Big Eyes: cinema, amicizia, arte

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Big eyes è un film d'amore. È la storia d'amore fra un artista e il suo lavoro; fra l'anima umana ed una tela dipinta. È come un vortice che cresce progressivamente: Margaret Ulbrich scappa a San Francisco per amore della figlia; fa passare i suoi quadri per opere d'arte del marito, che crede di amare davvero; per amore di se stessa continua la pagliacciata dopo il divorzio, fin quando non denuncia lo sbaglio di una vita nel 1970, per amore dell'arte. Ed è stato strano e quanto mai sorprendente (prima di fare ricerche) notare che la regia di Tim Burton ha rispettato pienamente la vera storia di Margaret Keane: il divorzio dal marito una volta scoperto l'inganno, la conversione come testimone di Geova, il processo, la vittoria ed il risarcimento. Fra l'altro l'attrice che interpreta la protagonista (Amy Adams) ha svolto un lavoro splendido, in particolare nell'interminabile istante in cui si trova nel limbo, senza sapere cosa sia giusto o sbagliato. O meglio. Senza sapere come svelare a se stessa quanto stesse sbagliando. Sempre per amore. Innamorata della novità, innamorata della prospettiva di vita che le offriva Walter Keane, cioè una sistemazione per sé e la figlia. Infatti all'inizio del film si vede benissimo che i due non hanno proprio nulla in comune, se non la stessa apparente passione dell'arte. Solo che per Margaret si trasforma in una replica di se stessa all'interno di quei grandi occhioni bambini, mentre il marito viene travolto dal desiderio di successo e di denaro che ne consegue. Come una droga, non riesce a fermarsi. Intuisce da subito il potenziale artistico della sua futura consorte e ne approfitta. Sebbene possa aver provato un sentimento vero (cosa che comunque non va esclusa del tutto), questo è durato attimi: quelli in cui la guardava negli occhi chiedendole col cuore di mentire. E lei mentiva, mentiva costantemente. Dopo aver colto in flagrante il meschino inganno; dopo averlo accettato e fatto proprio. "Ma per quanto può andare avanti?", mi sono chiesta. Be', va avanti fino a dieci anni dal definitivo divorzio, il che non è poco. Ed ancora una volta lo fa per amore, ma stavolta di se stessa. E la figlia, prima vittima innocente, ora adolescente, è finalmente consapevole, è la coscienza che Margaret non ha voluto ascoltare. Perciò decide che non se ne può più. È durata abbastanza da far crescere in lei la consapevolezza che avrebbe dovuto avere dall'inizio. È facile dirlo da fuori però. Ho come l'idea che tutti gli eventi, ogni singola mossa fatta a San Francisco, a partire dalla proposta di matrimonio, l'abbiano caricata come una bomba ad orologeria. Sempre pronta ad esplodere, eppure mai abbastanza. Il momento in cui veramente sembra sia arrivata al limite è quando Walter impazzisce e inizia a gettare fiammiferi accesi nella stanza in cui si sono rintanate lei e la figlia… insieme a tele ed acquaragia. In quel punto della sua vita la bomba si carica esponenzialmente, tuttavia manca ancora qualcosa, ma nella tranquillità della sua vita alle Hawaii basta una scintilla a far scoppiare il caos, e portarla finalmente alla libertà.
Ora uscendo di poco fuori dall'atmosfera del film, dietro c'è davvero una bella storia. Innanzitutto il regista, Tim Burton, è amico sincero di Margaret Keane, ed ha acquistato sue opere in "tempi non sospetti". Ed è vero che ci troviamo di fronte ad una delle più grandi frodi del secolo scorso, al punto che vinto il processo le sono stati restituiti 4 milioni di dollari per i danni. Come se la mancanza di rispetto e tutte le bugie potessero essere quantizzate e misurate in soldi. Comunque, data l'amicizia che lega i due, sembra che il regista voglia allo stesso tempo comparire nel film e scomparirvi nel personaggio di Dick Nolan, giornalista di una rivista scandalistica che racconta la storia con l'occhio intelligente del narratore esterno. Si tratta d'altra parte di un'epoca in cui l'arte femminile fatica ad emergere con le proprie armi, e necessita dunque di quelle altrui: Margaret Keane è a suo modo una pioniera della donna che sale alla ribalta. Perché con la dichiarazione della paternità delle opere la bomba finalmente esplode, ma è col processo e la vittoria che iniziano a vedersi i "danni". Walter chiaramente sprofonda nella vergogna, eppure è presuntuoso ed ignorante fino alla fine. Ma il "danno" più evidente è il sorriso sulle sue labbra quando mostra raggiante la prova che l'ha definitivamente liberata: il quadro che ha composto nella sala del tribunale per dimostrare che l'artista è lei.
Dunque un personaggio forte di per sé, che però non può fare a meno degli altri: la migliore amica, DeeAnn (interpretata da Krysten Ritter), che la sostiene all'inizio e si fa cacciare di casa perché ha capito tutto; la figlia Jane, che dopo averne passate di tutti i colori da piccola spinge la madre a farsi avanti; ed infine lo scellerato e machiavellico Walter Keane, interpretato da Christoph Waltz così bene che riesce a farsi amare da subito ed odiare fino alla fine. Sebbene abbia il compito principale di far risaltare l'iniziale sottomissione della moglie, la caratterizzazione propria è evidente.
Un film dunque riuscito, giostrato bene. Basti ricordare che parliamo di Tim Burton. Tante nominations, infatti non ha riscosso il successo meritato. Del resto nasce dalla verità e dalla sincerità di un rapporto vero, come sincera e reale era l'anima espressa dai big eyes.

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