Circolo ermeneutico e differenza ontologica in Essere e Tempo
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Guelfo Carbone Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’ Dottorato in Filosofia e Storia della Filosofia [articolo, 2012]
Circolo ermeneutico e differenza ontologica in Essere e Tempo
SOMMARIO Introduzione | Comprensione dell’essere e differenza ontologica – § 1 | Il «privilegio» dell’esserci nel problema dell’essere – § 2 | L’esserci come poter-essere – § 3 | L’esserci come compito – Conclusioni | Il “compito” della teoria politica contemporanea
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Introduzione | Comprensione dell’essere e differenza ontologica Attività tra le più comuni, quotidiane, vitali addirittura, il comprendere segna ogni istante della nostra esistenza. E, alla stregua del pensare o del dire, il comprendere è per lo più relazione a un contenuto determinato: si comprende (o non si comprende) sempre qualcosa, sotto questo o quell’aspetto, a meno che, in quel peculiare movimento riflessivo che interessa da sempre la filosofia, la comprensione non si rivolga a se stessa. Che significa comprendere in quel caso? Differentemente dal caso della tautologia, che non dice nulla, come ricorda Wittgenstein, disporsi a comprendere l’attività della comprensione produce un discorso, quello filosofico, che non è affare esclusivo della logica e che non si esaurisce – come nel corso del Novecento la filosofia stessa ha ripetutamente sostenuto – nel movimento riflessivo della coscienza1. È noto che l’opera maggiore di Martin Heidegger, Essere e Tempo (1927) sia stata stimolata dalla ricerca del senso dell’essere (der Sinn des Seins, § 8). Altrettanto noto è, però, che la via di accesso alla comprensione del senso dell’essere è costituita dall’ermeneutica dell’esserci, cioè dalla peculiare comprensione interpretante di sé dell’ente che pone la domanda sul senso dell’essere. L’esserci non è né una mente disincarnata né una coscienza trascendentale, ma quell’ente che noi stessi, costantemente, siamo. Ponendo la domanda circa il senso dell’essere ci troviamo dunque di fronte a una peculiare riformulazione della circolarità definita
1 Come nota G. Figal, la riflessione è un fenomeno interessante perché duplice, al tempo stesso virtuoso e problematico. Nella riflessione infatti si manifesta la tendenza dell’esserci umano a oggettivare se stesso, di modo che l’essere di questo ente viene occultato, insabbiato e il compito della filosofia diventa quello di lavorare contro questa tendenza teoretico-obiettivante, ciò che rientra negli obiettivi dell’ermeneutica della fatticità. Cfr. Il senso del comprendere: contributi alla filosofia ermeneutica, il Melangolo, Genova 2007, pag. 40.
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«ermeneutica»2, per affrontare la quale Heidegger elaborò un metodo nuovo, l’analitica esistenziale. In Essere e Tempo, il comprendere (das Verstehen) rientra, accanto alla situazione emotiva (die Befindlichkeit) e al discorso (die Rede), tra gli esistenziali che costituiscono la struttura fondamentale dell’esserci (das Dasein) che l’analitica si prende in carico di descrivere, ma assume un peso specifico, giacché a muovere Essere e Tempo è la domanda circa la comprensione del senso dell’essere. Ecco perché l’analitica esistenziale rientra nel progetto dell’«ontologia fondamentale» (Fundamentalontologie, § 4): la ricerca del senso dell’essere – da molto tempo caduto nell’oblio, come ricorda l’esergo dal Sofista di Platone che apre l’opera – è con ogni evidenza un’indagine ontologica, ma il metodo, la via di accesso, si trova nella comprensione messa all’opera dall’ente che noi stessi siamo3. Comprendere l’essere attraverso un ente è, nei termini del linguaggio inaugurato in Essere e Tempo, un compito ipotecato dalla differenza ontologica, cioè dal fatto che l’essere di cui è questione differisce dagli enti. La differenza ontologica, infatti, vale non solo per la possibilità della comprensione del senso dell’essere (in quanto differente da questo o quell’ente), ma anche per la possibilità stessa, per l’esserci, di comprendersi4. Le riflessioni che seguono intendono descrivere gli elementi minimi che potrebbero servire a un’indagine sulla relazione tra la domanda circa il senso dell’essere, la differenza ontologica e il circolo ermeneutico che sta alla base della domanda, cioè la comprensione dell’esistenza dell’ente che noi stessi siamo come via di accesso privilegiata (se non unica) all’essere differente dall’ente. Il presupposto di partenza è che comprendere il senso dell’essere e la comprensione operata dall’esserci su se stesso non significhino la stessa cosa. L’interruzione di Essere e Tempo (come dichiarato nella Lettera sull’umanismo del 1946) e la svolta del pensiero heideggeriano verso la «storia dell’essere» (Seingeschichte) starebbero a confermarlo. E tuttavia voler comprendere il senso dell’essere e mettere all’opera la comprensione di sé del Dasein nell’analitica esistenziale devono avere qualcosa in comune, altrimenti, sarebbe assurdo voler arrivare al primo tramite la seconda, e il proposito stesso di Essere e Tempo non avrebbe senso, e tutta l’impostazione metodologica sarebbe errata fin dall’inizio e di principio. Non potendo trattare esaustivamente l’argomento, quello che vorremmo mostrare è che la tesi per cui l’esserci è «cooriginariamente costituito dalla comprensione»5 porta con sé due diverse tendenze che riflettono un’ambiguità di cui Essere e Tempo non è riuscito a sbarazzarsi e che pregiudicano la sua riuscita. Da una parte quella dell’esserci come Seinkönnen, come radicale «poter-essere» (§ 31); dall’altra quella dell’esserci come compito (Aufgabe) assegnato a se stesso. Quest’ultima nel libro precede la prima (§§ 28-29), ma la segue nelle sue conseguenze, rappresentando l’espressione più nitida del linguaggio metafisico per cui, come è noto, Essere e Tempo si è interrotto6. In Essere e Tempo, «comprendere» non significa contemplare o recepire, ma è legato a quel conferimento di senso per cui «mi importa» di ciò che faccio, per cui «ne va» del mio essere in ciò che mi accade. «Comprendere» in Essere e Tempo significa: mi importa di qualcosa, e, 2
Su questo si veda la voce «Comprendere» a cura di D. Di Cesare, nell’Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006, vol. III, pagg. 2063-2067. 3 Notiamo solo di passaggio che il conflitto tra oggetto e metodo dell’ontologia fondamentale – dove l’“oggetto” è l’essere obliato e il metodo l’analitica esistenziale – è un problema fenomenologico, e come tale è trattato da Heidegger. Si veda sulla peculiare fenomenologia heideggeriana il paragrafo settimo di Essere e Tempo: «Il metodo fenomenologico della ricerca». 4 Nel paragrafo 39 «Il problema della totalità originaria delle strutture dell’Esserci», Heidegger dice molto chiaramente: «L’ente è indipendentemente dall’esperienza, dall’apprensione e dalla conoscenza attraverso cui esso è aperto, scoperto e determinato. Viceversa l’essere “è” soltanto nella comprensione di quell’ente al cui essere appartiene qualcosa come la comprensione dell’essere», cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2003, pag. 230. 5 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pag. 182 (§ 31). 6 M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 2002, pag. 281.
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ancora più precisamente, avere a che fare con un compito, in massimo grado se stessi come compito. Non è relativo a un “che cosa” (considerazione teoretica), ma a un poter-essere. Si trova così confermata in un senso più approfondito la fisionomia della circolarità della Seinsfrage: l’analitica ha carattere circolare-ermeneutico innanzitutto perché un essere a cui importa del proprio essere ha necessariamente una struttura circolare7. Prendersi come compito è una possibilità dell’esserci, nemmeno la più frequente o nota, e d’altra parte la comprensione si radica nel poter-essere, cifra identificativa dell’esserci. Ma quale significato specifico assume, in Essere e Tempo, la comprensione come poter-essere? Identificare in maniera essenziale l’esserci umano con le sue pure e semplici potenzialità ha delle conseguenze? Può la tesi capitale di Essere e Tempo «più in alto della realtà si trova la possibilità» (§ 7) descrivere l’aporia della domanda circa l’essere, e, al contempo, rappresentare un problema – o un “compito”, appunto – che possiamo ritrovare al cuore della teoria politica contemporanea? § 1 | Il «privilegio» dell’esserci nel problema dell’essere «Tutti gli sforzi dell’analitica esistenziale tendono al solo fine di trovare la possibilità di rispondere al problema del senso dell’essere in generale. L’elaborazione di un problema [Frage] del genere richiede la delimitazione del fenomeno in cui qualcosa come l’essere si rende accessibile, cioè della comprensione dell’essere [Seinsverständnis]. Ma questa fa parte della costituzione d’essere dell’Esserci. Solo quando questo ente sarà interpretato adeguatamente nella sua originarietà, sarà possibile cogliere la comprensione dell’essere implicita nella costituzione del suo essere e, su questo fondamento [Grund], porre il problema dell’essere afferrato in quella comprensione e dei “presupposti” che essa porta con sé»8. Questa considerazione riassuntiva, che introduce l’«Esposizione ontologico-esistenziale del problema della storia» (§ 72), si riferisce alla lunga trattazione che la precede, dove, però, non troviamo una adeguata elaborazione del problema del senso dell’essere (die Frage nach dem Sinn vom Sein), il cui fondamento è rappresentato, come abbiamo letto, dal fenomeno della comprensione dell’essere peculiare dell’esserci. Essere e Tempo arriverà appena ad impostare «il problema dell’essere afferrato in quella comprensione e dei “presupposti” che essa porta con sé» nei capitoli finali, Quarto, Quinto e Sesto, della Seconda Sezione, in cui il fondamento della costituzione ontologico-esistenziale dell’esserci è individuato nella temporalità (§ 83), e con cui si interrompe il lavoro. Nell’opera del 1927, mai portata a termine, il significato del proposito: «comprendere il senso dell’essere» non viene chiarito. E ciò trova la sua ragione precisamente nella tesi che regge (e condiziona) tutto l’impianto dell’opera: il problema del senso dell’essere è possibile, in generale, solo perché c’è qualcosa come la comprensione dell’essere. Ma, prosegue Heidegger sempre nel paragrafo 43, «la comprensione dell’essere è propria del modo di essere di quell’ente che noi chiamiamo Esserci. Quanto più l’esplicazione di questo ente ha avuto luogo adeguatamente e originariamente, tanto più facilmente il processo ulteriore di elaborazione del problema ontologico fondamentale potrà raggiungere la sua mèta»9. 7
Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pag. 195 (§ 32): «Il “circolo” del conoscere appartiene alla struttura del senso, che è un fenomeno radicato nella costituzione esistenziale dell’Esserci, nella comprensione interpretante. L’ente per cui, in quanto essere-nel-mondo, ne va del suo essere stesso, ha una struttura circolare di carattere ontologico». 8 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pag. 447. 9 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pagg. 249-250. Il legame tra comprensione dell’esserci e senso dell’essere è affermato ancora più esplicitamente alla fine del paragrafo: «Certamente solo fin che l’Esserci è, cioè fin che è la possibilità ontica della comprensione dell’essere, “c’è” essere» («Allerdings nur solange Dasein ist, das heißt die ontische Möglichkeit von Seinsverständnis, »gibt es« Sein»). Qui Heidegger parla di una vera e propria
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La questione dell’essere, per come impostata in Essere e Tempo, dipende dunque dalla comprensione dell’essere propria del Dasein. Il comprendere è il modo originario di attuazione dell’esserci: l’esserci esiste in quanto comprende, cioè rende ogni ente, esserci compreso, accessibile nella comprensione, e quindi compreso nell’essere. Da qui la peculiare circolarità «ermeneutica»10 che affetta la questione dell’essere, per cui l’esserci comprende l’esistenza (innanzitutto la propria) e esiste comprendendosi. Potremmo allora domandarci: che ne è della differenza ontologica, che sta alla base non solo della possibilità della comprensione del senso dell’essere differente dall’ente, ma interessa anche la comprensione di sé del Dasein come differente dall’essere? Anche questa domanda non trova una risposta esplicita in Essere e Tempo, sebbene, fin dal primo paragrafo dell’Introduzione, la differenza tra essere ed ente è presentata come il criterio cui deve attenersi il metodo dell’ontologia fondamentale, l’analitica esistenziale. Infatti, spiega Heidegger, per quanto la tradizione ontologica non riesca a fornire una definizione esaustiva del concetto di «essere», considerato troppo generale, indefinibile se non quando addirittura ovvio, un punto fermo c’è: non è possibile determinare l’essere mediante l’attribuzione di predicati ontici, cioè desunti dall’ente. «Diremo allora che l’“essere” non pone alcun problema? – argomenta Heidegger – Niente affatto. L’unica conseguenza legittima è questa: l’“essere” non è qualcosa come l’ente [»Sein« ist nicht so etwas wie Seiendes]»11. L’indefinibilità dell’essere differente dall’ente, lungi dal dispensare dal problema del senso dell’essere, lo rende necessario, sostiene Heidegger. Ma tanto il problema del senso dell’essere, che quello della differenza ontologica non vengono apertamente ed esaustivamente affrontati in Essere e Tempo. Essi sono però impliciti nell’analitica dell’«ente esemplare» che Heidegger sceglie come chiave d’accesso alla questione dell’essere, vale a dire l’esserci. Ed è sempre in sede introduttiva, nel secondo paragrafo, che Heidegger fornisce una prima, decisiva indicazione per l’impostazione della sua ricerca. Il problema del senso dell’essere viene esplicitamente legato a una possibilità specifica dell’esserci: quella di comprendere. La definizione dell’esserci come «comprendere» (verstehen) racchiude già tutte le ragioni della sua esemplarità. L’elaborazione del problema dell’essere presuppone, in effetti, che l’oggetto intenzionale della ricerca sia in qualche modo già accessibile, altrimenti la domanda non si potrebbe neppure formulare. La comprensione dell’essere, se pure «media e vaga» è «un fatto» di cui testimonia a sufficienza già l’attualizzazione della domanda. E se, nella domanda, l’essere appare come presupposto, è proprio questa presupposizione ad indicare il filo
«dipendenza dell’essere» (Abhängigkeit des Seins) e «non dell’ente» dalla «comprensione dell’essere», pag. 262. Sul nesso tra temporalità e comprensione si può vedere anche la Premessa di G. Figal al suo già citato Il senso del comprendere: contributi alla filosofia ermeneutica, op. cit., pagg. 5 ss. 10 Secondo Ruggenini, Essere e Tempo, con l’intera impresa della Seinsfrage, si risolvono nell’autocomprensione dell’uomo, e Gadamer, da parte sua, riprendendo Heidegger, avrebbe elaborato un’ermeneutica senza problema dell’essere, dove, cioè, non è più un problema che l’essere sia un problema, cfr. M. Ruggenini, Comprensione, linguaggio, prassi. Heidegger e la svolta ermeneutica della fenomenologia, in (aa.vv.) Heidegger e la filosofia pratica, Flaccovio, Palermo 1994, rispettivamente pagg. 183 e 176. Si veda invece, su questo punto, D. Di Cesare, Ermeneutica della finitezza, Guerini e Associati, Milano 2004, pagg. 54-55, dove l’autrice spiega come nello spostamento dall’essere alla comprensione dell’essere (suo atto di nascita), l’ermeneutica distolga lo sguardo dall’essere per indirizzarlo al comprendere proprio nel tentativo di uscire dal «vicolo cieco della finitezza originaria» per rileggerla come «finitezza infinitamente finita». 11 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pag. 19. Subito dopo (§ 2) Heidegger dirà più esplicitamente che «L’essere dell’ente non “è” esso stesso un ente», pag. 21. L’espressione «differenza ontologica» farà la sua comparsa esplicita per la prima volta nel corso del semestre estivo del 1927, Die Grundprobleme der Phänomenologie, che Heidegger intendeva come prosecuzione rielaborata della terza sezione della prima parte di Essere e Tempo, cfr. la Nota all’edizione tedesca (del curatore F.-W. Von Herrmann) ne I problemi fondamentali della fenomenologia (a cura di A. Fabris), il Melangolo, Genova 1999, pp. 321-322.
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conduttore della ricerca: essa infatti ci rimanda a quella «comprensione media dell’essere in cui già da sempre ci muoviamo e che, alla fine, appartiene alla costituzione essenziale dell’Esserci»12. L’obiezione di «circolo vizioso» che potrebbe emergere dall’impostazione del problema dell’essere, tale per cui la ricerca assume già come presupposto ciò che solo la soluzione del problema è in grado di apportare, è presto liquidata da Heidegger in queste stesse pagine, non avendo «alcun peso nella comprensione delle cose», e risolta ricorrendo alla peculiare influenza che la ricerca subisce dal suo obiettivo, nel caso, l’essere stesso: disponendo di una comprensione media e vaga di ciò che vuol dire “essere”, l’esserci può condurre la ricerca senza un esplicito concetto di “essere”, che anzi deve essere guadagnato dalla ricerca13. Il «primato» che spetta all’ente «che noi stessi sempre siamo», dunque, non dipende solo dal fatto che, come nota di sfuggita Heidegger, al Dasein appartiene la possibilità di porre il problema, ma innanzitutto dal fatto che costitutivamente l’esserci ha una relazione d’essere col proprio essere. Il che significa, spiega Heidegger, che «l’Esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere», o, in altri termini, quelli utilizzati nello stesso paragrafo 4, «per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso» (es diesem Seienden in seinem Sein um dieses Sein selbst geht). Il fatto che la comprensione dell’essere sia la determinazione d’essere strutturale dell’esserci, definisce ciò che Heidegger chiama «esistenza» (Existenz), ovvero la condizione specifica dell’ente-Dasein. La comprensione, dunque, è per l’esserci, più che una facoltà o una qualità, una possibilità essenziale che definisce l’intero ambito della sua esistenza, accompagnandola costantemente14. Il legame, o meglio, la dipendenza tra la Seinsfrage e la «tendenza» specifica dell’esserci, la comprensione, è dunque così stretta da determinare una sorta di riduzione del problema: al senso dell’essere accediamo preliminarmente, prima di ogni definizione o tradizione ontologica, anche se in maniera vaga, attraverso la condizione specifica dell’ente che esiste comprendendo e comprende esistendo. L’analitica esistenziale non è una forzatura, ma presenta «radici esistentive, cioè ontiche» nell’ente che noi stessi siamo e che pone la domanda. Per questo Heidegger, chiudendo la prima parte dell’Introduzione (§ 4), può dire che il problema dell’essere «si risolve allora nella radicalizzazione di una tendenza d’essere essenziale che appartiene all’Esserci stesso, cioè in un radicalizzazione della comprensione pre-ontologica dell’essere», specificando in questo modo i termini dell’incarico assunto dalla ricerca, che a questo punto può diventare esplicitamente «interpretazione del senso dell’essere»15. 12
Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pagg. 21-23. Ancora due anni dopo, nel Kantbuch (1929; § 42), considerato da Heidegger la prosecuzione di Essere e Tempo, il legame tra analitica esistenziale, intesa come «metafisica dell’esserci», e questione dell’essere è ribadito con convinzione: «La fondazione della metafisica, nell’assumere il suo compito, nell’intraprenderlo, nel dargli corso e nel condurlo a buon fine, dev’essere guidata unicamente e con crescente rigore dal problema fondamentale che le è proprio. Questo problema fondamentale è quello della possibilità intrinseca nella comprensione dell’essere, dal quale ogni interrogazione esplicita sull’essere deve trarre alimento. La metafisica dell’esserci, guidata dal problema della fondazione, dovrà svelare la costituzione dell’essere dell’esserci, mostrando come essa renda intrinsecamente possibile la comprensione dell’essere», cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Roma-Bari, Laterza 1985, pag. 200. 13 In un saggio del 1940, dal titolo: «L’ontologia nel temporale», E. Lévinas nota che l’intuizione fondamentale di Heidegger consistette proprio nell’aver colto la circolarità chiusa della comprensione, quel «circolo di intelligibilità col reale», o «intimità col reale», in cui siamo già immersi, cfr. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Milano, Raffaello Cortina 2002, pagg. 87-88. 14 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pagg. 28-29. È quello che nel Kantbuch chiamerà «privilegio dell’esistere» (§ 41): «Con l’esistenza dell’uomo si produce un’irruzione nella totalità dell’ente, ed è solo per questo evento che l’ente, in un raggio più o meno ampio e secondo diversi gradi di chiarezza e di certezza, diviene manifesto in se stesso, cioè in quanto ente. Ma questo privilegio [dell’uomo] di non limitarsi a esser presente fra l’ente restante senza che questo ente divenga, fra sé, manifesto come tale, e di trovarsi invece in mezzo all’ente, consegnato all’ente in quanto tale, e rimesso a se stesso come a un ente, questo, che è il privilegio dell’esistere, reca in sé la necessità e il bisogno della comprensione dell’essere», cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, op. cit., pag. 196. 15 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pagg. 30-31. È a causa di questo legame di dipendenza, vi accenniamo soltanto, che Heidegger, alla fine del paragrafo 7 in cui espone il metodo della sua ricerca, si trova a
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§ 2 | L’esserci come poter-essere Essere e Tempo rappresenta una delle prime rivendicazioni del carattere ontologico del comprendere, o, per usare l’espressione di Heidegger, della «connessione necessaria di essere e comprensione»16. Qui «comprendere» non è una facoltà tra altre, ma la struttura necessaria, universale e costante dell’esistenza umana, preliminare ad ogni forma concreta di interpretazione e, in generale, di rapporto con noi stessi e con ciò che ci circonda. Il comprendere l’essere è costitutivo dell’esserci, e sulla comprensione dell’essere vengono edificati i primati del problema dell’essere, ontico, ontologico e ontico-ontologico, esposti nel Primo Capitolo di Essere e Tempo17. La nozione di «esistenza» è caratterizzata da questo legame, e riceve il suo senso specifico dall’identificazione tra comprensione e costituzione essenziale dell’esserci, motivo per cui per questo ente privilegiato «ne va» del suo essere stesso. Abbiamo visto il profondo legame, la dipendenza tra la funzione esistenziale della comprensione e il problema dell’essere. Ma che cosa significa propriamente «comprendere» riferito all’esserci? Se scorriamo l’opera del ’27, la comprensione figura accanto alla situazione emotiva e al discorso tra gli «esistenziali» costitutivi dell’esserci. Il paragrafo 28, dal titolo: «Il compito di un’analisi tematica dell’in-essere», precede quelli dedicati alla struttura esistenziale fondamentale dell’esserci, mentre dal paragrafo 32 alla fine del Quinto Capitolo troviamo la «concreta elaborazione» dell’analisi degli esistenziali. Precede e introduce, anche, segnalando una tesi molto importante, che giustifica la pluralità dei caratteri fondamentali dell’esistenza: l’indeducibilità di un fenomeno originario non esclude una «molteplicità» di caratteri costitutivi del suo essere. «Se questi caratteri sussistono – prosegue Heidegger – saranno per ciò stesso essenzialmente cooriginari»18. «Situazione emotiva» (Befindlichkeit) e «Comprensione» (Verstehen) sono le due condizioni cooriginarie del Ci (Da) dell’esser-ci (Da-sein), costituiscono cioè la sua «apertura». Situazione emotiva e comprensione sono a loro volta
dover specificare il senso della fenomeno-logia che conduce la ricerca del senso dell’essere: «Il logos della fenomenologia dell’Esserci ha il carattere dell’ermeneuein, attraverso il quale il senso autentico dell’essere e le strutture fondamentali dell’Esserci sono resi noti alla comprensione d’essere propria dell’Esserci. La fenomenologia dell’Esserci è ermeneutica nel senso originario della parola, secondo cui essa designa l’incarico stesso [das Geschäft] dell’interpretazione», cfr. pag. 58, trad. it. mod. 16 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pagg. 229-230. Poche righe prima, sempre alla fine del paragrafo 39, Heidegger chiarisce questa connessione necessaria, esibendo limpidamente, al contempo, la circolarità propria del problema del senso dell’essere: «l’essere “è” soltanto nella comprensione di quell’ente al cui essere appartiene qualcosa come la comprensione dell’essere», e ribadisce l’assunto che sta alla base dell’intera opera: «L’essere può quindi non essere posseduto concettualmente, ma non è mai completamente incompreso». 17 Riassumiamo le considerazioni introduttive di F. Bianco al suo «Comprensione dell’essere e linguaggio: Heidegger e i problemi dell’ermeneutica contemporanea», in: Heidegger e la metafisica, Marietti, Genova 1991, pagg. 83 ss. Il saggio si può consultare anche per una prima, generale discussione sul problema del «ruolo ambiguo» rivestito dalla sfera linguistica nella ripetizione del problema dell’essere, su cui non possiamo soffermarci. Che nel cosiddetto “primo Heidegger” il linguaggio rivesta un ruolo secondario rispetto al comprendere, essendo l’espressione e la rappresentazione di un’apertura del mondo già articolata prima che il Dasein si esprima in parole è sostenuto da F. Volpi nel suo saggio: «La question du Logos chez le jeune Heidegger», in: Heidegger 1919-1929. De l’heméneutique de la facticité à la métaphysique du Dasein, (a cura di J.F. Courtine), Vrin, Paris 1996, in particolare pagg. 53-54, dove l’autore nota anche che tale impostazione cambierà radicalmente nell’interpretazione che Heidegger darà della poesia di Hölderlin. 18 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pag. 169. Heidegger spiega così la sua affermazione: «Il fenomeno della cooriginarietà [Gleichursprünglichkeit] è stato sovente disconosciuto dall’ontologia a causa della tendenza metodologicamente incontrollata alla deduzione di ogni molteplice dalla semplicità di una “causa prima” [Urgrund, lett. «fondamento originario» e unico]».
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«cooriginariamente determinati attraverso il discorso [die Rede]». Nei fenomeni connessi a questi esistenziali emerge il quotidiano scadimento (die Verfallenheit) dell’esserci19. Come nota Fabris nella sua Introduzione alla lettura di Essere e Tempo, il termine «apertura» (die Erschlossenheit), che indica complessivamente il carattere dell’«essere-nel-mondo» dell’esserci, è segnato da un’ambiguità, la stessa del nostro tema. Da un lato, infatti, l’apertura costitutiva dell’esserci indica, come detto, il suo rapporto con l’ente; dall’altro si riferisce al rapporto con l’essere, cioè all’attivo comprendere se stesso che l’esserci realizza sia nell’afferramento autentico di sé che nelle modalità improprie20. Nonostante le ambiguità, la risposta più esaustiva alla nostra domanda (che significa «comprendere» come caratteristica ontologica dell’esistenza?) la troviamo, in ogni caso, nel paragrafo 31 di Essere e Tempo, dal titolo: «L’Esser-Ci come comprensione». Qui, prendendo le distanze da ogni accezione teoretico-contemplativa, Heidegger riporta la definizione della «comprensione» propria dell’esserci nella sfera del sapere pratico. L’esserci è quell’ente che, in generale, è capace di fare qualcosa, agendo o pensando, di realizzare delle possibilità, tramite le quali realizza anche se stesso. E questo specifico comportamento pratico dell’esserci gli è così poco estrinseco che Heidegger si sbilancia in una definizione molto netta: «Nel comprendere è contenuto esistenzialmente il modo d’essere dell’esserci in quanto poteressere»21. Questa definizione vale sia per le potenzialità che l’esserci realizza in ogni suo comportamento che, ontologicamente, per il fatto che l’esserci è condizione di possibilità di ogni rapporto con l’ente, e ciò in virtù del primato che viene dalla comprensione dell’essere. In sede di analisi dell’in-essere (Sezione Prima, Capitolo Quinto), il comprendere assume un significato ontologico molto netto (poter-essere) che si riverbera sull’esposizione che l’ha preparata (l’essere-nel-mondo, cap. Terzo) e sull’approfondimento che la segue (sulla Cura, cap. Sesto): «L’Esserci non è una semplice-presenza che, in più, possieda il requisito di potere qualcosa, ma al contrario, è prima di tutto un esser-possibile [es ist primär Möglichsein]. L’Esserci è sempre ciò che sa essere e nel modo della possibilità. L’esser-possibile essenziale dell’Esserci include le modalità già esaminate del prendersi cura del “mondo” e dell’aver cura degli altri e, in tutto ciò e già sempre, il poter-essere in rapporto a se stesso, l’“in-vista-di-sé”»22.
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Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pag. 171. Occorre notare però che, a differenza delle altre due modalità di «apertura» dell’esserci, l’articolazione del discorso in «chiacchiera» («modalità sradicata della comprensione dell’esserci»; § 35) ha anche il potere di chiudere il mondo dell’esserci, cfr. pagg. 213-214. 20 Cfr. A. Fabris, “Essere e Tempo” di Heidegger. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2006, pag. 111. Heidegger caratterizza la situazione aperta del comprendere come «in-essere», cui è dedicato il Quinto Capitolo della Prima Sezione di Essere e Tempo, dal tiolo «L’in-essere come tale» («Das In-Sein als solches»). In Essere e Tempo troviamo analizzate tre modalità specifiche di «apertura» che corrispondono ai tre «esistenziali» sopra menzionati: l’angoscia, quale espressione genuina del sentirsi situato; il progetto, concreta articolazione del comprendere; e infine il silenzio quale risorsa essenziale del discorso. 21 «Im Verstehen liegt existenzial die Seinsart des Daseins als Sein-können» (§ 31). Utilizziamo qui la traduzione di A. Marini, che in questo come in altri casi restituisce tutta la forza dell’argomentazione e della retorica heideggeriane, cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, (a cura di A. Marini), Mondadori, Milano 2006, pagg. 413-415. Poche righe più avanti, Heidegger è ancora più netto: «il comprendere è l’essere esistenziale del poter essere proprio dell’esserci stesso, nel senso che questo essere dischiude in se stesso quale sia l’essere del fatto suo. La struttura di questo esistenziale andrà colta più da vicino», cfr. ibidem, pag. 417. 22 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2003, pag. 183. Riportiamo anche la traduzione di Marini, più precisa: «Esserci non è qualcosa sottomano che possieda il requisito aggiuntivo di potere qualcosa, ma è, in senso primario, un esser-possibile. Esserci è via via ciò che può essere e secondo quella che è la sua possibilità. L’essenziale esser-possibile dell’esserci riguarda le già caratterizzate maniere del pro-curare il “mondo”, del prendersi cura degli altri e, in tutto questo e già sempre, del poter essere-a se stesso, in grazia di sé», cfr. Essere e tempo, (a cura di A. Marini), Mondadori, Milano 2006, pag. 415. E, infine, l’originale: «Dasein ist nicht ein Vorhandenes, das als Zugabe noch besitzt, etwas zu können, sondern es ist primär Möglichsein. Dasein ist je das, was es sein kann und wie es seine Möglichkeit ist. Das wesenhafte Möglichsein des Daseins betrifft die charakterisierten Weisen des Besorgens der »Welt«, der Für-sorge für die anderen und in all dem und immer schon das Sein-können zu ihm selbst, umwillen seiner».
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In queste pagine Heidegger attribuisce un senso «esistenziale» alla categoria modale del possibile, da non confondere con il “non reale” o ciò che è “in attesa di realizzazione”: al contrario, «la possibilità come esistenziale è l’ultima e la più originaria determinatezza positiva dell’esserci»23. Ma non troviamo, in Essere e Tempo, un approfondimento di questa tesi. Alla stregua della «esistenzialità in generale», taglia corto Heidegger, la determinazione positiva dell’esserci come poter-essere «non può, innanzi tutto, che essere preparata come problema. Il terreno fenomenico della considerazione di essa è offerto dalla comprensione in quanto poteressere aprente»24. La definizione dell’esserci come essenziale poter-essere apre la strada all’articolazione della comprensione nel «progetto»: «la comprensione ha in se stessa la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto», struttura che si articola, appunto, con le modalità proprie dell’esserci. Ma il progettarsi dell’esserci – prosegue Heidegger nelle stesse pagine (§ 31) – va inteso come un progetto «gettato», così come l’esserci stesso è «possibilità gettata»25. Prima ancora di poter decidere se autentiche o no, l’esserci si trova già determinato dalle possibilità cui è consegnato. Da questo punto di vista il progetto rientra nella «costituzione ontologicoesistenziale» dell’esserci, ma si muove pur sempre nell’«ambito di un poter-essere effettivo»26. Ciò spiega perché, qualche paragrafo dopo (§ 39 ss.), Heidegger si dedicherà all’analisi della quotidianità dell’esserci, alla tirannia della sfera pubblica, alla chiacchiera, come a tutte le altre possibilità che contraddistinguono, in maniera impersonale, ogni progetto gettato27. § 3 | L’esserci come compito In un saggio del 1976, «Sul bisogno senza cura inteso in senso nuovo», raccolto in Di Dio che viene all’idea, Lévinas riassume così la nostra questione: «L’uomo, secondo alcuni passaggi di Sein und Zeit, passa per non avere che un privilegio metodologico: per il fatto che il suo essere si dispiega in forma di interrogazione della essanza dell’essere, egli sarebbe la via che potrebbe portare alla risposta. […] Non si tratta dunque di un avvenimento antropologico, che impegna la regione umana del Reale. È in quanto avventura dell’esse preso assolutamente (in quanto Sein überhaupt) che l’essere in questione si gioca nell’esser-ci dell’uomo che ha da essere e, in quanto tale, interroga». Questa «riduzione dell’umanità al compito di essere», prosegue Lévinas, emerge già nella Jemeinigkeit dell’esserci (§ 9 di Essere e Tempo), nel fatto che l’esserci è sempre mio (cioè appropriato, di qualcuno), fino a diventare preponderante nel destino per la morte descritto nelle pagine di Essere e Tempo (§§ 45-53) che seguono i paragrafi che abbiamo analizzato in precedenza. L’«essere-per-la-morte» (das Sein zum Tode) rappresenta 23
Riportiamo la traduzione di Marini, più fedele al testo originale («Die Möglichkeit als Existenzial dagegen ist die ursprünglichste und letzte positive ontologische Bestimmtheit des Daseins»), cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, (a cura di A. Marini), Mondadori, Milano 2006, pag. 415. La traduzione di Chiodi (pag. 183) suona: «La possibilità come esistenziale è invece la determinazione ontologica positiva dell’Esserci, la prima e la più originaria». 24 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2003, pag. 183. È in questo contesto che andrebbe letta, a nostro avviso, la tesi capitale espressa da Heidegger nell’Introduzione dell’opera, quella per cui «Più in alto della realtà si trova la possibilità» (§ 7, pag. 59). Sebbene questa tesi si riferisca alla fenomenologia («la comprensione della fenomenologia consiste esclusivamente nell’afferramento di essa come possibilità»), tutta l’analitica esistenziale sta a dimostrare – come stiamo cercando di sostenere – l’opportunità di elevare questa tesi a principio ontologico-esistenziale che vale innanzitutto (se non esclusivamente) per l’esserci. 25 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pag. 183: «l’Esserci è un esser-possibile [Möglichsein] consegnato a se stesso, una possibilità gettata [geworfene Möglichkeit] da cima a fondo. L’Esserci è la possibilità dell’esser libero per il più proprio poter-essere. L’esser-possibile è trasparente a se stesso secondo modalità e gradi diversi». 26 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pag. 185. 27 «La quotidianità media dell’Esserci può quindi essere determinata come l’essere-nel-mondo deiettivo-aperto e gettatoprogettante, per il quale, nel suo esser-presso il “mondo” e nel con-essere con gli altri, ne va del suo poter-essere più proprio», cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pagg. 227-228.
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l’estremizzazione dell’enfasi dell’ipseità nel «–ci» dell’esserci, dell’«aver da essere» che contraddistingue l’esserci. Ma ciò che più colpisce nell’analisi del destino letale affidato al Dasein, nota infine Lévinas, «è la sua fedeltà all’idea di assunzione, di comprensione, di coglimento, è questa risorgenza del coraggio dietro la passività. L’essere-per-la-morte o l’essere a morte, è ancora un poter-essere, e la morte, secondo una terminologia significativa, è possibilità dell’impossibilità e non è affatto istante estremo, sradicato da ogni assunzione, per niente un’impossibilità di potere, oltre ogni emozione improvvisa e ogni impassibilità, e, oltre ogni accoglimento, puro sequestro»28. È questa «fedeltà» al compito di essere a trovarsi sempre al centro della critica radicale di Lévinas all’«ontologismo fondamentale» di Heidegger (potremmo anche dire al suo fondamentalismo ontologico). Critica che si presenta subito nei primi scritti, già delineata con la stessa nettezza esibita dai lavori più tardi, e che mostra proprio nella nozione heideggeriana di comprensione (intesa come il «perno di tutta la sua filosofia»29) un filo conduttore molto evidente. Lo troviamo per esempio nel saggio, risalente ai primi anni Trenta, «Martin Heidegger e l’ontologia» (il secondo della raccolta Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger), in cui Lévinas mette in luce le conseguenze della ripetizione del problema dell’essere: «Il passaggio dalla comprensione implicita e non-autentica alla comprensione esplicita e autentica, con le sue speranze e i suoi fallimenti, è il dramma dell’esistenza umana. Passare dalla comprensione implicita dell’essere alla comprensione esplicita significa porsi un compito di padronanza e di dominio all’interno di una ingenua familiarità con l’esistenza che farà forse saltare la sicurezza stessa di tale familiarità»30. Come suggeriscono queste riflessioni di Lévinas, il compito che si pone il Dasein (e di conseguenza l’ontologia fondamentale) è il Dasein stesso in quanto possibilità della comprensione dell’essere. Una volta riportato allo scoperto l’orizzonte della questione dell’essere, questo compito può essere esplicitamente posto e assunto, rompendo la cornice della tradizionale serena contemplazione filosofica: «la comprensione costituisce il modo in cui l’esistenza è le sue possibilità: ciò che era presa di coscienza diventa presa tout court, e con ciò, l’evento dell’esistenza stessa. Al posto della coscienza della filosofia tradizionale, la quale, in quanto prende coscienza resta serena e contemplativa, esterna al destino e alla storia dell’uomo concreto di cui prende coscienza, Heidegger introduce la nozione del Dasein che comprende le proprie possibilità, ma che, in quanto comprendente, compie ipso facto il proprio destino, la propria esistenza nel mondo. Così, la nozione di Dasein, l’illuminazione interna, nota ai
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Cfr. E. Lévinas, Di dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1999, pagg. 68-69. Due anni più tardi, nel primo capitolo di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1978), non prima di aver ricordato che tanto Hegel quanto Heidegger «tentano di svuotare la distinzione tra il soggetto e l’essere della sua significazione», Lévinas riprende in termini analoghi, in poche, fulminanti frasi la sua complessiva contestazione all’ontologia fondamentale di Essere e Tempo: «Lo sforzo heideggeriano consiste nel pensare la soggettività in funzione dell’essere di cui essa traduce un’“epoca”: la soggettività, la coscienza, l’Io suppongono il Dasein che appartiene all’essenza come modalità secondo la quale questa essenza si manifesta dal momento in cui la sua manifestazione è l’essenziale dell’essenza; l’esperienza e il soggetto che fa esperienza costituiscono la modalità stessa in cui, ad una data “epoca” dell’Essenza, l’essenza si compie, cioè si manifesta. Ogni superamento, come ogni rivalorizzazione dell’essere nel soggetto, ritornerebbero ancora all’essenza dell’essere», cfr. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 2006, pagg. 22-23, in cui Lévinas spiega anche come la significazione etica della soggettività umana resista all’«ontologizzazione» cui la metafisica occidentale la sottopone. 29 Cfr. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit, pag. 88, da «L’ontologia nel temporale» (1940). 30 Cfr. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit., pagg. 64-65. Sempre in queste pagine, Lévinas riconosce il «carattere positivo della possibilità che costituisce l’esistenza» nell’ontologia heideggeriana, tale per cui, come abbiamo visto, le possibilità di cui è costituita l’esistenza dell’esserci non sono disponibili nell’indifferenza di una scelta, ma impegnano l’esserci come modi concreti della sua esistenza (nei termini di Essere e Tempo: come «possibilità gettate»).
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filosofi della coscienza, diventa inseparabile dal destino e dalla storia dell’uomo concreto, forma un tutt’uno con essi. L’uomo concreto fa la sua comparsa al centro della filosofia»31. Quel che Lévinas contesta all’ontologia heideggeriana – fortemente debitrice della fenomenologia husserliana32 – è dunque proprio la base metodologica e oggettuale di Sein und Zeit, ossia la con-fusione tra la comprensione di sé da parte del Dasein e la questione del senso dell’essere, strettamente legata alla definizione del Dasein attraverso il proprio poter-essere. E negli anni più bui dei fascismi europei – gli stessi in cui Heidegger andava svolgendo le conseguenze della determinazione dell’esserci come compito33 – Lévinas dava seguito alla sua intuizione, elaborando una critica filosofica rigorosa in grado di inserire l’ontologia heideggeriana nel quadro degli eventi che stavano sconvolgendo il mondo intero. Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo è il titolo di un articolo apparso nel 1934 sulla rivista cattolica «Esprit», in cui Lévinas denunciava nel «risveglio di sentimenti elementari» da parte dell’hitlerismo una minaccia tale da porre in questione i principi stessi di una civiltà. L’hitlerismo esibiva un nuovo rapporto di inerenza al mondo, costituito attraverso il primato accordato all’inaggirabile esperienza del corpo e dell’identità inchiodata a se stessa, cioè all’esistenza che le è assegnata34. Nella Prefazione, stesa in occasione della riedizione dell’articolo nella rivista «Critical Inquiry» nel 1990, dopo aver ribadito la convinzione che muoveva le riflessioni del 1934, cioè che l’origine della sanguinosa barbarie del nazionalsocialismo «attenga a una possibilità essenziale del Male elementale» contro cui la filosofia occidentale non si è abbastanza assicurata, Lévinas spiega che quella possibilità essenziale «s’inscrive nell’ontologia dell’essere che ha cura d’essere – dell’essere “dem es in seinem Sein um dieses Sein selbst geht”, secondo l’espressione heideggeriana»35. Tuttavia, non è la scoperta fenomenologica del fatto che il sentimento sia la via di accesso all’esistenza, in quanto realizza, attraverso il corpo, il rapporto di inerenza al mondo, che Lévinas contesta, ma le conseguenze che sfuggono al pensiero che se ne fa carico, finendo per inchiodare l’uomo al brutale fatto d’esistere. E tale perdita di controllo avviene già e in particolar modo in Essere e Tempo, dove le disposizioni emotive aderiscono, confondendosi, a 31
Cfr. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit., pagg. 75-77. Nella Conclusione del saggio dedicato a «L’opera di Edmund Husserl» (1940), dopo aver ricordato che per Heidegger il soggetto umano «non è né libero né assoluto, non risponde più interamente di se stesso», ma è invece «dominato e oltrepassato dalla storia, dalla sua origine sulla quale non ha alcun potere, poiché è gettato nel mondo e questa derelizione segna tutti i suoi progetti, tutti i suoi poteri», Lévinas nota che Heidegger deve a Husserl il mezzo con cui ha potuto rinnovare la filosofia dell’esistenza: «Ciò che essa [la filosofia esistenziale di Heidegger] apporta di nuovo rispetto al pragmatismo e alle filosofie della vita […] è il fatto di interpretare l’esistenza nelle sue forme meno intellettuali come fenomeno di senso, come un atto di comprensione. Essa non filosofa dal di fuori sul significato dell’esistenza umana, giudicandola, come si fa con dei sintomi. Il significato di ogni situazione umana è immanente a tale situazione che ne costituisce contemporaneamente la comprensione e il compimento. Tutto ciò sarebbe impossibile senza la concezione husserliana dell’intenzionalità. È grazie a questa nozione […] che la filosofia di Heidegger, nonostante l’abisso che la separa da Husserl, malgrado le sue formulazioni, il suo sentimento della realtà, e la novità del suo metodo, rimane debitrice della fenomenologia husserliana», cfr. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit., pagg. 53 e 57. Più avanti, in un altro saggio («Dalla descrizione all’esistenza», pag. 107) Lévinas dirà chiaramente che già in Husserl «sono presenti i dati essenziali che orientano la filosofia verso la nozione di esistenza». 33 Insieme al discorso del 27 maggio 1933, tenuto in occasione dell’incarico a rettore dell’università di Friburgo («L'autoaffermazione dell'università tedesca»), dove ricorre l’appello alla «missione» del popolo tedesco, vanno ricordati in particolare il corso del semestre invernale 1934/35 Gli inni di Hölderlin “Germania” e “Il Reno” e i Contributi alla filosofia (Dell’evento), che raccoglie appunti dal 1936 al 1938. Nelle lezioni del 1934/35 il nostro tema lo ritroviamo nei termini dell’«incarico» (Auftrag) e della «missione» (Sendung), entrambi concernenti l’assunzione e l’approfondimento della storicità del Dasein, e in quelli di «ciò che è lasciato in dote» (das Mitgegebene) e ciò che deve essere ripreso come compito (das Aufgegebene) nell’«ora» del destino del popolo tedesco. I Contributi invece sono attraversati dal tema della preparazione per il compito assegnato dal destino dell’essere, e per la fondazione del Dasein, che in questo periodo è inteso come figura destinale della storia dell’essere (§§ 5, 9, 88, 162, 193, 262). 34 Cfr. E Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, pag. 23 e 31-32. 35 Cfr. ibidem, pag. 21. 32
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quella peculiare apertura del Dasein con cui Heidegger intende la nostra prestazione principale, la comprensione. In Essere e Tempo – leggiamo alla fine del saggio sull’ontologia di Heidegger cui ci siamo già riferiti – la comprensione «non è distinta dall’effettuarsi e dall’effettività stessa del fatto» e le disposizioni emotive «non sono degli stati, ma dei modi di comprendersi, e cioè, dal momento che è la stessa cosa, di esser qui. La situazione emotiva che non si stacca dalla comprensione – grazie a cui la comprensione esiste – ci rivela il fatto che il Dasein è consegnato alle sue possibilità, che il suo “qui” si impone a lui»36. Non solo il contenuto filosofico dell’ontologia heideggeriana, ma è anche l’impostazione metodologica stessa dell’analitica esistenziale che Lévinas oppugna, quella solidarietà, cioè, tra comprensione di sé dell’esserci e disposizione affettiva tramite cui accediamo a quella comprensione, come possiamo leggere in Essere e Tempo (§ 29) quando Heidegger indica nell’essere disposti emotivamente la «remissione» del Dasein al suo stesso essere. La disposizione emotiva ha qui il valore della scoperta del «nudo» aver da essere dell’esserci, scoperta che, «prima di qualunque conoscere e volere», ci inchioda al puro esistere come il proprio «–ci»37. Conclusioni | Il “compito” della teoria politica contemporanea Torniamo al paragrafo 28 di Essere e Tempo, da cui siamo partiti, il cui titolo ora potrebbe suonare: «L’esserci come compito» (al posto di: «Il compito di un’analisi tematica dell’inessere»). Il lessico utilizzato in queste pagine (per l’esserci «ne va» della sua stessa esistenza; «porta con sé» già da sempre il fatto di esistere; non opera, ma «è» la propria apertura), anticipa le analisi della quotidianità e dell’autenticità che seguiranno descrivendo concretamente l’indefettibile aderenza dell’esserci a se stesso. Ma quello che volevamo suggerire con questa breve lettura dei paragrafi di Essere e Tempo dedicati alla costituzione esistenziale e potenziale del Dasein, è proprio che l’esserci diviene compito a se stesso prima ancora di scoprire la sua possibilità «più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile», cioè la morte38. Prima ancora di rendere conto di una possibile autenticità, l’esserci è rimesso a se stesso come puro poter-essere, e, così, assegnato all’analitica esistenziale come sua possibilità nascosta che la questione dell’essere avrebbe risvegliato. Da questa prospettiva possiamo leggere Essere e Tempo in continuità con l’ermeneutica della vita fattizia che l’ha preceduto, e al tempo stesso riprendere uno dei problemi più ingombranti dell’opera incompiuta, quello di una possibile esistenza autentica da parte del Dasein. La determinazione dell’esserci come poter-essere, che fonda e spiega esistenzialmente la comprensione – definizione che regge tutto l’impianto della Seinsfrage, a cominciare dalla 36
Cfr. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit., rispettivamente pagg. 86 e 77-78. Assumiamo anche qui la traduzione di Marini, cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, (a cura di A. Marini), Mondadori, Milano 2006, pagg. 389-393: «Nell’intonazione [Gestimmtheit] l’esserci è già tonalmente dischiuso come quell’ente al quale l’esserci è stato rimesso nel suo essere, l’essere che esso ha da essere esistendo. Dischiuso non vuol dire conosciuto in quanto tale. E proprio nella più indifferente e anodina quotidianità l’essere dell’esserci può erompere come nudo “che è e ha da essere”. Il puro e semplice “che è” si mostra, il da-dove e il verso-dove restano nel buio». Questo carattere dell’esserci, prosegue Heidegger poche righe dopo, «noi lo chiamiamo dejezione [Geworfenheit] di questo ente nel suoi ci, perché come essere-nel-mondo esso è il ci. L’espressione dejezione vuole alludere alla fatticità della remissione [Faktizität der Überantwortung]» (Chiodi traduce «effettività dell’esser consegnato»). Potremmo dire che, prima di inoltrarsi nell’esplorazione della possibilità di essere un tutto autentico da parte del Dasein nella libera assunzione della propria morte, il tema dell’analitica esistenziale fino a quel punto non descriva altro che questa «fatticità della remissione» menzionata nel § 29. 38 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2003, pag. 315 (§ 52). Tale «possibilità specifica dell’Esserci» (§ 49, pag. 304) non ci abbandona mai: «Anche nella quotidianità media, l’Esserci si muove costantemente in questo poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile, sia pure solo nel modo del prendersi cura di una indifferenza opaca CONTRO la possibilità estrema della propria esistenza» (§ 51), pag. 310. 37
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scelta dell’ente che ha tale domanda tra le sue possibilità più proprie – prepara l’apparizione del problema dell’autenticità, che costituisce la base probante per l’analitica esistenziale39. Con l’introduzione del problema di «poter-essere-un-tutto autentico» da parte dell’esserci (Sezione Seconda, Capitolo Terzo) verrà delineato esplicitamente che cosa vuol dire divenire un compito per se stessi in senso autentico, cioè (almeno in Essere e Tempo) assumere liberamente la propria morte. Ma ciò sarà possibile solo perché l’analitica avrà già reso esplicita la «remissione» del Dasein a se stesso descritta nello scadimento quotidiano, e, inoltre, perché già guidata dal poter-essere come determinazione «positiva» ultima, discendente dalla struttura di comprensione che caratterizza l’esistenza del Dasein. Siamo partiti da due questioni, che, in fondo, si riassumono nell’unico interrogativo circa l’interruzione di Essere e Tempo. Da una parte, quella della circolarità ermeneutica che segna l’analitica esistenziale (avvicinare il problema dell’essere analizzando l’ente esemplare Dasein caratterizzato dalla comprensione dell’essere); dall’altra, quella della differenza ontologica (come può una simile indagine, che parte e finisce su un ente, rendere conto della differenza tra essere e ente presupposta nella domanda stessa?). Entrambe hanno trovato nella definizione dell’esistenza del Dasein come poter-essere il loro punto di condensazione, tale da gettare luce sull’impianto dell’opera nel suo complesso. Secondo questa lettura, in Essere e Tempo «fattizio» significa potenziale e l’analitica esistenziale (cogliere l’esistente Dasein nel modo del suo essere) nomina quel procedimento filosofico teso a porre in risalto le possibilità essenziali dell’esserci umano piuttosto che il mero dato di fatto dell’esistenza, o gli atti e la prassi in cui questa si realizza40. L’“esistenzialismo” di Essere e Tempo, da questo punto di vista, non vuol dire altro che: l’essere possibile conta più dell’attuale, o, per esprimerci con la formula di Heidegger stesso: «più in alto della realtà si trova la possibilità». Il ragionamento portato avanti finora non ha fatto che porre i termini minimi di un problema molto più vasto che coinvolge un tema, quello della differenza ontologica, che attraversa tutto il pensiero heideggeriano, almeno da Essere e Tempo in avanti. Limitandoci a mostrare che nell’opera del ’27 non troviamo risposta ai problemi sollevati, abbiamo voluto però indicare una prima acquisizione. La prestazione primaria dell’esserci, il comprendere, con cui Heidegger definisce l’ente che può porre il problema del senso dell’essere che ispira l’opera, rimanda alla pura potenzialità che caratterizza l’essere proprio dell’esserci. Ma che il poteressere, costituivo dell’esserci, si risolva in un compito, e precisamente nell’esserci come compito assegnato a se stesso, porta in superficie un’aporia che eccede il progetto dell’analitica esistenziale, esibendo la carica politica contenuta in quella decisione. Introducendo le riflessioni di Lévinas sull’hitlerismo, Giorgio Agamben indica nell’analitica dell’esserci il paradigma che – inquadrato nella rottura della filosofia del Novecento con la tradizione politica occidentale che tiene ben distinti essenza e esistenza, diritto e fatto, oikos e polis – definisce la situazione politica dell’Occidente. Situazione in cui ancora ci troviamo e che per tratti non marginali coincide con quella da cui mosse il nazismo. Dopo aver richiamato a confronto la dialettica tra eredità (das Mitgegebene) e compito autoassegnato (das Aufgegebene) descritta nelle lezioni heideggeriane del 1934/35 cui ci siamo riferiti, e quella tra eredità biologica e destino storico teorizzata dal biologo nazista O. Versucher (in un libro dal titolo: Igiene razziale come scienza e compito dello Stato), Agamben nota che l’aporia che in entrambi questi testi si esprime è quella di una volontà che vuole 39
Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit, pag. 364: «Soltanto dopo che questo ente sia divenuto fenomenicamente accessibile nella sua autenticità e nella sua totalità, la questione del senso dell’essere di questo ente, alla cui esistenza appartiene in generale la comprensione dell’essere, avrà raggiunto una base fondata». 40 Sembra andare in questa direzione C. Esposito, che così sintetizza l’«oscillazione irrisolvibile» rappresentata dalla differenza ontologica nell’economia della domanda sul senso dell’essere: «Il “senso” è nella possibilità della differenza. In un tale senso la possibilità dell’ontologia si ribalta in ontologia della possibilità», cfr. Heidegger. Storia e fenomenologia del possibile, Levante, Bari 2003, pag. 101. Si veda su esserci e differenza ontologica, nello stesso volume, il Primo Excursus: «L’Esserci come condizione di (im)possibilità dell’essere», pagg. 106 ss..
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trasformare le condizioni fattizie in un compito storico. Come abbiamo tentato di mostrare, potremmo leggere in questi termini non solo la filosofia heideggeriana degli anni Trenta, ma un movimento del pensiero che si segnala già, e più potentemente, nell’analitica esistenziale. Essere e Tempo e la filosofia dell’essere che vi è contenuta si offrono dunque come documento prezioso di quell’epoca che ancora oggi viviamo, quell’epoca che, per usare un’espressione di Lévinas, «non lascia nessuno ai margini della vita»41, e per questa ragione concerne molto da vicino la riflessione politica contemporanea, che si muove, consapevole o meno, in quell’aporia appena ricordata. «È probabile – prosegue Agamben nell’Introduzione – che il mondo in cui viviamo non sia ancora uscito da questa aporia. Non vediamo forse intorno a noi e fra di noi uomini e popoli senza essenza e senza più identità – consegnati, per così dire, irreparabilmente alla loro inessenzialità e inoperosità – cercare ovunque a tastoni un’eredità e un compito, un’eredità come compito? Persino la pura e semplice deposizione di tutti i compiti storici (ridotti a semplici funzioni di polizia interna o internazionale) in nome del trionfo dell’oikonomia assume oggi spesso un’enfasi in cui la stessa vita naturale e il suo benessere sembrano presentarsi come l’ultimo compito storico dell’umanità»42. Ma se la politica del Novecento (e con essa anche il pensiero, aggiungeremmo) si è trovata nell’aporia di voler trasformare le condizioni stesse della fatticità dell’esistenza, o della «nuda vita», come le chiama Agamben, in compito storico, è perché non ha saputo corrispondere (e quindi nemmeno interpretare e tradurre) l’inoperosità essenziale che si segnala proprio nel nostro agire politico. «In che modo – conclude Agamben richiamandosi all’Etica Nicomachea (1097 b 22 sq.) – quest’arghìa, queste essenziali inoperosità e potenzialità potrebbero essere assunte senza diventare un compito storico […] ecco quanto, attraverso e al di là del dominio planetario dell’oikonomìa della nuda vita, costituisce il tema della politica che viene»43. Queste riflessioni di Agamben ci sembrano in continuità col progetto archeologico inaugurato con Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, in cui viene prospettata una «nuova e coerente ontologia della potenza» che, sostituendosi all’ontologia fondata sul primato dell’atto e sulla sua relazione prevaricante con la potenza, prepari una teoria politica «sottratta alle aporie della sovranità»44. Ma, vorremmo aggiungere quale conclusione evidentemente provvisoria, una simile ontologia della potenza e la teoria politica ad essa legata, continuano a muoversi esse stesse nella catastrofica aporia della politica contemporanea, vivendo una fine che non la smette mai di finire, e di cui la tesi capitale di Essere e Tempo: «più in alto della realtà si trova la possibilità», esprime tanto il principio ontologico che la paradigmatica razionalità. Il tentativo di assumere l’essenziale inoperosità e potenzialità della vita umana senza farne un compito storico si trova dunque sempre di nuovo di fronte all’ambiguità che abbiamo cercato di descrivere al cuore dell’analitica esistenziale del Da-sein, tale per cui proprio in ragione della definizione dell’essere umano come pura potenzialità ci si risolve coerentemente e inesorabilmente per affidarlo a se stesso come compito. La costitutiva inoperosità o pura potenzialità dell’ente che noi stessi siamo, lungi dal rappresentare un ostacolo, fosse anche una potenziale resistenza, si presta invece ad essere introdotta – non senza violenza, evidentemente – nell’economia non solo di una riedizione di compiti storici, ma anche nella sempre nuova definizione di compiti, tanto più brutali quanto più “senza storia” essi si presentino. L’ambiguità cui una nuova ontologia della potenza deve far fronte, dunque, insidia quella prassi politica (prima ancora che il pensiero) che assume speranzosa l’un capo della matassa, trovandovi virtualmente inscritta la tendenziale inclinazione verso l’altro; una prassi che, in altre parole, si fa carico di quella nuda vita che non può mai essere «lasciata ai margini». *
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Cfr. E. Lévinas, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008, pag. 14. Cfr. G. Agamben, Introduzione, in: E. Lévinas, Alcune riflessioni sull’hitlerismo, op. cit., pagg. 14-16. 43 Cfr. ibidem, pag. 17. 44 Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, op. cit. , pag. 51. 42
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