Commento Art. 4 CEDU

June 4, 2017 | Autor: Chiara Tripodina | Categoria: Diritti Umani
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Titolo I - Diritti e libertà

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Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato. 1. Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù. 2. Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio. 3. Non è considerato «lavoro forzato od obbligatorio» ai sensi del presente articolo: a) il lavoro normalmente richiesto a una persona detenuta alle condizioni previste dall’articolo 5 della presente Convenzione o durante il periodo di libertà condizionale; b) il servizio militare o, nel caso degli obiettori di coscienza nei paesi dove l’obiezione di coscienza è considerata legittima, qualunque altro servizio sostitutivo di quello militare obbligatorio; c) qualunque servizio richiesto in caso di crisi o di calamità che minacciano la vita o il benessere della comunità; d) qualunque lavoro o servizio facente parte dei normali doveri civici.

Sommario: I. Vecchie e nuove schiavitù. - II. Struttura normativa, definizioni e possibilità ermeneutiche dell’art. 4. - III. Caratteri fondamentali dei divieti di schiavitù e servitù. - IV. Giurisprudenza degli organi di controllo della Cedu. - IV.1 Lavoro forzato od obbligatorio. - IV.1.1. Lavoro richiesto a persone detenute. - IV.1.2. Servizio militare o servizio sostitutivo in caso di obiezione di coscienza. - IV.1.3. Lavoro o servizio facente parte di quelli richiesti in caso di crisi o calamità per garantire la vita e il benessere della comunità. - IV.1.4. Lavoro o servizio facente parte di quelli rientranti nei normali doveri civici. - IV.2. Servitù. - IV.3. Schiavitù e tratta di esseri umani. - V. Diritto italiano in materia di schiavitù, servitù, tratta di esseri umani e sua adeguatezza rispetto al parametro dell’art. 4. - V.1. Repressione. - V.2. Prevenzione e protezione. - V.3. Fenomeni contigui. I. Vecchie e nuove schiavitù. n La schiavitù, ossia l’imposizione del diritto reale di dominium su una persona considerata proprietà di un altro e dunque privata di diritti e libertà e ridotta a “cosa”, è una costante della storia umana, anche se ha assunto forme diverse a seconda dei secoli, delle civiltà, dei contesti 2 socio-economici. n Diffusa nella maggior parte del mondo antico, la schiavitù è stata al principio oggetto di previsioni normative esclusivamente al fine di proteggere da invasioni illecite il diritto di proprietà del padrone sul suo schiavo o di colpire la riduzione in schiavitù di un uomo libero [M. Molè, Plagio (diritto romano), Nov. D., 66, XIII, 166 ss.]. Ha iniziato a essere apertamente contestata sul piano morale, culturale e sociale solo nel secolo dei lumi, quando si è lottato per la sua abolizione universale a fronte del riconoscimento del diritto alla eguale dignità e libertà di ogni essere umano sin dalla sua nascita. Ed è stato proprio sulla spinta dell’illuminismo che, a far data dalla fine del XVIII secolo-prima metà del XIX secolo, la schiavitù e la tratta degli schiavi hanno incominciato a essere progressivamente dichiarate illegittime nella maggior parte degli Stati del mondo occidentale [a titolo di esempio, nel 1772 una senten1

za del giudice inglese Granville Sharp afferma che uno schiavo, toccando il suolo della Gran Bretagna, diventa ipso facto libero; l’art. 1 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, approvata a Parigi il 26.8.1789 dall’Assemblea Nazionale Francese, riconosce che «Gli uomini nascono e vivono liberi ed eguali nei diritti»; il Tredicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti nel 1865 proibisce la schiavitù e ogni altra forma di costrizione personale nel Nuovo Mondo, lasciando tuttavia spazio alle “leggi di Jim Crow” e al segregazionismo razziale, che verrà eliminato dall’ordinamento di molti Stati solo dalla metà degli anni Settanta del Novecento]. n Quanto agli strumenti di dirit- 3 to internazionale pattizio contro la schiavitù, il primo è la Dichiarazione sull’abolizione della tratta dei negri contenuta nell’Allegato 15 dell’Atto finale del Congresso di Vienna dell’8.2.1815, in cui la tratta viene definita come contrastante con il diritto delle genti e la morale universale. A essa fanno seguito, a vietare la tratta di schiavi neri, il Trattato di Londra del 1841; l’Atto generale della Conferenza di Berlino del 1885; la Conferenza di Bruxelles del 1890; la Convenzione di SaintGermain-en-Laye del 1919. Sono invece dei

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primi del Novecento le convenzioni per arrestare la tratta di donne e bambini bianchi a fini di sfruttamento sessuale: la Convenzione internazionale di Parigi per l’eliminazione della tratta delle bianche del 18.5.1904; la Convenzione internazionale di Parigi per l’eliminazione del traffico delle donne bianche del 4.5.1910; la Convenzione per l’eliminazione della tratta di donne e fanciulli del 30.9.1921; la Convenzione per l’eliminazione della tratta di donne adulte dell’11.10.1933. Ma la prima convenzione internazionale volta a contrastare la schiavitù in ogni sua forma e ovunque praticata è la Convenzione concernente la schiavitù, firmata a Ginevra dalla Società delle Nazioni il 25.9.1926, che trova poi la sua naturale evoluzione nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, adottata a Parigi dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10.12.1948, e in particolare nel suo art. 4, per il quale «nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma». Ancora, il divieto di schiavitù costituisce oggetto di disciplina in diverse altre specifiche convenzioni dell’ONU: nella Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi, e sulle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù, adottata a Ginevra il 7.9.1956; nella Convenzione per la repressione della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione, adottata il 2.12.1949 e aperta alla firma a New York il 21.3.1950; nell’art. 8 del Patto internazionale dei diritti civili e politici, adottato a New York il 16.12.1966; nell’art. 11 della Convenzione Internazionale per la tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, adottata il 18.12.1990. Vi sono poi le Convenzioni dell’OIL Sul lavoro forzato od obbligatorio, n. 29 del 1930, Sull’abolizione del lavoro forzato, n. 105 del 1957, Sulla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile, n. 182 del 1999. Sino ad arrivare, quanto al diritto europeo, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, adottata il 7.12.2000 a Nizza, che prevede al suo art. 5 che «1. Nessuno può essere tenuto in condizione di schiavitù o servitù. 2. Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio. 3. È proibita la tratta degli esseri umani» [Per tale disposizione si applica senz’altro quanto previsto dall’art. 52.3 della

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Carta, per cui, «laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa». La protezione più estesa potrebbe riguardare, al limite, la previsione riguardante la tratta degli esseri umani, qualora non la si ritenesse riconducibile ai fenomeni di schiavitù e servitù. Ma non pare essere in questo senso di esclusione l’interpretazione della più recente giurisprudenza della Corte Edu. Si veda in proposito C.edu, Rantsev c. Cipro e Russia, 7.1.2010]. Da ultimo, sul tema specifico della «tratta degli esseri umani», sono da ricordare il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini (c.d. «Protocollo di Palermo») del 2000 e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani, firmata a Varsavia il 16.5.2005. n Di- 4 sposizioni convenzionali ripetute nel tempo e uniformi nei contenuti non smentiscono, ma anzi confermano, la natura, prima ancora che pattizia, anche consuetudinaria del divieto di schiavitù, in ragione dell’esistenza – a partire dal XIX secolo, ma più diffusamente dal XX – di una regola generale universalmente riconosciuta che proibisce la riduzione in schiavitù degli esseri umani e che rende gli Stati internazionalmente responsabili per la sua violazione anche a prescindere dalla loro adesione a uno degli strumenti convenzionali sopracitati [Boschiero, Articolo 4, in Bartole, Conforti, Raimondi, 87; Jacobs, Withe, Ovey, 196; Palmisano, Ragion pratica, 35/10, 475]. n 5 È in un contesto internazionale siffatto che si inserisce, nel 1950, la previsione dell’art. 4 della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a voler ribadire e consacrare solennemente un divieto ormai acquisito da tutti i sistemi giuridici europei. D’altra parte, l’art. 4, con i suo divieti di schiavitù, servitù, lavoro forzato e obbligatorio, lungi dal segnare solo una netta e definitiva cesura rispetto a pratiche aberranti del passato, si è rivelato un potente strumento per perseguire anche le pratiche più

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ambigue, subdole, perverse, ma proprio per questo ad oggi più gravi e diffuse, di schiavi6 smo moderno e contemporaneo. n Nonostante l’abolizione giuridica della schiavitù abbia rappresentato una tappa fondamentale nel processo di civilizzazione che ha portato la totalità degli Stati del mondo occidentale a considerarla oggi illegale, sarebbe un’ingenuità ritenere che ciò sia conciso con la sua definitiva scomparsa: essa esiste a tutt’oggi, anche se non esiste più in quanto tale l’istituto giuridico della schiavitù; ha assunto altre forme, meno visibili e riconoscibili e dunque più difficili da sradicare. Sono quelle che vengono definite le “nuove schiavitù”, il cui catalogo è tristemente lungo e necessariamente aperto: traffico di esseri umani, e particolarmente di donne e bambini, spesso a fini di sfruttamento lavorativo o sessuale; schiavitù per debito; schiavitù sessuale; schiavitù agraria; servitù della gleba; servitù domestica; accattonaggio; lavoro coatto; lavoro nero... Tutte moderne forme di schiavismo, che spesso si sovrappongono le une alle altre. Ma anche forme di “schiavitù contrattaulizzata”, che coincidono con forme estreme di sfruttamento lavorativo, nelle quali la condizione di sostanziale assoggettamento in schiavitù è dissimulata dalla stipulazione di contratti, che impongono però clausole vessatorie tali da implicare la perdita della libertà di movimento e decisione delle persone coinvolte. O forme di schiavitù che, invece, non hanno il loro nucleo nella pretesa di un lavoro o di un servizio, ma che si pongono al confine con la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, come il traffico di organi umani; le mutilazioni genitali femminili; il matrimonio forzato; l’impiego dei bambini nei conflitti armati o nel compimento di attività illegali [sulle nuove schiavitù Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, 00; Carchedi, Mazzonis, La condizione schiavistica. Uno sguardo d’insieme, in Il lavoro servile e le nuove schiavitù, 03, 27-48; Focillo, Le tutele contro il lavoro forzato e la riduzione in schiavitù, in L’organizzazione internazionale del Lavoro. Diritti fondamentali dei lavoratori e pratiche sociali, 07, 97-116; Miscione, Il lavoro nella giurisprudenza, 2/09, 158-159; Roccella, Ragion Pratica, 35/10, 419-438; Saulle, Il traffico illecito di migranti come nuova forma di schiavitù, in Il contrasto al traffico di migranti nel diritto internazionale,

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comunitario e interno, 08, 151-158. Nella letteratura straniera, Scarpa, Traffiking in Human Beings: Modern Slavery, 08; Weissbrodt, Slavery, in Max Plance Enciclopedia of Public international Law, 09]. Forme di schiavitù tra loro molto diverse, ma tali da indurre a ritenere che il numero di schiavi nel mondo oggi sarebbe il più alto in cifre assolute (non in percentuale, se la precisazione può consolare) nella storia dell’umanità [secondo i dati risultanti dalla nota inchiesta di Bales, cit., per il quale il numero di schiavi nel mondo ammonterebbe a ventisette milioni. Si veda pure Belser, The economics of slavery, forced labor, and human trafficking, in Labor and employment law and economics 09, 430, che invece riporta le stime dell’OIL che parlano, nella metà degli anni Duemila, di dodici milioni di lavoratori ridotti in schiavitù. In ogni caso si tratta di dati lontani per difetto dalla consistenza reale del nuovo schiavismo, che resta difficile da quantificare con precisione, rimanendo le sue vittime di fatto spesso invisibili]. n Tratto comune delle nuove 7 come delle vecchie forme di schiavitù è la condizione di debolezza, e dunque di vulnerabilità, dei soggetti a essa esposti: bambini, donne, immigrati clandestini, profughi, richiedenti asilo, in ogni caso poveri. Chiunque, se debole, può essere ancora uno nuovo schiavo del XXI secolo: posseduto o controllato da un altro essere umano per mezzo di maltrattamenti fisici o psicologici o la minaccia di tali maltrattamenti; trattato come oggetto o comprato e venduto come una proprietà privata; spogliato della sua dignità; umiliato nel corpo e nello spirito. In una parola “reificato”. n La Corte Edu, come si ve- 8 drà più oltre, soprattutto nella sua giurisprudenza più recente, tiene conto di queste nuove forme di schiavismo, offrendo un’interpretazione evolutiva e teleologica del termine “schiavitù” contenuto nell’art. 4, per garantire adeguata tutela a tutti i soggetti deboli. II. Struttura normativa, definizioni e possibilità ermeneutiche dell’art. 4. n L’art. 4 si 1 compone di tre paragrafi: il primo contiene il divieto di riduzione e di mantenimento in schiavitù e in servitù, senza in alcun modo definire né l’una né l’altra; il secondo il divieto di costringere a compiere lavori forzati od obbligatori, anche in questo caso senza darne alcuna definizione positiva; mentre una definizione in negativo di lavoro forzato od ob-

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bligatorio può trarsi dal terzo paragrafo, che ha la funzione di delimitare il contenuto del secondo e contribuire alla sua interpretazione, illustrando ciò che non può essere considerato incluso nella condotta da esso vietata: a) i lavori richiesti alle persone legittimamente detenute, b) i servizi di carattere militare o i servizi civili sostitutivi, c) i servizi richiesti in casi di calamità, d) i doveri civici. Mentre le previsioni contenute nelle lettere a) e b) costituirebbero eccezioni in senso proprio al divieto, quelle delle lettere c) e d) rappresenterebbero piuttosto esempi di servizi che non possono esservi inclusi. In ogni caso, tutte ipotesi che, pur nella loro diversità, sarebbero riconducibili ai concetti fondamentali di interesse generale, solidarietà sociale, normalità [C.edu, Van der Mussele c. Belgio, 23.11.1983, §38; C.edu, Karleinz Schmidt c. Germania, 18.7.1994, §22; C.edu, Zarb Adami c. Malta, 20.6.2006, §43; C.edu (dec.), 2 Steindel c. Germania, 14.9.2010]. n La struttura della disposizione, e soprattutto il fatto di avere tenuto distinti i divieti del primo da quelli del secondo paragrafo, sono da ricondurre all’intenzione di conferire alle prescrizioni un diverso grado di intensità: solo schiavitù e servitù, dal momento che investono in modo continuativo e per tempo indeterminato lo statuto della persona nella sua totalità, sarebbero oggetto di divieti assoluti, secondo quanto desumibile anche dalla copertura loro garantita espressamente dall’art. 15, §2, della Convenzione [→ rinvio], che vieta per essi qualsiasi deroga anche in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione [Siliadin, cit., §112; Rantsev, cit., §283]. Mentre, ragionando a contrario, i divieti di lavoro forzato od obbligatorio, pur riflettendo la reazione contro gli orrori dei campi di concentramento e di lavoro forzato della seconda guerra mondiale [Merrills, Robertson, 93, 47], non godrebbero della medesima assolutezza, e gli Stati contraenti sarebbero autorizzati a derogarvi in circostanze eccezionali, trattandosi di fenomeni meno totalizzanti rispetto allo status della persona, presentandosi normalmente come riguardanti il solo profilo dell’attività lavorativa, resa sì involontariamente, ma per un periodo di tempo e per circostanze limitate [contra Zarb Adami c. Malta, cit., che, affrontando un caso di lavoro obbligatorio, non distingue quanto all’inderogabilità tra le fatti-

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specie dell’art. 4, definendo tutti i divieti in esso contenuti come valori fondamentali delle società democratiche, non soggetti, in quanto tali, a eccezioni]. n Quanto alle singo- 3 le fattispecie, nonostante la carenza definitoria dell’art. 4, la Corte di Strasburgo ha più volte espressamente richiamato le definizioni contenute in altre convenzioni internazionali, così importandole all’interno del sistema della Cedu. Sicché per “schiavitù” deve intendersi «lo stato o la condizione di un individuo sul quale sono esercitati gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi» [secondo la definizione contenuta nell’art. 1, §1, della Convenzione concernente la schiavitù del 1926]; per “servitù” «la condizione di chiunque sia tenuto dalla legge, dall’uso o da un accordo a vivere, lavorare o rendere determinati servizi, remunerati o meno, sulla proprietà altrui, nell’impossibilità di mutare il proprio stato» [secondo la definizione contenuta nell’art. 1, alinea b), della Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù del 1956. Entrambe le definizioni sono richiamate in C.edu, Siliadin c. Francia, 26.7.2005, §§122-123]. Tra schiavitù e servitù non vi sarebbe, dunque, una differenza di “natura”, ma di “grado”, essendo anche la servitù una forma di limitazione della libertà personale particolarmente grave e assimilabile alla schiavitù, anche se non in forme tali da ridurre giuridicamente una persona a proprietà altrui. Per “lavoro forzato” si deve intendere «ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente», preteso per un periodo di tempo determinato; per “lavoro obbligatorio” quello prestato nelle medesime condizioni di involontarietà ma occasionalmente [la definizione di lavoro forzato è quella contenuta nell’art. 2, §1, della Convenzione sul lavoro forzato dell’OIL del 1920, data poi per presupposta nella Convenzione sull’abolizione del lavoro forzato dell’OIL del 1957, entrambe richiamate in Van der Mussele, cit., §§32-35; Siliadin, cit., §116]. n Sarebbero dunque og- 4 getto di disciplina dell’art. 4 tutti fenomeni accomunabili per la condizione di servaggio a cui assoggetterebbero un essere umano, ma con intensità e gradazione progressivamente decrescente. [Sull’idea di diversa gradazione e intensità tra i divieti contenuti nel primo paragrafo, e tra questi e quelli contenuti nel

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secondo, la dottrina è concorde: Boschiero, cit., 6 ss.; Harris, O’Boyle, Warbrick, 112; Jacobs, Withe, Ovey, 196; Malinverni, Article 4, in Pettiti, Decaux, Imbert, 177 e 179; Renucci, 02, 106 s.; Merrills, Robertson, 5 93, 47; Velu, Ergec, 225]. n In ogni caso, e in ultima analisi, l’assenza di esplicite definizioni e l’adozione di formule ampie all’interno dell’art. 4 andrebbero forse considerate, più che un problema e un limite della disposizione, un suo pregio, risultando felicemente lungimirante la scelta di non circoscrivere eccessivamente la portata dei divieti, così da consentire loro di investire anche quelle nuove forme di schiavitù che nel 1950 non erano pensabili (interpretazione evolutiva), e realizzare lo scopo precipuo della disposizione di reprimere ed eliminare ogni forma di servaggio e sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo (interpretazione teleologica). III. Caratteri fondamentali dei divieti di 1 schiavitù e servitù. n Per quanto attiene più in particolare alle caratteristiche dei divieti assoluti di schiavitù e di servitù contenuti nel primo paragrafo dell’art. 4, si può affermare che essi rivestano carattere di primarietà e fondamentalità rispetto ad altri diritti e libertà riconosciuti nella Cedu, rientrando a buon diritto nel suo “nocciolo duro” [Russo, Quaini, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, 06, 123]: è evidente, infatti, come la riduzione di un soggetto a oggetto di proprietà altrui comprometta irrimediabilmente il godimento di qualunque altro suo diritto o libertà individuale [Siliadin, cit., §§82, 112; Rantsev, cit., §283]. Per questo la libertà dalla schiavitù e dalla servitù sarebbero diritti irrinunciabili e inalienabili, e il singolo non potrebbe prestare validamente il proprio consenso alla loro limitazione o privazione [D’altra parte, la proposta di aggiungere l’aggettivo “involontaria” al divieto di servitù contenuto nella Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù del 1956 fu rifiutata, dal momento che «non è possibile per nessuna persona contrattare la propria schiavitù» (Un Document A/2929, ch. VI, 18). È meno chiaro, invece, se un impegno volontariamente assunto possa di per sé escludere la ricorrenza delle fattispecie di lavoro forzato od obbligatorio: in questo senso Comm.edu, W., X., Y., Z. c. Regno Unito, 19.7.1968; contra Van der Mussale, cit., §36. Si vedano in

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proposito le considerazioni al IV.1.]. n Riflesso della loro primarietà è il carattere inderogabile che la Convenzione riconosce al divieto di schiavitù e servitù e a poche altre obbligazioni previste dalla stessa (il diritto alla vita, il divieto di tortura, il principio nullum crimen, nulla poena sine lege). L’art. 15 della Convenzione, infatti, se nel primo paragrafo prevede che, in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, gli Stati contraenti possono adottare misure in deroga agli obblighi sanciti dal trattato, nel secondo paragrafo esclude espressamente tale possibilità con riguardo all’art. 4, §1 [Siliadin, cit., §112; Rantsev, cit., §283]. n Per violazione del divieto da parte degli Stati contraenti, d’altra parte, si deve intendere non solo la diretta riduzione in schiavitù o servitù, ma anche il non avere adottato tutte le misure appropriate per reprimere tali forme particolarmente gravi di violazioni dei diritti dell’uomo, così individuandosi a carico degli Stati anche un obbligo di tipo positivo contro la schiavitù e la servitù [Siliadin, cit., §§64-89, 112; Rantsev, cit., §§284-289]. n Dalla inderogabile cogenza dei divieti di schiavitù e servitù sembrerebbe potersi far discendere, come conseguenza ulteriore, la loro natura di obblighi erga omnes, nel senso che il diritto alla libertà dalla schiavitù e dalla servitù rientrerebbe tra quei diritti per i quali tutti gli Stati aderenti alla Cedu avrebbero un interesse giuridico a che siano protetti indipendentemente dalla nazionalità delle vittime [Boschiero, cit., 92-94; in questo senso Icj, Barcelona traction, Light and Power company Limited (Belgium v. Spain), §33, in www.icj-cij.org]. n Da ultimo, la riduzione in schiavitù tende a essere considerata un crimine internazionale dello Stato, intendendo per tale il «fatto internazionale illecito che risulta da una violazione di un obbligo internazionale così essenziale per la salvaguardia di interessi fondamentali della comunità internazionale, che la sua violazione è riconosciuta come un crimine da detta comunità nel suo insieme» [La schiavitù, infatti, in un primo momento era stata espressamente inclusa tra i crimini internazionali dello Stato, insieme a genocidio e apartheid, nei lavori di codificazione della responsabilità degli Stati: Commissione del diritto internazionale, Progetto sulla responsabilità internazionale degli Stati, 96, art. 19, §§2 e 3. L’inclusione della schiavi-

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tù, intesa come “crimine individuale”, tra i “crimini internazionali contro l’umanità” risale già all’art. 6, alinea c) dello Statuto del Tribunale Internazionale Militare di Norimberga del 1954; mentre nel §2, alinee b) e c) del medesimo articolo è inclusa, assieme alla deportazione per lavoro forzato, tra i “crimini di guerra”. L’inserimento della schiavitù tra i “crimini contro l’umanità” è poi ribadita dallo Statuto della Corte penale internazionale, adottato a Roma il 17.7.1998, che la definisce come «l’esercizio su una persona di uno o dell’insieme dei poteri inerenti al diritto di proprietà, anche nel corso del traffico di persone, in particolare di donne e bambini a fini di sfruttamento sessuale»]. IV. Giurisprudenza degli organi di control1 lo della Cedu. n Il rilievo fondamentale e universalmente accettato dei divieti di schiavitù e di servitù ha fatto sì che, per lungo tempo, essi non siano stati adottati come parametro in specifiche pronunce degli organi di controllo della Cedu, tanto da far parlare alcuni dell’art. 4, §1, come di una norma anacronistica [Russo, Quaini, cit., 123], quasi che la sua violazione costituisse un fatto di tale intollerabile gravità e distanza dal grado di civiltà raggiunto dai paesi aderenti alla Cedu da non dovere essere più oggetto di reclamo [de Salvia, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, 01, 188, interpreta l’assenza totale di giurisprudenza in materia di riduzione in schiavitù e servitù fino agli anni Duemila come «indice di un sentimento di totale condanna di tali forme di assoggettamento dell’essere umano, sia da parte degli ordinamenti giuridici che da parte dell’opinione 2 pubblica»]. n Fino agli anni Duemila si può dire, pertanto, che la giurisprudenza degli organi di controllo della Cedu si sia concentrata esclusivamente, quanto all’art. 4, sui suoi §§2 e 3. Nei pochi casi in cui è stata denunciata dai ricorrenti la loro riduzione in schiavitù o servitù, gli organi di controllo l’hanno puntualmente negata, riconducendo le fattispecie contestate a forme di lavoro legittimo alla luce dell’art. 4, §3 [esclude la violazione del divieto di schiavitù Comm.edu, Ventuno detenuti c. Repubblica Federale Tedesca, 6.4.1968; del divieto di servitù in W., X., Y., Z. cit., C.edu, Van Droogenbroeck c. Belgio, 24.6.1982; C.edu, Cipro c. Turchia, 10.5.2001, §§137141]. Bisogna attendere gli anni più recenti per vedere la Corte di Strasburgo riconoscere

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espressamente la violazione dei divieti di schiavitù e servitù, alla luce di una nuova interpretazione evolutiva e teleologica del primo paragrafo dell’art. 4. IV.1 Lavoro forzato od obbligatorio. n La 1 giurisprudenza storica e prevalente degli organi di controllo mira a interpretare e definire che cosa ricada nel divieto di lavoro forzato od obbligatorio ai sensi dell’art. 4, §2, e che cosa invece non vi rientri alla luce dei quattro alinea del §3 del medesimo articolo. Data la mancanza di definizioni nell’articolo in esame, a giudizio degli organi di controllo della Cedu la nozione di lavoro forzato od obbligatorio non può essere desunta solo dalla lettera della disposizione con riguardo al significato delle singole parole, ma va interpretata alla luce del diritto internazionale vigente, e in particolare alla luce dell’art. 2 della Convenzione sul lavoro forzato dell’OIL del 1930 [Van der Mussele, cit., §34; Siliadin, cit., §§116-117]. n Per parlare di lavoro forza- 2 to od obbligatorio occorre la ricorrenza di due elementi costitutivi che devono sussistere contestualmente: in primo luogo, il lavoro – che può essere tanto manuale che intellettuale [Van der Mussele, cit., §33] – deve essere reso dal lavoratore contro la sua volontà; e, in secondo luogo, il lavoro o il servizio deve essere iniquo, oppressivo o inutilmente vessatorio [Comm.edu, Iversen c. Norvegia, 17.12.1963; Comm.edu, X. c. Repubblica Federale Tedesca, 1.4.1974; Comm.edu, X. c. Repubblica Federale Tedesca, 13.12.1979, C.edu (dec.), Antonov c. Russia, 3.11.2005]. In realtà, non vi è perfetta coincidenza tra i criteri individuati dalla giurisprudenza degli organi di controllo della Cedu e le condizioni poste dalla citata Convenzione dell’OIL, che parla all’art. 2, §1, di lavoro o servizio «per il quale detta persona non si sia offerta volontariamente» o «estorto a una persona sotto minaccia di una punizione qualsiasi» [come fa notare anche Corte Edu in Van der Mussele, cit., §37]. In particolare, il primo criterio – quello dell’assenza di consenso al lavoro – viene inteso dagli organi Cedu in senso debole, ritenendosi che il consenso, una volta preventivamente e volontariamente prestato con la libera scelta di una professione o accettazione di un contratto, privi automaticamente il lavoro del suo carattere forzato od obbligatorio, almeno per tutti quegli aspetti che rientrano nel suo esercizio normale e prevedibile,

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senza tenere conto delle circostanze nelle quali il consenso può essere stato originariamente espresso e dei mutamenti delle condizioni che possono essere nel frattempo intervenuti, soprattutto negli impieghi di lunga durata [si vedano Iversen, cit.; W., X., Y., Z., cit.; per un diversa valutazione dell’elemento del consenso tra Commissione e Corte Edu, Van der Mussale, cit., §36]. Ma anche il criterio del lavoro iniquo, oppressivo o inutilmente vessatorio risulta più debole – e dunque meno restrittivo – rispetto a quello della mera minaccia di una punizione qualsiasi [Si vedano, oltre i casi più sopra citati, anche Comm.edu, X. c. Paesi Bassi, 3.5.1983, nel quale un giocatore di calcio, dopo avere rescisso il contratto con la sua precedente squadra, si era visto impedita la possibilità di essere ingaggiato da un’altra squadra a causa della somma proibitiva richiesta per il suo trasferimento. La Commissione aveva ritenuto, nonostante la minaccia degli innegabili svantaggi economici gravante sul ricorrente, di non poterlo considerare né costretto a lavorare contro la sua volontà, avendo egli scelto liberamente la professione di giocatore di calcio e le sue regole, né soggetto a condizioni di lavoro oppressive o inutilmente vessatorie, non risultando lesa la sua libertà contrattuale; e C.edu (dec.), Schuitemaker c. Paesi Bassi, 4.5.2010, in cui la Corte ha ritenuto che non potesse parlarsi di lavoro forzato od obbligatorio per il lavoro che si pretendeva fosse accettato da una cittadina olandese, che non intendeva svolgerlo non ritenendolo adeguato alla sua formazione, nonostante gravasse su di lei la minaccia di vedersi ridotto l’assegno di sostegno concesso in suo favore dall’assistenza sociale in quanto priva di occupazione, con ciò risultando chiaro che per gli organi di controllo l’art. 4 non tutela anche il diritto di scegliere liberamente la propria professione (per casi analoghi: Comm.edu, Talmon c. Paesi Bassi, 26.2.1997; Comm.edu, X. c. Paesi Bassi, 13.12.1976)]. D’altra parte, lo stesso carattere cumulativo delle due condizioni – che non ricorre nella Convenzione OIL – è stato ritenuto troppo rigoroso e suscettibile di favorire pratiche difficilmente conciliabili con il §2 dell’art. 4 [Per considerazioni critiche in dottrina su queste interpretazioni degli elementi costitutivi del lavoro forzato: Boschiero, cit., 80; Van Dijk, Van Hoof, 98, 336; Malinverni, 181; Renucci, 329; Velu,

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Ergec, 228]. n Dall’assunzione di un’inter- 3 pretazione così rigorosa del divieto in oggetto è scaturita una giurisprudenza prevalentemente negativa, volta per lo più a escluderne la violazione, come un’analisi delle decisioni e delle sentenze per alinea del §3 dell’art. 4 dimostra. IV.1.1. Lavoro richiesto a persone detenute. n Quanto al lavoro preteso in regime di de- 1 tenzione o di libertà condizionata, l’art. 4, §3, alinea a) esclude che esso possa integrare lavoro forzato od obbligatorio, purché riconducibile alle attività normalmente richieste alle persone sottoposte a tali regimi. L’avverbio “normalmente” mira a sottolineare che si deve trattare di lavoro ordinario, che può essere preteso a fini retributivi o riabilitativi dai detenuti, escludendo che possa ritenersi legittimo anche il c.d. “lavoro forzato”: è da considerarsi, dunque, una garanzia contro decisioni arbitrarie delle autorità carcerarie sia quanto alla natura del lavoro imposto, sia quanto alla sua intensità o durata [Ventuno detenuti, cit.; Comm.edu, X. c. Svizzera, 14.12.1979, §3]. n La Commissione aveva 2 avuto occasione di esaminare questo profilo della questione con riguardo al caso di “Ventuno persone detenute in prigioni della Germania” [Comm.edu., Ventuno detenuti c. Repubblica Federale Tedesca, 6.4.1968]. I ricorrenti lamentavano il fatto che, durante la loro detenzione in prigione, fossero stati costretti a lavori forzati e obbligatori in violazione dell’art. 4, §2, senza ricevere un pagamento adeguato e senza essere assicurati ai sensi delle leggi di sicurezza sociale. La Commissione aveva respinto le loro rivendicazioni, in considerazione del fatto che l’art. 4 non contiene alcuna previsione con riguardo alla remunerazione o alla copertura sociale dei detenuti per il loro lavoro [in linea con la sua costante giurisprudenza: Comm.edu, G. c. Austria, 23.7.1963; Comm.edu, R. c. Repubblica Federale Tedesca, 28.9.1964; Comm.edu, V. c. Austria, 17.12.1965]. Così pure aveva respinto la tesi che costituisse schiavitù, in violazione dell’art. 4, §1, la parte di lavoro eseguito dai detenuti per conto di imprese private, in esecuzione di contratti conclusi tra esse e l’autorità penitenziaria, ritenendo che anche tale forma di lavoro potesse rientrare nell’ambito del lavoro normalmente richiesto ai detenuti ai sensi dell’art. 4, §3, alinea a), il quale non dà indicazione alcuna sulla circo-

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stanza che il lavoro dei detenuti debba essere svolto esclusivamente all’interno della prigione, potendo anzi il lavoro per imprese esterne offrire maggiori possibilità di riabilitazione e inserimento professionale [l’esplicita esclusione dell’esternalizzazione del lavoro carcerario è invece presente nell’art. 2, §2, alinea c), della Convenzione sul lavoro forzato dell’OIL, per la quale la persona detenuta non può essere «impiegata o messa a disposizione di singoli privati, o di imprese e società 3 private»]. n Anche nel caso dei “Vagabondi belgi” [C.edu, De Wilde, Ooms e Versyp c. Belgio, 18.6.1971] la Corte ha ritenuto che il lavoro imposto a tre detenuti per vagabondaggio non eccedesse i limiti del normale ai sensi dell’art. 4, §3, alinea a), e fosse anzi giustificato in quanto teso alla loro riabilitazione e fondato su una disposizione di carattere generale analoga a quella presente in numerosi Stati membri del Consiglio d’Europa. Il nodo più controverso del caso concerneva il fatto se una violazione dell’art. 4 non dovesse tuttavia riscontrarsi nel fatto che esso riconosce come legittimo il lavoro richiesto a persone detenute, purché siano rispettate le condizioni previste dall’art. 5 Cedu, che prescrive il rispetto di alcuni limiti per la legittimità della privazione della libertà personale da parte delle autorità statali [→ rinvio]: poiché la Corte aveva ritenuto che vi fosse stata violazione dell’art. 5, §4, in quanto i ricorrenti non avevano potuto beneficiare delle garanzie da esso previsto, se ne sarebbe potuta dedurre una ricaduta anche sotto il profilo di specie, in termini di violazione dell’art. 4, così come aveva ritenuto la Commissione. Ma la Corte ha escluso una tale violazione, affermando che, affinché siano rispettate le condizioni poste dall’art. 4, §3, alinea a), è sufficiente che la privazione della libertà dei detenuti sia avvenuta nel rispetto del solo §1 dell’art. 5 e non anche necessariamente degli altri; e, nel caso di specie, la Corte non ha rilevato alcuna violazione dell’art. 5, §1 [§§88-90. Per un commento critico a questa sentenza sotto questo profilo, dal momento che l’art. 4, §3, alinea a) richiama l’art. 5 nel suo complesso, e la violazione del §4 dell’art. 5 mette il detenuto nell’impossibilità di contestare la legittimità della privazione della sua libertà personale davanti a un tribunale, nella dottrina italiana Amodio, Indice pen., 71, 522-528; Pizzorusso, F. it., 71, IV, 231-232; nella dottrina

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straniera: Van Dijk, Van Hoof, 341; Jacobs, Withe, Ovey, 202; Malinverni, cit., 185; Velu, Ergec, 233]. n Nel caso “Van Droogenbroeck” [C.edu, Van Droogenbroeck c. Belgio, 24.6.1982, §§57-60], il ricorrente, ladro recidivo, lamentava di essere stato soggetto a un regime di servitù contrario all’art. 4, §1, per essere stato costretto a prestare lavoro presso una colonia penitenziaria dalla quale non poteva allontanarsi senza il permesso discrezionale del Ministero della Giustizia. Ma la Corte ha ritenuto che la situazione denunciata fosse stata posta in essere nel rispetto dell’art. 5, §1, e che pertanto avrebbe potuta essere considerata servitù solo se avesse comportato una forma particolarmente grave di negazione della libertà; il che, nel caso di specie, non era avvenuto. Quanto alla doglianza ulteriore di essere stato costretto a lavorare contro la sua volontà, dipendendo il suo rilascio dal possesso di una somma di denaro che avrebbe dovuto provenire dalla retribuzione delle mansioni svolte nel penitenziario, la Corte ha ritenuto – anche in questo caso, come nel precedente – che, nonostante fosse stata riscontrata la violazione dell’art. 5, §4, ciò non comportasse l’ulteriore violazione dell’art. 4, essendo sufficiente a escluderla il rispetto dell’art. 5, §1. Inoltre, secondo la Corte, il lavoro richiesto al ricorrente non aveva superato i limiti normali in materia, mirando a reinserilo nella società e avendo come base giuridica norme sulle quali si rinviene l’equivalente in altri Stati membri del Consiglio d’Europa. n Nel caso “Stummer” [C.edu (dec.), Stummer c. Austria, 11.10.2007], la Corte di Strasburgo ha ritenuto ricevibile il ricorso di un cittadino austriaco che aveva trascorso lunghi periodi in carcere e che lamentava la violazione dell’art. 4 per il fatto che il lavoro che aveva ivi prestato non veniva conteggiato per il conseguimento della pensione di vecchiaia, che gli veniva di conseguenza negata per il mancato raggiungimento del numero di mesi necessari. IV.1.2. Servizio militare o servizio sostitutivo in caso di obiezione di coscienza. n L’art. 4, §3, alinea b) esclude ogni servizio di carattere militare dal divieto di lavoro forzato od obbligatorio. n Nel caso dei “Ragazzi marinai” [Comm.edu, W., X., Y., Z. c. Regno Unito, 19.7.1968], quattro giovani cittadini britannici, che si erano arruolati spontaneamente all’età di quindici anni nell’esercito britanni-

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co per un periodo obbligatorio di nove anni da calcolarsi a partire dal raggiungimento del diciottesimo anno di età, avevano successivamente fatto richiesta di essere liberati dall’obbligo assunto nei confronti dell’Arma, ma tale richiesta era stata respinta. Pertanto essi lamentavano, da un lato, di essere costretti a lavori forzati o obbligatori vietati dall’art. 4, §2, e, dall’altro, di essere posti in condizione assimilabile a quella di servitù vietata dall’art. 4, §1. Quanto alla prima doglianza, la Commissione aveva ritenuto che fosse certamente da escludere che il servizio militare prestato potesse integrare una possibile violazione del divieto di lavoro forzato od obbligatorio, alla luce dell’eccezione prevista dall’art. 4, §3, alinea b). D’altra parte, tale previsione non parla di servizio militare “obbligatorio” [come invece fa la Convenzione sul lavoro forzato dell’OIL del 1930, all’art. 2, §2, alinea a), che esclude dal divieto di lavoro forzato «ogni lavoro o servizio di carattere puramente militare richiesto dalla legge sul servizio militare obbligatorio»], e ciò, per la Commissione, al chiaro fine di includere tra i servizi esclusi dal divieto dell’art. 4, §2 anche gli obblighi militari assunti volontariamente [In senso critico, Van Dijk, Van Hoof, 342]. Quanto al secondo profilo di doglianza, la Commissione non aveva ritenuto che potesse escludersi in astratto la violazione del divieto di servitù per il solo fatto che fosse stata esclusa la violazione del divieto di lavoro forzato od obbligatorio: l’art. 4, infatti, tiene ben distinti i due divieti e, sebbene molto spesso essi possano sovrapporsi, non possono essere trattati come equivalenti, sicché la clausola che esclude espressamente il servizio militare dal divieto di lavoro forzato od obbligatorio non comporta di per sé che tale servizio non possa essere esaminato sotto il profilo di un’eventuale violazione del divieto della schiavitù o servitù. Entrando nel merito della questione, la Commissione aveva ritenuto che, da un punto di vista generale, l’arruolamento militare e gli obblighi che ne erano derivati, con le relative restrizioni in termini di libertà e diritti individuali, non fossero tali da potersi parlare di schiavitù o servitù; né, d’altra parte, che valesse a trasformare la condizione di soldato in servitù la giovane età alla quale era stato dato il consenso all’arruolamento. Era da valutare, piuttosto, se fossero state offerte ai minori sufficienti garanzie di tutela della loro volon-

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tà. A questo riguardo la Commissione aveva sottolineato come all’arruolamento avessero dato il loro consenso i genitori dei ricorrenti e come ciò sia normalmente considerato garanzia sufficiente [anche se di solito le legislazioni nazionali prevedono la possibilità, raggiunta la maggiore età, di rivedere le decisioni assunte da minorenni con il consenso dei genitori]. Per tutte queste ragioni, la Commissione aveva escluso una violazione dell’art. 4 sotto il profilo del §1 [Per considerazioni critiche su questa decisione, in ragione sia del peso eccessivo dato dalla Commissione alla presunta volontà dei ricorrenti, sia del periodo eccessivamente lungo durante il quale i ricorrenti sono stati privati della propria capacità di autodeterminarsi: Boschiero, cit., 82; Jacobs, Withe, Ovey, 203; Jayawickrama, The Judical Application of Human Rights Law, 02, 360]. n In un caso recente, il caso 3 “Levishchev” [C.edu, Levishchev c. Russia, 6.7.2009, §§27-33], un militare russo lamentava che il servizio militare, che egli aveva dovuto continuare a prestare in attesa che gli venisse conferito dal Governo un alloggio adeguato per ritirarsi in congedo, integrasse lavoro forzato od obbligatorio. Ma la Corte ha rigettato tale impostazione, ritenendola manifestamente infondata, ribadendo come l’art. 4, §3, alinea b) escluda espressamente dalle condotte vietate il servizio militare anche quando questo, intrapreso volontariamente, dovesse continuare contro la volontà del militare trattenuto suo malgrado nell’esercito. In ogni caso, per la Corte, il militare non era stato trattenuto a lavorare contro la sua volontà, ma era stato lui stesso a scegliere di restare in servizio finché non gli fosse stato fornito un alloggio che egli reputava adeguato; avrebbe potuto anche congedarsi, e dunque smettere di lavorare, senza alloggio. Certo, questo avrebbe comportato uno svantaggio economico per il ricorrente; ma uno svantaggio economico non può essere tale da tradurre un servizio assunto volontariamente in lavoro forzato od obbligatorio. n 4 L’obiezione di coscienza al servizio militare e il conseguente obbligo di prestare servizio civile sostitutivo sono al centro del caso “Grandrath” [Comm.edu, Grandrath c. Repubblica Federale tedesca, Parere(31) 12.12.1966, §32; CM, Ris DH(1967)32, Grandrath c. Repubblica Federale Tedesca, 29.6.1967], nel quale un ministro dei Testimoni di Geova obiettava

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per ragioni di coscienza e religione non solo di non poter prestare il servizio militare obbligatorio, ma di non potere svolgere neppure qualsiasi forma sostitutiva di servizio civile. L’art. 4, §3, alinea b) – letto in combinato disposto con l’art. 9 Cedu – era stato interpretato dalla Commissione, e poi adesivamente dal Comitato dei Ministri, nel senso che, poiché una tale norma riconosce espressamente che gli obiettori di coscienza possono essere obbligati a prestare un servizio civile sostitutivo del servizio militare obbligatorio, occorre concludere che, ai sensi della Convenzione, l’obiezione di coscienza non implichi il diritto a essere esonerato dal servi5 zio civile sostitutivo. n Nel caso “Johansen” [Comm.edu, Johansen c. Norvegia, 14.10.1985], con riguardo all’obiezione di coscienza di un pacifista che non voleva prestare né il servizio militare né il servizio civile, la Commissione aveva affermato che, benché non imposto dalla Convenzione, fosse totalmente compatibile con essa che gli Stati membri pretendessero un servizio civile sostitutivo per gli obiettori di coscienza al servizio militare obbligatorio, essendo chiaro dall’esplicito dettato dell’art. 4, §3, alinea b) che un tale servizio sostitutivo non possa essere considerato lavoro forzato od obbligatorio e che, dunque, sia in linea di principio compatibile con la Con6 venzione. n Come risulta nel caso dell’“Obiettore di coscienza svizzero” [Comm.edu, A. c. Svizzera, 9.5.1984], la possibilità di prestare servizio civile in luogo del servizio militare non è da considerarsi un diritto, dal momento che l’art. 4, §3, alinea d) parla di servizio civile prestato dagli obiettori di coscienza «nei paesi nei quali l’obiezione di coscienza è riconosciuta». È evidente che con ciò la Convenzione non riconosce un diritto al servizio civile sostitutivo, ma lascia gli Stati membri liberi di scegliere in proposito, e il mancato riconoscimento non integra violazione dell’art. 9 Cedu [libertà di pensiero, di coscienza e di religione → rinvio]. IV.1.3. Lavoro o servizio facente parte di quelli richiesti in caso di crisi o calamità per garantire la vita e il benessere della comunità. n La previsione per la quale non sono qualificabili come lavoro forzato od obbligatorio i servizi richiesti in caso di crisi o calamità per garantire la vita e il benessere della comunità è chiamata in causa solo nel caso “Iversen” [Comm.edu, Iversen c. Norvegia,

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17.12.1963.], il primo esaminato con riguardo alla violazione del divieto di lavoro forzato od obbligatorio. Si trattava del caso di un dentista norvegese che, in applicazione di una legge nazionale del 1956 che prevedeva che ai neo-laureati in odontoiatria potesse essere richiesto di prestare servizio odontoiatrico pubblico per un periodo sino a due anni, era stato costretto a lavorare nei territori del Nord del Paese per la durata di un anno, al fine di porre rimedio alla penuria di dentisti in quelle zone disagiate dal punto di vista ambientale e sociale. Tale obbligo rappresentava, a suo modo di vedere, un’ipotesi di lavoro forzato od obbligatorio. La Commissione, investita del caso, si era espressa nel senso che il servizio richiesto, pur obbligatorio, non fosse ingiusto né oppressivo, in quanto si trattava comunque di un servizio di breve durata, che assicurava una remunerazione soddisfacente e, non incidendo sulla scelta professionale ma solo sul luogo del suo esercizio, non comportava in ultima analisi un’applicazione ingiusta, oppressiva o inutilmente vessatoria. Inoltre, non si poteva dire che il lavoro fosse stato imposto contro la volontà del ricorrente, perché senz’altro egli, nell’intraprendere la carriera di dentista, non aveva ignorato la legge che lo prevedeva. Per tutte queste ragioni, la Commissione aveva ritenuto che il servizio richiesto non potesse costituire di per sé lavoro forzato od obbligatorio. Parte dei commissari avevano ritenuto, inoltre, di ascrivere tale servizio tra quelli richiesti in caso di crisi o calamità per garantire la vita e il benessere della comunità ai sensi dell’art. 4, §3, alinea c), avendo riguardo alle condizioni geografiche, climatiche, e sociali di particolare disagio a cui si trovavano costretti gli abitanti dei territori del Nord della Norvegia: ragione ulteriore per escluderne la riconducibilità tra i lavori forzati o obbligatori [L’opinione per cui il servizio richiesto al ricorrente rientrerebbe tra quelli previsti dall’art. 4, §3, alinea c) era stata oggetto di critica, dubitandosi che potesse essere descritta come emergenziale o calamitosa la condizione, pur dura, dei paesi del Nord della Norvegia. La citata previsione riguarderebbe, infatti, la ricorrenza di emergenze acute ma temporanee, come quelle determinate da impreviste calamità naturali, per far fronte alle quali gli Stati membri potrebbero chiedere servizi ai cittadini senza essere costretti a invocare l’appli-

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cazione del più rigido art. 15 della Convenzione: Van Dijk, Van Hoof, 342; Jacobs, Withe, Ovey, 200; Malinverni, cit., 187; Velu, Ergec, 236]. IV.1.4. Lavoro o servizio facente parte di quelli rientranti nei normali doveri civici. 1 n L’alinea d) dell’art. 4, §3 esclude dal divieto di lavoro forzato od obbligatorio i lavori o servizi facenti parte dei normali doveri civici, ossia quelli che è normale aspettarsi da parte dei membri di una comunità nell’interesse della stessa, o anche quelli richiesti a una specifica categoria di cittadini in ragione della posizione che occupano o delle funzioni alle quali sono chiamati all’interno della comunità. Rispetto a quelli di cui all’alinea c), si tratta di lavori o servizi non eccessivamente onerosi e per la pretesa dei quali non è richiesta la ricorrenza di circostanze imprevedibili o urgenti. [In realtà la giurisprudenza degli organi di controllo non è sempre rigorosa nel tenere distinti l’alinea c) e d) del terzo paragrafo dell’art. 4: in Comm.edu, S. c. Repubblica Federale Tedesca, 4.10.1984, la richiesta a un cacciatore di partecipare all’uccisone di volpi per debellare il rischio di un’epidemia di rabbia era stata ritenuta legittima alla luce di entrambe le alinee]. D’altra parte, ciò che è “normale” dovere civico dipende molto da persone, fatti, e anche usi all’interno di una comunità, e non è dunque concetto rapportabile in modo omogeneo a situazioni tra loro razionalmente distinguibili sotto questi profili [Van Dijk, Van Hoof, 343; Malinverni, cit., 188; Velu, Ergec, 237]. Inoltre, un lavoro normale in sé potrebbe rivelarsi non tale qualora la scelta dei gruppi o degli individui tenuti a eseguirlo sia effettuata in base a criteri discriminatori, comportando una congiunta violazione degli artt. 4 e 14 [Van der Mussale c. Belgio, cit., §§38 e 43; Karleinz Schmidt c. Germania, cit.; Zarb Adami c. Malta, cit., 75-79, su cui infra in questo para2 grafo]. n La scriminante del normale dovere civico è stata richiamata nella soluzione di una serie di casi riguardanti avvocati chiamati a prestare servizio d’ufficio a titolo di assistenza giudiziale [si vedano Comm.edu, Gussenbauer c. Austria, 14.7.1972; X. c. Repubblica Federale Tedesca, 1.4.1974, cit.; Comm.edu, X. e Y. c. Repubblica Federale Tedesca, 11.12.1976], o di notai richiesti di percepire un onorario ridotto per i servizi prestati nei confronti di organizzazioni no profit come

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chiese e università [X. c. Repubblica Federale Tedesca, cit.]. Il caso più celebre è quello “Van der Mussele” [C.edu, Van der Mussele c. Belgio, 23.11.1983, §§31-41], relativo a un avvocato praticante belga che, nominato d’ufficio per assistere senza alcun compenso e rimborso di spese un imputato indigente, sosteneva di avere dovuto con ciò dedicarsi a un lavoro forzato od obbligatorio incompatibile con l’art. 4, §2. La Corte ha ritenuto di dover interpretare tale articolo alla luce dell’art. 2 della Convenzione sul lavoro forzato dell’OIL, per verificare se ricorressero i due elementi che questa indica come costitutivi della nozione di lavoro obbligatorio, ossia la minaccia di una pena qualsiasi e la carenza di volontà del lavoratore. Quanto al primo, la Corte ha riconosciuto che, se il ricorrente avesse rifiutato la difesa d’ufficio, sarebbe incorso, se non in una sanzione penale, nel rischio di vedere il suo nome radiato dall’elenco dei praticanti o respinta la sua domanda di iscrizione all’albo degli avvocati: prospettive entrambe sufficientemente temibili per lui da potere integrare la “minaccia di una pena”. Quanto al secondo elemento, la Corte – diversamente dalla Commissione – non ha ritenuto che il fatto stesso che il ricorrente avesse abbracciato la professione d’avvocato fosse di per sé sufficiente per affermare che con ciò ne avesse volontariamente accettato tutti i vantaggi e gli svantaggi; tuttavia, avendo il ricorrente scelto volontariamente tale professione, solo uno squilibrio considerevole e irragionevole tra lo scopo perseguito e gli obblighi assunti per raggiungerlo avrebbero potuto giustificare la conclusione che i servizi richiesti a titolo di gratuito patrocinio rivestissero il carattere di obbligatorietà. Ma, a giudizio della Corte è proprio un tale squilibrio a mancare: infatti, nonostante l’assenza di retribuzione e rimborso spese, le prestazioni effettuate non esulavano dal contesto delle attività ordinarie di un avvocato, contribuendo anzi alla sua formazione professionale e fornendogli l’occasione di accrescere la sua esperienza e ampliare la sua notorietà; oltre il fatto che, limitate per un tempo circoscritto, gli lasciavano sufficiente tempo per il lavoro remunerato. Alla luce di tutto ciò la Corte ha concluso che non si potesse dire che il gratuito patrocinio a cui era tenuto il ricorrente integrasse lavoro obbligatorio; e ciò senza dovere entrare nel merito della questione se il

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gratuito patrocinio prestato dagli avvocati fosse configurabile come “normale dovere civico” ai sensi dell’art. 4, §3, alinea d). Tuttavia, pur non elevandola a ratio decidendi, la Corte ha lasciato nelle righe della sua motivazione l’affermazione per la quale il servizio di assistenza legale gratuita si fonda su un’idea di solidarietà sociale non incongrua, rientrando in un contesto analogo all’ambito 3 dei normali doveri civici. n La scriminante dei normali doveri civici è adottata in modo più esplicito nel recente caso “Stindel” [C.edu (dec.), Steindel c. Germania, 14.9.2010], nel quale un oftalmologo, che aveva conseguito la licenza come medico del Servizio sanitario pubblico e che vi aveva poi rinunciato per non essere soggetto agli obblighi che essa importava scegliendo di trattare i pazienti solo privatamente, lamentava di essere stato chiamato a partecipare al servizio medico d’emergenza organizzato dall’Associazione dei medici del Servizio sanitario pubblico nonostante egli non facesse più parte di tale associazione e non praticasse più all’interno del servizio pubblico, ritenendo che costringerlo a ciò integrasse lavoro forzato od obbligatorio. La Corte ha dichiarato manifestamente infondato il ricorso alla luce dell’art. 4, §3, alinea d). In particolare, la Corte ha ritenuto che il lavoro richiesto non esorbitasse le normali attività richieste a un medico, e che, nonostante il ricorrente non praticasse più all’interno del Servizio sanitario pubblico, tuttavia non gli fosse stato chiesto nulla di differente rispetto al suo lavoro consueto; oltre a ciò, il lavoro era remunerato e poteva comportare anche dei vantaggi accessori, come la liberazione dall’obbligo di essere disponibile per i pazienti oltre l’orario di ricevimento; e in ogni caso non era eccessivamente gravoso, impegnando il medico per sei giorni su tre mesi, e lasciandolo quindi per il resto libero di occuparsi dei suoi pazienti privatamente. Ma soprattutto per la Corte l’obbligo di partecipare al servizio medico d’emergenza rispondeva al duplice fine di sgravare i medici dal dovere di essere sempre tutti disponibili durante le notti e i fine settimana e di assicurare comunque un servizio medico d’emergenza durante questi periodi; ha così affermato che si trattava di un servizio fondato su un’idea di solidarietà professionale e civile che mirava ad affrontare situazioni d’emergenza, e in quanto tale rientrava tra quei nor-

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mali doveri civici che escludono il lavoro forzato od obbligatorio. n Merita una citazio- 4 ne tra quelli in cui si fa ricorso alla scriminante di cui all’alinea d) il caso “Quattro imprese” [Comm.edu, Quattro imprese c. Austria, 27.9.1976], nel quale la Commissione aveva ritenuto che non rientrasse nel concetto di lavoro forzato l’obbligo che grava sui datori di lavoro di calcolare e trattenere tasse e contributi di sicurezza sociale sugli stipendi degli impiegati, ricadendo tale obbligo, al limite, nei normali doveri civici. n In alcuni casi l’art. 5 4, §3, alinea d) è stato chiamato in causa in combinato disposto con l’art. 14 Cedu [divieto di discriminazione → rinvio], sulla base dell’argomento per cui la richiesta di un lavoro o servizio come normale dovere civico non sia più giustificata se la scelta di gruppi o individui tenuti a eseguirlo è stata effettuata in base a criteri discriminatori. Nel caso “Karleinz Schmidt” [C.edu, Karleinz Schmidt c. Germania, 18.7.1994], un cittadino tedesco lamentava che una legge del Länder in cui viveva prevedesse che tutti i cittadini di sesso maschile tra i diciotto e i cinquanta anni potessero essere richiesti di prestare servizio come vigili del fuoco nel comune di appartenenza su base volontaria o, qualora non ci fossero sufficienti volontari, su sollecitazione del comune stesso senza che in tal caso potessero rifiutarsi; in alternativa a una tale chiamata obbligatoria, i comuni potevano anche organizzare un corpo di vigili del fuoco su base professionale, il cui servizio doveva essere pagato con il contributo dei cittadini che erano nelle condizioni di poter prestare servizio come vigili del fuoco volontari ma che si astenevano dal farlo. Per il ricorrente questa pretesa si configurava come discriminatoria, e dunque in violazione dell’art. 14 Cedu, imponendo di pagare il contributo solo agli uomini e non anche alle donne. La Corte, seguendo la sua costante giurisprudenza, ha ritenuto di non poter procedere nel giudizio sulla violazione del divieto di discriminazione senza avere prima valutato se i fatti chiamati a giudizio ricadessero nell’ambito di applicazione di uno dei diritti e delle libertà protetti dalla Convenzione, considerando per il caso in esame la loro riconducibilità alle fattispecie previste dall’art. 4, §3, alinea d). In particolare, la Corte ha ritenuto che il servizio obbligatorio di vigile del fuoco rientrasse tra i normali doveri civici richiamati nell’alinea d) dell’art.

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4, §3, e che il contributo economico preteso in alternativa avesse un carattere di obbligo compensativo così strettamente legato al servizio che i cittadini avrebbero dovuto prestare in proprio da ricadere anch’esso negli obblighi di cui al medesimo alinea [§§22-23]. La Corte, passando a considerare il caso sotto il profilo della lamentata discriminazione di genere, ha inoltre ritenuto che, a prescindere dalla valutazione se esistessero ancora giustificazioni per trattare diversamente uomini e donne in riferimento alla prestazione obbligatoria del servizio di vigile del fuoco, fosse decisivo il fatto che questa obbligazione sussisteva solo nella legge e non nei fatti, dal momento che nessun uomo era stato mai chiamato a prestare servizio di vigile del fuoco obbligatoriamente e che, in conseguenza di ciò, il pagamento del contributo aveva perso il suo carattere compensativo. La Corte ha così concluso che fosse difficile giustificare una disparità di trattamento di genere per il pagamento di un onere di natura ormai esclu6 sivamente fiscale. n Nel caso “Zarb Adami” [C.edu, Zarb Adami c. Malta, 20.6.2006], il ricorrente lamentava il fatto che la legge maltese, che disponeva che i cittadini di entrambi i sessi dovessero prestare servizio come giurati se selezionati in apposite liste, benché apparentemente non discriminatoria quanto al genere, lo era di fatto nella misura in cui prevedeva criteri di iscrizione nelle liste tali da selezionare pochissime donne a tutto svantaggio dei cittadini di genere maschile; denunciava pertanto una violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 4, §3, alinea d). La Corte ha accolto il ricorso in considerazione del fatto che sicuramente il servizio obbligatorio di giurato rientra tra i doveri civici che normalmente possono essere richiesti ai componenti una comunità [§47] e non costituisce dunque di per sé un lavoro obbligatorio, ma può divenire tale se imposto – anche solo di fatto – in modo discriminatorio; cosa che la Corte, nel caso di specie, ha riconosciuto [§§75-79]. 1 IV.2. Servitù. n Bisogna attendere gli anni Duemila perché la Corte Edu si pronunci espressamente in materia di servitù e schiavitù, dando nuova vita al primo paragrafo dell’art. 4 attraverso la lettura di questi storici concetti alla luce delle loro versioni moderne. 2 n La prima sentenza che denuncia una violazione del divieto di servitù risale al 2005, a

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soluzione del caso “Siliadin” [C.edu, Siliadin c. Francia, 26.7.2005]. La ricorrente era una giovane donna togolese arrivata a Parigi all’età di quindici anni con regolare passaporto e visto turistico al seguito di una cittadina francese essa pure di origine togolese, la quale si era impegnata a regolarizzarne la situazione e provvedere alla sua educazione scolastica in cambio di una sistemazione alla pari per il tempo necessario a coprire le spese del biglietto aereo. Nonostante questi accordi, una volta in Francia la donna francese aveva sottratto il passaporto alla ricorrente senza regolarizzarla, costringendola a prestare servizio prima presso di lei, poi presso una famiglia alla quale veniva “prestata”, senza godere di alcuna remunerazione, né poter frequentare la scuola o poter liberamente uscire da sola, sotto costante minaccia di essere denunciata alle autorità per il suo stato di immigrata irregolare. Alla luce di questa situazione di sfruttamento protrattasi per diversi anni, la ricorrente lamentava la violazione dell’art. 4, ritenendo responsabile lo Stato francese per non avere predisposto un sistema repressivo adeguato ad assicurare una protezione concreta ed effettiva dei diritti garantiti dalla Convenzione contro le azioni di soggetti privati. La Corte ha accolto questa impostazione, rilevando, come già in passato avesse avuto occasione di dichiarare con riferimento ad altre disposizioni della Convenzione, che il fatto che uno Stato si astenga dal violare i diritti garantiti non è sufficiente per concludere che ha adempiuto ai suoi obblighi derivanti dall’art. 1 della Convenzione [a partire da C.edu, Marckx c. Belgio, 13.6.1979]. Anzi, soprattutto alla luce della constatazione che gli schiavi di oggi sono soprattutto donne immigrate che lavorano presso privati come domestiche [§§88, 111], la Corte ha affermato che dall’art. 4 discendono necessariamente obblighi positivi per gli Stati membri, nel senso che essi devono adottare norme penali in grado di criminalizzare e reprimere effettivamente ogni atto volto a mantenere una persona nelle condizioni di schiavitù o servitù, pena il lasciare privo di contenuto un articolo che consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa [§§64-89; 112. Cfr. C.edu, M.C. c. Bulgaria, 4.12.2003 con riferimento all’art. 3]. Per ciò che concerne più propriamente il merito della vicenda, la Cor-

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te ha ritenuto che senz’altro il trattamento al quale era stata costretta la ricorrente avesse integrato, come minimo, lavoro forzato, sia perché preteso sotto la minaccia di una punizione – nel caso di specie il rimpatrio obbligatorio in quanto immigrata irregolare – sia perché prestato contro la volontà della persona interessata [§§115-120]. Quanto poi alla valutazione se la ricorrente fosse stata tenuta anche in condizione di schiavitù o servitù, la Corte ha affermato che la Convenzione deve essere impiegata come uno strumento vivo, da interpretare evolutivamente alla luce delle condizioni di vita attuali. Punto di partenza decisivo per un’interpretazione evolutiva dell’art. 4 resta comunque, per la Corte, il riferimento alle definizioni di schiavitù e servitù contenute nella Convenzione concernente la schiavitù del 1926 e nella Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù del 1956. Nella prima – all’art. 1, §1 – la schiavitù è definita come «lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluno di essi»; ma la Corte ha escluso che la ricorrente fosse stata tenuta in un tale regime, assoggettata a un vero e proprio diritto di proprietà e ridotta alla stregua di un oggetto. Nella seconda, la servitù è invece definita – all’art. 1, alinea b) – come «la condizione di chiunque sia tenuto [...] a vivere e lavorare sulla proprietà altrui e a fornire a tale persona, con o senza compenso, determinati servizi senza potere mutare il proprio stato». Alla luce di tale definizione, la Corte ha ritenuto di poter concludere che la condizione in cui era stata tenuta la ricorrente integrasse una vera e propria servitù [§§122129], e che il diritto penale francese in vigore all’epoca dei fatti non le avesse garantito una protezione concreta ed effettiva contro le violazioni subite. [§148. In commento alla sentenza, Di Blasi, Costituzionalismo.it, 3/06; Massias, Revue de sciente criminelle, 06, 139 ss.; Sudre, Marguenaud, Andriantsimbazovina, Gouttenoire, Levinet, Les grands arrêts de la Cour européenne des Droits de l’Homme, 09, 177-184]. IV.3. Schiavitù e tratta di esseri umani. n Quanto alla schiavitù, e particolarmente alla sua versione contemporanea più tristemente diffusa, ossia la tratta di esseri umani, malgrado da tempo si denunciasse la risibilità dei ricorsi avanzati con riguardo all’art. 4 a fronte di sue ben più gravi violazioni [Boschiero,

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cit., 78], bisogna attendere sino al 2010 per vedere approdare alla Corte Edu il primo caso qualificato dalla stessa come “tratta di esseri umani”. Nel caso “Rantsev” [C.edu, Rantsev c. Cipro e Russia, 7.1.2010], il ricorrente, padre di una giovane cittadina russa che si era recata a Cipro con visto artistico per lavorare in un locale notturno ed era deceduta pochi giorni dopo in circostanze non chiare precipitando da un edificio, lamentava la violazione di numerosi articoli della Cedu, e in particolare, quanto all’art. 4, denunciava la sua violazione sia da parte delle autorità russe che di quelle cipriote per avere fallito nell’obiettivo di proteggere sua figlia dal traffico di esseri umani e per non essere state in grado di condurre un’investigazione efficace sia sulle circostanze del suo arrivo a Cipro sia sulla natura del suo impiego una volta lì giunta. La Corte di Strasburgo, nel giudicare su tale violazione, ha fatto importanti affermazioni sul modo in cui deve essere inteso l’art. 4, ribadendo la necessità di accedere a una sua interpretazione evolutiva alla luce delle condizioni del presente [§§272-277]. Tra queste vi è indubitabilmente l’enorme incremento della tratta di esseri umani come fenomeno criminale globale, come già posto in evidenza sia dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di Donne e bambini (c.d. “Protocollo di Palermo”) del 2000 che dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005. Alla luce sia dell’estensione del fenomeno sia delle misure da prendere per combatterlo, la Corte ha ritenuto che la tratta di esseri umani – per come definita nell’art. 3 del Protocollo di Palermo e nell’art. 4 della Convenzione del Consiglio d’Europa – contrasti in sé con lo spirito e gli scopi dell’art. 4 Cedu complessivamente considerato, e dunque ricada nel suo ambito applicativo, senza necessità di appurare quale delle condotte in esso espressamente vietate violi: se la schiavitù, la servitù o il lavoro forzato od obbligatorio [§§279 e 282. È la definizione di «tratta di esseri umani», contenuta identica in entrambi i richiamati trattati internazionali, a tenere insieme, tra le altre, le fattispecie di schiavitù, servitù e lavoro forzato. In senso critico nei confronti della pronuncia della Corte di Strasburgo,

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per l’annacquamento delle tre fattispecie dell’art. 4, Allain, Human Rights Law Review, 3/10, 546-557]. Per la Corte, infatti, la tratta di esseri umani, per la sua natura e i suoi fini di sfruttamento delle persone contro la loro volontà, si fonda sull’esercizio di poteri corrispondenti a quelli di proprietà: gli esseri umani vengono trattati come merci da vendere, acquistare e assoggettare a lavoro forzato, senza alcun pagamento o in cambio di un pagamento infimo, nell’industria del sesso o in altre attività; qualsiasi loro azione è sottoposta a stretta sorveglianza e la loro libertà di movimento è fortemente limitata; sono costretti con violenze, minacce e altre forme di coercizione a vivere e lavorare in condizioni di povertà e miseria estreme. Non vi è dubbio che, per tutto questo, la tratta degli esseri umani concretizzi la versione moderna della tratta degli schiavi, ponendosi in violazione dell’art. 4 della Convenzione [§§278-282]. In considerazione di tutto ciò, la Corte ha ritenuto che, per non contrastare con tale articolo, le misure poste in essere dalle legislazioni nazionali degli Stati membri debbano essere tali da assicurare una reale ed efficace tutela delle vittime della tratta: una lettura evolutiva dell’art. 4 impone pertanto che gli Stati membri, oltre a misure di diritto penale per punire i trafficanti di esseri umani, pongano in essere tutte le misure necessarie anche per prevenire la tratta e proteggerne le vittime. Solo un simile approccio olistico, che combini questi tre aspetti – prevenzione, repressione e protezione – può considerarsi realmente efficace e adeguato. In ultima analisi e dettagliatamente, la Corte ha ritenuto che gli Stati membri debbano impegnarsi in politiche attive e positive comprensive di prevenzione, contrasto e protezione delle vittime della tratta di esseri umani sin dai paesi di origine, assicurando un’adeguata formazione per forze di polizia e magistrati; prevedendo l’obbligo di indagare sulle potenziali situazioni di tratta sulla base di protocolli operativi autonomi che prescindano dalle denunce delle vittime; da ultimo, poiché la tratta è un fenomeno per definizione transnazionale, non circoscritto cioè nella giurisdizione di un unico Stato, cooperando tra di loro efficacemente, al fine di adottare un approccio internazionale comprensivo e integrato contro la tratta stessa, che coinvolga i Paesi di origine, di transito e di destinazione delle vittime. Solo a

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queste strette condizioni l’art. 4 può dirsi rispettato, e la Corte ha ritenuto che ciò non fosse stato fatto nel caso di specie né da Cipro né dalla Russia [§§283-289]. V. Diritto italiano in materia di schiavitù, servitù, tratta di esseri umani e sua adeguatezza rispetto al parametro dell’art. 4. n Alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte Edu in materia di schiavitù e servitù, e in particolare delle decisioni degli anni più recenti [Siliadin, cit., Rantsev, cit.], resta da vedere se gli obblighi positivi rigorosamente pretesi nei confronti degli Stati membri affinché possa dirsi rispettato l’art. 4 – nella triplice e congiunta forma della repressione, prevenzione e protezione – restino soddisfatti dal diritto italiano in materia. V.1. Repressione. n Il reato di “riduzione o 1 mantenimento in schiavitù o in servizio” è previsto dall’art. 600 c.p., che, al co. 1, punisce con la reclusione da otto a venti anni «chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli di proprietà ovvero riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento». Tale previsione è frutto di un intervento legislativo ad opera della l. 228/2003, recante “Misure contro la tratta di persone”, che è andato a riformare l’ambito di incriminazione della fattispecie normativa in discussione con l’intento di conferirle maggiore determinatezza rispetto al passato [il testo previgente dell’art. 600 c.p. puniva chiunque riducesse una persona «in schiavitù o in condizione analoga alla schiavitù»], nonché di ricomprendere esplicitamente in essa alcuni dei più diffusi fenomeni di soggezione e sfruttamento delle persone. La disposizione attualmente in vigore, infatti, oltre a precisare essa stessa la definizione di “schiavitù”, ricalcando la nozione prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1926, sostituisce alla fattispecie della “condizione analoga alla schiavitù” la figura della “servitù”, descrivendo analiticamente – ma con ricorso anche a clausole aperte – le condotte che integrano la riduzione o il mantenimento di una persona in una condizione di «soggezione continuativa», accomunate dallo stato di «sfruttamento» del soggetto passivo attuato, ai sensi del co. 2, «mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfit-

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tamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona». Ai sensi del co. 3 del medesimo articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi «in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di 2 organi». n Gli artt. 601 e 602 c.p., anch’essi modificati nel 2003, puniscono con la reclusione da otto a vent’anni rispettivamente la “tratta di persone”, posta in essere da «chiunque commette tratta di persona che si trovi nella condizione di cui all’art. 600 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al co. 1 del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno», e l’“acquisto e alienazione di schiavi”, posto in essere da «chiunque, fuori dai casi indicati nell’art. 601, acquista o aliena o cede una persona che si trova nelle condizioni di cui all’art. 600». Anche in questi casi è previsto l’aumento della pena da un terzo alla metà se i fatti sono commessi «in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di or3 gani». n L’art. 604 c.p. contempla, poi, l’applicazione delle disposizioni considerate anche al “fatto commesso all’estero” «da cittadino italiano, ovvero in danno di cittadino italiano, ovvero dallo straniero in concorso con cittadino italiano». Ancora, la riforma del 2003 ha aggiunto all’art. 416 del c.p., che punisce l’“associazione per delinquere”, un co. 6, che prevede il caso di associazione criminale «diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli artt. 600, 601 e 602, nonché all’art. 12, co. 3-bis, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25.7.1998, n. 4 286». n Vi sono a completare la materia, soprattutto con riguardo allo sfruttamento sessuale e pornografico di minori, gli artt. da 600-bis a 600-octies; senza dimenticare, quan-

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to allo sfruttamento della prostituzione, la l. 75/1958 sulla “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui” (c.d. “Legge Merlin”), che all’art. 3 sanziona il reclutamento o l’induzione di persone al fine di prostituzione, la partecipazione a organizzazioni nazionali o estere aventi finalità di reclutamento e l’induzione di una persona a recarsi in altro Stato per svolgere la prostituzione. [In commento ai citati artt. 600 ss. c.p.: Ciampa, Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, 08; Lemme, Schiavitù, in Enc. giur., 06; Monaco, Articoli 600602, in Comm. breve cod. pen., 10; Resta, Diritto e formazione, 6/06, 68-80]. n Alla luce di 5 questo complesso e integrato quadro normativo, sembra che il nostro ordinamento soddisfi la pretesa dell’art. 4 della Cedu, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo, di incriminare e perseguire i comportamenti diretti a ridurre una persona in schiavitù o in qualsiasi altra forma di asservimento, che, pur prescindendo dall’instaurazione di un rapporto di diritto dominicale, presupponga rapporti di sfruttamento a vario titolo che derivino dall’approfittamento di condizioni di marginalità sociale, fisica, economica. V.2. Prevenzione e protezione. n Si tratta di 1 verificare se l’ordinamento giuridico italiano risulti idoneo anche soddisfare le altre pretese imposte agli Stati membri dalla giurisprudenza più recente della Corte Edu, ossia prevenire la schiavitù – in particolare la tratta di persone – e proteggere le sue vittime. n L’art. 2 18 del T.U. sull’immigrazione [d. lgs. 286/ 1998, recante “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”], nel disciplinare il “soggiorno per motivi di protezione sociale”, pare idoneo a perseguire tanto l’obiettivo di rafforzare la repressione del traffico di persone, quanto quello di tutelarne le vittime. Più in particolare, in esso è previsto il rilascio di uno speciale permesso di soggiorno allo straniero sottoposto a violenza o a grave sfruttamento, quando vi sia pericolo per la sua incolumità per effetto o del tentativo di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione criminale o delle dichiarazioni rese in un procedimento penale, al fine di consentirgli di liberarsi da tali violenze e condizionamenti e partecipare a un programma di assistenza e integrazione sociale. Il permesso,

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che ha durata di sei mesi, può essere rinnovato per gli stessi motivi per un anno o per il maggior periodo occorrente per motivi di giustizia, e, dopo tale scadenza, può essere rinnovato per motivi di lavoro, ovvero convertito in un permesso di soggiorno per motivi di studio. [La validità di tale meccanismo innovativo previsto dall’art. 18 del T.U. sull’immigrazione è stata riconosciuta indirettamente dal Consiglio d’Europa nella Convenzione sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005, che l’ha fatto proprio mutuandolo nel suo art. 14. L’art. 6, co. 4, del d.l. 300/ 2006, convertito con l. 17/2007, ha poi reso applicabile il meccanismo previsto dall’art. 18 del T.U. sull’immigrazione anche ai cittadini membri dell’Unione Europea, separando la possibilità di partecipare ai programmi di protezione e integrazione sociale dalla necessità di un permesso di soggiorno, in modo da poter tutelare anche le vittime di sfruttamento provenienti dai Paesi dell’Est Europeo, per i quali non vi è più necessità di tale permesso. Sull’art. 18 del T.U. sull’immigrazione, Giammarinaro, Diritto, immigrazione e cittadinanza, 4/99, 34 ss.; Mancini, Traffico di migranti e tratta di persone, tutela dei diritti 3 umani e azioni di contrasto, 09, 75 ss.]. n Sotto il profilo della protezione della vittima e della prevenzione della tratta, vengono in rilievo anche gli artt. 13 e 14 della l. 228/2003. Il primo prevede per le vittime dei reati di schiavitù, servitù e tratta l’istituzione di uno speciale programma di assistenza «che garantisce, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria» [a tale articolo ha dato attuazione il d.p.r. 237/2005]; mentre il secondo, al fine di rafforzare l’efficacia dell’azione di prevenzione nei confronti dei reati di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù e dei reati legati al traffico di persone, prevede la definizione di politiche di cooperazione nei confronti dei Paesi interessati dai predetti reati, nonché l’organizzazione di incontri internazionali, campagne di informazione, corsi di addestramento personale e di ogni altra ini4 ziativa utile allo scopo. n Alla luce di queste disposizioni, si può dire che l’ordinamento italiano tenti di soddisfare anche le pretesa europee di prevenzione e protezione delle vittime dei reati di schiavitù, servitù e tratta, considerandoli momenti qualificanti nella lotta contro il traffico di persone.

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V.3. Fenomeni contigui. n Per l’ordinamen- 1 to italiano restano fuori dalla configurazione delle fattispecie criminose dei reati di schiavitù, servitù e tratta altri fenomeni a questi contigui. Non sono configurabili, infatti, né come schiavitù né come servitù i casi di c.d. “schiavitù contrattualizzata”, ossia di sfruttamento lavorativo, nei quali il datore di lavoro, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, e approfittando della situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità del lavoratore – con le modalità, dunque, previste nel co. 2 dell’art. 600 –, violi norme poste a tutela del lavoratore stesso in termini di orario, sicurezza o retribuzione, ma tramite condotte tali da non integrare i reati previsti dal co. 1 del citato articolo, in quanto connotate da un minor livello di violenza e dall’assenza di condizioni di totale e continua privazione di libertà e autonomia personale [La giurisprudenza ha ricondotto casi gravi di sfruttamento lavorativo alle fattispecie di violenza privata, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione o maltrattamenti ex artt. 610, 629, 630 o 572 c.p.; qualora le condotte siano poste in essere nei confronti di immigrati irregolari, vi è la sanzione prevista agli artt. 22, co. 12, e 24, co. 6, del T.U. sull’immigrazione, per chi occupi alle proprie dipendenze lavoratori privi di permesso di soggiorno, nonché quella prevista dall’art. 12, co. 5, del medesimo T.U. per chi favorisca la permanenza di uno straniero irregolare al fine di trarre un ingiusto profitto dalla sua condizione di illegalità. In letteratura sul punto, Mancini, cit.; La Rocca, La schiavitù nel diritto internazionale e nazionale, in Il lavoro servile e le nuove schiavitù, cit., 94 ss.; Roccella, cit., 433 s.]. n Resta inoltre 2 distinto rispetto al reato di tratta di persone (trafficking in human beings), punito ai sensi dell’art. 601 c.p., il reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina (smuggling of migrants), posto in essere, ai sensi dell’art. 12 del T.U. sull’immigrazione – modificato, da ultimo, dalla l. 94/2009, recante “Norme in materia di sicurezza pubblica” – da chiunque «promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente» [Lo smuggling

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è stato definito per la prima volta sul piano internazionale all’art. 3, alinea a), del Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare, via aria, firmato a Palermo nel 2000 insieme al protocollo contro la tratta di persone, come «il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente»]. Nel caso del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina l’interesse tutelato giuridicamente non è, come nel caso di traffico di esseri umani e di tratta di schiavi, il rispetto dei diritti fondamentali della persona, ma piuttosto il rispetto della sovranità statale e, in particolare, del diritto dello Stato di limitare e controllare l’ingresso illegale di stranieri nel proprio territorio. A tal fine il migrante, agli occhi dello Stato, al pari del suo “contrabbandiere”, agisce volontariamente per ottenere il risultato vietato, ed è dunque suo complice: non vi è nei suoi confronti né offesa alla sua libertà di autodeterminarsi, né fine di sfruttamento [anche se spesso la situazione di debolezza e vulnerabilità dei migranti utilizzatori dei canali di smuggling non è dissimile da quella delle vittime di trafficking, diversa essendo solo la forma di approfittamento; così come medesi-

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mo è il rischio che essi, giunti sul territorio statale di destinazione, cadano negli stessi circuiti di sfruttamento sessuale o lavorativo]. Proprio in questa prospettiva tesa a tener distinte vittime di trafficking da complici di smuggling è da leggersi la l. 94/2009, che ha previsto, tra l’altro, l’introduzione nel nostro sistema penale del reato di immigrazione clandestina [Sulla legittimità costituzionale della l. 94/2009, Corte cost. 249/2010, che ha dichiarato illegittima l’aggravante di clandestinità in essa prevista; Corte cost. 250/2010, che ha escluso la fondatezza delle censure prospettate in riferimento alla configurazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato; Corte cost. 359/ 2010, che ha dichiarato illegittima la legge nella parte in cui non dispone che l’inottemperanza all’ordine di allontanamento dal territorio dello Stato sia punita nel solo caso che abbia luogo senza giustificato motivo. Si veda anche Corte di Giustizia UE, El Dridi, C-61/ 11 PPU, 28.4.2011, alla luce della quale i giudici italiani sono chiamati a disapplicare ogni disposizione nazionale contraria alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2008/ 115/CE (c.d. “direttiva rimpatri”) per come interpretata dalla Corte di Lussemburgo nella sentenza medesima, e segnatamente l’art. 14, co. 5-ter, del T.U. sull’immigrazione, che prevede il reato di immigrazione clandestina].

Diritto alla libertà e alla sicurezza. 1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; b) se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge; c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso; d) se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente; e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo;

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