Cascina Novecento

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Gioacchino Allasia

Cascina NOVECENTO Tradizione contadina, emigrazione e radici nell’Italia del secondo dopoguerra

Prefazione di Amasi Damiani Introduzione di Luigi Botta

infinito e d i z i o n i

Introduzione di Luigi Botta scrittore, giornalista, docente eminente esperto della vicenda di Sacco e Vanzetti

S

ogni o realtà! Gli uni e le altre! Leggere le vicende che Gioacchino racconta a volo d’uccello, tra Boston e Murello, Murello e Boston, scavalcando spazio e tempo per immergersi nel magma più fluido di un fuso orario sempre in movimento, sollecita un po’ d’invidia. Gioacchino si diletta a sostenere che prima o poi la memoria del vissuto finisce per condividere ogni cosa e, come un “passato di verdura” cotto sul fuoco nel quale mani sapienti triturano di tutto, inclusi i gusti tra loro in perenne antagonismo, – riuscendo ad amalgamarli intelligentemente e a dare origine a un composto dalla nuova identità e dalla rinnovata qualità – così il confine tra l’una e l’altra circostanza si trasforma in labile pensiero, sino a identificare il trascorso – vero o presunto – come il frutto di una somma, non algebrica, di quanto si è vissuto o si è sognato. A dire il vero l’invidia nasce non tanto dal racconto quanto dalla predisposizione al racconto. È cosa concessa a pochi il permettersi di narrare di se stesso e del proprio trascorso, farlo affrontando con disinvoltura – per il piacere recondito di rileggersi e per l’interesse di chi si avvicinerà ai testi e li condividerà – le storie che si intercalano secondo una casualità apparente ma con un’attenzione scrupolosa e ben meditata. Murello, nel percorso a ritroso compiuto alla ricerca di un’identità le cui radici appartengono ai profumi della terra che dà origine all’autore, è la realtà. Boston è la fantasia, nonostante rappresenti la concreta trasformazione dell’essere e diventi lo stimolo al futuro attraverso le proposte esistenziali cresciute nel tempo. 11

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Gioacchino – con cui l’amicizia è antica e appartiene forse a quei profumi che nascono come il maggengo nelle primavere cuneesi, segnate per tutti dal profilo energico e voglioso di un padre naturale, il Mons Vesulus di Virgilio e Leonardo, il Monviso – vive le sue due realtà in modo quasi parallelo e si permette, se il caso, di conflittualizzare tanto con l’una quanto con l’altra, vezzeggiandosi nel piacere del racconto e nella rilettura critica del suo profilo biografico, nato a ridosso della tradizione delle Alpi Cozie e consumato nell’eclettismo di una città, Boston, Massachusetts, che s’affaccia sull’Atlantico alla confluenza dei fiumi Charles e Mystic, di fronte al Boston Harbor e alla Quincy Bay, disseminata di un numero indefinito di isolotti dai nomi affascinanti, che danno vita a un arcipelago senza fine. Murello e Boston, Boston e Murello. Murello – meno di mille residenti (con un massimo di 1.600 nella seconda metà dell’Ottocento) e una densità di 55 abitanti per chilometro quadrato, contro i quasi 2.800 di Boston – è l’essenza di un paese di campagna saldamente costruito su una tradizione che non è esclusivamente agricola ma si genera, nei tempi delle vicende medioevali, in una ridda di avvenimenti vissuti dal popolo, dalla nobiltà, dalla borghesia e dal clero, costruiti con la spada e con la penna (con un fondamento, quindi, strutturalmente culturale) alla conquista di una libertà che non può non appartenere all’infinito a chi nella comunità ha avuto i suoi natali. C’è il sindaco, il farmacista (il vecchio speziario la cui bottega si apre sotto un affresco della Sindone di savoiarda memoria, sintomo forse di un passaggio in paese non documentato del “lenzuolo”), il parroco e la confraternita, l’osteria, la scuola e il panettiere. Un tempo anche il cantastorie. Un mondo che si apre e che si chiude, nel quale tutti si conoscono per nome, cognome e soprannome, e tutti condividono, nel bene e nel male, battesimi, matrimoni, feste popolari, fiere, amori, guerre, calamità e lutti (e talvolta qualcos’altro). Nulla sfugge. La comunità, monolitica, vive per se stessa, per consolidarsi, autorigenerarsi e tramandarsi. Guai a toccarla! Quel pomeriggio tardi, prossimo ormai al solstizio d’inverno, reduci dalla presentazione pubblica del precedente libro di Gioacchino, La forza delle mie mani, ci appoggiamo a chiacchierare, sferzati da un 12

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freddo intenso e tagliente e da una nebbiolina che, insidiosa e invadente, penetra ogni cosa e non aiuta certo il pensiero, dietro l’auto con il cofano aperto. Ci ripariamo alla bell’e meglio, come si può. È il momento dello scambio dei regali personali, del passaggio mnemonico dei ricordi, del senso intimistico del rapporto di amicizia, dell’ideale trasmissione delle consegne, quando la confidenza si fa serrata e il pensiero corre al passato, alle storie di morose, di mogli, di figli, di vita, di esistenza. Bisogna dire tutto. E in fretta. Sorridere, scherzare, guardarsi negli occhi e non simulare. Condensare i decenni in pochi minuti. Perché il tempo manca, perché c’è sempre un impegno cui far fronte e si è già in ritardo. Come ogni volta. L’ultima, la penultima e sicuramente anche la prossima. È un rincorrersi senza fine. È qui che si genera l’invidia. Perché Gioacchino nel libro precedente è riuscito a raccontarsi quasi tutto, spaziando in largo e in lungo nell’universo del suo tempo, tra amici, parenti, lavoro, esperienze gradevoli e sgradevoli, passioni, luoghi “gridati” e circostanze sussurrate. Ha anche narrato del suo addio a Murello e dell’arrivo a New York, col tassista un po’ fregone che lo fa girare a vuoto per incrementare gli scatti del tassametro e il costo da pagare. “Come mi piacerebbe raccontare le storie che ho vissuto, – gli dico infreddolito – perdermi nella narrazione delle vicende giovanili, nelle avventure della scuola, della contestazione, nelle vicende della professione, nelle pazzie scapestrate e nei pensieri della maturità impellente”. “Perché non lo fai? – mi risponde – Il tempo non ti manca”. “È vero, ma poi sarei io a leggere me stesso!”. “Non è vero!”. “E invece sì! A chi potrebbe interessare!”. “Mai porre limiti al destino creativo – mi sostiene con quel guizzo intelligente e repentino che ha abbandonato il bugianen ed è diventato ormai toscano – devi fare quel che ti senti”. E così scatta la provocazione: “Ma tu – lo stuzzico nel vivo, visto che è reduce dal suo primo racconto autobiografico – che hai condiviso Murello e Boston e ora li hai abbandonati per una nuova scelta, perché non li racconti entrambi? Una storia nella storia, che si genera in un luogo e si sviluppa altrove, nella memoria che va avanti e indietro e sovrappone fatto a fatto, tempo a tempo, luce a luce, in un flash che si rincorre con la 13

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velocità del suono e penetra il passato, il presente e il futuro, interpretando tante lingue e rapportando l’economia domestica dei tuoi antenati, di casa tua e del tuo paese, con lo spirito che anima una realtà, quella americana della metropoli e del futuro, che si contrappone nel pensiero e nell’azione alla tradizione dei tuoi luoghi”. Chiamala provocazione! Mi guarda un po’, così! Il freddo lo costringe a qualche faccia brutta. Tace per un attimo, si guarda intorno e sembra meditare. Dal campanile della vicina chiesa si fanno sentire i rintocchi che ormai annunciano l’ora della cena. “Se non hai l’editore – lo punzecchio, anticipando ogni sua risposta – lo troviamo!”. “Non preoccuparti – mi incalza recuperando lui il discorso – devo solo ragionarci su”. l giorno dopo arriva la risposta: “Sai che ci ho pensato tutta la notte – mi telefona al mattino, abbastanza presto – e l’idea mi sembra proprio buona?!”. “Ricordati – gli dico – scava nelle cose, entra nel vivo, affronta le banalità e raccontale con convinzione. Tutto diventa storia, tutto appartiene al quotidiano, tutto può essere narrato e letto”. Il libro prende corpo. Capitolo dopo capitolo l’armatura del racconto si dipana assumendo quella consistenza che sollecita alla lettura. Ma ancor più – e questo potrebbe diventare un libro nel libro – si sviluppa e concretizza uno scambio epistolare che viaggia nel Web e che, mail dopo mail, racconta ancor prima del racconto lo sviluppo della storia. Una confidenza serrata che entra nel merito delle cose e indaga, in anticipo rispetto all’ufficialità del testo, l’essenza di ogni più modesto avvenimento. Fatta di consigli, di considerazioni, di punti interrogativi, di infinite e civettuole punzecchiature, di irriverenti istigazioni, di certezze e di appassionate congetture. Passo dopo passo rivivono vicende collettive e si consumano i ricordi di alcune storie che appartengono alle personali realtà e che non entreranno mai nel libro. Ma contribuiscono ad approfondire un passato e prospettare un futuro che diventa una delle chiavi di lettura di tutto il racconto. Lo scambio va avanti per mesi, con ritmo talvolta plurigiornaliero. È l’occasione per costruire un testo, ma anche e soprattutto per sviluppare un piacevole e intimistico desiderio di rivivere, dopo tanti 14

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lustri di reciproco silenzio, le vicende di un passato ormai lontano che solo la memoria, i luoghi, qualche ritaglio di giornale e i pochi amici rimasti sono in condizione di riproporre. Il racconto è quasi compulsivo, messo giù di getto, narrato col pensiero di dire tutto e nell’ansia di dimenticare qualcosa. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto – e fosse possibile anche ogni secondo – è una storia nuova. Col desiderio di scavare, di dire, di scrivere, di non fermarsi per evitare di perdere il filo di Arianna che lega il passato al presente. L’amicizia con Gioacchino ha la sua origine dietro la consolle di una radio. Un’emittente libera, come si diceva allora, di quelle che non avrebbero dovuto aver padroni e trasmettevano sempre, giorno e notte, in condizioni improvvisate e tecnicamente e finanziariamente disastrose. Tra le prime in Italia, sorge nell’autunno del 1976 a Savigliano ed è la prosecuzione di un’iniziativa avviata mesi prima, per qualche ora giornaliera, in quel di Saluzzo. L’emittente è a rischio di chiusura e di sequestro quotidiano per via della cronica mancanza di autorizzazione contestata dall’autorità dell’Escopost. Avevamo avuto in prestito un locale adibito a legnaia annesso a una sede socialista. Ognuno per le proprie competenze aveva provveduto alla bisogna. Con un trasmettitore più piccolo di un pacchetto di sigarette N blu – non più potente di cinque watt – avevamo affrontato l’etere – che era totalmente libero – raggiungendo località e persone inimmaginabili. Eravamo una radio impegnata, ricca di dibattiti, di inchieste, di trasmissioni laboriose, di contestazioni e di liti, sempre in conflitto sui programmi e sul tipo di gestione, che voleva essere politico e concreto, calato tra la gente, ma che non poteva prescindere dall’intrattenimento spicciolo – tanto per intenderci, le dediche e il lissio – che era l’unico capace di fare numeri d’ascolto abbondanti e certi e di foraggiare quattrini tramite la pubblicità. Gioacchino arriva per caso: le telefonate in diretta e il microfono sempre aperto coinvolgono una sua amica di paese, che è ammalata e trascorre i giorni della noia casalinga con la radio accesa. Ci chiama, si discute, partecipa col telefono alle diverse trasmissioni. È ciò che vogliamo. Andiamo a farle visita. C’è anche lui. Il suo interesse verso lo strumento della radio, affascinante e coinvolgente, è immediato. Entra 15

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in redazione e sviluppa con chi già c’è i suoi programmi. Racconta le cose che gli piacciono. Inizia una collaborazione che si perde nel tempo e che accompagna lui – e noi della radio – in un percorso che cessa soltanto con la fine dell’emittente e con l’impegno di un lavoro, quello vero, che ci obbliga a crescere e a guardare a un domani che, piaccia o no, è il nostro oggi. Poi più nulla, per un trentennio e oltre. A ognuno la sua strada. Il 24 settembre 1978, una domenica mattina, alle undici, invitato da Gioacchino per conto del locale circolo culturale mi trovo nella sala del consiglio comunale di Murello a parlare del mio libro su Sacco e Vanzetti. Non c’è molta gente. L’argomento è tosto. Nei paesini della piana cuneese i due italiani finiti sulla sedia elettrica cinquant’anni prima sono ancora giudicati col dubbio dell’incertezza e dell’ignominia: sì, saranno stati vittime innocenti di una prevaricazione razziale compiuta dalla borghesia e dal capitalismo americano – si pensa – ma, trattandosi di anarchici, di sovversivi, di diversi, è stata gente che magari non ha ucciso ma, siccome condannata, qualcosa l’avrà pur commesso. Sacco e Vanzetti, in fondo in fondo, ma poi neppure tanto, appartengono a quella categoria che ai loro tempi ammazzava i re: e in una delle terre più fedeli alla monarchia e più rispettose della chiesa e del suo partito, raccontare di due siffatti “poco di buono” (seppure alla “memoria”) non è cosa facile. Anche in una sede istituzionale. Così, mentre inizio a parlare di fronte a un po’ di giovani, c’è chi si premura di andare in piazza a raccattare la gente che esce dalla messa. C’è un bel sole. Si staziona sul sagrato in attesa che capiti qualcosa. Una parola tira l’altra. Mollemente. L’ombra del campanile della chiesa è quasi sulla verticale. Ci starebbe bene anche un buon bicchiere di vino o un Pastis, per introdurre l’ora del pranzo e il successivo sonnellino. Ma qualcuno vi rinuncia e ci raggiunge. Si capisce subito che per dialogare con tutti, in modo concreto e convincente, mettendo a proprio agio anche i più anziani – il cui sguardo punta dritto a un filo di giustificata diffidenza – non si può e non si deve fare i furbi con la terminologia erudita o con gli americanismi che forse il libro in discussione potrebbe richiedere. Così compio la scelta di usare con disinvoltura la stessa lingua che Bartolomeo Vanzetti utilizzava con papà e mamma, con le sorelle, col fratello, con gli amici 16

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e coi compagni di lavoro prima di lasciare la sua terra e che adottava comunemente, negli Stati Uniti, quando decideva di confidarsi con qualcuno che gli stava vicino e che lo voleva capire fino in fondo. Che anche Giuliano Montaldo, nel suo film, aveva sdoganato nella requisitoria finale. Il “piemontese”. Chiacchiero per due ore abbondanti. L’argomento, dopo l’iniziale ritrosia ideologica, interessa l’uditorio. Chi ha abbandonato per un po’ il sagrato, per sentir narrare la storia di due anarchici mangiapreti, non se ne dispiace. Tornando a casa, magari, avrà anche un argomento nuovo da raccontare mentre ingurgita tajarin al sugo d’arrosto e finanziera. È normale parlare di Boston, raccontare dei luoghi del Massachusetts ove i due italiani condannati a morte hanno vissuto, riferire i fatti e le vicende che hanno determinato il caso collocandoli nei luoghi – che appartengono sempre all’hinterland di Boston – ove sono capitati. Boston è al centro del mondo. Un mondo di emigrati e di italiani che affrontano l’incognita di un’esistenza incerta alla ricerca di un domani che si augurano sereno, di un Paese ove il diritto di vivere possa appartenere a tutti, di gente che sappia apprezzare il lavoro e l’intraprendenza verde bianca rossa che sventola praticamente ovunque. A Murello si parla di Boston. Gioacchino ascolta. Pone anche qualche domanda. Non sa ancora che dopo neppure cinque anni sarà proprio Boston, per un po’, la sua nuova patria americana. Nel North End, in quel vasto territorio urbanizzato che circonda Hanover Street, ci sono gli italiani. Oggi quella di Boston è la Little Italy che più d’ogni altra ha conservato nel tempo le proprie caratteristiche mantenendo le identità che i nostri connazionali sono riusciti a imprimerle a partire dall’inizio del Novecento. Ma in realtà nel primo quarto del secolo è una città nella città che conta addirittura poco meno di cinquantamila residenti, circa l’otto per cento della popolazione del concentrico (la Greater Boston ospita intorno ai quattro milioni e mezzo di persone) e che richiama ogni anno migliaia di emigrati – soprattutto dal Sud Italia – che s’imbarcano a Napoli e sbarcano direttamente nella capitale del Massachusetts. C’è qualcuno che, sparandola grossa come una casa, scrive anche che nel quartiere vivono per un po’ di tempo Ferdinando (Nicola) Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Ma non è così. 17

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Il primo arriva a Boston sulla motonave Romanic il 12 aprile 1909, un lunedì; il secondo approda a Ellis Island, New York, il 19 giugno 1908, un venerdì, viaggiando su La Provence. Il giorno dopo entra nella metropoli e trova momentanea ospitalità presso un compaesano, Giacomo Caldera, che lì abita già da alcuni anni. Dopo un lungo peregrinare solitario i due si accasano, l’uno a Milford e l’altro a North Plymouth. A Boston, forse, ci transitano per caso o ci vanno per i documenti rilasciati dal consolato. Gioacchino fa sua la Boston degli anni Ottanta. Io, che non ho mai visitato la città ma che – in conseguenza delle mie ricerche sui due anarchici – la frequento per missive, amicizie, fotografie, studi, indagini, filmati, mail, libri, articoli e altro, con un’assiduità quasi quotidiana che è prossima ormai ai quattro decenni, saprei districarmi senza problemi nei luoghi che rappresentavano, negli anni Venti, il riferimento alle azioni legate alla vicenda di Nick e Bart. Il carcere di Charlestown, il tribunale di Dedham, il porto, la stazione ferroviaria, Hanover Street, Forest Hill, Harvard, il Common Park, la Public Library, Beacon Hill, Tremont Street, Paul Revere Mall e altro. Gioacchino mi potrebbe segnalare cosa si è modificato e raccontare, con l’ausilio dei molti amici che lì ha frequentato e che sono la colonna portante della parte americana del libro (anche se gli amici non necessariamente parlano lo slang americano o hanno condiviso un liquido amniotico a stelle e strisce), le vicissitudini di una città sempre in movimento, considerata la culla scientifica e culturale degli Stati Uniti. Informandomi, ad esempio, che la parte del carcere di Charlestown che ospitava la camera nella quale, il 23 agosto 1927, il boia Robert Elliot attivò il flusso di corrente che pose fine ai giorni dei due anarchici, e il medico George Burgess Magrath ne confermò il destino, non c’è più, perché abbattuta, mentre la rimanenza ospita oggi, nei corridoi e nelle celle, un ristorante alquanto alla moda. Mi può altresì informare dei luoghi che, pur appartenendo alla città storica, sono rimasti tali, e rappresentano oggi il centro pulsante di una realtà umana che non si ferma mai. Accompagnandomi, attraverso le pagine del Boston Globe, del Boston Herald, del Boston Phoenix e degli altri numerosi quotidiani e periodici che mostrano la vivacità di un luogo universale e multietnico, a conoscere le numerosissime iniziative 18

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che tutti i giorni sviluppano, ovunque, i temi della storia e che si rapportano col passato e col futuro prospettando un dibattito senza fine che ha il coraggio, ieri come oggi – e il caso del governatore Michael Dukakis che nel 1977 firma un proclama che istituisce il Sacco and Vanzetti day ne è l’esempio più lampante – di mettersi in discussione sollecitando riletture e revisioni quasi infinite. Se Boston rappresenta un cuore pulsante che immette linfa vitale nelle vene del mondo che avanza, Murello è il paese che forma e che dà la percezione vera delle radici della storia – che non sono arcaiche o desuete ma mostrano il senso di una saggezza popolare che si è plasmata nel corso dei secoli – e delle ramificazioni che generano l’albero che attraverso le sue fronde prospera stagione dopo stagione creando con la sua linfa le premesse di una crescita costante. Boston è la luce, Murello la penombra. Boston è il rumore, Murello il silenzio. Ma è un silenzio che attraverso la cascina Galetè – che fu in origine della nobile famiglia dei Galateri – e i suoi abitanti forma il carattere e fornisce gli elementi della storia, l’abc dell’educazione e l’energia che genera i presupposti del progresso. A Murello c’è il mondo. S’incontrano, nel tempo, personaggi che la tradizione annovera come popolari e popolani, ma anche uomini illustri il cui ruolo, non solo locale, sintetizza lo spirito creativo di un popolo che si cala, a pieno titolo, nell’universo conosciuto. Claudio Calandra, più volte sindaco e due volte deputato quando la capitale è Firenze, è colui che trasforma il paesaggio nazionale promuovendo l’uso di tecniche da lui inventate (che prendono appunto il nome di tubi Calandra) per risanare le aree paludose trasformando in fertili i terreni inutilizzabili e da secoli fonti di malaria. Ascanio Sobrero, a lungo murellese di residenza, è lo scienziato che inventa la nitromannite, il saccarosio fulminante, la piroglicerina e la nitroglicerina, tutti composti dal nome difficile che anticipano di oltre un decennio la più nota scoperta di Alfred Nobel. Edoardo Calandra, figlio di Claudio, è uomo di genio e di cultura, pittore, ma soprattutto scrittore. Tra i numerosi suoi libri figura La bufera, un romanzo di grande richiamo storico (apprezzato da Benedetto Croce) interamente ambientato a Murello. Altro fratello è Davide, scultore, calato nella tradizione e ben introdotto negli ambienti della cultura nazionale dell’Italia savoiarda. A lui si devono molti monumenti ed è la sua mano a 19

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modellare il fregio che in vaste dimensioni compare quale sfondo dell’aula del Parlamento nazionale a Roma. Riprodotto all’infinito, miliardi di volte, ovunque e comunque, quando si parla e si scrive del più autorevole consesso tricolore. Murello è anche un luogo strano – Gioacchino non manca di metterlo in evidenza a ogni piè sospinto – nel quale gli incroci della storia amano avvicinarsi e incontrarsi per riconoscersi e frequentarsi. È forse l’unico luogo in Italia ove una casa, quella estiva dei Calandra, mostra la propria facciata dipinta con un motivo a kilt. Ciò in omaggio alla massoneria di rito scozzese alla quale la famiglia appartiene da antica data. È il luogo ove il re mitraglia, Umberto I di Savoia, prima di finire i suoi giorni a Monza il 29 luglio 1900, colpito a morte dall’anarchico Gaetano Bresci, è di casa nella stagione bella. Racconigi, dove i regnanti possiedono una loro storica dimora, dista da Murello pochi chilometri. Lui vi giunge quasi tutti i giorni, in incognita – non si sa bene come! – accompagnato su un biroccio dai suoi fidi conducenti. Fa visita a Davida Calandra, del quale è intimo e fidato amico, che lo attende nella cascina adattata come studio da scultore. La stanza loro riservata è quella d’angolo, a sud-est, dove un balconcino al primo piano concede uno splendido affaccio su una delle campagne più verdi e fiorenti d’Italia e una grande terrazza, collegata al corpo della casa e ad aggetto sul cortile, ospita il re e il suo scultore personale nelle giornate afose, al riparo di un giardino pensile, lontano da occhi indiscreti. I due discutono, si intrattengono parlando di varie amenità, consumano bevande calde, fredde (il bicerin, il punt e mes e il vermut non mancano) e pasticcini (i ciapin, gli absenti, i brût e bon e i canestrelli la fanno da padroni), ma soprattutto giocano a carte. Sghignazzando e sicuramente parlando anche di femmine, di cutin e di donnacce. La stanza loro riservata è tutta decorata. Pesanti e trapuntate le tende che scendono alle porte e alle finestre: semmai qualcuno dovesse curiosare troppo! Lì nascono i presupposti per la creazione delle opere plastiche che celebrano i Savoia e che commemoreranno Umberto I dopo il regicidio. Sculture monumentali, grandi impianti scenici, eleganti strutture figurative, delicate espressioni in bassorilievo. Una cultura fortemente tradizionale, celebrativa, ricca però di una capacità tecnica ed esecutiva senza eguali. Tutta la produzione in gesso, alla morte dello scultore, 20

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viene raccolta e immagazzinata sul lato opposto del cortile, sotto la tettoia un tempo destinata a ospitare fieno e paglia. Lì rimane a lungo, più o meno abbandonata, sin quando la versione originale, in grandi dimensioni, della moneta da 5 lire con l’effige di Vittorio Emanuele III, non viene ritrovata in un fosso, collocata con scarso senso di responsabilità da qualcuno che non sa neppure cosa stia maneggiando, come paratoia e destinata a modificare, deviando l’acqua, l’irrigazione dei campi. Il senso dell’abbandono di questo importante patrimonio – che non può assolutamente andare distrutto – porta a un recupero globale e a una collocazione ragionata di tutto il materiale oggetto di salvaguardia, in una gipsoteca collocata nello storico convento francescano a Savigliano. Anche Murello richiama la memoria di Vanzetti. Per la presentazione fatta a suo tempo del mio libro – che è fatto occasionale – ma anche e soprattutto per una coincidenza che porta questo cognome e la famiglia dell’anarchico (che non è anarchica, anzi, tradizionalista e osservante) a essere presente un po’ in tutta la zona. A Villafalletto, dove nasce Tumlin, dove nascono i fratelli e dove abita la famiglia; a Savigliano, dove nasce il papà; a Tarantasca, dove quest’ultimo si sposa e si risposa; a Carignano, da dove provengono gli antenati di famiglia; a Centallo e in altri paesi. Proprio in queste zone esiste la più alta concentrazione italiana di Vanzetti. Ebbene, nell’elenco dei luoghi legati alla famiglia compare anche Murello. Perché Ettore, che è il fratello più giovane del condannato a morte a Boston nel 1921, per sposarsi sceglie proprio Murello e lo fa, nel 1939, con Agnese Brunetto, figlia di Giacomo e di Domenica Godano. Una notizia inedita, forse insignificante, ma che fornisce la misura di come i casi della vita e le circostanze familiari e di “campanile” sovente si incrociano e si sovrappongono nel tempo. Agnese è sicuramente anche un’amica di Giovanni Allasia, il papà di Gioacchino, singolare personaggio che dalla sua bottega di panatè in centro paese dispone di un punto di vista privilegiato per riconoscere la realtà locale. A prescindere dal ritratto che Gioacchino ne fa in queste pagine, non si può non prendere atto che “Giovanni il panettiere” rappresenti, per una località come la sua, la cartina di tornasole che indica negli anni le evoluzioni e le involuzioni di 21

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un mondo in continuo divenire. Il suo impegno è costante e la sua pubblica presenza – con le idee politiche ben chiare – è sintomo di un buon livello di democrazia partecipata, nel quale le convinzioni, seppur contrapposte e in forte conflittualità, riescono a esprimersi e a diventare la base di una convivenza sana e costruttiva. Giovanni Allasia riceve anche un incarico di responsabilità indiretta. Non si sa bene quando, come e perché, ma è fatto certo che un ispettore del Popolo (così viene chiamato tra la gente il quotidiano torinese Gazzetta del Popolo) lo nomini seduta stante – quando lo conosce – informatore redazionale privilegiato: colui che è incaricato, da Murello, di fornire notizie riguardanti la sua zona e di trasmettere ai giornalisti di provincia o ai redattori centrali gli elementi per costruire e pubblicare la notizia. Un incarico non banale, che qualifica, soprattutto se si pensa che la Gazzetta – che cessa le sue pubblicazioni a fine dicembre 1983, dopo 135 anni di vita – è stato ed è il giornale quotidiano italiano che, con oltre un milione di copie – tirate il 9 maggio 1936, giorno della proclamazione dell’impero – ha avuto la maggior diffusione in assoluto a livello nazionale. Di sicuro Giovanni Allasia ha vissuto con trepidazione – seppure in quel momento ancora residente in un paese quasi confinante – le vicende che indicano in Murello la località ove, nel corso del secondo conflitto mondiale, s’è tenuta l’azione partigiana più importante e spettacolare della resistenza piemontese, tanto per il risultato raggiunto quanto per la precisione del piano tattico adottato. Murello possiede un aeroporto militare (insieme a quello vicino della Grangia, quello di Savigliano della Snos e di Levaldigi, tutti in mano agli invasori teutonici) che al 30 novembre 1943 ospita un buon numero di velivoli che i tedeschi hanno razziato agli italiani e marchiato con la loro croce uncinata. Vengono osservati da alcuni partigiani della IV Brigata Garibaldi, dislocata a Barge e comandata da Pompeo Colajanni (Barbato). Mal sopportano, i partigiani, l’arroganza degli invasori e meditano un’azione improvvisa ma fortemente distruttiva. Il 2 dicembre, al mattino presto, arrivano in una ventina e circondano il campo da volo alla periferia del paese. Alcuni formano due posti di blocco mentre altri, una decina in tutto, entrano nell’aeroporto. Corrono agli apparecchi muniti di latte di benzina che versano a fiotti 22

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nelle fusoliere. Viene dato fuoco. Esplodono i serbatoi, le strutture si contorcono, si alzano alte colonne di fumo. Tutto viene distrutto. L’azione dura 45 minuti. Alla fine sul campo da volo rimangono i resti di 42 apparecchi: 27 bombardieri bimotore BR20, quattro caccia Macchi 200, un aereo con la croce rossa. I partigiani, a conclusione, salgono sui camion e attraversano il paese. Lungo la strada la gente di Murello acclama i coraggiosi che hanno osato attaccare l’invasore: transitano anche dinnanzi alla bottega che sarà di lì a breve di “Giovanni il panettiere”. Il merito di Gioacchino, oggi, è quello di aver riscritto, insieme alle sue storie personali, una pagina di vita collettiva che restituisce alla sua Murello – mediandola attraverso l’esperienza bostoniana – gli elementi utili a consolidare quanto l’ufficialità ha già codificato, ma anche e soprattutto a donare alla gente del paese nuovi e ulteriori elementi per ricostruire il senso di un passato che esiste ben fondato nel Dna di chi vive il luogo, ma che non sempre emerge in tutta la sua evidenza nelle cose che vengono trascritte e tramandate.

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