrato in lettera al Pellico del 23 febbraio 1813: quanto ai caratteri il raziocinio tende sempre a comporli tra loro in certa discordia armonica, in modo che dal contrasto di varj caratteri segua quell’armonia che si vede, anzi si sente più che non si veda, nella composizione d’un quadro storico d’egregio maestro19

Insomma ogni personaggio reca impresso in sé, e come marchiato a fuoco, il proprio dramma: è lacerato, fin dal concepimento, da passioni opposte. Porta in scena, prima ancora di parlare o fare, una propria segreta disarmonia: recita da solo, prima con sé che con altri. Questo conferisce alla tragedia un singolare spessore analitico: e anche, se si vuole, determina una certa tal quale, autosufficienza dei personaggi, una loro propria, diciamo così, incomunicabilità. Essi si incontrano, si parlano, ma poi di fatto continuano a vivere autonomamente un segreto tormento, da cui non possono evadere. In questa condizione di immanente presenza di sé a sé stessi, il Foscolo rappresentava di fatto il sentimento di solitudine dell’uomo di fronte alla storia, nel momento in cui una svolta epocale (la fine dell’impero napoleonico) sembrava chiedere, non solo a stati e nazioni, ma, per il Foscolo, a ciascuno individuo cosciente di sé, di rimettere in gioco il proprio destino. Il nucleo della tragedia. Scopo precipuo del nostro intervento è offrire una chiave di lettura che restituisca alla tragedia la sua autenticità di ispirazione, la sua ragion d’essere. 16 «Nella Nazionale di Firenze e nella Biblioteca Vaticana, si conservano frammenti autografi ed appunti, e, solo nella Vaticana, anche parti di apografi largamente corretti e ricorretti dall’autore. Si tratta di materiale il cui valore è per noi oggi prevalentemente documentario, dato lo scarso pregio poetico della tragedia e la scarsa sicurezza del testo base, ma ciò non toglie che sia doveroso renderne onto, anche perché alcuni aspetti della tradizione della Ricciarda possano lumeggiare quella dell’Ajace», Tragedie, Introduzione, p. XLIII. 17 Ne offre uno specimen Bezzola, Tragedie, pp. 215 - 25. 18 Certi endecasillabi, chiudendo con un colpo d’ala i discorsi dei personaggi di scena, ci dicono che siamo nel vivo di una stagione poetica impareggiabile. Ne produciamo qualche campione dal solo a. I, sc. I: «mi sarà nuova piaga ogni suo detto (v. 85); «far ch’io mi parta, o snudi in guerra il brando» (v. 89); «sappia da me dove cercarti estinto» (v. 95). 19 Epistolario IV, p. 216.

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Ha nuociuto e nuoce alla suacomprensione certa inverosimiglianza psicologica dei personaggi. Pensiamo al rifiuto opposto da Ricciarda alla proposta di Guido: (fuggire dal vecchio padre, ossessivo, tirannico, verso una felicità a portata di mano, oltre le mura della rocca assediata): quale donna innamorata farebbe altrettanto? Altra la chiave occorre per intendere il personaggio, che non sia quella della sola passione. Non meno deludente certa ambientazione di maniera, in un Medioevo improbabile, oleografico, nel nuovo gusto troubadour che si diffondeva allora in Europa: chi sarà mai il conte di Bretagna, che il terribile Guelfo ha destinato la figlia in sposa? E la Bretagna è la regione della Francia, o si deve pensare all’Inghilterra?20 Certa genericità di riferimenti urta un poco la nostra sensibilità, quasi la storia fosse assunta a sfondo di colore (il che peraltro contrasta con tutto quanto lo storicismo foscoliano, condensato nella celebre esortazione alla storia delle lezioni pavesi). Dev’essere da subito palese il calcolo dell’autore: leggere il passato per intendere il presente: e a questo scopo il passato deve essere destituito di una specificità che sarebbe ostacolo a questa continua sovrapposizione e transfert. Più vago è il quadro di riferimento, più facilmente in quello si accampano, per analogia, gli scenari e le problematiche dell’attualità. I due livelli di astrazione, assommati ad altri tanti (che dire di atmosfere remote, sospese come in un limbo fuori del tempo, tra vita e morte, tra un passato perduto e un futuro impossibile), concorrono a produrre un’impressione, a prima lettura, pretestuosa e artificiosa della tragedia. Solo alcuni restauri possono riportare alla luce il colore originario, come usa nelle opere d’arte sulle quali il tempo abbia depositato uno spesso strato di sedimenti. Proviamo a ridisegnarne il profilo a partire dalle circostanze della composizione, dalla trama e dai personaggi. La composizione. La tragedia si situa in un cruciale momento della storia del Foscolo. L’Aiace era stato rappresentato alla Scala, il 9 dicembre 1811 con mediocre successo; il 13 dicembre il vicerè emette un rescritto di proibizione, per sospetto di polemica contro il Regno Napoleonico. Per il Foscolo i tempi sono difficili. Da gennaio a marzo 1812 è a Venezia presso i familiari: ivi matura la decisione di trasferirsi a Firenze. A giugno parte la campagna di Russia; in agosto il Foscolo si trasferisce a Firenze, e annuncia all’Albrizzi di voler pub20 «A sera / te n’andrai sposa di Bretagna al Conte / pria che le colpe e le sciagure nostre / risappia […]», a. II, sc. II, vv. 102 - 3. Commenta la Lombardi: «ovviamente si tratta di un personaggio fittizio e non identificabile, essendo oltretutto incerto cosa Foscolo intenda per Bretagna, se la penisola francese o piuttosto l’Inghilterra; almeno due esempi montiani (Bassvilliana, I, 98, e Al Barone d’Erthal, 7) farebbero propendere per la seconda ipotesi, tanto più che al v. 99, seppure in un contesto iperbolico, Guelfo ha parlato di mari, che oltre alle alpi lo separeranno dalla figlia», così la Lombardi nel suo commento, Opere I, p. 903.

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blicare a breve le Grazie.21 Nell’ottobre di quell’anno scrive al Pellico di avere terminato la traduzione del Viaggio sentimentale e di essere impegnato nella stesura della Ricciarda. Ma è solo tra l’aprile e i primi di giugno 1813, a Bellosguardo (dove si è appena trasferito), che scrive l’opera, e la invia alla Censura insieme ai Versi del Rito, specimen del nuovo poema di prossima pubblicazione. Insomma la prima redazione del carme e la tragedia convivono in quel magico aprile: «Già bello è aprile. Or negli aerei poggi / di Bellosguardo, ov’io cinta di un fonte / limpido alle tranquille ombre di mille / giovinetti cipressi alle tre dive / l’ara innalzo» (Seconda redazione dell’inno, vv. 91 - 94).22 È essenziale cogliere questo singolare intreccio di astrazione e di dramma, voglia di incanto, desiderio di catarsi e sentimento di orrore che occupano l’animo del Foscolo in questo momento. Nella genesi delle Grazie la Ricciarda ebbe la funzione di dare voce al dramma storico che il Foscolo, acutissimo lettore degli eventi, vedeva profilarsi. Certo è che, tra le due opere, esistono legami profondi (sui quali torneremo) indagati e chiariti dal Longoni nell’edizione ultima delle Opere. In luglio 1813 è a Milano per seguire le vicende della Censura, che licenzia le due opere (i Versi del Velo e la tragedia). In settembre (il 12) è a Bologna, per seguire le prove della Ricciarda, che viene rappresentata il 17, al Teatro del Corso dalla Compagnia Fabbrichesi. Il 20 luglio torna a Firenze, mentre gli eventi precipitano (16 - 19 ottobre Napoleone è sconfitto a Lipsia). E già in dicembre scrive al Fabbrichesi per ritirare la tragedia, adducendo ragioni letterarie, ma a Quirina scrive: «Ho ritirata…la mia Ricciarda; non è paese né tempo da tragedie».23 Pochi mesi più tardi spiega al conte Verri che è intervenuto per evitare che venisse «mutilata o corretta dalla Censura» prima di essere ammessa sulle scene milanesi (peraltro le rappresentazioni continuano, con interventi forti della Censura: specie a Venezia, il 3 gennaio 1815).24 Comincia per il Foscolo quello stato di emergenza che lo vede impegnato nella difesa estrema del Regno Italico dal tracollo dell’Impero, e che cessa con il marzo del 1815, quando, invece di prestare giuramento di fedeltà all’Austria, fugge da Milano, e ripara in Svizzera, e di qui in Inghilterra. Il Regno d’Italia cessa nell’aprile 1814: i sogni che la Ricciarda aveva rappresentato sono irrevocabilmente finiti. La tragedia (che aveva comunque avuto una circolazione incontrollata) non viene pubblicata che anni dopo, a Londra, nel 1820. Il Foscolo vuole 21 «A gennaro andrò a Roma dove stamperò un Carme intitolato le Grazie, e diretto a Canova; perché la poesia è applicata tutta alle belle arti» (Epistolario IV, p. 176). 22 Opere, I, p. 117. 23 Epistolario IV, p. 441. 24 Confidava in proposito all’Albany: «La povera Ricciarda è oggimai diventata proprietà dei Censori e degli Istrioni che la vanno mutilando correggendo, rifacendo, declamando a lor modo […]», Epistolario, vol. V, p. 335.

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intervenire a restaurare un testo attendibile: ma nella sostanza l’operazione rientra nell’ambito di quella riproposizione critica di sé che caratterizza l’attività del Foscolo inglese: la riproposizione di ciò che è stato prodotto in un’ottica, per così dire, postuma. Sul Foscolo inglese resta memorabile il giudizio di Dionisotti, che parla della solennità tragica di un esilio, che aveva distrutto un grande scrittore italiano».25 La trama. La vicenda ha per antefatto la rivalità tra due fratelli nemici: Guelfo, tiranno di Salerno ha usurpato l’eredità ad Averardo, figlio di secondo letto. La guerra si protrae da trent’anni: Guelfo è sostenuto dal Papa, Averardo dall’Imperatore. Il Sismondi procura molte notizie sul principato di Salerno, prima rocca del Neoguelfismo: nel castello morì Gregorio VII, il papa che aveva umiliato l’Imperatore a Canossa, vittima a sua volta del normanno Roberto il Guiscardo. Il Foscolo può proiettare, in un Medioevo dominato da Chiesa e Impero, il clima delle grandi coalizioni, e vedere in Napoleone l’Imperatore che, strategicamente, aveva stretto con il Papa un’alleanza destinata a portare gravi sciagure all’Italia (il 2 dicembre 1804 Napoleone era stato incoronato dal papa).26 La tragedia si svolge mentre Averardo cinge d’assedio Salerno: prima di prendere la città egli tenta un’ultima mediazione per proteggere il figlio Guido che, per amore di Ricciarda, si è introdotto nei sotterranei del castello. Fallito il tentativo, i soldati di Averardo prendono la rocca: Guelfo, dopo aver tentato di uccidere Guido, si vendica trafiggendo la figlia; poi, disperato, si suicida. La tragedia si snoda come una sequenza, si è detto, di personaggi a confronto: nel primo spiccano, in serrato confronto, Guido e Ricciarda; il secondo (atto politico per eccellenza) è occupato dall’incontro tra padre e figlia e dal colloquio tra Guelfo e Averardo, che tenta inutilmente di trovare la strada della pace, e perora un tema carissimo al Foscolo: quello delle milizie cittadine, strumento indispensabile per raggiungere l’indipendenza); il terzo è dominato da Guelfo, che annuncia a Ricciarda le nozze imminenti della figlia con il conte di Bretagna; il quarto è dedicato all’incon25 «Mancò al Foscolo nella inizialmente splendida e poi gelida solitudine dell’esilio, la forza di smentire la propria anacronistica identificazione col personaggio del romanzo e di accettare la realtà di un esilio diverso. Il personaggio, favorito e insieme escluso dall’ambiente, finì col raccogliere in sé, nella testamentaria Lettera apologetica, tutti i rancori e corrucci, grandi e piccoli, pubblici e privati, che non avevano trovato sfogo, se non come grotteschi fantasmi insistenti alla rinfusa nella solitudine, nell’inerzia della fantasia poetica, e anche purtroppo nella menzogna. Si spiega che i giovani Italiani, a cui il Foscolo era apparso maestro in Italia, per lo più dissentissero da lui, quando lo raggiunsero nell’esilio, e che però i più tardi esuli, che più erano da lui lontani per il rigore morale e politico, avvertissero la solennità tragica di un esilio, che aveva distrutto un grande scrittore italiano», Foscolo esule (1981), in Appunti sui moderni, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 75 - 76. 26 «infame danno / bensì a noi vien dal parteggiar da servi / in questa pugna fra la croce e il trono / per cui città a cittade, e prence a prence / e castello a castello, e il padre al figlio / pace contende[…]» (a. II, sc. III, vv. 224 - 29).

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tro di Guido e Ricciarda; il quinto culmina con l’ultimo, fatale confronto tra padre e figlia. L’ambientazione. Cominciamo dalla scena fissa che il Foscolo immagina a fondale della tragedia. L’edizione londinese del 1820 (che fa testo, essendo l’unica edizione curata dall’autore), non più destinata alla rappresentazione, trascura le didascalie originarie, che invece sono importanti per comprendere il senso profondo della tragedia. Ecco la prima, destinata a definire una sorta di fondale fisso, immobile, dei cinque atti: Sala terrena lunga come ne’ castelli feudali con tre arche domestiche, a lunghi intervalli e senza simmetria: una delle arche è lontana; l’altra è prossima agl’interlocutori; quella di mezzo, fa triangolo con le altre due. La sala presso l’arca lontana, mette ad un corridojo tortuoso dove si discernono di profilo parecchi sepolcri. A man destra, e dirimpetto all’arca di mezzo s’esce per un uscio che mette alle stanze regali».27

Dunque siamo in un sotterraneo di castello feudale: quasi un domestico sepolcreto. Possiamo facilmente immaginare che la tomba maggiore sia quella della madre di Ricciarda, onnipresente dall’inizio alla fine, sia al marito che alla figlia. Tutta la tragedia si sviluppa qui, in un luogo in bilico tra vita e morte, dove i morti (come nei Sepolcri) parlano ai vivi: ora sembrano compiangerli, ora ammonirli («Dell’avo mio sdegnosa / spesso forse la sacra ombra mi guarda / da quel sepolcro», dice Guido, a. I, sc. II, vv. 108 - 10); e i vivi chiamano a protezione i defunti: «Cerco la madre mia, se pure intende / il mio lungo dolor», così Ricciarda (a. I. sc. IV, vv. 270 - 71). Tutti i personaggi intrattengono con i sepolcri un rapporto privilegiato. Sulla tomba della madre, Guelfo chiede a Ricciarda di giurare: «qui - su le sacre ossa / di tua madre giurarlo» (a. II, sc. II, vv. 16 - 17);28 e poi di rinunciare all’amore di Guido (GUELFO: «sovra queste ossa / rinunzia a Guido, e l’odio mio gli giura.» RICCIARDA: «L’odio tuo? Qui? dove sovente a Guido / amor giurai? Tu allor m’udivi, o Madre! / E se dal ciel non prevedevi i tristi / dì della figlia tua, lieta eri forse / de’ giuramenti miei» (a. III, sc. II, vv. 106 - 22). Nell’ultima furia distruttiva, Guelfo minaccia di scoperchiare le tombe, pur di trovare Guido: «su le reliquie sieda / anche de’ morti, io nel trarrò», a. V, sc. V, vv. 125 - 26; e poco oltre, rivolto a Ricciarda: «[…]perfida tu, dèi farmi, / scorta a trovarlo, a scoperchiar quell’arche, / a sovvertir le ceneri, e dall’ossa / dissotterrarlo», vv. 131 - 34. Ai sepolcri fa invano appello Averardo perché si superi il rancore e si arrivi alla conciliazione e alla pace: «I monumenti, / signor, io veggio de’ padri tuoi; e gioja / essi n’avran 27 Tragedie, p. 215. 28 Echeggia i Sepolcri, vv. 99 - 100: «e fu temuto / su la polve degli avi il giuramento»).

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se con fratel…» (a. II, sc. III, vv. 135 - 379). Tra i sepolcri Guido si rifugia e vive, aspettando Ricciarda, e cercando scampo all’odio di Guelfo: in loro trova dolente compagnia, e talora, nei giorni di battaglia, ne coglie il rimprovero per la forzata inerzia.29 E ai sepolcri si rivolge in particolare Ricciarda: ivi sosta in preghiera, sperando di rivedere l’amato;30 sulla tomba della madre, esclama: «A me talamo e reggia e asilo e speme / fia questa tomba, ch’io tocco tremante; / e dove teco m’accorrai, tel giuro / infelice e innocente» (a. III, sc. VI, vv. 178 81). Si osservi qui la parola speme (sulla quale torneremo), in punta di verso, già codificata in chiave politica nei Sepolcri: «ove speme di gloria agli animosi / intelletti rifulga ed all’Italia / quindi trarrem gli auspici». La speranza è da leggere come volontà di indipendenza della nazione. Il gesto poi del toccare la tomba condensa due luoghi memorabili: è insieme il toccar le sacre sponde di Zacinto e l’abbracciar l’urne dei Sepolcri: quasi a stringere in un nodo solo la devozione per i defunti e l’amore per la patria. Teme che sul sepolcro della madre Guido possa essere trafitto dal padre;31 al sepolcro della madre si rivolge da ultimo in punto di morte: «Accogli, madre, … la tua figlia» (a. V, sc. ultima [VII], v. 215). I morti guardano la tragedia che si svolge presso di loro e in qualche modo vi partecipano: nulla possono, eppure la loro presenza è un coro muto che di volta in volta depreca, compiange, consola, sostiene spiritualmente. Non so se, nella storia del teatro, si riscontri altrove una presenza dei defunti tanto immanente (dico dei defunti propriamente, non dei fantasmi, che è altra cosa): muti interpreti dello spirito della famiglia, degli antenati, della patria. È come se il carme dei Sepolcri, in una condizione storica forse decisiva, si facesse dramma, si calasse sulla scena, rappresentando i valori che l’epistola aveva esaltato e trasportandoli dal piano dell’inventio poetica a quello della storia: una storia in apparenza lontana, e insieme palesemente attualissima. Riferimenti al carme. Si comprendono le ragioni di un istituto stilistico che caratterizza l’opera del Foscolo in generale, ma in particolare contrassegna, per motivazioni affatto peculiari, la Ricciarda. Non parlo delle reminiscenze che tornano quasi per inerzia (anche da altre opere, dall’Ortis, dall’Aiace, dalle poesie e 29 «Dell’avo mio sdegnosa / spesso forse la sacra ombra mi guarda / da quel sepolcro […] Porto ascoso il coltel come fa il ladro; / né oprarlo posso contro a Guelfo» (a. I, sc. II, vv. 108 - 17). 30 Così la soprende Guelfo: «Qui dunque, innanzi di tua madre all’urna, / ti fia men grave fra non molto udirmi» (a. I, sc. IV, vv. 283 - 84). 31 «Da te lunge il pianto, / che or parlando mal freno, da te lunge / men amaro mi fia; chè allora almeno / potrei versarlo, e non temer che misto / scorra col sangue del tuo cor trafitto / dal padre mio - sull’ossa ahi!... della mia madre trafitto» (a. I, sc. III, vv. 166 - 72).

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traduzioni),32 ma delle rimemorazioni dei Sepolcri, in particolare: come un marchio, una firma autografa (quasi un dire: ‘sono io che vi parlo, l’autore dei Sepolcri’). Così nei casi seguenti, per i quali siamo largamente debitori, conviene subito dire, al commento della Lombardi (alla citazione facciamo seguire una breve illustrazione, in corpo minore): - «nella tua pace, mi vedrai qui errando, / tacitamente invocar l’ombra tua» (a. III, sc. V, vv. 176 - 77), Evoca l’immagine di Omero: «Un dì vedrete / mendico un cieco errar sotto le vostre / antichissime ombre, e brancolando / penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne», Sepolcri, vv. 279 - 82. - «E se Ricciarda / da’ labbri tuoi non rimovea quel nappo, / nè ti scampava in tempo, or giaceresti / compagno alle insepolte ossa fraterne» (a. I, sc. I, vv. 31 - 33). Dai Sepolcri, v. 53 («Senza tomba giace / il tuo sacerdote»), l’eco si propaga alla tragedia, e poi nelle Grazie, Inno primo, vv. 149 - 51 (nella redazione del Quadernone, posteriore alla fine della tragedia): «ostentando trofeo l’ossa fraterne; / ch’io non le veggia almeno or che in Italia/ fra le messi biancheggiano insepolte!». - «Straniero / sposo, e lontana sepoltura avrai» (a. III, sc. V, vv. 183 - 84) Richiama alcuni luoghi memorabili delle Poesie: «[…] a noi prescrisse / il fato illacrimata sepoltura» (son. IX, vv. 13 - 14) e «Straniere genti, almen le ossa rendete / allora al petto della madre mesta» (son. X, vv. 13 - 14). - «e il tuo Guido e Ricciarda / saranno in sacro e lagrimato avello» (a. III, sc. III, vv. 92 - 93) Riprende i Sepolcri, v. 293: «ove fia santo e lagrimato il sangue». I ripetuti giuramenti sulla tomba degli avi (già ricordati) variamente evocano la forma antica della più solenne promessa: «e fu temuto / su la polve degli avi il giuramento» (Sepolcri, vv. 99 - 100). E il tema dei sepolcri che danno fama a chi ha combattuto eroicamente («i figli tuoi / cadder - ma in campo, ed han sepolcro e fama», a. II. sc. III, vv. 165 66) naturalmente richiama il mirabile exemplum delle tombe di Maratona («ove Atene sacrò tombe ai suoi prodi», Sepolcri, v. 200). Con l’autocitazione il Foscolo si rende riconoscibile al suo pubblico, non per vanità ovviamente (anche se qualcuno lo sostiene), ma per le32 Il commento della Lombardi segnala affioramenti continui: così «anche l’amor per l’infelice Italia» (a. II, sc. III, v. 201), ricalca l’Ortis (E.N., IV, p. 138): «Ma dove cercherò asilo? in Italia? infelice terra!» (Lombardi); e «[…] l’antico scettro / che a Cesare per tanto ordine d’anni / diedero i cieli […]» (a. II, sc. III, vv. 219 - 20) recupera i Sepolcri, v. 103 - 04: «le virtù patrie e la virtù congiunta / tradussero per lungo ordine d’anni».

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gare la sua opera nuova ai grandi tempi della sua poesia: come un richiamarli e attualizzarli, affidandoli alla voce di personaggi di scena che li interpretano con il pathos della viva voce recitante. Il carme rivela la sua presenza di sottofondo (quasi ‘motore ascoso’ della tragedia) anche in singole voci e iuncturae che ne recano impresso, per così dire, lo stigma: «Ove fia santo e lagrimato il sangue / per la patria versato», Sepolcri, v. 293  «Guido e Ricciarda / saranno in sacro e lagrimato avello» (a. III, sc. III, vv. 92 - 93); «de’ numi è dono/ servar nelle miserie altero nome», Sepolcri, vv. 270 71  «e veder spento il nostro sangue e il nome» (a V, sc. ultima [VII], v. 20; «di che lagrime grondi e di che sangue», Sepolcri, v. 158  «il vedo io di che sangue / grondante è ancor» (a. IV, sc. IV, vv. 184 - 85); «a te innanzi il padre / del mio sangue non grondi» (a. V, sc. III, vv. 72 - 3); «brancolando / penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne», Sepolcri, vv. 281 - 82  «con mani empie tu quella sepoltura abbracci» (a. IV, sc. IV, vv. 203 - 04). L’elenco potrebbe continuare con echi minori, in sé poco rilevanti: 33 ma la scena che racchiude il dramma (il sepolcreto domestico), conferisce ai singoli accenti una risonanza e un’enfasi speciali. Da queste tombe avite si devono, trarre gli auspici; dai sepolcri, come voleva l’Alfieri, si levano moniti ai valorosi dai quali dipendono le sorti della patria.

I personaggi maggiori. Ci sembra opportuna una scorsa ai personaggi maggiori, per saggiarne la natura di nobili simulacri di affetti e di passioni. Ricciarda. È divisa tra amore per Guido e pietà per il padre. Così la Lombardi ne tratteggia la figura: «Ricciarda è la protagonista in quanto è l’unica consapevole di queste contraddizioni, insanabili se non con la morte, cui docilmente, e si badi, senza operare alcuna scelta, si arrende, dimostrando di essere anch’essa depositaria di quella qualità di ‘compassione e pudore’ che il Foscolo ritiene prerogative precipue della sensibilità femminile».34 L’amore per Guido non è propriamente amore - passione, ma piuttosto ricordo di un sentimento già vissuto, ora sovrastato da preoccupazioni diverse e maggiori: se non è, come per Didimo, calore di fiamma lontana, è tut33 Il commento della Lombardi segnala affioramenti continui: così «anche l’amor per l’infelice Italia» (a. II, sc. III, v. 201), ricalca l’Ortis (E.N., IV, p. 138): «Ma dove cercherò asilo? in Italia? infelice terra!»; e «[…] l’antico scettro / che a Cesare per tanto ordine d’anni / diedero i cieli […]» (a. II, sc. III, v. 219 - 20) recupera i Sepolcri, v. 103: «le virtù patrie e la virtù congiunta / tradussero per lungo ordine d’anni». 34 La citazione interna proviene dalla Notizia intorno a Didimo Chierico, Opere, vol. II, p. 351.

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tavia sublimazione dell’eros in un ordine di necessità maggiori (la redenzione del padre, la salvezza della patria).35 Ella sa di essere, per Guelfo, la sola luce in un’esistenza smarrita («A tutti / svela sue colpe; ma del cor le angosce, / fuor che a me sola, a tutti asconde. Io sola, / quand’anche i sgherri suoi trovano il sonno, / Lo intendo andar per la sua vota casa; / e paventa esser solo: e me sua guida / appella; e dopo un tacer lungo, invoca / gli avi e la morte e la consorte e i figli», a. I, sc. II, vv. 189 - 96). Vive sperando di ricondurlo a valori positivi, fuori dall’oscuro groviglio di passioni nel quale si dibatte. Non può amare Guido perché sarebbe colpevole verso il padre: il suo non è un dilemma sentimentale, ma etico. Potrebbe fuggire con Guido; ma, venendo meno ai doveri verso il padre, si sentirebbe sposa indegna: «Dì e notte tiemmi e lusinghiero e forte / il pensier di fuggir teco dal padre: / e più che il padre e il suo misero stato / e il suo periglio men rattiene amore / di te; di te, che a snaturata figlia / sposo infame saresti; e ad Averardo / faresti dono d’aborrita nuora; / ed io madre sarei di maledetti / figli e spregiati […]» (a. I, sc. IV, vv. 235 - 44). Il passo è carico di valori simbolici, e diciamo pure, politici: da questo matrimonio devono nascere uomini nuovi di uno stato nuovo. Non si tratta di matrimonio di ‘sentimenti’, ma di ideali: obiettivo ultimo è la rifondazione di una nazione. Ricciarda coltiva in sé un sogno che potrebbe conciliare l’amore verso Guido, verso la patria, verso il padre, stringendo in un solo nodo le passioni che dominano il suo animo. Tra le scene più belle è il contrasto tra la ragione dei sentimenti e degli ideali (incarnata da Ricciarda) e la ragione di Stato, cioè di egoismi e di violenza (ne è emblema Guelfo): «Errai troppo, sperando; e colpa io m’ebbi / così da farti e sventurato e reo. / Ma involontaria il feci. Ohimè! sperai / che le mie nozze ti sarieno pace / di tanta guerra; e che sopite alfine / vedute avrei le crude ire fraterne. / Sperai, che se a te il ciel tolse la prole / atta al brando e allo scettro, e insidiato / sei d’eredi stranieri, io forse un giorno / ti farei lieto di nepoti, e sgombra / la tua casa vedrei di compre, infide, / barbare spade che a noi son terrore / più che difesa. E non per anche al tutto / sarà, se il vuoi, la mia speranza estinta» (a. II, sc. II, vv. 53 - 66). Le ragioni politiche della tragedia sono rivestite con le ragioni della psicologia malata e dolente di un padre geloso, lacerato da gelosia, orgoglio, egoismo. I sentimenti fanno velo (velo necessario, al fine di eludere la vigilanza della censura) all’amore di patria, di libertà, di riscatto nazionale: valori che costituiscono il nucleo originario e vitale della tragedia. 35 Così Ricciarda riassume la sua storia: «Da che prima venisti, ed io ti vidi / giovanilmente generoso e altero, / t’amai, Guido, t’amai; tacita ognora / arsi quanto il mio core arder potea; / piansi per te, né men dolea; t’amai / quanto amar sa mesta donzella e sola / che sol trova in amore ogni conforto; / ma non mi tenni io rea. Poi quando infausta / certezza ebb’io d’esser da te divisa, / più ognor t’amai. Te sempre amo, e ti sono / d’alto innocente eterno amore avvinta» (a. I, sc. IV, vv. 213 - 23).

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Ricciarda grandeggia per questo sentimento alto di sé, del proprio amare e del proprio patire: non personaggio sentimentale, ma prototipo di coraggio e di virtù. Con lei si affaccia all’orizzonte poetico del Foscolo il prototipo dell’eroe che non affronta più di petto l’ingiustizia, ma contrasta l’odio con la forza dei valori in cui crede, e alla violenza oppone la forza morale, la capacità di andare incontro consapevolmente alla morte. Ricciarda incarna le aspirazioni di un popolo oppresso che potrebbe trovare la via del riscatto, se solo chi detiene il potere desse ascolto alle ragioni di una nazione oppressa. La sua morte è la morte di un sogno. Guido. Soffre per la contraddizione tra amore per Ricciarda e amore per la patria: vorrebbe combattere, ma non può abbandonare la giovane all’ira del padre; e vive nascosto tra i sepolcri, sperando di incontrare la sua donna. Si sente vile («O Guido,/ nella magion del traditor t’aggiri / da traditor!», a. I, sc. II, vv. 107 - 08); soffre perché rinuncia per l’amata ai doveri nei confronti della patria: «inutil brando io cingo/ sol perché tu non possa oggi incolparti / d’amar colui che ti guerreggia il padre». Si sente in colpa nei confronti del padre, che pure lo comprende e lo sostiene, perché non può essergli vicino nella guerra; arriva a sperare che Averardo sia sconfitto pur di guadagnare la pietà della sua donna. Vive in una condizione di sofferta inerzia, senza quella consapevole accettazione della sofferenza che è di Ricciarda, quasi di luce riflessa («Mia virtù è il soffrire / perché tu viva» (a. IV, sc. II, vv. 121 - 22). Guelfo. Passiamo al padre - tiranno. La sua figura si ispira a Guaimaro, principe di Salerno (XI sec.), che chiama in Italia le truppe normanne e favorisce così la conquista. Figura centrale: tiranno vittima di sentimenti indomati: orgoglio, ancestrale gelosia di possesso nei confronti della figlia, rabbia, vergogna, empietà verso la famiglia («Non ebbi/ fratelli io mai», a. II, sc. III, vv. 137 - 38), empietà verso Dio («di speme, e di te stesso, e d’Iddio privo», a. II, sc. II, v. 116). È dominato dal terrore della solitudine; la pietà, quando si fa strada, serve solo ad aumentare l’ira («Chi sei / tu perch’io deggia trapassar dall’ira / alla pietà? Riarde l’ira al pianto in me; e tu il sai», a. II, sc. II, vv. 126 - 29): il suo emblema è quel pugnale che passa di mano in mano, nella tragedia, e che alla fine esegue il duplice delitto.36 Uomo migliore un tempo («Un tempo, / un tempo fu ch’io mi pascea di liete / lusinghe anch’io…», a. II, sc. II, vv. 90 - 92); ora condannato alla perdizione. È Ricciarda che scatena le sue contraddizioni: la tenerezza della fanciulla alimenta la sua ferocia in un circuito che lo porterà ad uccidere la figlia. Da lei viene costante rimprovero al suo comportamento; in lei, quasi riflesso in 36 Così se ne spiega il senso: «Rabbia / ti mise in cor di un mio figliuolo. Rabbia/ ti diè a un nemico che ferir non seppe,/ e il diè a femmina rea. Rabbia, a qualunque final vendetta, e sia che può, ti afferra» (a. V, sc. V, vv. 121 - 25).

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uno specchio, può vedere il suo animo deturpato dall’odio e dalla gelosia. Uccidendo Ricciarda, si vendica non solo di Guido («sino al tuo core, il piagherò per questa», a. V, sc. VI, v. 188) e di Averardo (che gli offre «vita e regno e pace: «Ma disperato il figliuol tuo / funesti ognor la tua vecchiezza, / nel tuo sepolcro il trono mio, a. V, sc. ultima [VII], vv. 205 - 07), ma della sua famiglia e del suo popolo (e qui emerge nuovamente la matrice squisitamente ‘politica’ del suo dramma): «Rimani / deserto nella mia predata casa / a veder spento il nostro sangue e il nome», a. II, sc. III, vv. 207 - 09. Per la nazione nutre disprezzo: «Amor d’Italia? A basso intento è velo /spesso: e tale oggimai s’è fatta Italia, / ch’io non che dirmi suo campione, e inulto / lasciar per essa d’un mio figlio il sangue, / io sdegnerei di dominarla, ov’anche / sterminar potess’io, tutti i suoi mille / vili signori, e la più vil sua plebe» (a. II, sc. III, vv. 202 - 08). Guelfo è, con Ricciarda, la figura più viva della tragedia: uomo che corre alla rovina in un vortice inarrestabile, travolgendo quanto c’è di più sacro. Vi si riconosce, con quasi immediata trasparenza, il ritratto di Napoleone, vittima delle proprie ambizioni e prossimo ormai alla disfatta. Averardo. È l’eroe positivo, cui sono affidati i destini di riscatto non solo di Guido e Ricciarda, ma della nazione intera. È preoccupato per le sorti del figlio (innamorato di Ricciarda), e desideroso di superare i contrasti col fratellastro: preoccupato soprattutto di ridare pace alla patria che, con il matrimonio dei due giovani, potrebbe trovare pace: le cose vanno tutte di pari passo. Personaggio tuttavia che poco appare, e poco campo ha d’azione. Si presenta infatti a Guelfo sotto le mentite spoglie di ambasciatore, a proporre la pace con la spartizione del regno: Salerno e i castelli a Guelfo, Avellino e Benevento a sé, e infine, soprattutto il matrimonio di Ricciarda e Guido, che significherebbe la riunificazione dello stato. Restano memorabili alcuni tratti, palesemente autobiografici: «Da capitano il prence mio guerreggia / sino al trionfo; né alla strage anela, / né morte incauto affronta» (a. III, sc. VI, vv. 189 - 91); e anche: «Non aborro io mai; bensì dispregio» (a. III, sc. VI, vv. 201 - 02): dichiarazione, davvero foscoliana, di un animo incline al giudizio di valore, non al disprezzo. Personaggio degno, eroe positivo: tuttavia Guelfo, sul piano tragico, lo oscura. Il vero antagonista di Guelfo, quello che più lo combatte, è Ricciarda, vittima alla fine della sua furia. Il rapporto con le Grazie e la matrice politica della tragedia. Lo sfondo storico ha per la tragedia un rilievo essenziale. I fatti storici si disegnano in controluce, appena dissimulati. Il Beauharnais, dopo la disastrosa ritirata dalla Russia e la conseguente riorganizzazione d’un nuovo esercito napoleonico attestatosi lungo l’Elba, aveva dato un contributo decisivo, il 2 maggio 1813, alla vittoria di Lutzen che, insieme ad altri favorevoli eventi bellici, aveva momentaneamente fermato l’avanzata di Russi e prussiani. Richiamato a Milano, Eugenio vi era 53

stato trionfalmente accolto il 18 maggio (era stato addirittura cantato il Te Deum, in un clima di vera e propria euforia). Inviando nel capoluogo lombardo, insieme alla Ricciarda, i Versi del Velo, il Foscolo voleva neppure troppo velatamente invitare Eugenio ad approfittare della situazione di stallo della guerra e del prossimo congresso di Praga, dove sarebbe stato posto sul tappeto il problema dell’Illiria, e implicitamente anche quello dell’indipendenza italiana. Era forse giunto il momento in cui la Francia si sarebbe ritirata entro i suoi confini naturali lasciando sostanzialmente liberi tutti i territori occupati e i regni satelliti. L’indebolimento di Napoleone insomma poteva preludere all’agognata indipendenza dell’Italia. Nella Lettera apologetica (del 1825, pubblicata postuma nel 1844) così rievoca gli eventi: Io con la rotta di Lipsia udia che gli avanzi delle armi italiane […] difenderebbero l’indipendenza italiana. Onde, verso la fine del 1813, partitomi da Firenze, riassunsi gli obblighi militari […] I soldati italiani aspettavano chi additasse la via è… [Eugenio] era imparentato con re d’alto lignaggio [Massimiliano I di Baviera, padre di Amalia], e di filosofia temprata, ed aveva figliuoli italiani [ed] era opinione di molti, e mia, ch’ei dovesse ottenere il regno ed esserne debitore alle armi degl’Italiani, e giurare, senza pericoli di spergiuri, alle loro costituzioni.37

Con i grandi cataclismi storici che si preannunciano, e centinaia di uomini che muoiono in guerre di dimensioni inaudite, una scia cruenta insanguina l’Europa. Perché? di chi la responsabilità? L’interrogativo forza anche il limbo delle Grazie, irrompe dentro quel fantasticare apparentemente lontano dalla realtà. Nei Versi del Rito, inviati a Milano con la Ricciarda, la storia sembra forzare le trame allegoriche del carme. Così la Viceregina ringrazia gli dei del ritorno del suo sposo: «tal dell’Ausonio re l’inclito alunno / fra il lutto e il tempestar lungo di Borea / si fe’ vallo dell’Elba…». Vi è il forte sospetto che tali versi fossero diretti a Milano non tanto e solo per sollecitare l’approvazione per la Ricciarda, ma per inviare al Beauharnais un importante messaggio in cifra, fornendo insieme la chiave di lettura per interpretare l’opera.38 37 Lettera apologetica, pp. 134 - 35. 38 Longoni insiste opportunamente su questa interpretazione dei Versi del Rito (si veda in particolare la celebre invocazione alla Viceregina: «Grata agli dei del reduce marito / da’ fiumi ove i bei cigni hanno lor nido […]») in chiave politica: «E del fatto che il poeta sperasse in una trasformazione del Viceregno in Regno d’Italia, non sembra azzardato rilevar traccia in espressioni come “REGINA” (v. 22) “regie” (v. 49) “regale” (v. 91), oltre che - naturalmente nella maestosa e nel contempo mite simbologia imperiale - al v. 35, sembra adombrare i delicati meccanismi gerarchici che avrebbero reso possibile una maggiore autonomia del Beauharnais da Napoleone (in tal senso Eugenio aveva ovviamente ricevuto interessate pressioni anche dal re di Baviera, suo suocero)» (Opere, I, p. 618). Convince in particolare, tra i rilievi prodotti a suffragio, l’apostrofe al figlio maschio di Amalia: «speme cara d’Italia» (vv. 48 49), davvero consonante ad aspirazioni indipendentistiche del Vicereame.

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Si comprende così la relativa trasparenza di certi messaggi politici contenuti nella Ricciarda, molto più espliciti rispetto all’Aiace, assai più criptico. Nel 1811 Napoleone era molto saldamente arroccato al potere; ora invece è lontano, quasi sconfitto. Non fa più paura. Nell’Aiace Napoleone rivestiva ancora i panni eroici di Agamennone. Ora è maschera grottesca: «e ogni uomo,/ purchè nessun mi sprezzi, ogni uom m’abborra; / tremar mi faccia e tremi» (a. II, sc. II, vv. 84 - 86). Il Foscolo guarda al suo antico eroe con un misto di severità e di sgomento: ne auspica e ne paventa insieme il tracollo, che potrebbe travolgere con sé i destini di quelle nazioni satelliti che ha prima illuso e poi tradito. Rileggendo alcuni passi della Lettera Apologetica (1825), ritroviamo il clima di quei mesi cruciali in cui si consumava la crisi di una lunga, tenace, illusione: Io nel 1812 ebbi a partirmi dal Regno […] per i versi della tragedia rappresentata tra gli apparecchi della spedizione in Moscovia: “Attraverso le folgori e la notte / Trassero tanta gioventù, a giacersi / per te in esule tomba; e per te solo / vive devota a morte (II, vv. 47 - 50) e tornarono nella profezia di Cassandra; e la vanità di Napoleone si divorò in pochi mesi da settantatrè mila giovani fortissimi, e tremila agguerriti figliuoli […] divina generazione italiana, rinata dopo venti e più secoli; e dalla quale era da sperare a ogni caso d’infortunio e di morte del Dittatore, e fra le perturbazioni dell’Europa, un vero principio d’indipendenza. Quelle altre parole, Pietà? Da chi?... Pietà non ebbi io mai. Obbrobrio, obbrobrio mi sarà lo scettro, S’io nol porto sotterra.... e non sel portò, e [i fatti] s’avverarono.39

A distanza di dodici anni il Foscolo, da tempo in Inghilterra, nella Lettera sente di avere presagito, indovinato, il destino del tiranno, di averne dipinto, nella tragedia, la disfatta finale (probante la citazione dei versi della Ricciarda, che così si rivelano così direttamente ispirati alle notizie dell’imminente disfatta).40 Abbiamo detto di Averardo, verosimilmente trasfigurazione eroica di Eugenio (tra l’altro Averardo e Guelfo sono fratellastri: ed Eugenio è figliastro di Napoleone). È ipotesi plausibile che la bontà angelica di Ricciarda si ispi39 Lettera apologetica, p. 35. 40 Ricciarda esorta il padre a fuggire con lei dalla rocca occupata dai nemici: «Te fuggir regalmente, / solo a salvar la figlia tua, vedranno: / avran pietà di noi prostrati all’ara»; e Guelfo così risponde: «L’abbian di te; d’essi io non l’ebbi io mai. Obbrobrio obbrobrio mi sarà lo scettro / se nol porto sotterra! - O donna fuggi: / sto co’ miei padri che non fur mai vili» (a. V, sc. V, vv. 106 - 112).

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ri a sua moglie, Amalia Augusta, figlia di Massimiliano, re di Baviera, dal 14 gennaio 1806, sposa di Eugenio. Personaggio che dovette colpire non poco il Foscolo, se è vero che nell’Inno secondo viene detta «madre del popol tuo» e «bella fra tutte figlie di regi»; e ancora, nella Lettera apologetica, a distanza di anni, figura: «figliuola di re, bellissima fra le giovani, e d’indole angelica, e madre di principi nati in Italia»: parole che mettono appunto in luce le virtù di Amalia, congiunte alla sua bellezza.41 Nel precipitare degli eventi la famiglia vicereale dovette apparire al Foscolo come il vessillo di salvezza: specie al ritorno di Eugenio dalla campagna di Russia, in quell’aprile incantato di Bellosguardo che pareva dischiudere il cuore alla speranza di una prossima liberazione. La «speranza» tradita. La parola speranza può essere individuata come vera parola ‘politica’ in questo momento storico, in cui dalle armate reduci dalla Russia si spera l’indipendenza: «O della speme, / cara d’Italia, e di tre regie Grazie / madre, e del popol tuo»: questa, nei Versi del Rito, vv. 48 - 50, l’apostrofe a Carlo Augusto, figlio di Amalia, Eugenio (versi che, come vedremo, accompagnavano la Ricciarda e, in qualche modo, ne chiariscono le ragioni della sua composizione). E già i Sepolcri, del resto, codificano la parola in chiave politica: «ove speme di gloria agli animosi / intelletti rifulga ed all’Italia / quindi trarrem gli auspici» (vv. 186 - 88). Il Foscolo non vuole essere, con la tragedia, profeta di sventura, ma allontanare un pericolo, una catastrofe. Continuerà a esorcizzarla ancora, tentando e ritentando la tela delle Grazie, come dice il Longoni, «cercando sempre più affannosamente di adeguarne il senso e lo scopo alla vorticosa involuzione degli eventi».42 La fine delle speranze determinerà l’abbandono delle Grazie. Il Foscolo si rifiuta di ultimarle dopo la fuga: da carme celebrativo della raggiunta indipendenza si sarebbero trasformate in inno consolatorio. Meglio condannarle al limbo delle opere incompiute. L’innocenza. La parola che contrassegna e marca la figura di Ricciarda è innocente, che ricorre con un’incidenza notevole, e già di per sé, significativa. Innocente si proclama sempre, di fronte alla sofferenza che altri le procura, o da quella di cui è causa involontaria: la sua aspirazione più alta è quella di passare immune attraverso i drammi che la circondano, di uscirne illesa nella coscienza. Questa è la sua sfida, questa alla fine, la sua vittoria: questo è l’eroi41 Osserva il Longoni (Opere, I, p. 623) che tali concetti si trovano sovente ripetuti anche nell’epistolario foscoliano: «amabilissima e dolcissima fra le donne» (Epistolario III, p. 232), o «bellissima giovine, e principessa graziosa, ed elegantissima quanto le Grazie» (Epistolario V, p. 290). 42 Opere, I, p. 578.

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smo di cui si ammanta. Forniamo qui di séguito una rassegna delle occorrenze più significative dell’epiteto: - dichiara a Guido nell’atto primo: «io potrò almeno / darti innocente il mio sospiro estremo», (a. I, sc. IV, vv. 253 - 54) - così dichiara il suo amore a Guido: «d’alto innocente eterno amore avvinta» (a. I sc. IV, vv. 223 - 24) - e di sé oppressa dal padre dice: «ei pronto / tien della figlia l’innocente sangue» (a. III, sc. II, vv. 35 - 36) - vicino alla tomba della madre dichiara: «A me talamo e reggia e asilo e speme/ fia questa tomba, ch’io tocco tremante; / e dove teco m’accorrai, tel giuro /infelice e innocente» (a. III, sc. VI, vv. 180 - 81). - e al padre che le dice: «GUE. tornerò a darti libertà sol io» risponde: «Dal ciel l’aspetto, ed innocente» (a. IV, sc. IV, vv. 212 - 13) - e ancora al padre: «Empio, contempla / tu padre hai morta l’innocente figlia» (a. V. sc. III, vv. 95 - 96) È come se la colpa uccidesse alla fine il sentimento dell’amore filiale, coniugale, di patria. Solo l’innocenza preserva, è scudo, è salvezza: se non della vita, dell’integrità, della propria eroica, incorrotta, coscienza. Diventa, dopo tante virtù di eroi combattenti, il vero scudo di questa ultima creatura foscoliana che calca la scena: una donna che ha la consistenza delle eteree creature che officiano all’ara di Bellosguardo alla quale tuttavia sia toccato in sorte di vivere e operare sulla terra: angelo caduto su un pianeta che non è il suo: «quando tu al cielo, / donde certo venisti a far tremende / di virtù prove, tornerai» (a. IV, sc. II, vv. 113 - 15). Ricciarda sembra insomma preannunciare i grandi spiriti prossimi a incarnarsi sulla scena, per i quali la terra non sembra più un luogo abitabile: spiriti afflitti dalle angustie dell’agire, dal sentimento sempre incombente della responsabilità e della colpa, all’angoscia del sangue versato da popoli inermi; desiderosi piuttosto di soccombere, di sacrificarsi, piuttosto che di macchiare la purezza dello spirito. Pensiamo ad Adelchi e ad Ermengarda. Nel trapasso epocale di due secoli, l’un contro l’altro armati, quando la storia sembra liquidare in breve, con un colpo di spugna, le speranze più generose di indipendenza, l’individuo cerca riparo in valori che salvino dalla rovina. Leggendo tuttavia la figura dell’eroina alla luce di ciò che accadrà di lì a poco, si corre qualche rischio. La sua innocenza è di natura in buona misura diversa, e ben foscoliana veramente: risiede essenzialmente nel non macchiarsi della colpa più grave che esista, quella di venir meno ai propri ideali. Sta insomma nel tener fede, sino alle estreme conseguenze (il morire; ovvero, che non è poi cosa molto diversa per lui, il fuggire in esilio), alla ‘speranza’.

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Appendice Teano, una tragedia di Melchiorre Missirini, dall’abbozzo alla stesura ultima In un percorso che cerchi di dare ragione, per quanto in maniera sintetica, della produzione drammaturgica italiana tra Settecento ed Ottocento in relazione al Canova non può non trovare spazio un’appendice sulle opere del letterato che allo scultore di Possagno fu più vicino, sia sul piano della sensibilità artistica che delle vicissitudini umane. Stiamo ovviamente parlando di Melchiorre Missirini, segretario personale e biografo di Antonio Canova, forlivese di nascita (nel 1773), ma arcade d’adozione, se l’Arcadia del Crescimbeni si può fingere una terra reale (“il vero tipo dell’Arcadico, il bello ideale di quella razza di accademici”43 lo definì, infatti, Gian Pietro Vieusseux nella lettera inviata da Firenze a Giacomo Leopardi il 4 dicembre 1828). Trascorsi i primi trent’anni nella città natale, “in fatiche improbe ed inenarrabili ne’ pubblici uffici e nella cattedra di eloquenza”44, Missirini si trasferì a Roma nel 1813 “per ammirarvi e studiare a ricreamento dell’animo li sublimi monumenti onde va adorna la capitale della Religione e delle Arti”45. Qui ebbe modo di conoscere Antonio Canova, che ne intuì le doti umane, oltre a conoscerne la vasta erudizione classica, e lo volle quindi come segretario personale, nonostante le perplessità iniziali del fratello Giambattista e di tanta parte della sua cerchia. Di questo fiducia Missirini volle ricompensarlo anche attraverso gli scritti critici e poetici, fusi insieme in quel genere letterario particolarissimo - e nuovamente portato in voga dal Monti della Prosopopea di Pericle e dal Foscolo delle Grazie - che è l’ecphrasis, che consiste per l’appunto nel descrivere delle opere d’arte (ad es.: dipinti o sculture) attraverso delle opere appartenenti un’altra disciplina artistica (ad es.: odi e sonetti). Di quest’arte Missirini, che aveva già dedicato una canzone a L’origine della pittura nel 1803 ed un poemetto a Le antichità di Ravenna nel 1804, offrì l’esempio sicuramente più alto con Sui marmi di Antonio Canova, che raccoglie quaranta tra odi, carmi e sonetti, editi nel 1817 a Venezia da Ricotti. Ristampata già nel 1823 da Seracchi, a Roma, la raccolta venne ampliata 43 G. Leopardi, Epistolario, a cura di G. Brioschi e A. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 1586. 44 Così li ricorda lo stesso Missirini nella “Dimostrazione dei veri motivi della partenza da Roma di Melchior Missirini” (riprodotta in A. Mambelli, L’abate Melchior Missirini e i suoi tempi, Forlì, P. Valbonesi, 1938, p. 137), stesa in occasione del secondo soggiorno fiorentino, che si sarebbe quindi protratto fino alla morte, nel 1849. 45 Ibidem.

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dai Versi inediti sulle opere di Antonio Canova … dettati da M. Missirini e dal cavaliere Luigi Ferrucci, pubblicati a cura di Francesco Longhena a Milano nel 1851, e quindi dopo la morte di Missirini, per le nozze D’Adda Salvaterra Botola, con i tipi di V. Guglielmini. Tra gli esempi di ecphrasis missiriniane si potrebbero citare, ancora, i sonetti sui Monumenti di Scultura e di Architettura (Roma, De Romanis, 1818), su La tomba di Virgilio (Napoli, Marotta e Vanspandoch, 1826), su La statua di Washington (sul numero del 23 gennaio 1841 del “Museo Scientifico, letterario ed artistico”), Di un dipinto di Enrico Monti alla pubblica esposizione di Brera in Milano (nel numero del 6 ottobre 1842 de “La Fama”), sul Senso allegorico della Statua colossale del Milone operata dal cav. Giuseppe Fabris e acconciata a pubblico monumento (s.d.), e All’immortale scultore Antonio Canova reduce di Parigi e di Londra nella circostanza che la sua Venere passa dalla Galleria Reale Palazzo de’ Pitti di Firenze e la Venere Medicea torna al suo antico luogo nella Tribuna (s.d.). I versi più celebri, dopo quelli raccolti nel 1817 Sui marmi di Antonio Canova, rimangono però i Monumenti delle Belle Arti esposti in versi colle loro dichiarazioni per cura del prof. M. Missirini (Firenze, Chiari e Figli, 1832), cui vanno aggiunte - almeno in linea teorica - le due odi inedite Venere, statua in marmo del prof. Canova e La danzatrice, statua in marmo del prof. Canova che Mambelli registra in appendice alla sua biografia senza specificarne, però, il luogo di conservazione. Missirini non scrisse, d’altra parte, versi unicamente per celebrare le opere di Canova, o per porsi - infelicemente - a gara col genio poetico petrarchiano, come accadrà col Canzoniere di Melchiorre Missirini, edito a Prato dai Fratelli Giachetti nel 1823. Già l’anno precedente, infatti, gli stessi Fratelli Giachetti avevano dato alle stampe la prima - e più fortunata - tragedia di Melchiorre Missirini, la Teano, che ripercorreva l’oscuro mito della regina d’Icaria, punitasi con la morte per non essere riuscita a liberare la via al trono ai propri figli naturali, minori d’età, eliminando quelli adottivi che ne vantavano il diritto. Scrivesi per Igino nella storia dei miti c.i 86 - racconta lo stesso Missirini nell’“Argomento” posto in testa all’edizione pratese del 1822 - che Melanippe figlia di Desmonte giovine di singolare bellezza fu compressa da Nettuno, per cui procreò due figli, chiamati poi Eolo, e Beoto. Fattosi di ciò accorto Desmonte comandò che quelli fossero esposti, ed abbandonati al loro destino. Lasciati perciò nella selva di Patmo, una vacca prese diletto a nutrirli, ed i custodi dell’armento, che scopersero il prodigio, li raccolsero. Intanto Metaponto re dell’Icaria privo di successione significò alla moglie Teàno, che ove non lo avesse fatto padre di eletta prole, era vôlto a 59

ripudiarla. Dessa spedì nascostamente per qualche fanciullo un suo confidente ai vicini pastori, che gli consegnarono li due gemelli ritrovati. Teàno li supplantò al re, che li credette suoi, e diede cura alla loro educazione. Se non che poi Teàno fu madre di due figli legittimi, ma tuttavia Metaponto amava sempre i primi, e Teàno pentita cercava levarli di mezzo, per non defraudare del regno i figli propri. Venne giorno in che Metaponto andò a sacrificare a Diana Metapontina, e la moglie colto il momento rivelò a’ suoi figli l’arcano, e gli incitò a pugnalare Eolo, e Beoto: ma questi soccorsi da Nettuno loro padre uccisero gli altri, e Teàno disperata rivolse il coltello contro se medesima.46

Con quest’opera Missirini intendeva porsi nel solco della tragedia “d’alto sentire” che risaliva - per il tramite dell’esempio alfieriano - ai modelli classici, combinando i temi politici (ovvero pre - risorgimentali delle tragedie di libertà47) con quelli filosofici (per una formazione stoica - cristiana dei nuovi principi48), così da giungere ad una vera e propria “rigenerazione” dei popoli attraverso la diffusione di “un nuovo sentire e un nuovo pensare”. È lo stesso Missirini a rivelarlo nella lettera che inviò da Roma, il 6 dicembre 1824, a Giacomo Leopardi insieme ad una copia della tragedia. Chiarissimo Signore - scrive infatti Missirini - La ringrazio senza fine delle sublimi Canzoni, che per sola sua infinita gentilezza ha voluto favorirmi; […] Ella sempre più con queste altissime rime mi fa risolvere a credere, che li poeti sono quelli che formano le rigenerazioni ne’ popoli: e già il divino Alfieri ce ne avea dato l’esempio, che ha formato in noi un nuovo sentire e un nuovo pensare49.

Il plico - l’aneddoto merita una digressione - Missirini, in realtà, non l’aveva spedito, ma consegnato al cugino di Leopardi, Giuseppe Melchiorri, che ne anticipò l’invio al poeta per lettera il 12 dicembre: 46 M. Missirini, Teano, Prato, Fratelli Giachetti, 1823, argomento premesso al testo in pp. non numerate. 47 Si osservi, ad esempio, la denuncia del primato della violenza sul diritto vantato da una tirannica Teano per ascendere al potere ai vv. 35 - 37 della I scena del V atto nella prima stesura della tragedia (“A fortunata impresa / S’applaude, e niun de’ vincitore il dritto / Nei trionfi ricerca”), vanto ripreso ed ulteriormente sviluppato ai vv. 68 - 71 dell’atto IV, scena 3 (“il secol tardo chiede / chi vinse, e non per cui: gloria d’eroi / lampo è in battaglia, che dilegua e passa, / e i suoi splendor sul regal serto aduna!”) e ai vv. 115 - 118 (“Più fermo è il soglio ove la base pianti / Sulla ruina de’ congiunti, e meglio / tratta lo scettro audace man che pria / Il petto inerme de’ cognati invase.”) della seconda stesura. 48 Si guardi alla replica di Polinesto al lamento di Beoto che “Qual si educa al soglio / Cinto è da orrendi mali a ogni altro ignoti”: “Prelibaste appena / i primi sorsi dell’amara tazza / Incliti prenci! Ma riposta ha Giove / l’alta gloria dei Rè nel vincer l’ire / di nemica fortuna! Osate: infuria / Dira la parca con chi più s’atterra, / Cedea chi pugna! Con gagliardo piede / Virtude incede generosa, e calca / I fati indegni, e il rio destin corregge!” (vv. 8 - 9 e 15 - 23, scena IV, atto II dell’edizione del 1822). 49 G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 827 - 28.

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Nell’altro corso di posta ti manderò varii libri, fra l’altri una tragedia di Missirini, con una sua lettera per te. Egli ti ringrazia in quella delle Canzoni.50

Melchiorri attese, poi, fino al 9 gennaio dell’anno successivo per fargli avere il volume promesso, tanto che temendo l’irritazione del Missirini cui aveva detto di aver consegnato l’opera immediatamente - chiese al cugino di mentire su questo ritardo nell’eventuale ringraziamento al donatore: Caro Giacomo - scrive Melchiorri - Eccoti la lettera di Missirini, e la sua tragedia Teano. Se credi, rispondigli due righe, onde comprenda che l’hai ricevuta, e digli che è del tempo, poichè gli avevo detto che l’avevo già spedita.51

Leopardi, però, non se la sentì di assecondare la malacreanza del cugino, e nella missiva al Missirini del 15 gennaio 1825 rivela Pregiatissimo Signore. Solo coll’ultimo ordinario ho ricevuta la stimatissima Sua dei 6 dicembre insieme colla tragedia Teano. Perciò la prego a non imputarmi la tardanza della risposta.52

Aneddotica a parte, la lettera di Giacomo Leopardi rimane centrale per la fortuna della tragedia missiriniana, rappresentandone certamente l’esame più acuto di sempre, sia sul piano formale (di cui loda la “dignità e robustezza”) sia su quello dei contenuti (col riferimento, in particolare, al carattere “restaurativo” della scelta dell’argomento). Molte cose mi sono riuscite ammirabili nella sua tragedia - osserva, infatti, Leopardi nella stessa lettera - e fra le altre la nobiltà e la forza. Certo la nostra letteratura non sarebbe così guasta, come Ella dice, da tanti sdolcinamenti, se molti scrittori e molti poeti volessero o piuttosto potessero scrivere con quella dignità e robustezza che Ella vuole e sa usare. Lodo anche molto - prosegue il poeta dei Canti - che Ella abbia eletto a porre in tragedia un argomento tratto dalle favole d’Igino, le quali Ella sa che il Maffei ed altri critici non credono essere altro che gli argomenti delle antiche tragedie greche o latine. Bella impresa è quella di riparare in certo modo alla perdita di tante insigni opere dell’antico teatro ateniese e romano, con render corpo e vita alle ossature e agli scheletri che ne rimangono in quello scrittor di favole.53

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Ivi, p. 833. Ivi, p. 840. Ivi, p. 844. Ibidem.

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Leopardi sembra qui condensare lo spirito stesso della scrittura cosiddetta pre - romantica, nella quale l’ossequio ai modelli antichi si combina con l’urgenza di una scrittura originale, o comunque vissuta con l’atteggiamento sentimentale di chi vuole parlare nella (e della) modernità con la stessa immediatezza ed inegnuità con cui gli antichi avevano parlato ai loro contemporanei. Missirini ha, infatti, il merito - secondo Leopardi - di aver fatto rivivere una favola antica, facendo appello al precetto della retorica classica dell’imitatio, ma ha anche quello di aver scritto un’opera nuova - ovvero di aver dato nuovi “corpo e vita” all’argomento iginiano - esattamente come dovevano aver fatto, ai propri tempi, gli antichi. Missirini sembra, cioè, apparire agli occhi di Leopardi non solo e non tanto un “neoclassico”, ovvero un imitatore delle opere degli antichi, ma un “nuovo classico”, cioè un classico redivivo, qualcuno in grado di trasfigurare la realtà in arte con lo stesso spirito ed atteggiamento degli antichi. Con questa interpretazione Leopardi sembra voler porre la Teano sotto il segno di quello stesso principio di “riparazione” e di “ripristino” del “concerto interrotto” con il mondo antico - ovvero con la natura - che lui stesso aveva illustrato e vagheggiato, con ben altri esiti artistici, nelle Canzoni inviate in omaggio a Missirini l’anno prima. Anche in questo, in una possibile affinità elettiva (quella che aveva legato Missirini a Canova, e che Leopardi doveva aver sentito, a sua volta, per il Canova54), va forse ricercata la ragione dell’entusiasmo leopardiano per la tragedia - invero mediocre - di Missirini, e non solo nella necessaria condiscendenza da parte del poeta nei confronti di una delle figure più in vista e potenzialmente influenti della Roma della Restaurazione, verso la quale si era peraltro già macchiato di un’involontaria insolenza all’indomani dei funerali del Canova stesso55. 54 Basti leggere, a questo proposito, la lettera che Leopardi inviò il primo Febbraio 1823 da Roma a Pietro Giordani: “Che ti dirò di Canova? Vedi ch’io son pure sfortunato, come soglio, poichè quando aveva pure ottenuto, dopo tanti anni e tanta disperazione, d’uscire dal mio povero nido e veder Roma, il gran Canova, al quale principalmente era vòlto il mio desiderio, col quale sperava di conversare intimamente e di stringer vera e durevole amicizia col mezzo tuo, appena un mese avanti il mio arrivo in questa città piena di lui, se n’è morto.” Ibid., p. 643. 55 La “storiella”, come la definisce Leopardi stesso, è puntualmente narrata dal poeta nella lettera al padre del 15 marzo 1823: “Al pranzo, del quale ella mi domanda, dato da Monsig. Mai, fummo il Dott. De Matthaeis che gode qui molta opinione in letteratura (ossia in Antiquaria), Monsig. Marini nepote del famoso Gaetano Marini e suo successore nell’impiego di Archivista vaticano, l’Ab. Palcani ex gesuita, un ecclesiastico che non conoscevamo, ed io. Cadde il discorso sopra i celebri funerali di Canova fatti qui pochi giorni avanti, e sull’Orazion funebre recitata dall’Ab. Missirini, la quale non valeva nulla; ma il Carnevale e l’Orazione del Missirini erano i discorsi della giornata, e conveniva adattarvisi. Io dissi sopra quella Orazione il mio parere, che fu seguito e confermato dagli altri, fuorché da Monsig. Mai, che per accidentalità non attese al discorso. In somma l’Orazione fu disapprovata a pieni voti. Dopo il pranzo, avanti di prendere il caffè, si seppe che quell’Ecclesiastico sconosciuto era l’Ab. Missi[rini], che Monsig. Mai aveva inavvertitamente trascurato di far conoscere ai commensali. Dispiacque a tutti l’inconveniente; ma non essendovi neppur luogo a scuse, convenne dissimulare.

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Non fu, quindi, forse, di sola circostanza l’auspicio espresso nelle righe seguenti da un Leopardi che sembra condividere con Missirini non solamente il modello classico ma anche quello alfieriano. Leopardi non si limita infatti ad osservare: Dal vedere come Ella abbia saputo trattare questo argomento greco, prendo gran desiderio di conoscere come Ella abbia trattato quell’argomento italiano di cui mi scrive; ed avrò per carissimo che Ella si compiaccia di comunicarmi quella sua nuova tragedia, dove Ella avrà certamente avuto più luogo a dimostrare l’affetto e l’anima verso la patria, ed a seguire quel grande scopo nazionale di Alfieri, del quale principalmente intesi parlare quando dissi che niuno era per anche sceso nell’arena dietro a quel tragico, sebbene più d’una tragedia, degna della scena per altre doti, abbia poi veduta la luce in Italia56.

ma assume toni propriamente alfieriani laddove si dice d’accordo con Missirini sul fatto che chiunque in Italia vuol bene, profondamente e filosoficamente scrivere e poetare, dee porsi costantemente nell’animo di non dovere nè potere in nessun modo essere commendato nè gustato nè anche inteso dagl’Italiani presenti.57

Leopardi ringrazia quindi Missirini del piacer vero e grande che Ella mi ha somministrato colla sua Teano, attendo l’adempimento della sua promessa circa l’altra sorella, con tanto maggior desiderio quanto è maggiore la virtù della prima.58

Ed in effetti Missirini, oltre alla Teano, compose diversi altri drammi, ovvero: - la tragedia Massenzia, edita insieme alla Teano a Firenze, da Fabris, nel 1843, che rende omaggio alla moda orientaleggiante pur combinandola con i temi del gotico cristiano (tratta, infatti, delle disavventure della figlia del re di Corea, convertitasi al cristianesimo, alla corte imperiale del Giappone, dove è stata tratta prigioniera e dove viene fatta Usciti di là, io non parlai, ma tutti gli altri, e lo stesso Missirini, raccontarono subito il fatto a mezzo mondo, e tutta Roma letterata fu piena di questa bagattella, della quale Missirini ed io fummo i protagonisti, perchè gli altri erano venuti dietro al parer mio. Veramente le risate che furono fatte di questo incidente in vari luoghi non furono alle mie spalle. Seppi poi che Missirini aveva mandati a Monsig. Mai certi pettegolezzi perché li rimettesse a me, e che monsignore era stato a posta da lui e l’aveva persuaso a non farne altro. Le ho raccontato questa storiella per ubbidirla.” Ibid. 56 Ibid., pp. 844 - 45. 57 Ibid., p. 845 58 Ibidem.

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oggetto della crudeltà dei sacerdoti giapponesi, adoratori della Dea Natura, contro cui nulla può neanche l’affetto e la protezione dell’imperatrice stessa), - il dramma in 4 atti Abdalla e Balsora, di cui il Fondo Piancastelli conserva il manoscritto autografo, e che narra una vicenda analoga - ma a lieto fine - a quella di Romeo e Giulietta, ambientata questa volta nella Persia delle Arabian Nights già divulgata in Europa ed in Italia dal Joseph Addison di The Guardian; - la tragedia Caterina Cornaro, da identificarsi forse con quella “tutta d’italiano argomento” cui fa riferimento Missirini nella lettera a Leopardi, registrata come “scritto inedito” da Antonio Mambelli nella sua biografia del 1938, senza indicazione anche in questo caso del luogo di conservazione, i cui contenuti appaiono comunque facilmente desumibili dal titolo (Caterina Cornaro non è, infatti, altri che la Regina di Cipro, nella cui villa Bembo ambientò i dialoghi Asolani ed alle cui vicende si ispirarono anche Fromental Halévy per il grand - opéra La Reine de Chypre del 1841 e Gaetano Donizetti per l’opera Caterina Cornaro del 1844). La sua immagine di poeta tragico rimase - e rimane - comunque principalmente legata alla Teano, cosa di cui lo stesso Missirini dovette essere cosciente se dopo averla data alle stampe nel 1822 a Prato con i Fratelli Giachetti decise di rivederla integralmente e di darla quindi nuovamente alle stampe, questa volta a Firenze, per i tipi della Tipografia Fabris nel 184359. È lo stesso Missirini a sottolineare la radicalità della riscrittura con una nota manoscritta in entrambe le copie dell’edizione pratese conservate presso la Biblioteca “A. Saffi” di Forlì: In quella con segnatura MS V 26/17 Missirini annota, infatti: Questa tragedia è stata poi da me variata, e stampata dal Fabbris in Firenze

mentre in quella conservata nel Fondo Piancastelli con segnatura Autori Busta 118/2 indica più puntualmente: Questa tragedia fù un primo abbozzo: fu poi rivoltata da capo a fondo, e ridotta di due gemelli, ad un solo figlio, con molte altre variazioni

Il nuovo argomento della tragedia recita infatti

59 Mambelli offre come prima data di stampa della nuova versione il 1825, ma di questa presunta edizione fiorentina non abbiamo trovato testimonianza od altra citazione, mentre si conserva presso il Fondo Piancastelli un manoscritto della seconda versione tragedia, datato 1843, con timbri e nulla - osta per la stampa delle censura di Firenze.

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Melanippe prole del Re Desmonte partorì un figlio per amplessi furtivi, e benché protestasse di essere stata compressa da Nettuno, il Re ordinò che quel bambino fosse esposto in una selva vicina, ove venne raccolto dal pastore Admeto. Metaponto Re d’Icaria minacciava in quel tempo di ripudiare Teano, vedendola sterile, ma essa, coll’opera di Polinesto suo confidente, impetrò dal suddetto Pastore il putto ritrovato, e con donnesca scaltrezza indusse il marito a crederlo suo proprio. Se non che, avendo poi Teano dato in luce un suo vero figlio, agitata da quella fatalità, che tante volte fu il fondamento delle tragedie greche in argomenti de’ tempi eroici, prese ad odiare, e voler morto il figlio, che avea supplantato: ma alla fine scovertasi la sua frode, ella disperatamente si uccise.60

La riduzione “di due gemelli, ad un solo figlio”, è però soltanto l’esempio più evidente del più generale processo di concentrazione e di intensificazione drammatica che interessa l’intera tragedia. In questa nuova versione, infatti, facendo propri i principi della tragica alfieriana, Missirini elimina tutti i possibili sviluppi laterali (come il tentato assassinio di Polinesto) ed accentua la conflittualità - sul piano morale del confronto fra i due fratelli superstiti, ovvero tra Beoto (“d’ogni virtude adorno”, atto II, scena 1, v. 20) e Creone (“duro, fiero, e fermo in rei proposti, … ed invido al fratel, quanto è diverso!”, atto II, scena 1, vv. 27 e 30). La riduzione, poi, del numero dei fratelli da quattro a due consente a Missirini di adottare un’altra soluzione altamente drammatica di ascendenza alfieriana, quella della trasfigurazione in forma dialogica - ovvero della messa in scena diretta - del conflitto interiore e della conseguente dissociazione dell’interiorità, particolarmente evidente nelle prime battute del quinto atto, laddove Creonte si chiede “Che fare ahi lasso!... In tal cimento e danno / la madre lascierò?…”, certamente più intense di quelle con cui si apre la V scena del III atto nella prima stesura laddove i due fratelli si chiedono: Ipseo: Madre è Teano, o delle Eumenidi una? Chi la comprende? chi gli atroci sensi Le spira?…. Mesto ti rimani? Creone: Assorto In tal d’orrore, e meraviglia abisso M’han sue parole, che raccor lo spirto Mal posso!

riprendendo, tra l’altro, una domanda già rivolta nel II atto da Beoto al fratello ed a Polinesto: “È madre o furia?” (v. 1, scena IV)

60 M. Missirini, Teano, Firenze, Fabris, 1843, argomento premesso al testo in pp. non numerate

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Degno di nota è poi il combinarsi al modello alfieriano dell’antitetico modello manzoniano, con l’introduzione in apertura di III atto di un “coro di popolo diviso in due parti” (ovvero un “coro di sacerdoti” ed una più generica “altra parte del coro”) che esalta - in coppie di quartine di decasillabi, unite alla rima del primo verso e caratterizzate in due casi su tre dal ricorso alla rima tronca nel verso di chiusura, sulla scorta dell’esempio del Conte di Carmagnola - le qualità di governo ancor prima che belliche di Beoto (“E non curi di bellico orgoglio, / che ti spianan la strada del soglio / Bontà, senno, dolcezza e valor”), contrapponendo il “serto de’ carmi” cantati con cuore sincero, in suo onore, dal popolo61, al “regal serto” del tiranno che risplende delle glorie altrui cui farà riferimento Teano nella terza scena dell’atto successivo62. Oltre ad Alfieri e a Manzoni, c’è un terzo - almeno possibile - modello che merita di essere posto in evidenza, un modello non della prima o della seconda stesura, ma del passaggio dall’una all’altra. Ed il modello è Canova. A suggerirlo è l’appunto manoscritto registrato da Missirini nella copia dell’edizione del 1822 conservata nel Fondo Piancastelli con segnatura Autori Busta 118/2 che abbiamo già ricordato, ovvero: Questa tragedia fù un primo abbozzo: fu poi rivoltata da capo a fondo, e ridotta di due gemelli, ad un solo figlio, con molte altre variazioni

Abbozzo per Canova - e per chi Canova assisteva quotidianamente, descrivendone in versi e in prosa le sculture già dalla metà degli Anni Dieci del XIX secolo - non era un termine qualsiasi, ma stava ad indicare una ben determinata fase del processo creativo, la prima propriamente plastica dopo la stesura dei disegni, cui facevano seguito la modellazione in creta (a grandezza naturale), il calco in gesso e, finalmente, la trasposizione nel marmo con gli interventi conclusivi di Canova stesso. Con la scelta del termine “abbozzo” per indicare la prima versione della Teano Missirini sembra cioè volerne sottolineare - ovvero riconoscere a posteriori - il carattere strumentale rispetto alla seconda. Non si tratta semplicemente di due versioni dello stesso mito, elaborate ad altezze cronologiche diverse e dotate, come tali, di una propria autonoma e distinta dignità artistica, ma delle diverse fasi di un percorso unitario che mira a tradurre in realtà un modello ideale. “Bella impresa - aveva scritto Leopardi a Missirini a proposito della Te61 Ai vv. 17 - 20: “Pur ti piaccia cortese / Questi canti, che parton dal core / Il cuor nostro per renderti onore / Più bel serto de’ carmi non ha”. 62 Ai vv. 68 - 71: “il secol tardo chiede / chi vinse, e non per cui: gloria d’eroi / lampo è in battaglia, che dilegua e passa, / e i suoi splendor sul regal serto aduna!”.

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ano - è quella di riparare in certo modo alla perdita di tante insigni opere dell’antico teatro ateniese e romano”63, bella come l’impresa compiuta da Canova riparando alla perdita (almeno per l’Italia) dell’Apollo del Belvedere e della Venere dei Medici con il Perseo trionfante e la Venere Italica. Imitando Canova, e riproducendo il suo processo creativo, anche Missirini intese sfidare l’antico reinventando (e supplendo) la Teano perduta di cui Igino aveva tramandato l’argomento, attraverso un processo avviato con l’abbozzo del 1822 e concluso con la stesura del 1843. La Teano del 1822 si configura, quindi, nella lettura che ce ne offre lo stesso Missirini, come la “stesura di getto” di un’idea tragica che per realizzarsi non richiede semplicemente delle varianti d’autore da condursi sul primo scartafaccio, ma delle stesure integralmente nuove, così come i modelli in creta (od i calchi in gesso) sviluppano le forme del primo abbozzo di terracotta senza intervenire direttamente su di esso. Questo processo compositivo per riscritture che non intacca la stesura di primo getto, per intervenire eventualmente sulla seconda o sulla terza, e che recupera talvolta, nella stesura finale, soluzioni del primo abbozzo abbandonate nella fase intermedia, appare con maggiore evidenza nelle composizioni in versi più brevi come le ballate estemporanee del 1844, su cui abbiamo avuto modo di soffermarci altrove64, ma sembra aver interessato in qualche misura anche il dramma di maggior successo di Missirini, che forse proprio per questo sentì la necessità di non abbandonarlo alla fase del primo abbozzo ma di dargli una forma più compiuta, di spingerlo oltre nel percorso di avvicinamento - ovvero di ricerca e di tensione - al bello ideale cui si informava la poetica neo - classica. Perché si possa cogliere direttamente sui testi questa tensione al perfezionamento e le strategie retoriche messo in atto a tal scopo, riproduciamo qui di seguito, per la prima volta insieme, le due versioni della tragedia, ovvero nelle pagine pari l’edizione Giachetti del 1822 ed in quelle dispari la Fabris del 1843.

63 Cfr. nota 11. 64 Cfr. A. Cristiani e P. Rambelli, Antonio Canova e il suo segretario: tra le carte di Melchiorre Missirini, negli atti del convegno del Centro Pio Rajna “Di propria mano” tenutosi a Forlì nel novembre del 2008, in corso di stampa per la casa editrice Salerno di Roma.

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Errata corrige posta in calce all’edizione Prato: Giachetti, 1822

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Profilo dei relatori

Arnaldo Bruni, ordinario di letteratura italiana all’Università di Firenze, direttore della rivista di letteratura italiana Seicento & Settecento, è uno dei più importanti studiosi viventi non solo di Vincenzo Monti, ma di tutta la produzione letteraria italiana sette - ottocentesca. Tra le sue monografie meritano di essere citate a questo proposito almeno G. Parini, La Gazzetta di Milano (1769) (Milano - Napoli, 1981), Foscolo polemista: dall’“Orazione inaugurale” al “Ragguaglio di un’adunanza dell’Accademia dei Pitagorici” (Modena, 1994) V. Monti, Aristodemo (Milano, 1998), Iliade di Omero. Traduzione del co. Vincenzo Monti, II - 1 - 3 (Il manoscritto Piancastelli), edizione critica (Bologna, 2000), Vincenzo Monti, L’Iliade di Omero (Roma - Salerno, 2004), A gara con l’autore. Aspetti della traduzione nel Settecento (Roma, 2004), V. Monti, Galeotto Manfredi (Bologna, 2005), Monti nella cultura del suo tempo (Milano, 2005), Foscolo traduttore e poeta da Omero ai “Sepolcri” (Bologna, 2007). È stato tra i fondatori del Centro Interuniversitario per lo Studio del Classicismo tra Settecento e Ottocento con sede a Forlì. Francesco Giardinazzo è docente a contratto di Teoria e analisi del testo letterario presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università di Bologna. Ha collaborato e collabora all’ideazione ed alla realizzazione di diversi progetti culturali, producendo diversi contributi critici relativamente alla letteratura e alle arti. Tra le pubblicazioni, si rammentano: D’Annunzio 1895. Un viaggio in Grecia (Firenze: Aletheia, 19961; Firenze: Nardini, 20052); Cercare il volume. Saggi danteschi (Guaraldi: Rimini, 1998); La voce e il vento. Variazioni su L’infinito di Leopardi (Firenze: Aletheia, 2001); Il gesto di Hermes. L’ermeneutica, i classici, la modernità letteraria (Hölderlin, Flaubert, Broch, Pound) (Bologna: Gedit, 2007); La culla di Dioniso. Storie musicali del passato prossimo, prefazione di D. Rondoni (Milano: Marietti 1821, 2009). Collabora inoltre col “Centro Diego Fabbri” di Forlì; è membro della The James Joyce Italian Foundation, della Fondazione Centro Studi Tonino Gottarelli di Imola, del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna ed è docente presso il Centro Internazionale della Canzone di Bologna. 107

Donatella Martinelli, docente di lingua italiana presso l’Università degli Studi di Parma si è formata al Collegio Ghislieri di Pavia e, in qualità di comandata, presso l’Accademia della Crusca, dove ha svolto ricerche sul Fondo di carte e libri del Tommaseo, e presso il Centro Nazionale di Studi Manzoniani, con l’incarico di pubblicare le Postille di letture varie del Manzoni nell’Edizione Nazionale delle Opere. Membro del comitato di redazione dei «Quaderni dell’ingegnere», attende attualmente al terzo volume dell’Edizione critica dei Promessi sposi (1827) diretta da Dante Isella. Tra le pubblicazioni, oltre all’edizione commentata di Poesie e Sepolcri di Ugo Foscolo (Milano, 1985), Ancora sulle fonti dell’«Ossian» nell’«Ortis» (in Otto/ Novecento 1983), La prosa dell’Ottocento. Il teatro, La tradizione dei testi, con S. Casini (in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Roma, 2001), Alberi e fiori sui sepolcri (e altri motivi della polemica foscoliana sull’editto di Saint - Cloud) (in Dei Sepolcri di Ugo Foscolo (Milano, 2006). Paolo Rambelli, docente di letteratura italiana presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori dell’Università di Bologna, è stato tra i fondatori del Centro Interuniversitario per lo Studio del Classicismo tra Settecento e Ottocento con sede a Forlì. Tra i suoi contributi su tale periodo Il ripristino del concerto interrotto ovvero la mitologia della vitalità nei “Canti” di Leopardi (in Lingua e stile, 2001), La scoperta dell’Io e la (ri)costruzione della figura del letterato nelle prose e nelle tragedie di Alfieri e La rilegittimazione della figura dell’intellettuale nell’opera in prosa di Ugo Foscolo (in Critica letteraria, 2002 e 2004), The Role of Pseudotranslations in the Establishment of Authorship: the Case of eighteenth - century Italian Novelists (in Translating others, Amsterdam, 2006). Dal 2004 collabora alla programmazione degli Incontri Internazionale Diego Fabbri e fa parte del comitato scientifico del Centro Diego Fabbri di studi, ricerche e formazione sul teatro e i linguaggi dello spettacolo.

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Indice

Prefazione.................................................................................................................................... pag.

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ARNALDO BRUNI Sul teatro tragico di Vincenzo Monti: il Galeotto Manfredi ............................

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PAOLO RAMBELLI Il teatro tragico di Alfieri. Dal conflitto esterno a quello interno .................... 11 FRANCESCO GIARDINAZZO Metastasio “poeta di teatro” ...................................................................................................... 23 DONATELLA MARTINELLI Tra speranza e innocenza. Invito alla lettura della Ricciarda del Foscolo .............................................................. 42 Appendice Teano. Una tragedia di Melchiorre Missirini, dall’abbozzo alla stesura ultima, a cura di Paolo Rambelli......................... 58 Profilo dei Relatori ........................................................................................................................ 108

Finito di stampare nel mese di Marzo 2009 da Tipolitografia Valbonesi - Forlì

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