Guido Astuti

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Astuti Guido (Torino, 1910 - Roma, 1980)

Pier Giuseppe Monateri Guido Astuti nacque a Torino il 15 settembre 1910. Iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza conobbe il liberalismo attraverso le lezioni di Luigi Einaudi e di Francesco Ruffini, dedicandosi con Federico Patetta e Gino Segré alla storia del diritto. I suoi primi anni di studi coincidono con un periodo di profondo rinnovamento della storiografia giuridica italiana, allorquando alcuni studiosi come Francesco Calasso cercarono di dotare la disciplina di più saldi fondamenti teorici sulla base della storiografia del Croce. A. non seguì però questa via proponendone invece un’altra più originale. I principali lavori in cui sviluppò questo suo approccio sono quelli su Alberico Gentili e sul così detto mos italicus a confronto con il mos gallicus, cioè sul modo di condurre l’interpretazione degli istituti romanistici in Francia e in Italia, e, da questo punto di vista, i suoi sono contributi di comparazione storica. Ed è appunto per questa via comparatistica che egli cercò di pervenire a una definizione del proprium della tradizione giuridica italiana, rintracciandola nel costante tentativo, a partire dal medio evo, di fornire una ricostruzione non meramente filologica, ma dogmatico-formale degli istituti. In questo modo sarebbe stata proprio la tradizione italiana ad antecedere quella successiva tedesca nella elaborazione di schemi di teoria generale che serviranno poi all’edificazione del diritto moderno. In termini attuali si potrebbe dire che la sua è stata una ricerca «genealogica», una «archeologia» del sapere giuridico, che rintraccia le radici del moderno nel modo italiano medievale di trattare le fonti romane rinnovandole attraverso il ragionamento logico-formale. La sua opera di studioso si incrociò con la politica durante la guerra. Rifugiatosi a Roma, dopo l’8 settembre 1943 entrò in clandestinità tenendo i contatti con gli antifascisti di ispirazione liberale, da cui scaturì una sua intensa partecipazione alla rinnovata vita politica italiana nell’immediato dopoguerra. Aderì al Partito liberale e nel 1945 fondò, insieme a Pio Fedele, ordinario di Diritto Canonico alla Sapienza, il settimanale «Meridiano» che si avvalse della collaborazione di una fioritura di intellettuali giuristi di ispirazione liberale e cattolica: Capograssi, Jemolo, Lopez, Pugliese, Stolfi. Astuti intervenne alla prima riunione del comitato nazionale del Par-

tito liberale, svoltasi a Roma nel settembre del 1945, e come rappresentante dei liberali venne nominato da Nenni, ministro per la Costituente, nella commissione incaricata di predisporne la legge elettorale. In tale commissione la sua linea di intervento fu dettata dall’idea di elaborare un sistema elettorale che permettesse al contempo di esprimere in modo chiaro le scelte politiche degli elettori e non mortificasse le loro indicazioni relative ai singoli candidati. In questo modo la commissione prese come testo di riferimento la legge elettorale del 1919 di impostazione proporzionale, in conflitto in realtà con l’indicazione di una parte molto importante del Partito liberale che voleva il ritorno al collegio uninominale. È facile quindi constatare come l’opera di A. sia stata determinante proprio per quella scelta che risultò fondamentale per la c.d. prima Repubblica, cioè la scelta del proporzionale. L’idea base era appunto di evitare che i partiti potessero scegliere gli eletti sulla base delle indicazioni da loro fornite nei collegi uninominali, e che si potesse invece aprire uno spazio per le «preferenze» degli elettori nella competizione fra più candidati in base a liste che si confrontavano sulla base della proporzione dei voti ricevuti. È anche importante notare l’indipendenza dell’A., provocata probabilmente dall’idea di un «pensionamento» della vecchia classe liberale dell’epoca precedente al fascismo che cercava di tornare sulla scena proprio in base ai meccanismi dei collegi della sua epoca. In questo modo comunque la scelta cadde sulla legge del 1919 che ironicamente era stata in qualche modo uno dei meccanismi che avevano permesso al Pnf di conquistare il centro della scena. Fu infatti la legge proporzionale a creare nel 1922 un parlamento sostanzialmente diviso in tre parti (liberal-conservatori, cattolici, social-comunisti) impossibilitato a funzionare e quindi a reagire all’iniziativa politica del fascismo. A. però proponeva l’individuazione di circoscrizioni elettorali ristrette, che garantissero la conoscenza dei candidati da parte del corpo elettorale, ciò che invece poi non avvenne, con l’instaurarsi nel sistema italiano del collegio unico nazionale. In alternativa alle consuete posizioni liberali, A. si schierò anche con quanti intendevano trasformare il voto in obbligo giuridico; e ciò sulla base del timore che se non vi fosse stato tale obbligo il risultato poteva essere condizionato da astensioni provocate da intimidazioni di minoranze faziose. In questo senso A. fu

sicuramente, e per propria scelta singola, tra i fautori dell’impostazione di base del tipo di democrazia partitica della prima Repubblica. Subito dopo entrò nella commissione ministeriale incaricata di elaborare i progetti di organizzazione del potere legislativo, esprimendosi a favore del sistema bicamerale che poi prevalse. Questa sua intensa opera di ingegneria costituzionale, oltre alla collaborazione con vari giornali («Risorgimento liberale», «L’Opinione», «Il Giornale», «Il Tempo di Milano», «Il Globo») lo portarono ad assumere l’incarico di vice-segretario nazionale del Partito liberale nel congresso di Roma del 30 aprile 1946. In tale veste si adoperò per dotare il partito di una struttura organizzativa di cui era assolutamente carente, senza però trovare grande accoglienza né al centro, né alla periferia. Il perno della sua azione politica era l’auspicio della formazione di un ampio blocco conservatore incentrato sul Partito liberale, caldeggiando l’ingresso del medesimo nell’Unione democratica nazionale nel 1946, e successivamente l’ingresso nel partito del gruppo di monarchici guidati da E. Selvaggi. I risultati di tali operazioni politiche nelle elezioni del 18 aprile 1948 furono assai poco brillanti, e, nell’autunno, l’intero ufficio di segreteria si dimise. L’A. finì dopo breve tempo per lasciare il partito. In sostanza la sua idea politica era completamente fallita. In luogo di un blocco conservatore incentrato sul Pli aveva trionfato uno schieramento più centrista fondato sulla Democrazia cristiana. Egli aveva visto la possibilità di una alternativa al sistema che si andava creando ma furono proprio la carenza di una struttura organizzativa del partito, sotto la sua responsabilità come vicesegretario, e le condizioni create dal sistema proporzionale, da lui voluto, a determinare le ragioni della sua sconfitta politica. Da un punto di vista più generale la sua decisione maturò anche per la crescente difficoltà di conciliare la militanza in un partito laico, all’epoca spesso su posizioni anticlericali, e la sua professione della fede cattolica. Comunque nel 1949 egli venne chiamato da Segni, all’epoca ministro dell’Agricoltura, fra gli esperti giuridici incaricati della formulazione del progetto di riforma agraria, entrando una volta di più in oggettivo conflitto con una parte rilevante dei liberali italiani. I suoi articoli scientifici e interventi di quegli anni furono tutti dedicati a tali questioni della riforma fondiaria, e si ricorda in particolare il suo intervento su Libertà economica e

proprietà fondiaria tenuto al Convegno dell’Unione dei Giuristi Cattolici a Roma nel novembre del 1952. Favorevole alla riforma operata dalla Dc, egli divenne poi consulente dell’Ente Maremma e dell’Ente Fucino, istituiti per la sua realizzazione, ritornando però ai suoi studi di storia del diritto, incentrandoli ora sull’Alto Medioevo e non più sull’epoca più tarda del diritto comune. Di particolare rilievo è la sua riconsiderazione della teoria delle «fonti», sempre in polemica con l’approccio crociano seguito allora da altri storici del diritto italiano. Mentre questi vedevano le fonti giuridiche come «epilogo di un fatto storico» [Calasso] e si proponevano così di leggere attraverso di esse l’evoluzione dell’ordinamento concreto, A. sviluppava nelle sue Lezioni di storia del diritto italiano (Padova 1953), un approccio divergente. Egli riteneva che si dovesse tendere a individuare la «storia esterna» del testo giuridico, per ricostruirne la stratificazione temporale, al fine di delimitare l’ambito preciso in cui il testo medesimo poteva essere utilizzato nelle varie epoche della sua applicazione. Cioè il testo non diviene la chiave di lettura del periodo, ma la sua storia esterna fornisce la chiave di lettura non anacronistica del testo, e il suo limitato ambito effettivo di applicazione. Si tratta di una vera inversione metodologica che spiazzava il crocianesimo e l’idea che la storia si condensi semplicemente in testi giuridico-normativi. Nel 1959 A. tornò a Roma a insegnare nella Scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’università, proseguendo la propria produzione scientifica con grande intensità. Numerosissime le voci da lui compilate in quegli anni per il Novissimo Digesto italiano, e di particolare interesse il suo volume sul Diritto dell’economia (1955). A. continuava inoltre a riflettere sui problemi politici e istituzionali come attestano i suoi articoli su Natura e funzione dei partiti politici (1958); I partiti politici nei vari paesi (1963). Giudice delle appellazioni della Repubblica di San Marino dal 1956, A. fece parte del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione dal 1960 al 1963 e del Consiglio superiore degli archivi di Stato dal 1964 al 1973. Membro della Faculté Internationale de Droit Comparé di Strasburgo dal 1962, e dell’Istituto di Storia del Diritto Europeo di Francoforte dal 1965, fu chiamato in quello stesso anno alla cattedra di Storia del diritto Italiano alla Sapienza e assunse la direzione della rivista «Annali di storia del diritto».

Di particolare rilevanza anche per le teorie liberali del diritto è il suo studio sul Code Napoléon in Italia (Atti Lincei, 1973) dove respingeva l’idea che il codice napoleonico fosse il prodotto elaborato dalla borghesia per la difesa dei propri esclusivi interessi. Per l’A. il codice aveva liberato il diritto privato dalle infrastrutture feudali e corporative, recuperando la tradizione civilistica romana nella sua purezza, e aveva posto alla base della civiltà politica contemporanea i principi della libertà individuale e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Questa visione era proposta contro le interpretazioni marxisteggianti che volevano sempre più fortemente leggere il dato giuridico alla luce della realtà economico-sociale da cui quello nasce. Essa era però anche diretta contro quelle posizioni che ritenevano ormai inadeguato il sistema codicistico italiano, erede di quello napoleonico, e ne proponevano perciò profonde modifiche attraverso nuove norme o rinnovate interpretazioni. Come si vede, la sua teoria presuppone l’esistenza di un «diritto privato» puro, che si identifica con quello romano, sul quale intervengono incrostazioni di vario tipo, come quelle feudali o corporative, ma che può venire «recuperato» e riproposto, e in sostanza deve rimanere tale se vuole mantenere il proprio carattere di diritto della libertà e dell’uguaglianza. Una «metafisica» quindi del diritto privato come diritto liberale che ha avuto come epifenomeno storico l’ordinamento romano, evidentemente classico, dato che queste caratteristiche già più non si riscontrano nel diritto provinciale o giustinianeo. Ironicamente, quindi, l’opera dello storico attento alle fonti ci lascia infine una teoria liberale meta-storica del diritto privato, e la stessa rivoluzione francese finisce per essere un episodio della storia del ritorno del diritto romano alla sua purezza. Anzi ne costituisce l’acme, sostanziato nei codici della tradizione napoleonica, oltre il quale il diritto privato può nuovamente contaminarsi e perdersi. Tale impostazione si ritrova anche nella sua attività di giudice della Corte Costituzionale cui venne nominato nel 1973. In numerose sentenze A. difende l’interpretazione letterale della legge esprimendo una profonda diffidenza verso letture evolutive delle norme, nel timore che queste possano, proprio perché più alla moda, incrinare i principi di libertà e uguaglianza dei privati. L’A. morì a Roma il 7 ottobre 1980. Fu socio nazionale dell’Accademia dei Lincei e di numerose altre accademie italiane,

nonché di deputazioni di storia patria regionali. Quali posizioni di fondo possiamo ricavare dalle sue numerosissime opere, e dalla sua attività politica? In realtà l’A. fu un liberale in aperto conflitto con il vecchio establishment liberale di prima del fascismo. Quelli che lo stesso Re Vittorio Emanuele III definì dei revenants, dei fantasmi che tornano. Sempre anticrociano egli contribuì a minare le possibilità stesse dei «notabili» liberali di reinsediarsi in parlamento attraverso un sistema di collegi uninominali. Conservatore e cattolico, in buona parte monarchico, egli non voleva però un ritorno di quelle figure e di quegli schemi, ma l’impossibilità pratica di formare le strutture operazionali di un moderno Partito liberale di massa, oltre alla scelta per il «proporzionale» determinarono in modo netto la marginalità del Partito liberale per l’intero tempo della prima Repubblica. Il suo ruolo in questo senso fu limitato nel tempo ma assolutamente decisivo negli effetti. Quanto alle posizioni teoriche, egli reagì dapprima contro ogni idealismo (anche liberale) proprio attraverso l’analisi minuziosa dei testi e delle fonti, attraverso una teoria, e delle ricerche, che in fondo impedivano di considerare il diritto come il mero prodotto oggettivo dello spirito dei tempi. Nondimeno di fronte all’affermarsi di una cultura giuridica di sinistra a partire dalla fine degli anni Sessanta, egli reagì con una metafisica del diritto privato che originava da Roma e si incarnava nel codice Napoleone, cioè in sostanza recuperando gli stessi schemi apologetici della borghesia rivoluzionaria francese, onde l’intero Ancien Régime finisce per porsi solo come una parentesi tra Roma e Parigi. Anche questa nuova presa di posizione viene però da lui difesa mediante il «testualismo» e la difesa della letteralità. In fondo la parte più durevole del suo pensiero è proprio ancorata alla sua teoria dei testi, alla loro analisi «interna» e alla loro storia esterna. Particolarmente apprezzabile e importante in un panorama culturale che spesso tende oggi invece al loro superamento e ad approcci ermeneutici più liberi, quando non più disinvolti. Bibliografia Bettinelli E., La formazione dell’ordinamento elettorale nel periodo precostituente, in Cheli E. (a cura di), La formazione della Repubblica. Dalla costituzione provvisoria all’Assemblea costituente, il Mulino, Bologna 1979; Caravale G.M., Astuti

Guido in Dizionario Biografico degli Italiani, 34, Treccani, Roma 1988; Cassandro G., Prefazione in Premessa a G. Astuti, Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Esi, Napoli 1984; Ciani A., Il Partito liberale italiano, Esi, Napoli 1968; Diurni G., Premessa a G. Astuti, Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Esi, Napoli 1984 (con l’elenco completo degli scritti dell’A.); Idee per la Costituente, a cura di L. Elia, Giuffrè, Milano 1986.

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