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Enrico Redaelli
EVENTO (pubblicato in: R. Ronchi, a cura di, Filosofia teoretica. Un’introduzione, UTET, Torino 2009, pp. 21-45)
Ermeneutica Sin dalle sue origini la filosofia si è contrapposta alla doxa, alle mere opinioni, sollevando il dubbio sulle più comuni credenze e mettendo in questione gli antichi miti. Perseguendo l’ideale di un’indagine razionale scevra da dogmatismi e superstizioni, il pensiero filosofico ha ingaggiato una battaglia secolare, politica e culturale, per affrancare il sapere dai vincoli dell’autorità e della tradizione, in favore di una conoscenza che non si basasse su presunte certezze stabilite altrove, ma che fosse in grado di rendere ragione dei propri contenuti, ossia di esibire da sé il proprio fondamento. Questo grande progetto, che ha attraversato la storia della cultura occidentale dalla filosofia alla scienza, è entrato in una crisi irreversibile alle soglie dell’epoca contemporanea. L’attività chiarificatrice della ragione, che, mirando a una verità libera da condizionamenti e presupposti inindagati, pensava di poter tutto illuminare, si è rivelata un abbaglio. Non aveva fatto i conti con l’ombra che sempre accompagna la luce. Da Nietzsche a Heidegger, il pensiero contemporaneo ha portato l’attenzione su quella problematica zona d’ombra che permea e insidia ogni conoscenza razionale, avviando una critica radicale al sistema di saperi così come si è edificato all’interno della tradizione occidentale. Raccogliendo queste istanze, la filosofia ermeneutica ha messo fortemente in questione l’attività chiarificatrice della ragione filosofica e scientifica. Che cos’è, infatti, la conoscenza filosofico-scientifica, ciò che chiamiamo «sapere»? Per l’ermeneutica contemporanea, sapere è porre in luce significati a partire da presupposti che restano in ombra. Vale a dire, ogni «significato» (da intendersi in un senso molto ampio: concetto, definizione, interpretazione, rappresentazione, visione del mondo, teoria) si ritaglia su uno sfondo, ciò che l’ermeneutica chiama «precomprensione»: pregiudizi impliciti, tacite assunzioni, sensi inavvertiti, condizionamenti grammaticali, sociali e culturali che orientano e pre-determinano ogni nostra percezione e conoscenza del mondo. Gli oggetti e i contenuti del sapere sono dunque sempre storicamente determinati, relativi a categorie e paradigmi che ne forniscono la cornice invisibile e il contesto di senso implicito. Questa rete di rimandi e sottintesi, che costituisce la «precomprensione», non solo è ineliminabile ma è la condizione di possibilità del sapere in quanto tale: come non vi è figura senza sfondo, così non vi è significato, o contenuto di conoscenza, che si stagli in piena luce se non a partire da un insieme di premesse sulle quali il nascente bagliore proietta la propria ombra. Con l’ermeneutica, il sogno di una conoscenza priva di presupposti, in grado di esibire il fondamento, il proprio terreno di validità, si è dunque definitivamente infranto, portando a ridiscutere la natura e il senso del sapere stesso. L’esercizio del sapere viene delineandosi – heideggerianamente parlando – come uno svelare velando: la luce della ragione che, illuminando, svela è la stessa che getta l’oscurità dietro di sé, velando la propria origine e condizione di possibilità. Questo gioco di luce e ombra è, per l’ermeneutica, il modo in cui il sapere accade, è cioè il movimento, la dinamica stessa del conoscere. Anche l’esercizio del sapere scientifico è iscritto nella stessa dinamica: è un porre «significati» (le teorie e le oggettivazioni scientifiche, ossia i risultati conoscitivi cui l’operare della scienza mette capo) a partire da presupposti che,
restando celati allo sguardo scientifico, lo orientano e lo rendono possibile (ciò che Husserl chiamava «precategoriale»). Ma se così sempre accade, allora anche l’esercizio della filosofia, come quello di ogni sapere, è soggetto allo stesso movimento. Perciò le conclusioni cui giunge la filosofia ermeneutica, che cioè il sapere è un porre in luce significati a partire da presupposti che restano in ombra, le conclusioni che essa mette in luce, proprio in quanto messe in luce, sono evidentemente un significato, il cui fondamento, retrocedendo sullo sfondo, non può essere esibito. Anche l’attività ermeneutica accade, cioè, a partire dall’ombra e anche laddove essa volesse far luce dietro di sé, sulla propria zona in ombra, di nuovo, illuminando, proietterebbe l’ombra dietro di sé. Le conclusioni dell’ermeneutica si trovano dunque catturate entro la stessa dinamica che vorrebbero indicare e chiarire. Questo paradosso è la sfida che si pone al pensiero contemporaneo e con cui si trova a doversi confrontare la riflessione teoretica successiva a Heidegger. In tale paradosso ne va del senso della filosofia stessa: se anche la ragione filosofica procede per luci e ombre, essa non si distingue più dal mito e dalla doxa, sicché la sua battaglia contro l’oscurità sembra franare sotto i suoi stessi colpi. Ma allora dove si viene a collocare la parola del filosofo, che statuto può ancora rivendicare, che senso può ancora avere la sua prassi? Ereignis Per comprendere come si è giunti a tale paradosso, conviene ripercorrere il problema di questa cornice invisibile entro cui ogni conoscenza è sempre iscritta, di quest’ombra che sempre orla i significati. Prendiamo dunque le mosse dalla riflessione heideggeriana, che con quest’orlo si è sempre confrontato, prima pensandolo come «essere», poi come «evento» (Ereignis). Un sapere rigoroso è tale se, nella sua catena di deduzioni, dimostrazioni e fondazioni, giunge a un termine, a un fondamento ultimo che non richiede di essere ulteriormente fondato ma che è in grado di esibire da sé la propria giustificazione. Tale è l’evidenza. L’epoca moderna muove da questo principio, rintracciando il luogo dell’evidenza nella coscienza: dall’ego cogito cartesiano all’Io Penso di Kant, è sempre una qualche forma di soggettività che si fa garante dell’evidenza. Ed è ancora a questa nozione di evidenza che Husserl si rifà fondando la fenomenologia, quale metodo che descriva in modo rigoroso i fenomeni (siano essi oggetto di visione, percezione, riflessione, calcolo, deduzione, immaginazione o desiderio) così come si manifestano alla coscienza, ossia così come si danno e nei limiti in cui si danno. Ora, il fenomeno si dà alla coscienza: si presti attenzione a questo «si dà» che sta tra i termini «fenomeno» e «coscienza», a questo darsi quale punto di incontro tra ciò che si manifesta e ciò a cui si manifesta (oggetto e soggetto, per usare le tradizionali categorie filosofiche). Questo darsi è più originario dei due poli che pone in relazione: è da qui che prende le mosse la riflessione heideggeriana. Ponendo la questione dell’essere Heidegger fa, per così dire, un passo indietro nei confronti della fenomenologia di Husserl: rispetto all’indagine sui fenomeni così come si danno egli intende retrocedere verso un luogo più originario, si propone cioè di interrogare le condizioni di possibilità di questo stesso darsi. Nella terminologia fenomenologica di Heidegger, infatti, se ente è il fenomeno, ciò che si manifesta, essere è l’orizzonte stesso di manifestatività dei fenomeni. L’ente, dunque, si manifesta, si pone in presenza (si dà come oggetto di conoscenza o percezione), ma il suo manifestarsi avviene sempre a partire da qualcosa che resta, per così dire, «fuori campo». Per manifestarsi, il fenomeno ha cioè bisogno di uno sfondo che, retrocedendo, lo lasci emergere in primo piano. Questo sfondo è appunto l’essere come orizzonte di manifestatività: nell’arretrare perché qualcosa appaia, l’essere si sottrae, non si manifesta mai in quanto tale [cfr. Heidegger 1957]. Non bisogna perciò intendere l’essere come qualcosa di determinato, esso è semmai un puro orizzonte (a partire dal quale si stagliano enti determinati, cioè gli oggetti del sapere o del no-
stro commercio quotidiano col mondo). In quanto non si manifesta e non è determinato, ma è la pura condizione di possibilità di ogni manifestazione e determinazione, l’essere – come Heidegger inizia a pensare a partire da Che cos’è metafisica – è nulla (vale a dire: nulla di manifesto, nulla di determinato). Per esemplificare il rapporto essere/ente come qui delineato, possiamo ricorrere a una di quelle immagini duplici che giocano sull’alternarsi di figura e sfondo. Vedo un vaso in primo piano; se voglio vedere lo sfondo di tale figura, devo spostare lo sguardo finché non vedo comparire, al posto del vaso, due volti che si sfiorano. Per vedere i due volti, però, devo lasciar cadere il vaso sullo sfondo. Ciò che vedo, allora, non è mai lo sfondo «come tale» e questo in due sensi complementari: (1) Ciò che ora vedo (i due volti) non è lo sfondo attuale (lo sfondo della figura che sto vedendo adesso), è semmai lo sfondo della figura che vedevo prima. Lo sfondo attuale, lo sfondo «come tale», resta celato. (2) D’altra parte, se ora vedo lo sfondo della figura precedente, è solo perché nel frattempo esso ha cessato di essere sfondo per divenire figura. Lo vedo, sì, ma non è più «sfondo». Possiamo concluderne: lo sfondo si dà a vedere «in figura», non si dà mai a vedere «come tale». Allo stesso modo, l’essere si dà nell’ente e come ente («in figura» di ente), non si dà mai «come tale»: «come tale» esso è nulla, così come lo sfondo è nulla rispetto alla figura, ne è cioè il mero orlo. Che l’essere sia nulla non significa però che esso sia un «vuoto niente». Heidegger pensa piuttosto l’essere come un nulla attivo, caratterizzato da una specifica motilità: è infatti grazie al suo ritrarsi nell’ombra che qualcosa (l’ente) appare in luce. L’essere è anzi infine identificato da Heidegger con questo stesso movimento: è la dinamica del retrocedere che lascia emergere l’ente in primo piano, è cioè l’accadere stesso dell’ente nel medesimo senso in cui lo sfondo è l’accadere della figura (è il retrocedere del vaso sullo sfondo ciò che dà luogo alla figura dei due volti). Da ultimo Heidegger non parlerà più di «essere» (termine troppo compromesso con la tradizione metafisica e che rischia perciò di creare equivoci) ma nominerà questo movimento come «Evento» (Ereignis) [cfr. Heidegger 1969]. Movimento duplice, poiché è insieme un retrocedere (dello sfondo) e un far emergere (la figura), ma che accade come un unico movimento: retrocedere in quanto far emergere. Nei termini di Heidegger: «ritrarsi» (dell’essere) in quanto «lasciar essere» (l’ente). Evento è dunque la dinamica originaria del darsi, ciò a partire da cui i fenomeni si danno: è quel ritrarsi, quell’andare a fondo, che si genera come sfondo dando luogo a una figura. Tale figura (la si chiami «fenomeno», «ente» o «significato») è ciò che è oggetto di pensiero e di parola, di percezione o di attenzione. L’Evento, viceversa, non può essere detto o pensato come tale. Potremmo anche dir così: i fenomeni che la scienza attesta come «dati di fatto» sono sempre un che di costituito; ma la dinamica originaria che li costituisce non può venire in luce (non è a sua volta riducibile a un «dato di fatto»). In questo senso l’Evento indica il punto cieco della ragione (filosofica e scientifica): ciò che non può essere illuminato essendo l’accadere stesso della luce, che non può essere portato a «significato» essendo la condizione che precede e rende possibile ogni significato, che non può mai essere «rappresentato» («messo in scena», per così dire, dal teatro del sapere) essendo il retroscena (l’origine e la «messa in scena») di ogni rappresentazione. Di qui la crisi della filosofia e del suo progetto razionale, quello di una conoscenza del mondo in grado di rendere ragione dei propri contenuti: se infatti «Evento» indica la dinamica per cui il fondamento va a fondo (sempre si sottrae retrocedendo sullo sfondo), se perciò il fondamento non può essere esibito, com’è ancora possibile un sapere rigoroso? Ovvero, come ci chiedevamo inizialmente, come può la filosofia distinguersi ancora dalla doxa, dal mero opinare e dall’ideologia?
Decentramento La dinamica dell’Evento qui delineata, questo andare a fondo del fondamento, è ciò che Derrida pensa come différance. Per comprendere la différance, torniamo momentaneamente a Heidegger. Egli intende scardinare la «metafisica della presenza», ossia quel modo di pensare che ha caratterizzato l’intera storia del pensiero occidentale e che accorda un indebito privilegio alla presenza: si pensa e si è sempre pensato in termini di presenza, a partire dall’ente semplicemente presente (già «dato»). Anche nell’indagine fenomenologica husserliana, il fenomeno viene determinato come qualcosa di dato «nella sua propria presenza». In questo modo, per Heidegger, viene però rimossa dall’interrogazione filosofica una questione fondamentale e più originaria, ossia come si giunge a tale presenza (al dato, appunto). Più originaria della presenza del fenomeno è la dinamica del venire in presenza del fenomeno (il suo darsi, come anche dicevamo). La presenza del fenomeno come ente semplicemente presente (come «dato di fatto») è soltanto un punto di arrivo, è il risultato di una dinamica originaria la quale non è riducibile ai termini della semplice presenza (non può essere ricondotta a ciò che si manifesta). Ora, non solo il fenomeno è un risultato, ma lo è anche la coscienza (ovvero, ciò che il pensiero moderno ha tradizionalmente considerato come la matrice in cui, per così dire, «s’iscrivono» i fenomeni): muove di qui l’operazione condotta da Derrida sui testi della tradizione occidentale. Egli prosegue e rilancia la decostruzione heideggeriana della «metafisica della presenza» a partire da una rilettura della fenomenologia di Husserl che mira a metterne in questione il principio basilare: l’evidenza. Il principio di evidenza, su cui il padre della fenomenologia intendeva fondare un sapere rigoroso, presuppone infatti una coscienza pura, intimamente e immediatamente presente a se stessa, ed è in questa presunta «purezza originaria» che Derrida ravvisa ancora quel «privilegio della presenza» caratteristico del pensiero metafisico. Ciò che nella storia della modernità è stato pensato come il luogo in cui i fenomeni si appalesano (l’ego cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant fino all’Ego trascendentale di Husserl) è invero da considerarsi, per Derrida, come l’ultima proiezione del sogno della «presenza piena», del «fondamento rassicurante, l’origine e la fine del gioco» [Derrida 1966, p. 376]. Anche la coscienza (la soggettività nelle sue varie forme e declinazioni filosofiche) è cioè sempre stata pensata a partire dalla presenza e in termini di presenza. Infatti, si chiede l’autore, «che cos’è la coscienza? Che vuol dire “coscienza”? Il più delle volte nella forma stessa del “voler-dire”, essa non si dà a pensare, in tutte le sue modificazioni, che come presenza a sé, percezione di sé della presenza. E ciò che vale della coscienza vale in questo caso dell’esistenza che è detta soggettiva in generale. Come la categoria del soggetto non può e non ha mai potuto pensarsi senza il riferimento alla presenza come upokeimenon o come ousia, ecc., così il soggetto come coscienza non ha mai potuto annunciarsi che come presenza a sé. Il privilegio accordato alla coscienza significa dunque il privilegio accordato al presente» [Derrida 1968, p. 44]. Questo privilegio, dice Derrida, ha però iniziato a sgretolarsi sotto i colpi di Nietzsche, Freud e Heidegger: con l’opera di questi autori (e, per certi versi, dello stesso Husserl, se letto in modo «problematico») la coscienza ha iniziato a mostrarsi come un «effetto», un che di costituito che non si possiede mai in una pura e assoluta contemporaneità con se stessa, ma che è originariamente e da sempre esposta all’alterità e alla differenza [cfr. ibid., p. 45]. Nella stessa direzione si muovono Deleuze e Foucault, mettendo in questione il soggetto nel senso moderno del termine, ossia come luogo dell’evidenza ultima su cui fondare il sapere e la conoscenza. Sin dal suo primo articolo, risalente al 1946, Deleuze intende mostrare, in polemica con la fenomenologia, come la vuota interiorità originaria, che caratterizzerebbe il soggetto, non è in sé nulla di certo e di autoevidente [cfr. Deleuze 1946]. Il soggetto non è originario, ma è semmai derivato, e la sua interiorità si costituisce come una sorta di contraccolpo a partire dall’esterno: l’interiorità è cioè una ripiegatura, una piega dell’esteriorità [cfr.
Deleuze 1986, pp. 125-62]. «L’uomo non può darsi nella trasparenza immediata e sovrana di un cogito» è invece la critica che Foucault rivolge implicitamente a Husserl [Foucault 1966, p. 347]. Qui anch’egli, come Derrida, cita Nietzsche e Freud, oltre che Marx, nel rilevare come, in epoca contemporanea, il soggetto (o la coscienza) inizi a perdere le caratteristiche che l’avevano designato come un che di puro e originario. E ancora lungo tutto il XX secolo (nota di nuovo Foucault nell’Archeologia del sapere, riferendosi questa volta alle ricerche di Lacan, Saussure e Lévi-Strauss), la soggettività verrà sempre più a delinearsi come un risultato, come l’effetto di superficie di una serie di istanze e dinamiche profondamente intrecciate tra loro (riconducibili, di volta in volta, al linguaggio, alla cultura, ai rapporti economici, alle leggi dell’inconscio, ecc.). Non più originario in se stesso, non più immediatamente presente a se stesso, il soggetto appare «decentrato»: «Le ricerche della psicanalisi, della linguistica, dell’etnologia hanno decentrato il soggetto in rapporto alle leggi del suo desiderio, alle forme del suo linguaggio, alle regole della sua azione o ai meccanismi dei suoi discorsi mitici o favolosi» [Foucault 1969, p. 19]. Soggetto e oggetto, coscienza e fenomeno – i due poli che la filosofia ha sempre individuato come base della conoscenza, nel tentativo di fondare il sapere ora sull’uno ora sull’altro – si trovano dunque entrambi decentrati in se stessi: non originari (e perciò impossibilitati a fungere da «fondamento»), devono piuttosto la loro origine a un altrove. La loro luce, per così dire, è sempre orlata e contornata da un’ombra. Ora, quest’altrove, quest’origine «in ombra», non si può pensare in termini di «presenza». Qui appunto si radica lo scarto che Derrida opera, sulla scia di Heidegger, rispetto alla «metafisica della presenza»: la presenza (sia come presenza del fenomeno alla coscienza, sia come presenza della coscienza a se stessa) non è mai all’origine. Ma ciò non significa che l’origine debba essere pensata in termini negativi, come assenza o sottrazione. La decostruzione della metafisica della presenza operata da Derrida non conduce cioè a una teologia negativa o a una filosofia dell’assenza: «Mi è capitato, sì, di parlare di non-presenza, ma volevo designare, più che una presenza negata, “qualcosa” (niente, è vero?, nella forma della presenza) che si scarta dall’opposizione presenza-assenza (presenza negata), con tutto ciò che essa implica» [Derrida 1972, p. 126]. Questo «qualcosa» che sta all’origine non è poi qualcosa di determinato, ma è semmai il venire in presenza di «qualcosa» (di un ente determinato). È il darsi quale dinamica più originaria tanto del fenomeno quanto della coscienza (sia dell’oggetto che del soggetto). Ossia, quell’apertura della manifestatività che Heidegger ha infine pensato come Ereignis: insieme un manifestarsi e un sottrarsi, un venire in luce (della figura) in quanto retrocedere (dello sfondo). In quanto reciproco determinarsi di figura e sfondo, di presenza e assenza, tale dinamica non è di per sé «in presenza» più di quanto non sia «in assenza» (non è riconducibile a tali termini, che ne sono piuttosto il risultato). Quest’ombra, che sempre orla i significati, non è neppure pensabile, in termini ermeneutici, come «precomprensione»: significherebbe altrimenti ricondurre la dinamica originaria, che sfugge ad ogni categorizzazione, alla catena di significati che storicamente si tramandano nella forma implicita dei pregiudizi, delle tacite assunzioni, dei condizionamenti grammaticali e culturali. Ma quest’origine, essendo la condizione a partire da cui emergono i significati, non può essere spiegata a partire dai significati e dal loro tramandamento storico [cfr. Derrida 1993, p. 207]. Come dunque pensare tale dinamica originaria senza ricondurla ad altro (alla storicità, all’infinito interpretare ermeneutico) e senza ridurla alle classiche opposizioni concettuali (fenomeno/coscienza, presenza/assenza, empirico/trascendentale) che è essa stessa a generare nel suo movimento? Différance
È nella nozione di différance che Derrida trova la via per pensare questa dinamica originaria al di fuori di qualsiasi opposizione concettuale [cfr. Derrida 1968]. Tale termine, che gioca sulla parola francese différence, indica infatti quel movimento che è il prodursi delle differenze (e perciò anche delle opposizioni concettuali), ossia il venire in presenza di qualcosa di determinato nella sua differenza da qualcos’altro. La desinenza ance, richiamando il participio presente del verbo différer, «ci ricorda l’azione in corso del differire, ancor prima che essa abbia prodotto un effetto costituito» [ibid., p., 35]. Si tratta dunque di un processo in corso, ovvero, nei nostri termini, del movimento del manifestarsi (degli enti, direbbe Heidegger, o dei «significati», come qui diciamo, nelle loro determinazioni e reciproche differenze, prima ancora che essi siano dati in presenza). Movimento sempre in corso, poiché sempre, in ogni momento, la différance accade. Essa è anzi l’accadere stesso: l’accadere del senso, il suo determinarsi in «figure» (enti, significati o interpretazioni) ogni volta diverse, ogni volta storicamente «finite» (limitate e prospettiche). La différance di Derrida e l’Ereignis di Heidegger indicano dunque la medesima istanza: l’evento del senso e del linguaggio, il loro aver-luogo [sull’Ereignis come «aver-luogo» del linguaggio, cfr. Agamben 1982]. Ma rivestono un ruolo differente all’interno delle riflessioni dei due autori. Come l’Ereignis, la différance non può essere detta o pensata «come tale». Derrida ne parla infatti in termini di «traccia», ossia come un’azione del tracciare che, lasciando dei segni e scomparendo in essi, in sé non si mostra: «la traccia non è mai come tale in condizione di presentazione di sé. Presentandosi essa si cancella» [ibid., p. 52]. Questo suo cancellarsi come traccia, questo suo sottrarsi alla parola è già implicito nel modo stesso in cui Derrida costruisce tale nozione. Il neografismo différance si pronuncia in francese esattamente come différence (grammaticalmente corretto) e lo scarto tra le due parole si avverte unicamente sul piano della scrittura (la a al posto della e). La différance, dunque, letteralmente non si lascia dire: essa piuttosto si scrive e s’iscrive nei suoi effetti, nelle sue figure volta a volta determinate (si ricordi l’esempio dello sfondo che non si dà mai a vedere «come tale», ma si dà a vedere soltanto «in figura»). Rispetto all’Ereignis, però, la différance non solo non si lascia pensare come tale ma non è neppure «da pensare». Derrida lo ribadisce più volte: la différance non è né un nome né un concetto. Egli prende dunque congedo dal tentativo, in cui ancora si dibatteva la riflessione heideggeriana, di «pensare l’Evento». Se l’Ereignis di Heidegger indica la «cosa stessa del pensiero», ciò verso cui il pensiero deve dirigere i propri sforzi nel tentativo di pensare l’impensabile, la différance non è il punto d’attrazione verso cui s’indirizza il pensiero di Derrida, nella speranza di afferrare l’inafferrabile [sulla «speranza» heideggeriana, cfr. ibid., p. 57], ma è una nozione puramente performativa. Non è cioè oggetto o tema di riflessione, ma riveste, nell’economia dei testi derridiani, un ruolo esclusivamente «strategico». Per comprendere quale ruolo essa giochi è necessario prima mettere in evidenza la torsione che il problema dell’Evento, ossia dell’origine, subisce nel passaggio da Heidegger a Derrida. Torsione che qui possiamo iniziare a delineare in questi termini: la questione, per Derrida, non è «pensare» l’origine, ma elaborare e praticare un ethos che sappia farsi carico del problema dell’origine. Iniziamo allora col chiederci: che cosa propriamente accade quando cerchiamo, identifichiamo, diciamo l’origine? Origine Prendiamo le mosse dall’analisi che Derrida svolge di un testo di Husserl, L’origine della geometria, che costituisce l’Appendice III alla Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. È qui in gioco appunto una ricerca dell’origine, in particolare delle condizioni di possibilità della geometria e dei suoi oggetti. Questi non sono per Husserl entità che preesi-
stono all’uomo e che, a un certo punto della storia, si rivelerebbero alla coscienza umana. La loro origine è invece intrinsecamente storica, sorge cioè a partire da concreti atti umani: dai gesti di coloro che inizialmente solcarono nel terreno le prime figure geometriche a quell’operare sempre più astratto e sofisticato di matematici e geometri che via via diede forma alla geometria così come noi la conosciamo. Si tratta dunque di risalire agli «atti fondatori», gesti forse anche inconsapevoli nel loro primo incerto abbozzare, che hanno reso possibile il costituirsi della geometria come oggi è compiutamente composta e formalizzata. Tali atti costituenti potrebbero anche non aver avuto, per chi li compiva, il senso che noi oggi, alla luce della geometria già costituita, riconosciamo loro. Ora, Derrida pone l’attenzione proprio su questo punto: sulla base del senso della geometria costituita, l’analisi fenomenologica di Husserl intende risalire agli atti costituenti. Vi è qui un reciproco implicarsi di costituente e costituito: il problema del costituente si lascia approcciare solo a partire dal costituito. «Vale a dire, per una necessità che non è per nulla una fatalità accidentale ed esteriore, io devo partire dalla geometria già costituita così come è in uso ora e la cui lettura fenomenologica mi è sempre possibile, per interrogare attraverso essa il suo senso d’origine» [Derrida 1962, p. 99]. Questa necessità, che Husserl rileva con il termine Rückfrage (domanda di ritorno), mostra per Derrida il carattere intrinsecamente «retroattivo» di ogni ricerca dell’origine: per accedere all’origine di un processo (quale il costituirsi della geometria), si deve necessariamente prendere le mosse dal punto di arrivo di quello stesso processo, dal senso che nel frattempo esso ha acquisito per noi e che illumina così retroattivamente il punto di partenza. Questo «effetto retroattivo» è ciò che, nella Scienza della logica, Hegel ha messo in luce come dinamica propria del pensiero. Si tratta del problema della riflessione, che qui potremmo esemplificare in questi termini: il linguaggio pone in presenza la parola a partire da un presupposto (ciò a cui la parola si riferisce). Sicchè abbiamo un posto (ad esempio, la parola «gatto») a partire da un presupposto (ciò che la parola «gatto» evoca). Ma questo presupposto è in realtà, letteralmente, un pre-supposto, qualcosa che è supposto essere prima: prima del linguaggio, prima della parola. Supposto da chi? Dal linguaggio stesso. Il linguaggio è strutturalmente pre-supponente, suppone come precedente a sé ciò che le sue parole evocano. Infatti, io non incontro mai il gatto, ciò che la parola evoca, ma sempre un particolare e determinato gatto. Il gatto del linguaggio, quest’universale astratto, non sta da nessuna parte se non nel linguaggio stesso: esso è un presup-posto, posto cioè dal linguaggio, a partire dalla parola, come proprio presupposto. Come il costituente è sempre inteso a partire dal costituito, così il presupposto è sempre determinato retroattivamente a partire dal posto. Ma questo movimento di rimbalzo, per cui ciò che è posto proietta indietro la propria condizione, è ciò che abbiamo visto esser proprio della dinamica dell’Evento: l’ente, ciò che si manifesta, ponendosi in presenza, ricopre l’Evento, l’apertura originaria che lo ha reso possibile nel suo stesso manifestarsi. Sicché tale origine è sempre «entificata», pensata come ente e a partire dall’ente. Lo sfondo, come anche dicevamo, si dà a vedere soltanto «in figura». Bergson parlava in proposito di «azione retrograda del vero»: il vero non si pone soltanto nello spazio aperto dalla propria origine ma anche si retroflette e riconfigura la propria origine a partire da sé. La storia, come si suol dire, la scrivono i vincitori: a guerra conclusa, una nuova verità si fa strada nel presente ma anche, contemporaneamente, si retroflette sul passato, riconfigurando le vicende belliche da cui è essa stessa emersa; l’origine si dà a vedere a partire dal suo punto di arrivo, il quale proietta indietro il proprio contenuto di verità. Si avverte subito, qui, il carattere «ideologico» di questo modus operandi. Ma questo – ci dicono Hegel, Bergson, Heidegger come in una sola voce – è il modus operandi del pensiero in quanto tale, è l’accadere (l’Evento) del linguaggio, il suo movimento precipuo, la sua dinamica. Ogni dire, ogni interpretare, accade come uno svelare velando: ciò che si svela, con la sua stessa presenza vela la propria origine. Diciamolo, da ultimo, in termini derridiani: la différance lascia traccia in ciò cui dà luogo; sicché essa si lascia comprendere, come origine, solo a partire da ciò che ha
tracciato (ovvero, non si lascia comprendere «come tale», ma sempre e solo retroattivamente a partire dai suoi effetti). Se questo è chiaro, iniziamo allora a comprendere che il problema dell’Evento o della différance (di quest’origine che non si può dire, ma che invero si dice sempre – per retroflessione) è un problema etico, non teoretico. Per così dire, nella ricerca dell’origine da parte di Husserl, il problema non è l’origine, è Husserl; vale a dire: è la pratica fenomenologica, la prassi della filosofia (e del sapere in generale), il suo inevitabile procedere per proiezioni retroattive. Non dunque un problema di contenuto, relativo a questa o quella interpretazione dell’origine, ma un problema di metodo, relativo alla prassi filosofica, alla sua dinamica, ossia: al modo stesso in cui la filosofia accade, a ciò che essa fa ogni volta che è messa in atto. Infatti, nella sua prassi, nel suo procedere, la filosofia è un accadere, è l’accadere dell’Evento, la messa in opera della différance; ma questo significa: il suo modo di procedere, come quello di ogni linguaggio (ovvero, il suo modo di procedere in quanto linguaggio), è un retroflettere. Ora, se la sua prassi è strutturalmente un retroflettere, prima ancora che la filosofia dica qualcosa, qualunque cosa dirà è già ideologico in partenza. È, e sarà sempre, un ricoprire l’origine a partire dalle sue «figure». Perciò la filosofia non può più limitarsi a «dire», a procedere semplicemente per teorie e argomentazioni. Qui il problema. La questione è cioè come procedere, ovvero come trasformare, come orientare diversamente questo modo di procedere affinché non sia più ideologico nei suoi effetti. Questione di prassi, appunto, relativa al modo in cui la filosofia va esercitata e praticata. Ecco che allora il problema dell’origine (o dell’Evento), rispetto all’impostazione che ne dà Heidegger, subisce una torsione che ne modifica la fisionomia: il problema non è l’Evento in quanto tema del pensiero filosofico, ma l’Evento in quanto accadere dello stesso pensiero filosofico, con le sue retroflessioni. Non si tratta perciò di «pensare» l’Evento, ma di elaborare ed esercitare una prassi (un ethos) che sappia farsi carico delle sue figure retroflesse. Come dicevamo, il problema è etico e non semplicemente teoretico. Ora, questa torsione si annuncia nella nozione di différance così come è messa in opera da Derrida: essa richiama ancora la dimensione dell’ombra e dell’Ereignis, ma unicamente a fini performativi. Più volte il pensatore francese ribadisce la natura performativa della sua pratica filosofica, la decostruzione: essa, più che un semplice dire, è un fare. Ciò che più importa, in essa, non sono cioè i «contenuti» presi di per sé (ciò che è «detto»), ma l’operazione che si compie attraverso di essi. L’obiettivo di Derrida è appunto quello di esercitare, nella scrittura filosofica, un ethos, un «modo di procedere» che sappia farsi carico del problema dell’origine e delle sue figure: quale ruolo «strategico» giochi, in questo ethos, la nozione di différance (o le nozioni affini via via coniate da Derrida), lo vedremo successivamente. Prima, riprendiamo le fila del percorso sin qui svolto, tornando al paradosso dell’ermeneutica da cui siamo partiti. Andenken Sapere è porre in luce significati a partire da presupposti che restano in ombra (ombra cui abbiamo dato il nome di Evento o différance). Ma queste conclusioni, in quanto messe in luce, sono a loro volta un «significato», il cui fondamento non può essere esibito e riposa a sua volta nell’ombra. Il paradosso in cui è catturata l’ermeneutica può ora essere riformulato in questi termini: nel suo procedere l’ermeneutica accade come ogni linguaggio (in quanto linguaggio), sicché, nel tentativo di spiegare l’origine del sapere e del comprendere (parlando di «precomprensione», «pregiudizi», «storia degli effetti», ecc.), non fa che retroflettere, in modo del tutto inconsapevole, le proprie «figure». Questo aspetto problematico dell’ermeneutica, relativo al suo modo di procedere, è quanto Vattimo rileva in termini di «storicità». Se ogni significato, ossia ogni conoscenza, accade entro un orizzonte – a partire cioè da un insieme di presupposti che, come una cornice invisibile, ne orla e condiziona il senso – e se
tale orizzonte non può essere esibito perché sempre retrocede sullo sfondo, allora è per Vattimo necessario una ridefinizione della filosofia, dei suoi compiti e del suo modus operandi. È necessario, anzitutto, che il discorso filosofico-scientifico abbandoni la surrettizia posizione in cui tradizionalmente si colloca, quella di chi pretende di osservare il mondo attraverso uno sguardo panoramico (come se ogni sguardo non accadesse entro un orizzonte, sempre prospettico) e di descriverlo in modo neutrale (come se fosse possibile una descrizione priva di presupposti). Si tratta perciò di mettere a tema, anziché lasciar cadere nel vuoto, il problema della collocazione storica dell’osservatore [cfr. Vattimo 1987, p. 41]. Ora, se da una parte l’ermeneutica sembra accogliere queste istanze, dall’altra però il suo stesso discorso continua paradossalmente a collocarsi in una posizione panoramica e neutrale. Si radica qui la critica che Vattimo rivolge all’ermeneutica di Gadamer. Questa infatti si propone come una teoria che spiega l’esperienza umana come attività interpretativa (col suo gioco di luci e ombre) e descrive la storia come susseguirsi di interpretazioni. Ma per Vattimo la filosofia ermeneutica «non può confondersi con una ennesima “descrizione” delle strutture dell’esperienza» [Vattimo 1987, p. 45]. Non può cioè porsi come un discorso teorico, non può procedere in termini puramente descrittivi, ad esempio definendo che cos’è l’interpretazione (o la comprensione, in termini più strettamente gadameriani) e come essa avvenga. Tale modo di procedere omette il problema della propria collocazione e glissa sulla propria storicità, non rende cioè conto della natura interpretativa (limitata e prospettica) dei propri contenuti teorici. L’ermeneutica, in ultima analisi, non si accorge che il problema della storicità della conoscenza, in quanto sempre dipendente da un orizzonte (ciò che Heidegger chiama Ereignis e che Derrida pensa come différance), il problema per cui ogni «significato» (discorso, interpretazione, teoria) è sempre contornato da un orlo che lo limita e lo circoscrive, questo problema non può essere semplicemente oggetto di un discorso poiché esso sta semmai alle spalle di ogni discorso, compreso quello ermeneutico. «L’ermeneutica non è solo una teoria della storicità (degli orizzonti) della verità; è essa stessa una verità radicalmente storica» [Vattimo 1994, p. 9]. Proprio in quanto teoria, è cioè essa stessa condizionata e circoscritta da un orlo, da un insieme di presupposti che le restano invisibili: può essa eludere tale questione e fingere che i suoi discorsi non ne siano continuamente intaccati? Problema etico, come già notavamo. L’ermeneutica, e la filosofia in generale, deve perciò dirigersi, dice Vattimo, verso una «più esplicita assunzione della propria collocazione storica» [Vattimo 1987, p. 47]. Ma come si delinea questa radicale assunzione della propria storicità? Rileggendo Heidegger, Vattimo, nel saggio An-denken. Il pensare e il fondamento, sottolinea come il pensiero sia ideologico e metafisico non perché esso proceda per contenuti che sono sempre, inevitabilmente, storicamente determinati (limitati e prospettici), ma nella misura in cui li «irrigidisce» nella presenza, dimenticando che essi si danno in presenza (vale a dire, vengono al pensiero, si danno come oggetto di conoscenza) a partire da una dinamica originaria che, «come tale», non si mostra [cfr. Vattimo 1980, p. 129]. Tale irrigidimento porta a considerare gli enti come «semplicemente presenti», ovvero i significati come «dati di fatto». Onde evitare questo procedere ideologico, il pensiero deve farsi pensiero rammemorante: qui Vattimo riprende la riflessione heideggeriana sull’Andenken, parola che letteralmente significa «memoria». Andenken è infatti il pensiero che s’indirizza a ciò che si manifesta (a ciò che si dà da pensare o da conoscere), ovvero ai significati, ma nello stesso tempo ne rievoca anche la provenienza, «ricordando» cioè che essi si danno in presenza a partire da un’assenza (da uno sfondo che va a fondo). Rievocare la provenienza non significa però rendere presente ciò che è assente, portare a manifestazione ciò che, come tale, non si manifesta, ma significa attuare, per così dire, un mutamento dello sguardo. Una sorta di diplopia: vedere ciò che si mostra come ciò che è in presenza, ma guardarlo, in un certo senso, anche dal lato dell’assenza, ossia vederne il limite. Che cosa dunque rievoca il pensiero rammemorante? Esso «rammemora» l’Evento. Rievoca, cioè, quella zona d’ombra che è l’accadere stesso della luce (l’andare a fondo in quanto far
emergere). Non al fine di gettare luce sull’ombra e cancellarla come ombra (perché l’ombra sempre si ripropone in quanto condizione stessa della luce), ma al fine di «sospendere» la cogenza dei significati [cfr. ibid., p. 137 e sgg.]. Si tratta di mostrare che quei significati che emergono in luce non sono verità assolute nel senso di ab-solutum, sciolto, svincolato da un contesto, ma sono appunto sempre relative a una cornice, sono figure che appaiono in primo piano a partire da una condizione che subito retrocede sullo sfondo. Rammemorando questa condizione, i significati vengono «storicizzati», mostrati nel loro limite, ossia nella loro contingenza storicamente determinata e nella loro dipendenza da un orizzonte. Questo esercizio di storicizzazione è ciò che dev’essere svolto dall’ermeneutica su se medesima, vale a dire sui propri significati [cfr. Vattimo 1994]. Etica Vattimo si pone dunque di fronte al problema: come procedere. Il procedere per affermazioni, descrizioni, teorie e argomentazioni non è più sufficiente: questo modo di praticare la filosofia (e il sapere in generale) preso di per sé è ideologico, poiché mette in opera «significati» (nel senso ampio che qui intendiamo) in modo irriflesso, senza esibirne il limite. Ovvero, nei termini da noi utilizzati in precedenza, è un modo di procedere che non si fa carico delle proprie retroflessioni. Un problema di metodo (methodos) o, meglio, di via (odos). Ora, non deve sfuggire il ruolo che, nell’elaborazione da parte di Vattimo di una diversa «via» quale quella di un pensiero rammemorante, riveste l’Evento. Esso non è «da pensare», bensì da rammemorare. Ma rammemorare l’Evento è unicamente funzionale alla sospensione della cogenza dei significati. Per storicizzare i significati (per non assumerli in modo ideologico) è necessario vederne il limite e per vederne il limite è necessario decentrarsi da essi «rammemorando» l’orizzonte entro cui si danno. L’Evento non è più, come in Heidegger, una domanda filosofica su cui il pensiero debba attestarsi, ma assume un ruolo unicamente funzionale alla prassi (al come procedere). Ha cioè un senso essenzialmente performativo: non «c’è» propriamente nessun «punto cieco» del pensiero (o della conoscenza), ma «evocarlo» produce una torsione etica grazie a cui il pensiero non si irrigidisce ideologicamente nelle proprie «figure». Ciò che qui è teorizzato come modo di procedere, attraverso una rilettura dell’Andenken heideggeriano, è ciò che Derrida non teorizza bensì mette in opera attraverso la pratica decostruttiva. La decostruzione derridiana è infatti la messa in pratica di una dislocazione con cui i «significati» sono costantemente posti in questione nel loro esser «figure» e perciò sospesi nella loro presunta cogenza. Così Vattimo definisce l’Andenken: «La rimemorazione a cui ci si deve affidare per accedere a un pensiero non più metafisico è l’internarsi nel passato producendo una dislocazione, uno spaesamento e una oscillazione che toglie cogenza e perentorietà al presente» [Vattimo 1980, pp. 196-7]. Quanto qui è detto è ciò che la pratica decostruttiva fa: essa – parafrasando quanto appena letto – è un internarsi nei testi e nei discorsi della tradizione occidentale producendo una dislocazione, un’oscillazione che toglie cogenza e perentorietà alle categorie concettuali in essi presenti (mostrando che tali categorie, dicotomie e opposizioni sono sempre iscritte entro una logica soggiacente data per ovvia, ossia frequentata in modo irriflesso). La vicinanza della decostruzione all’Andenken heideggeriano è rilevata dallo stesso Vattimo in termini di fedeltà «alla lezione heideggeriana» [Vattimo 1979, p. 163], sebbene per marcare successivamente le differenze tra il pensiero di Derrida e quello di Heidegger. Ma ciò che qui interessa sottolineare è che quello di Derrida non è una teoria (che sarebbe, dunque, più o meno fedele alla lezione heideggeriana), bensì un gesto. Non è un dire (né un dire «come fare»), ma è un fare. Come nota Agamben, «l’atto decostruttivo va inteso nella sua performatività gestuale. Come tale va osservato non tanto per quello che dice, ma per quello che fa» [Agamben, 1990, p. 363].
Vediamo allora più da vicino che cosa la pratica decostruttiva fa. Chiamiamo «sistema» una totalizzazione, un mondo di significati (un testo, un sistema filosofico, una disciplina) o un insieme strutturato di regole. In un certo senso (che più avanti dovremo chiarire o mettere in questione) vi è sempre, nel sistema, un «punto cieco», una pietra angolare difettosa che nello stesso tempo lo sostiene e lo minaccia, che ne è insieme la condizione di possibilità e il limite: è ciò che sin qui abbiamo chiamato Evento o différance e che nei testi di Derrida si declina in modi diversi, a seconda del «sistema» preso in considerazione, e con nomi volta a volta differenti (la traccia, il gramma, la marca, il margine, la spaziatura, il bianco, l’imene, la fenditura, ecc.). La pratica decostruttiva consiste dunque nel porsi sulle tracce della différance, di questo punto cieco, indagando i margini del sistema, perlustrandone gli angoli, insinuandosi tra le sue pieghe, saggiandone l’orlo. Ma non per mettere in luce il punto cieco, per farlo finalmente emergere e dargli un nome, bensì per mostrare che il sistema non è mai «chiuso», per sospendere la cogenza delle sue leggi, esibendone la contingenza, e liberare il campo dall’idolatria delle sue «figure». Se però prendiamo sul serio quanto suggerito da Agamben, se cioè guardiamo alla decostruzione in termini di performatività gestuale, lasciando cadere ciò che essa dice (il suo «detto») in favore di ciò che essa fa, allora dobbiamo concluderne che non c’è nessun punto cieco. Non «c’è» nessun Evento; non «c’è» nessuna pietra angolare difettosa del sistema e non «c’è» neppure il sistema; non esiste alcuna différance come «dinamica originaria» o «movimento del venire in presenza» (come inizialmente l’abbiamo definita), nonostante essa sia continuamente evocata in questi termini (col nome di «différance» o con altri nomi). La sua «evocazione» (e tutto quello che viene evocato dal e nel testo derridiano) è unicamente funzionale agli effetti che tale «evocazione» produce (in questo senso è un gesto performativo). E ciò che tale gesto produce è un ethos, un modo di «abitare» la tradizione della cultura occidentale senza rimanere irretiti nelle sue «figure». La différance e il laboratorio di termini con cui Derrida via via declina tale nozione, questo experimentum linguae, scrive Agamben, «apre su un’etica» [Agamben 1990, p. 363]. Ciò significa che la différance ha un ruolo puramente «economico» all’interno dei testi di Derrida: è il congegno che avvia la pratica decostruttiva così come viene esercitata e messa al lavoro sui testi e sui discorsi della tradizione occidentale. Essa, nelle sue varie declinazioni, non è pensata (pensata come ciò che è da pensare o pensata come ciò che non si può pensare) ma è, più semplicemente, messa all’opera. Così infatti Derrida si riferisce al ruolo che tale nozione e le sue varianti rivestono all’interno dei propri testi: «Nella descrizione, definizione, messa in opera, di queste nozioni, di queste parole – différance, traccia, scrittura – rimarcavo che si trattava ogni volta di un procedimento, di un processo, vale a dire di un lavoro. E la dimensione lavorativa della traccia è stata in seguito ricollegata alla problematica del performativo, della pragmatica. A un certo punto avevo forgiato la parola pragmatologia, per marcare che si trattava […] di una messa in opera pratica, di un lavoro pragmatico. Pragmatico nel senso in cui, per esempio, degli enunciati fanno ciò che dicono, operano e sono già presi all’interno di un processo pratico. La traccia è un tragitto che fa qualche cosa. La différance differisce, appunto […], ciò vuol dire che fa qualche cosa, essa ritarda e differenzia e dunque in una certa maniera non è in se stessa teorica, non è l’oggetto di una intuizione teorica o di un concetto teorico» [Derrida 2002, pp. 124-5]. Si badi bene: qui Derrida non sta parlando della différance, che è sempre all’opera in quanto dinamica originaria a partire da cui emergono i significati, ma sta parlando della nozione derridiana di différance, del termine da lui coniato. Sicché egli non sta qui dicendo che la différance fa qualche cosa (non sta cioè ribadendo che la différance è ciò che sempre accade) ma sta dicendo che la parola différance, all’interno dei testi in cui compare, fa qualche cosa. Vale a dire, la nozione di différance – proprio in quanto nozione, così come viene utilizzata da Derrida – è funzionale a un’operazione: è il motore che mette in opera la pratica decostruttiva e il dispositivo attraverso cui questa si esercita.
La ripetuta affermazione di Derrida per cui la différance non è un concetto significa appunto che tale nozione, isolata dal ruolo che riveste nell’operazione di decostruzione, non indica alcunché. Essa è lì, nel testo derridiano, semplicemente per svolgere un compito, che non è quello di dire, ma quello di praticare la decostruzione come un ethos (in questo senso, come dice Agamben, essa «apre a un’etica»). Chiariamo meglio tale etica. Il discorso di Derrida «è la pratica di una lettura, il controllo dell’origine del senso nella testualità di un discorso. E così va esso stesso trattato: leggerlo è controllare l’origine del senso nella testualità del discorso» [Dalmasso 1972, p. 178]. Il discorso di Derrida va cioè «trattato» attraverso un’operazione, quella stessa operazione di lettura praticata dal filosofo francese: decentrarsi dai significati per vederne l’origine nel tracciarsi del discorso. Vi è dunque una prima operazione, quella di Derrida, e una seconda operazione, quella che il lettore è chiamato a praticare sul testo stesso di Derrida. Questa seconda operazione non è qualcosa che si aggiunge alla prima (al testo derridiano) come un che di estraneo, ma è richiesta dallo stesso testo derridiano, scaturisce direttamente da esso: «l’intero discorso di Derrida porta il lettore a soffermarsi non più semplicemente ed esclusivamente su ciò che viene detto e su ciò che egli in quel detto verrebbe chiamato ad intendere […]. Ciò che in ultimo il discorso di Derrida chiede è di non prestare più attenzione solo a ciò che nel discorso stesso è detto, ma di concentrarsi su ciò che, allo stesso tempo, viene scrivendosi. […] il lettore è chiamato a uno sforzo di concentrazione che nella parola detta riesca a comprendere il movimento di cancellazione da cui essa sorge» [Bonazzi 2004, p. 152]. Questa comprensione, a cui il lettore è chiamato, non è una comprensione «intellettuale», ma è etica nella misura in cui è un modo di «abitare» i significati (i significati che Derrida stesso mette in opera, i significati che il lettore incontra nel testo). Nel comprendere «il movimento di cancellazione», ossia il tracciarsi dei significati (il loro Evento) non c’è nulla da «comprendere» in senso intellettualistico. Questo comprendere è semmai un fare, o, come appunto dicevamo, una seconda operazione: un esercizio di sospensione rispetto ai significati incontrati, che ne ravvisa il limite e perciò li coglie nella loro contingenza (li «storicizza», per così dire). Ma ciò significa che l’unico modo di comprendere la pratica decostruttiva di Derrida è metterla in opera, torcendola su se stessa. Il suo gesto performativo si lascia «comprendere» solo attraverso un ulteriore gesto. È replicando l’esercizio decostruttivo sulle sue stesse figure che questo «comprendere» diviene ethos («apre a un’etica»). Su tutte le sue figure, compresa dunque quella figura-limite che è la différance: figura paradossale, perché figura di ciò che non si dà «in figura», ma proprio in quanto paradossale – in quanto cioè porta a mettere in crisi e a sospendere tutte le altre figure – funzionale all’esercizio. Pratica Se s’intende la pratica decostruttiva come un gesto performativo e un ethos, allora bisogna andare, in tutti i sensi, oltre il «detto» di Derrida. Ad esempio, Derrida afferma che la decostruzione è ciò che già sempre avviene perché la différance è sempre all’opera [cfr. Derrida 1984, p. 391]; il «decostruirsi», che accade in ogni sistema giacché questo non è mai «chiuso» e autarchicamente fondato in se stesso, sarebbe dunque la condizione di possibilità della pratica decostruttiva [cfr. Derrida 1988, p. 68]. Ora, quanto «detto» da Derrida, in queste circostanze, va riassorbito nel gesto: non va inteso in termini descrittivi. Non «c’è» il decostruirsi del sistema e non «c’è» il lavoro della différance che sarebbe sempre all’opera. I quali sarebbero poi la condizione dell’esercizio decostruttivo. Questa «condizione» è piuttosto una condizione retroflessa a partire dall’esercizio decostruttivo e che, in quanto «detta», è solo una figura che si dissolve nell’esercizio stesso. Se ci si limita al «detto», cioè che la différance è sempre all’opera, che l’Evento è ciò che sempre accade, che vi è sempre un’ombra che orla i significati (è quanto sin qui, in tutte queste pagine, abbiamo appunto «detto») non si è ancora compiuto l’esercizio.
Non si è ancora «compreso». Non si è compreso il gesto decostruttivo come gesto performativo. Ma l’unico modo di comprenderlo come gesto performativo – stiamo qui suggerendo – è mettendolo in atto attraverso una seconda operazione, sospendendo cioè le figure (i significati) che esso stesso pone in opera e che attraverso di esso si sono via via incontrate. Dobbiamo allora fare un passo in più. Dobbiamo esercitare una torsione che ci spinga sino a vedere nella différance (e, più in generale, nell’Evento come sin qui lo abbiamo tematizzato) niente più che una «funzione» interna all’esercizio, perché anche l’ultima figura sia sospesa e vista nella sua contingenza. Torsione che possiamo esercitare dicendo così: la pratica decostruttiva non serve alla différance (a far cioè emergere, seppur in modo obliquo e in controluce, il «punto cieco» di ogni sistema), ma è la différance che serve alla pratica decostruttiva. Vale a dire, la decostruzione «non vuole semplicemente svelare dietro alla storia del senso e del concetto l’operare silente di una traccia rimossa» [Bonazzi 2004, p. 152], non è cioè un’operazione che ha come fine quello di porre il problema della différance, ma è esattamente il contrario: è il porre il problema della différance (l’«evocarla» e il mettersi sulle sue tracce) che ha il suo fine nella decostruzione intesa come ethos, atteggiamento critico che sospende i significati, vedendone il limite, per non frequentarli in modo irriflesso (in modo «ideologico», come qui diciamo). Ma allora – e qui la torsione giunge a compimento – l’Evento (o la différance) è l’ultimo inganno: la sua «evocazione» o «rammemorazione», il mettersi sulle sue tracce, è soltanto un «espediente pratico» che trova compimento nell’esercizio stesso in quanto ethos. È cioè una «provocazione etica» nel senso in cui questa espressione è usata da Sini in riferimento al «pensiero delle pratiche» [cfr. Sini 1994, pp. 147-9]. Questo «pensiero delle pratiche» è un esercizio di torsione in cui la pratica filosofica si riconosce appunto come una pratica, con le sue procedure e il suo orizzonte di senso. E con questo riconoscimento sospende ciò che in essa si è «detto» per vederne il limite. Si tratta dunque dell’esercizio a cui sin qui abbiamo alluso, di quella torsione a cui l’Evento chiama e in cui esso stesso svanisce come ultima figura (sicchè, in un certo senso, abbiamo letto Derrida attraverso Sini o attraverso l’esercizio che questi mette in opera). Dunque: esercizio del limite della conoscenza ed esperienza della propria finitezza che trovano in se stessi – in questo esercizio, in questa esperienza – il proprio fine [cfr. Sini 1992]. Esercizio Ripercorriamo allora quanto sin qui abbiamo detto per rimetterlo in questione, in base alle ultime considerazioni, e ravvisarne (proprio in quanto «detto») il limite. L’Evento – abbiamo «detto» –, questo andare a fondo del fondamento, questo movimento di differimento (retrocedere in quanto far emergere), è alla base di ogni sapere, per cui ogni contenuto di conoscenza (filosofica o scientifica) muove da un presupposto che non può venire in luce e che, come tale, è indicibile. Ogni tentativo di metterlo in luce è infatti un dire che, proprio in quanto dire, già lo fa accadere e perciò stesso lo presuppone. L’Evento è cioè l’aver luogo del linguaggio, necessariamente presupposto in ogni dire linguistico e dunque sempre sottraentesi in ogni «detto». Questo è ciò su cui si attesta il pensiero contemporaneo, da Heidegger a Derrida e oltre, con nomi volta a volta differenti (Ereignis e différance non ne sono che due esempi). Così dovremmo dire se ci limitassimo al «detto» (ad esempio, al «detto» di Heidegger o al «detto» di Derrida). Ma quanto sin qui «detto» (che l’Evento è ciò che sempre accade, perciò è sempre presupposto in ogni dire, ecc.) non è sufficiente. Questa insufficienza è ciò che abbiamo cercato di far emergere nel passaggio da Heidegger a Derrida, notando come in esso la dimensione dell’Evento subisca una torsione performativa. Chiariamo allora questa insufficienza attraverso tre differenti momenti o passi successivi da compiere.
Il primo passo è il più semplice. Non ci si può fermare al «detto», definendo l’Evento nei termini sopra esposti, proprio perché esso si sottrae a ogni dire. Ogni tentativo di dirlo o di definirlo, lo riduce a un significato (a «ente» direbbe Heidegger). Compreso questo dire che intende metterlo a tema (e che a sua volta lo fa accadere e lo presuppone). Il pensiero sembra perciò doversi infine attestare sull’inevitabilità di questo indicibile presupposto. Secondo passo. Anche l’attestarsi sull’Evento come presupposto indicibile non è sufficiente. Possiamo muovere questo secondo passo sulla scia di Agamben. Il quale, anzitutto, nel Linguaggio e la morte, nota come l’andare a fondo del fondamento sia il problema caratteristico della metafisica: «Nella storia della filosofia esso riceve vari nomi: idea tou agathou in Platone, theoria, noeseos noesis in Aristotele, Uno in Plotino, Indifferenza in Schelling, Idea assoluta in Hegel, Ereignis in Heidegger» [Agamben 1982, p. 115]. Ciò che così si sottintende è che, nell’attestarsi sull’indicibilità dell’Evento, non si è ancora mosso un passo più in là rispetto alla metafisica, la quale – suggerisce Agamben con una mossa che in qualche modo ne ribalta la definizione heideggeriana – è, ed è sempre stata, il pensiero dell’andare a fondo del fondamento [cfr. anche Agamben 1982b, pp. 186-7]. Evento è ciò che, a suo modo, ossia in forme e declinazioni ogni volta diverse, la metafisica ha sempre pensato: dalle origini della filosofia sino ai suoi sviluppi in epoca contemporanea, esso è la «cosa stessa» del pensiero (to pragma auto, diceva Platone, die Sache selbst nei termini di Heidegger) [cfr. anche Vitiello 1997, pp. 81-143]. Ora, attestarsi sulla cosa stessa come presupposto indicibile sottratto al linguaggio non è sufficiente, poiché, nota Agamben, il rischio è che «la non tematizzabilità, che è in questione nella cosa stessa, venga a sua volta tematizzata e presupposta, ancora nella forma di un leghein ti kata tinos, come un dire su ciò di cui non si può dire. La cosa stessa non è una semplice ipostasi del nome, un ineffabile che deve restare non detto e solo così custodito, come nome, nel linguaggio degli uomini. Una simile concezione – implicitamente confutata alla fine del Teeteto – necessariamente ancora “ipotizza” e sup-pone la cosa stessa. Questa – la cosa del linguaggio – non è un quid che possa essere cercato come una ipotesi estrema al di là di tutte le ipotesi, un ultimo e assoluto soggetto oltre tutti i soggetti, atrocemente o beatamente sprofondato nella sua oscurità. Una tale cosa senza rapporto col linguaggio, un tale non-linguistico noi lo pensiamo, in verità, soltanto nel linguaggio, attraverso l’idea di un linguaggio senza rapporto con le cose. Essa è una chimera nel senso spinoziano del termine, cioè un essere puramente verbale» [Agamben 1984, p. 19]. Il rischio a cui qui si allude non è tanto quello di ipostatizzare l’Evento, riducendolo ad ente e a un significato (rischio già affrontato nel primo passo), quanto quello di attestarsi su di esso finendo così per misconoscerne la natura linguistica. Infatti, dice Agamben, questo nonlinguistico che è l’Evento è pensato come tale (ossia, proprio come non-linguistico) solo all’interno del linguaggio. Esso, dovremmo anzi dire, è posto all’opera dal linguaggio stesso. Il linguaggio, come dicevamo, è strutturalmente presupponente: ponendo in luce il «detto», proietta indietro la sua ombra; esso cioè pone la luce e contemporaneamente (o proprio per questo) pone anche l’ombra. Sicché, tale ombra – questo presupposto indicibile che è l’Evento o la «cosa stessa» – non è esterna al linguaggio ma accade con esso e insieme ad esso: in questo senso, come dice Agamben, è «un essere puramente verbale» (è cioè l’ombra prodotta dal linguaggio). Dunque, nel momento stesso in cui la filosofia prende parola, l’Evento accade (come ombra del suo «detto»). Sicchè, anche la filosofia, come ogni dire, proietta indietro la propria ombra: nel porre significati, produce cioè essa stessa il proprio presupposto. Ma allora attestarsi sull’ombra, come la filosofia contemporanea sembra fare, significa non farsi carico delle proprie proiezioni retroattive. Significa, in ultima analisi, non farsi carico della propria prassi, di ciò che questa stessa prassi ha prodotto. Dopo aver osservato come il pensiero contemporaneo si concluda con il riconoscimento di un insormontabile presupposto, si chiede infatti Agamben: «Ma non resta in ombra, in questo modo, proprio quello che dovrebbe essere il compito
filosofico per eccellenza, e, cioè, l’eliminazione e l’“assoluzione” del presupposto? Non era forse la filosofia il discorso che si voleva libero da ogni presupposto […]?» [Agamben 1984b, p. 32]. È quanto qui inizialmente rilevato come paradosso dell’ermeneutica: il riconoscimento della storicità delle conoscenza e della natura presupponente di ogni dire, non è forse, per la filosofia, un deporre le armi nei confronti della doxa e un rassegnarsi ad essere essa stessa doxa (vale a dire, un opinare sulla base di presupposti indimostrabili)? Il compito della filosofia, prosegue Agamben, «va, pertanto, ripreso esattamente nel punto in cui il pensiero contemporaneo sembra abbandonarlo […]. È possibile un discorso che, senza essere un metalinguaggio né sprofondare nell’indicibile, dica il linguaggio stesso e ne esponga i limiti?» [ibid., p. 34]. Il compito della filosofia andrebbe ripreso proprio là dove essa si attesta, cioè sull’indicibilità della cosa stessa («Rendere alla cosa stessa il suo luogo nel linguaggio», dice ancora Agamben, «questo è il compito della filosofia che viene» [Agamben 1984, p. 23]). Ma già in Derrida, abbiamo osservato, l’Evento non è un indicibile su cui attestarsi: proprio Agamben ce lo ha suggerito, notando come la différance apra su un’etica e leggendo la pratica decostruttiva in termini performativi. In tale dire performativo, che si esibisce come esercizio di sospensione dei significati, la funzione enunciativa del discorso (il leghein ti kata tinos, il dire qualcosa su qualcosa) è sospesa nel suo normale funzionamento (a tale sospensione, come notavamo, invita il discorso stesso di Derrida): ciò che è «detto» si mostra nel suo limite e in questo stesso gesto si dissolve. Si dissolve come semplicemente-detto per mostrarsi come tappa funzionale all’esercizio, quale ethos per «abitare» il linguaggio (l’attività interpretativa, la conoscenza, il sapere) senza restare prigionieri delle sue figure (abbagliati dalla sue luci o irretiti nelle sue ombre). Ma questo gesto deve allora valere anche per quel «detto» che è la différance («detto» come ciò che non si può dire): tale «detto» è così sospeso nel suo rinviare a un indicibile e a un impensabile che starebbe alla base di ogni dire e di ogni pensare. Sospeso e infine dissolto («assolto», per dirla con Agamben) nell’esercizio stesso. Tale esercizio – vale a dire la pratica decostruttiva intesa come ethos o la genealogia esercitata come «etica della scrittura» [cfr. Sini 2004-5] – è così un discorso che mira a esporre i suoi stessi limiti senza sprofondare nell’indicibile. Qui il secondo motivo per cui il «detto» (vale a dire, quanto detto in merito all’Evento) non è sufficiente: la nozione di Evento – in parte già in Heidegger, in modo più marcato in Derrida ed esplicitamente in Sini – produce una torsione etica, rinvia cioè a un ethos in cui ogni detto non è più semplicemente detto, ma diviene, per così dire, il luogo di un lavoro, di una operazione. In quanto avvia un’operazione, l’Evento non è più il luogo di un dire o di un non-dire. E abbiamo compiuto il secondo passo. Terzo passo, il più difficile. Nel pensiero contemporaneo successivo a Heidegger abbiamo rintracciato una via in cui l’Evento va incontro a una torsione etica. Ma questa stessa torsione etica, proprio perché ha a che fare con un esercizio, non può e non deve restare oggetto di un discorso. Vale a dire, non la si espone se non esemplificandola (mettendola in opera), non la si coglie se non esercitandola. Il terzo passo è allora il più difficile poichè non va detto, ma va fatto: intendere il gesto performativo, cui l’Evento da ultimo rinvia, si può solo con un ulteriore gesto, che sospenda i significati del primo per non attestarsi ideologicamente su di essi. Solo in questo senso si può «comprendere» l’Evento negli esiti ultimi della filosofia contemporanea (l’Evento come «provocazione etica»). «Comprensione» che, come dicevamo, è una seconda operazione (o una «doppia lettura» [cfr. Redaelli 2008, pp. 302-6]). Non perciò il «compito di un pensiero a venire», ma quanto qui e ora invitiamo a fare o stiamo tentando di fare (su ciò che sinora è stato appunto «detto», affinché non resti semplicemente «detto» ma sia assunto come luogo e occasione di esercizio). Dipende da te, lettore, se questo terzo passo sia o meno compiuto. Sospesi i significati (gli oggetti del sapere, le teorie, le interpretazioni), colti come figure (e cioè ravvisati nel loro limite o nella loro storicità), che cosa allora resta da dire? Che cosa ancora la filosofia può dire? Si cela, in queste domande, un’ultima ingenuità: che la filosofia ab-
bia qualcosa da dire (fosse pure, questo qualcosa, la «cosa stessa»). Proprio la torsione etica, cui va incontro il problema dell’Evento nel pensiero contemporaneo, cancella questa inavvertita presupposizione: che la filosofia debba dire (nella forma di un leghein ti kata tinos), che il suo compito sia cioè un mettere capo a enunciazioni. Nella sua torsione etica, essa si esibisce semmai come un gesto performativo. La filosofia non è cioè un dire, bensì un fare, un operare concreto (un «lavoro pragmatico» diceva Derrida). E l’Evento – avverte Sini – non è da dire, ma da praticare. Non dando luogo a significati o a teorie (non avendo nel «detto» il suo fine), la filosofia come gesto performativo è un esercizio «inoperoso» (nel senso in cui lo intende Agamben, quando si riferisce a «un operare che, in ogni atto, realizzi il proprio shabbat e in ogni opera sia in grado di esporre la propria inoperosità e la propria potenza» [Agamben 2004, p. 376]). Torniamo allora, in conclusione, al problema dal quale eravamo partiti. Il modo in cui la filosofia può ancora distinguersi dal comune opinare ideologico è facendo ciò che né la doxa né la scienza fanno: far questione dell’ombra che sempre accompagna la luce. Non accontentarsi, cioè, dei significati (non limitarsi a proporre teorie o spiegazioni) ma tornare ogni volta a interrogarne l’orlo (il limite e la condizione di possibilità). Tale interrogazione è un esercizio critico che si pone sulle tracce del punto cieco di ogni conoscenza (filosofica o scientifica), per ravvisare il limite dei suoi contenuti e non assumerli in modo ideologico. Questo modus operandi deve infine torcersi su se stesso mettendo in questione i propri significati, ossia il «detto» a cui la filosofia non può rinunciare, in quanto pratica discorsiva, e che le è necessario per compiere il proprio gesto performativo. In tale esercizio consiste il peculiare rigore della filosofia e, nei modi in cui è volta a volta declinato, si misura la sua la sua efficacia. Ma allora va eliminato anche l’ultimo equivoco: che vi sia l’orlo, il limite, il punto cieco. La sua «evocazione» è funzionale all’esercizio e in questo infine si scioglie trovando il proprio compimento, perché anche il non-«detto» (l’Evento in quanto sottratto a ogni dire) non resti presupposto e non sia ideologicamente assunto come un indicibile su cui da ultimo ci si dovrebbe attestare. Per così dire: l’esercizio chiede di eliminare tutte le figure dell’Evento, ma poi, infine, anche l’Evento. Questo, venendo riassorbito nel gesto che lo ha prefigurato, si mostra come l’ultima figura della filosofia (infatti è la filosofia, e non altri che la filosofia, a parlare di Evento – nelle sue varie declinazioni: Ereignis, différance, Uno, idea tou agathou, noeseos noesis, Indifferenza, Idea assoluta, ecc. – e a mettersi sulle sue tracce). Ma l’Evento è un prodotto della pratica filosofica, interno alla pratica filosofica e non esterno ad essa. La nozione di Evento ha certamente la «funzione» di indicare il limite della pratica filosofica, ma questa «funzione» è ancora interna a tale pratica (alle sue esigenze): infatti, propriamente, non «c’è» il limite di tale pratica e non «c’è» neppure la pratica (parlare di pratiche è un espediente etico). Questa «funzione» è ancora interna alla pratica filosofica nel senso che è, appunto, funzionale al suo esercizio. È l’esercizio, e solo l’esercizio, che importa: il resto sono parole.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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