Herzog moderno contemporaneo

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Herzog moderno contemporaneo Francesco Zucconi

1. L’inattuale Il cinema di Werner Herzog esprime la condizione paradossale di una continua evasione dalla categoria del “classico”. Non soltanto per l’appartenenza del regista al Nuovo Cinema Tedesco, sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Ottanta, e neppure a causa della rigenerazione artistica intrapresa nei decenni successivi. Piuttosto, la sua filmografia tutta sembra resistere ai processi di storicizzazione e all’esaurimento estetico delle promesse contenute nella modernità cinematografica. Di fronte alle platee di studenti di cinema che affollano i festival, sperando di carpire un’idea pratica e praticabile – cosa significa fare cinema oggi? –, la voce di Herzog risuona come parola viva. Ciò non di meno, le modalità produttive e le scelte estetiche del suo cinema si pongono agli antipodi di qualsiasi propensione all’“attualità”. Pur condividendone gli obiettivi estetici e politici, la filmografia herzoghiana si lascia difficilmente inquadrare all’interno delle linee tematiche sviluppate dai registi tedeschi della sua generazione. Dalla trilogia africana degli ultimi anni Sessanta ai film dedicati alla pena di morte 213

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negli Stati Uniti d’America, nessun evento, nessuna scoperta, nessun tema o problema, ha livellato la profondità del suo sguardo sul registro monoplanare della cronaca. Allo stesso modo, nessuna innovazione tecnologica, nessun esperimento formale, ha costituito mai il fine della sua ricerca audiovisiva. Mai classico e neppure attuale, fin dagli esordi il regista tedesco ha saputo legarsi al suo tempo secondo le forme dell’inattuale, come «colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo»1. L’impressione è che la contemporaneità di Herzog, la sua capacità di parlare a una platea di studenti nati negli anni in cui il sodalizio con Klaus Kinski era già concluso, risieda nell’inattualità del suo cinema e nel rapporto, mai veramente chiuso dal regista, con alcuni capisaldi teorici della modernità. Le pagine che seguono cercheranno di sviluppare questa traccia. In particolare, si guarderà ai grandi film girati negli anni Settanta e Ottanta insieme a Kinski dalla prospettiva di quelli prodotti negli anni Duemila e, infine, si arriverà a quest’ultimi, scorgendo piani di continuità e differenze tra l’avventura del cinema moderno e quanto, di ancora aperto, si conviene di chiamare contemporaneo.

2. Modernità di Werner Herzog Un uomo appassionato d’opera lirica, d’una passione febbrile capace di smuovere le montagne, acquista un battello, lo dota di un grammofono e si avventura nella foresta amazzonica, a tutto volume.

G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, in Id., Nudità, Nottetempo, Roma 2009, p. 20, corsivo mio. 1

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È forse questo il racconto minimo del cinema herzoghiano, nel quale è possibile riconoscere la presenza dei due grandi assi che, dal neorealismo alla Nouvelle Vague al Nuovo Cinema Tedesco, hanno caratterizzato la modernità: da un lato la tensione dell’immagine ad assolvere la propria funzione documentale nei confronti del “reale” attraverso un’estetica basata sull’apertura alla contingenza, al cambiamento, al “fatto”2; dall’altro, una concezione del film come oggetto artistico “impuro”, autoriflessivo, luogo di accoglienza e rielaborazione delle forme culturali ereditate dalla tradizione3. Fin dalle prime inquadrature, Fitzcarraldo (1982; Id.) costituisce

A fondamento di questa prima linea teorica possono essere ascritti i passi dell’opera di André Bazin dedicati al neorealismo e soprattutto al cinema di Roberto Rossellini, ma anche l’“ontologia dell’immagine fotografica”, cfr. A. Bazin, Qu’est ce-que le cinéma?, Éditions du Cerf, Paris 1985, tr. it. Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1999, pp. 275-333 e pp. 3-10. 3 È questo il Bazin del “cinema impuro”, cfr. ivi, pp. 119-142. Per un’ampia riflessione sulle differenti forme di presenza delle due direttrici qui schematizzate all’interno della koinè internazionale della modernità cinematografica, cfr. G. De Vincenti, Lo stile moderno. Alla radice del contemporaneo: cinema, video, rete, Bulzoni, Roma 2013, soprattutto pp. 36-40. 2

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la perfetta tematizzazione di tale estetica bipolare. Per ottenere la credibilità e i soldi necessari alla costruzione del Teatro dell’Opera nel piccolo villaggio amazzonico di Iquitos, l’imprenditore Brian Sweeney Fitzgerald è costretto a intraprendere un pericoloso viaggio alla ricerca di nuovi territori dai quali ricavare il caucciù. L’atto esplorativo nel cuore della foresta costituisce il programma d’uso per la costruzione del Tempio della Musica; l’apertura alla contingenza è propedeutica alla realizzazione del progetto culturale. Ma se la sfida di una natura selvaggia è quanto occorre accettare e vincere per arrivare successivamente a innalzare il Teatro, il riferimento musicale e teatrale dell’opera accompagna l’intera spedizione, suscitando l’adorazione degli indios e contribuendo a superare le fasi traumatiche del viaggio. Mentre la macchina da presa segue le azioni fuori misura dell’imprenditore – dall’aurorale spedizione in barca a remi per andare ad ascoltare Enrico Caruso all’avventura lungo il fiume Pachitea, fino al passaggio della nave sopra la montagna – il montaggio audiovisivo, realizzato sulla scena del film mediante un grammofono, sottrae le immagini del viaggio al regime della cronaca per aprirle ai tempi e ai ritmi della tradizione musicale occidentale. L’opposizione tra lo spazio aperto della foresta amazzonica e quello chiuso, monadico, dell’opera italiana dà figura al campo di tensioni che attraversa, a vari livelli, l’intero film. Il progetto imprenditoriale del protagonista riuscirà a realizzarsi in contingenze tanto pericolose? E il progetto estetico del regista – il film stesso – approderà a un esito narrativo coerente e conforme al genere del film di finzione o assumerà piuttosto le forme del frammento e dell’incompiuto a causa di un imprevisto, di un improvviso e ineludibile ostacolo? Quando gli indios liberano la nave dagli ormeggi, la macchina da presa di Herzog, non meno del megafono di Fitzcarraldo, si espone al rischio di un danneggiamento capace di compromettere la realizzazione del film stesso. La nave scivola sulle rapide, il protagonista sbraita e cerca di deviare il percorso quando la prua urta violentemente alcune 216

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rocce. L’operatore risente delle scosse e il montaggio finale del film mantiene le aberrazioni visive prodotte dagli accidenti ai quali la strategia produttiva ed estetica di Herzog, ormai coincidenti, hanno sottoposto la forma cinematografica. “Ogni film è un film di finzione”, potrebbe asserire – rileggendo uno dei massimi teorici del Novecento4 – chi volesse rimarcare il carattere imprescindibile della componente autoriflessiva, formalista, della settima arte. “Ogni film è un documentario”, risponderebbe invece chi – sulla scorta di una concezione del cinema che raggiunge il suo apice nella Nouvelle Vague per essere ripresa nella teoria del documentario stesso5 – volesse rimarcare la presenza, all’interno di ogni opera, di una serie di tracce capaci di rimandare alle coordinate estetiche e pragmatiche della sua realizzazione. Non occorrerà attendere la pubblicazione dei diari di Herzog6, oppure la visione di Mein liebster feind - Klaus Kinski (1999; Kinski, il mio nemico più caro) – dove si raccontano gli incidenti subiti dalla troupe durante le riprese di un film “manierista” e “povero” come Fitzcarraldo –, per arrivare a comprendere come, per il regista tedesco, nessuna delle due asserzioni possa bastare. Piuttosto, stando al suo cinema e all’estetica bipolare che lo caratterizza, “ogni film è allo stesso tempo un film di finzione e un documentario”. Sono le tracce della contingenza presenti in una “fiction” come Fitzcarraldo a rendere possibile il lavoro di manipolazione e revisione critica di quegli stessi materiali all’interno di un “documentario” come Kinski, il mio nemico più caro.

4 C. Metz, Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma, Christian Burgois Éditeur, Paris 1993, tr. it. Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 2002, p. 55. 5 B. Nichols, Introduction to Documentary, Indiana University Press, Bloomington 2002, tr. it. Introduzione al documentario, Il Castoro, Milano 2006, p. 13. 6 W. Herzog, Eroberung des Nutzlosen, Carl Hanser Verlag, München 2004, tr. it. La conquista dell’inutile, Mondadori, Milano 2007.

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Se nel film del 1982 la rielaborazione delle forme espressive ottocentesche dell’opera lirica e la realizzazione del film in condizioni precarie procedono di pari passo, mentre “natura” e “cultura” si sfiorano e tendono alla sintesi nel progetto estremo di Fitzcarraldo, i due assi della modernità possono essere isolati, o quantomeno osservati nei momenti di massima visibilità, attraverso due film del decennio precedente. Aguirre, der Zorn Gottes (1972; Aguirre, furore di Dio) è interamente girato dentro la foresta e la narrazione stessa sembra adeguarsi allo scorrere delle acque, talvolta calme, talaltra minacciose, del Rio delle Amazzoni e dei suoi affluenti. In uno dei passaggi iniziali del film, quando i conquistadores salgono per la prima volta sulle zattere e affrontano la corrente, Herzog ricorre a una particolare scelta compositiva: la sequenza dura circa quattro minuti e monta venticinque inquadrature. Dapprima la macchina da presa si colloca in una posizione indefinita e isola, tra le altre, le figure di Gonzalo Pizarro, Don Pedro de Ursùa, Lope de Aguirre e il frate Gaspar de Carvajal, che osservano il paesaggio dalle rispettive imbarcazioni. Dal momento in cui il fiume s’ingrossa e la corrente mette in pericolo la traiettoria di navigazione, lo sguardo della camera si manifesta in quanto sguardo mondano, situato all’interno del barcone di Aguirre. Se nelle inquadrature precedenti erano le imbarcazioni a muoversi mentre la camera restava perlopiù fissa, qui, di fronte alla forza dirompente del fiume fangoso, l’operatore effettua due tentativi di restituire a trecentosessanta gradi le condizioni ambientali di assoluta instabilità nelle quali si effettua la ripresa del film. 218

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Che non basti ricorrere alla camera a spalla oppure effettuare piroette per garantire una “presa sul reale” da parte delle immagini è un assunto di base, tanto banale da non richiedere ulteriori precisazioni. Piuttosto che un virtuosismo dell’operatore, la ripresa sulla zattera esprime la specifica declinazione herzoghiana di un’estetica cinematografica aperta alla dinamica degli eventi, basata sull’idea che occorra far procedere il racconto e allo stesso tempo dare figura alle sfide di carattere ambientale e tecnico imposte alla lavorazione del film. È così che, al di là di una concezione statica dei generi, il film, considerato nell’aspettualità del suo farsi, può costituire un luogo di continua sovrapposizione e traduzione tra lo spazio “chiuso” del set e quello “aperto” nel quale si muove la troupe. Del resto, fin dall’inizio del film, dove una lunghissima processione scende dalle pendici della montagna, Aguirre, furore di Dio sembra assumere lo statuto di una performance audiovisiva in costume cinquecentesco nel cuore del continente sudamericano. Mentre la musica dei Popol Vuh smargina nella sequenza successiva e la voce off legge il diario di de Carvajal, entra in scena la figura irruente del conquistador interpretato da Kinski che strattona i portantini e rivela allo spettatore, con i suoi gesti scomposti, l’assoluta inefficacia rispetto all’ambiente degli equipaggiamenti dei quali è dotato. Se i cannoni che sprofondano nella melma rimandano da subito alla pesantezza del sistema produttivo della cinematografia – quand’anche “leggera” o “indipendente” –, l’affanno e gli incidenti subiti dai protagonisti del film, i loro abiti che si impregnano di acqua sporca e le armature che si deformano costituiscono la manifestazione figurativa dell’orizzonte di eventi e accidenti al quale Herzog stesso e la troupe hanno deciso di aprirsi e che il regista restituirà, nei suoi aspetti aneddotici, in progetti filmici ed editoriali successivi. Il tempo del racconto scorre e il gruppo di conquistadores si assottiglia fino a identificarsi in una sola persona, Aguirre, e nel suo delirio superomistico. La disgregazione di qualsiasi progetto razio219

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nale è compiuta e, tuttavia, fino alla fine del film, Herzog mostra la ritualità del potere religioso e laico come ultima e ostinata resistenza della civiltà occidentale. La rappresentazione del potere si presenta nella sua ottusità. La teatralità della messa in scena cinematografica ironizza sull’insostenibile ingombro dell’apparato gerarchico spagnolo e rivela il processo di svuotamento semantico che intacca l’iconografia del potere riducendola a pura maniera. Nosferatu: Phantom der Nacht (1978; Nosferatu, il principe della notte) può essere invece considerato, all’interno della filmografia herzoghiana, in quanto massima espressione della tendenza “moderna” a reinterpretare i testi della tradizione culturale manifestando, con la messa in scena, il lavoro di rielaborazione e aggiornamento delle loro forme espressive. Dopo l’impresa di Jeder für sich und Gott gegen alle (1974; L’enigma di Kaspar Hauser), dove si ricostruiscono le vicende storiche documentate del “ragazzo selvaggio” comparso a Norimberga nel 1828, e subito prima di Woyzeck (1979; Id.) ispirato a Georg Büchner, il Nosferatu di Herzog è innanzitutto un’occasione di confronto con Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922; Nosferatu il vampiro) di Friedrich Wilhelm Murnau. «Ho cercato strenuamente di ricollegare Nosferatu alla nostra autentica eredità culturale tedesca, i film muti dell’epoca di Weimar e le opere di Murnau in particolare»7, espliciterà Herzog in un’intervista, senza perdere di vista il romanzo di Bram Stoker, considerato al di là W. Herzog, Herzog on Herzog, a cura di P. Cronin, Faber & Faber, London 2002, tr. it. Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita, a cura di F. Cattaneo, Minimum Fax, Roma 2009, p. 181. 7

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del suo valore letterario come «una specie di centone di tutte le storie di vampiri che circolavano dall’epoca romantica»8. Dal punto di vista della composizione dell’immagine, dalle prime inquadrature alla fine del film, si riconoscono invece due grandi riferimenti iconografici. Il lungo viaggio di Jonathan verso la dimora del Principe della Notte e il suo percorso ascensionale si lasciano inquadrare all’interno di una cornice romantica: come in un dipinto di Caspar David Friedrich, la figura umana si riconosce appena mentre si addentra nelle atmosfere glaciali e vaporose di un paesaggio che dischiude l’accesso al sublime. Parallelamente, anche la vita intorpidita di Lucy, che aspetta il ritorno del marito nella città di Wismar, si scandisce in relazione al repertorio iconografico ottocentesco: gli incubi notturni riproducono le posture plastiche dei personaggi di Johann Heinrich Füssli, mentre le ore del giorno si susseguono secondo i temi e i cromatismi dei Preraffaelliti. Il filtro iconografico romantico che inquadra la messa in scena introduce e giustifica la più rilevante differenza tra il film del 1979 e quello del 1922: per Herzog il vampiro non è soltanto un’ombra; nell’interpretazione kinskiana Nosferatu acquisisce un corpo ed è animato dal desiderio. Un corpo fuori misura, inadatto all’esperienza delle passioni umane, grottesco. Trattando di Nosferatu, il riferimento a Murnau è chiaro ed è pur lecito parlare di remake. Ma piuttosto che delimitare la profondità storico-culturale dell’indagine herzoghiana agli anni Venti del Novecento, il capolavoro dell’Espressionismo tedesco sembra costituire una porta, un varco d’accesso alla cultura letteraria e pittorica dell’Ottocento e al tema folklorico del vampirismo. La ripresa di Stoker e Murnau, così come il riferimento alla cultura visuale del Romanticismo, non si esaurisce in una pratica citazionistica ma è l’occasione per intraprendere una

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Ivi, p. 185.

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riflessione sui rapporti tra generazioni e sulle forme idonee a mantenere in vita e ibridare le forme della cultura. «Questo film ha costituito per me il capitolo finale di quel processo di “rilegittimazione” della cultura tedesca che andava avanti da anni»9, dichiara Herzog stesso in un’intervista. E ancora prosegue, «in quanto registi divenuti maggiorenni all’inizio e verso la metà degli anni Sessanta, siamo stati la prima vera generazione postbellica, giovani tedeschi privi di punti di riferimento. Eravamo orfani, senza insegnanti o maestri da cui potessimo imparare e di cui volessimo seguire le orme. Proprio per questa libertà da qualsiasi tradizione o rituale il cinema tedesco degli anni Sessanta e Settanta è stato fresco e stimolante e capace di proporre una gran varietà di soggetti e stili. La generazione dei padri o aveva parteggiato per la barbarica cultura nazista oppure era stata cacciata dal paese. […] Si è aperto un vuoto di trent’anni. Non puoi lavorare come regista senza avere un qualche legame con la tua cultura. La continuità è vitale. Perciò i nostri punti di riferimento sono diventati i nostri “nonni” – Lang, Murnau, Pabst e altri. […] Quando ho finito Nosferatu mi ricordo di aver pensato: “Adesso ho stabilito un legame, finalmente ho raggiunto l’altra sponda del fiume”»10.

Il film più autoriflessivo e apparentemente ripiegato sul passato di tutta la produzione herzoghiana degli anni Settanta e Ottanta sembra offrire, al contrario, la massima tematizzazione del problema storico e politico alla base del Nuovo Cinema Tedesco: la necessità di ripensare il rapporto con le generazioni precedenti e ristabilire un legame con la tradizione tedesca ed europea. Con la morte di Nosferatu e la sua rigenerazione nel personaggio di Jonathan – un esito del tutto assente nel film di Murnau – si prefigura la serialità a venire e si esplicita il principio di implementabilità che sta alla base di ogni grande testo di cultura. Come il

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Ivi, p. 181. Ivi, pp. 181-182.

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vampiro muore, si spegne nell’appagamento del desiderio umano, per rigenerarsi in un nuovo corpo, così il film si chiude e allo stesso tempo si apre alle interpretazioni e agli usi delle generazioni a venire. Che si tratti di Aguirre, Nosferatu o Fitzcarraldo – nomi propri di sfide lanciate all’impossibile – la produzione di Herzog non si limita a far lavorare insieme i due assi della modernità; non fa convergere l’istanza attestativa e quella autoriflessiva del cinema, fino allo scioglimento della polarizzazione stessa, ma lascia aperto il conflitto, pone l’una in tensione con l’altra. Che prevalga il richiamo del viaggio e il senso dell’apertura che ne consegue o che primeggi l’attitudine a rielaborare le opere dei secoli passati e della storia del cinema, l’estetica di Herzog non cede mai alle semplificazioni del realismo e del naturalismo o alle tentazioni ludiche dell’autoreferenzialità artistica. Piuttosto, come un filo rosso che attraversa la sua filmografia, occorre saper riconoscere l’idea di sottoporre uno schema dato (la sceneggiatura, un genere cinematografico, un’opera della tradizione musicale o letteraria) alla prova della contingenza, ovvero assegnarsi una sfida di ampia portata che minaccia la tenuta dello schema stesso e ne garantisce la trasformazione semantica e la rigenerazione estetica. Alla ricerca di un contatto diretto, 223

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un rapporto panico, con la natura si contrappongono i tentativi di ascesi visionaria e quelli di una elevazione superomistica. Di fronte a una natura indomabile, misteriosa e inesperibile in sé – l’Amazzonia in quanto “luogo in cui Dio non ha portato a termine la creazione” oppure il castello transilvanico descritto come “un grande abisso che inghiotte chiunque vi si avvicina” – occorre spingere la cultura musicale e letteraria occidentale oppure la cultura religiosa dei conquistadores fino ai limiti della loro tenuta figurativa e ideologica, lasciando affiorare, nelle crepe o negli indurimenti prodotti su tali cornici di senso, il sublime, oppure il pittoresco (il finale di Fitzcarraldo), il grottesco (Nosferatu) e l’orrore (Aguirre). La dichiarazione herzoghiana «i miei film sono stati realizzati spesso solo con straordinari atti di forza»11, non è da riferirsi soltanto agli aspetti produttivi e neppure al rapporto tra l’uomo e l’ambiente espresso al livello delle forme del contenuto, ma chiama in causa la tensione che si stabilisce tra le forme dell’espressione. Se ogni corrente della modernità cinematografica ha avuto bisogno di personaggi con i quali lo sguardo del regista potesse stabilire un rapporto “libero indiretto”, Klaus Kinski costituisce il “personaggio pretestuale” dell’estetica herzoghiana12. Tanto più le figure da lui interpretate sfidano le leggi umane e naturali e mostrano l’attrito, il disaccordo, di azioni fuori misura, quanto più il lavoro di inquadratura e montaggio di Herzog è in grado di manifestare il rapporto tra

E. Reitz, Bilder in Bewegung. Essays. Gespräche zum Kino, Rowohlt Taschenbuch Verlag, Hamburg 1995, tr. it., La notte dei registi. Il cinema tedesco in venticinque interviste, a cura di A. Tinterri - V. Wiethaler, Bulzoni, Roma 2002, p. 59. 12 Sulla soggettiva libera indiretta e sull’idea che il cinema moderno sia caratterizzato da “personaggi pretestuali” che offrono al regista la giustificazione per proporre una visione del mondo in stato di alterazione, cfr. P.P. Pasolini, Il cinema di poesia, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2007, pp. 167-187. L’idea di Pasolini costituisce uno dei punti di riferimento delle grande riflessione deleuziana sulla modernità, cfr. G. Deleuze, L’imagetemps, Éditions de Minuit, Paris 1985, tr. it. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri 1989. 11

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forme e forze che mantiene in tensione l’immagine13. È per questo motivo che il regista tedesco ha bisogno di uno “squilibrato” con il quale viaggiare, prendendone talvolta le distanze ma condividendone l’attitudine alla dismisura. Passando attraverso la costruzione di personaggi “smisuratamente grandi” – dalle figure kinskiane agli alpinisti di Cerro Torre: Schrei aus Stein (1991; Grido di pietra) – o “smisuratamente piccoli” – Auch Zwerge haben klein angefangen (1970; Anche i nani hanno cominciato da piccoli)14 –, i film degli anni Settanta, Ottanta e Novanta si caratterizzano per la tendenza a considerare il sublime come approdo della ricerca; che si tratti di un “sublime dinamico” – Aguirre, Fizcarraldo, La Soufrière (1976; Id.) – o di un “sublime matematico”: da Fata Morgana (1971; Id.) a Lektionen in Finsternis (1992; Apocalisse nel deserto)15. Moderno, Herzog, ma anche rispetto alla modernità cinematografica propriamente detta, fondata sul superamento dell’estetica Ottocentesca e sull’annichilimento dell’azione, inattuale. Interprete di un moderno impuro, “atletico” e romantico che costituirà il punto da cui partire per la rigenerazione estetica negli anni della piena maturità.

3. Contemporaneità di Werner Herzog La scomparsa di Klaus Kinski nel 1991 traccia una linea orizzontale nella filmografia del regista tedesco. Nonostante fossero passati quattro

Sul rapporto tra forme e forze nell’estetica del cinema e in particolare nel cinema di Herzog, cfr. R. De Gaetano, La potenza delle immagini. Il cinema, la forma e le forze, ETS, Pisa 2012, pp. 42-45. 14 Per una riflessione su Herzog che parte proprio dall’opposizione tra il “grande” e il “piccolo”, cfr. G. Deleuze, L’image-mouvement, Éditions de Minuit, Paris 1983, tr. it. L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, pp. 212-214. 15 Per un’“analitica del sublime” come per la distinzione tra sublime matematico e dinamico, cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, tr. it. Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni - H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999, pp. 80-113. 13

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anni dall’ultimo film girato insieme e nonostante le loro biografie procedessero in direzioni ormai divergenti, con la morte di Kinski, Herzog si trova costretto a colmare un vuoto; il vuoto lasciato dall’alter ego dei suoi film più eroici e visionari, il personaggio al quale era possibile agganciare una soggettiva libera indiretta capace di condurre oltre il limite ogni progetto, qualsiasi soggetto. Non è la semplice separazione da qualcuno con cui si sono trascorsi momenti indimenticabili, facendo dell’amore e dell’odio un tutt’uno. Non si tratta di dire “addio”, ma di fare i conti con quanto costruito insieme nei cinque film condivisi, negli anni di frequentazione, e portarlo avanti. Aguirre, Nosferatu, Woyzeck, Fitzcarraldo e Cobra Verde (1987; Id.): nel 1999 le immagini dei film realizzati tra gli anni Settanta e Ottanta vengono rimontate come materiale d’archivio in Kinski, il mio nemico più caro. Herzog stesso è presente sulla scena ed esplicita allo spettatore le contingenze di realizzazione dei film del passato: i problemi di ordine ambientale, gli escamotage tecnici, le molte discussioni con Kinski e le infinite qualità della sua tecnica attoriale. Il film costituisce in qualche modo una forma di “elaborazione del lutto”, ma non si esaurisce di certo in una questione privata. I fotogrammi di repertorio restituiscono la gioia di un abbraccio tra i due e il senso della perdita, il sentimento della mancanza come condizione psicologica individuale. Ma come è stato osservato in una delle riflessioni più intense dedicate a questo film, «quelle immagini esistono, non riportano l’uomo in vita […], né lo conservano, ma riportano la relazione alla sua efficacia specifica che le permette di disegnare lo spazio in cui gli enti agiscono»16. Tornando a guardare il lavoro di Kinski, scomponendo i suoi gesti e valutando come riattivare il loro potenziale emotivo e semantico, Herzog asciuga la spettralità postuma delle immagini dell’attore e pone le

M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008, p. 134.

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condizioni per restituire una nuova vita alle sue posture, alle sue forme passionali. Tale aspetto raggiunge il culmine nella sequenza del film dedicata alla “Spirale-Kinski”, nella quale Herzog si dilunga a descrivere nei minimi dettagli il movimento scenico ideato dall’attore e basato sull’idea di sostituire l’ingresso laterale nell’inquadratura con un movimento fluido in cui l’intero corpo si srotola organicamente. Riproducendo, rimettendo in scena il movimento attoriale di Kinski, Herzog compie un’operazione descrittiva e, al contempo, lo interpreta, riaffermandone e rigenerandone l’efficacia. Man mano che il film scorre, man mano che il processo di apprendimento e rielaborazione delle forme espressive si svolge, lo spazio scenico lasciato vuoto dall’attore tedesco inizia a riempirsi di una nuova figura. Al protagonismo seriale di Kinski si avvicenda quello di Herzog. Alla figura eroica del primo si sostituisce quella del regista stesso. Un cambiamento attoriale che implica una trasformazione estetica. Se i ruoli interpretati da Kinski ponevano in atto, in quanto “personaggi pretestuali”, una sfida tra “natura” e “cultura” che si stabilizzava nelle forme del sublime, la presenza del regista sulla scena, impegnato a osservare e rimontare le immagini dei suoi film del passato, è la manifestazione figurativa di uno sguardo riflessivo e compiutamente intermediale. Nonostante il regista avesse già recitato o fatto ricorso alla propria voce narrante in alcune opere precedenti, il film del 1999 apre una nuova stagione del cinema herzoghiano basata sulla centralità della sua presenza scenica in quanto regista e sul montaggio di immagini d’archivio. Senza Kinski e “al posto di Kinski”, Herzog non perde il senso 227

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della sfida e la fascinazione per l’alterità “oscena” della natura, ma cerca soluzioni, approdi e forme di appagamento estetico diversi rispetto al sublime. Operando sulla scena i propri montaggi, accostando filmati eterogenei, svelando allo spettatore le retoriche della comunicazione audiovisiva e mostrando continuamente lo scarto tra i fotogrammi, il cinema di Herzog si carica di implicazioni etiche e spinge al limite le potenzialità testimoniali dell’immagine. Come è stato scritto a proposito di Grizzly Man (2005; Id.) – in una riflessione che si spinge ben al di là dei problemi posti dalla filmografia del regista tedesco –, «Herzog non fa che autenticare – selezionandole, rimontandole e commentandole, talvolta in prima persona, spesso con altre immagini, qua e là denunciandone gli artifici – le riprese realizzate in Alaska da Timothy Treadwell, l’esaltato e stravagante difensore dei grandi orsi»17. Gli assi della modernità – l’istanza attestativa e quella autoriflessiva del cinema – rintracciati nei grandi film dei decenni precedenti continuano a lavorare insieme, ma a essersi allentata è piuttosto la tensione tra i due. Non si tratta più di forzare l’uno in direzione dell’altro fino a produrre il sublime, ma di comprendere le sinergie che si instaurano, così da poter garantire l’efficacia testimoniale delle immagini. Mentre la “Dichiarazione del Minnesota”18 annichilisce sul piano teorico ogni residuale naturalismo della rappresentazione cinematografica, la produzione herzoghiana successiva al 1999 manifesta la coalescenza di una dimensione documentale e di una finzionale all’interno di ogni immagine. Riprendere, rimontare, “autenticare” immagini del passato significa, per Herzog, riconoscere

17 P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 26. Sul passaggio da un’estetica del sublime a un’estetica intermediale, cfr. ivi, pp. 34-48. 18 W. Herzog, La dichiarazione del Minnesota. Verità e dato di fatto nel cinema documentario, pubblicata in appendice a D. Dottorini (a cura di), Essere esposti alla natura. Conversazione con Werner Herzog, in «Fata Morgana», 6, 2008, pp. 19-20.

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e manifestare il film documentario immanente a qualsiasi film di finzione, oppure svelare le retoriche e le strategie adottate per la composizione di qualsiasi documento. Da The White Diamond (2004; Il diamante bianco) a Encounters at the End of the World (2007; Id.), nel mostrare i limiti dell’immaginazione, non si indugia sulla negatività del sublime ma si ribadisce l’intenzione e lo slancio per produrre immagini all’altezza del mondo, come forma precipua di adattamento dell’uomo all’ambiente. Al posto di Kinski, Herzog e la sua macchina da presa esprimono una protensione tutt’altro che naturalistica verso il dato e al contempo, in modo non conflittuale, una riflessione tutt’altro che autoreferenziale sulle immagini che, nel corso del tempo, hanno inquadrato il senso e si sono affermate come senso comune. Si muove da un continente all’altro, passa da un medium all’altro, da un’epoca all’altra, con estrema libertà. Che si tratti, come in The Wild Blue Yonder (2005; L’ignoto spazio profondo), di rielaborare le immagini realizzate dalla NASA o che, come in Cave of Forgotten Dreams (2010; Id.), si esplorino attraverso il 3D le pitture parietali risalenti al Paleolitico superiore scoperte nella Grotta Chauvet, Herzog mantiene un rapporto anacronistico con la tecnologia e non perde di vista l’importanza di considerare quest’ultima in quanto téchne, sapere pratico, capacità espressiva che trascende ogni ingenuo entusiasmo per il nuovo che avanza. Indifferente alle mode e abituato a riconoscere i piani di continuità sotto la superficie del cambiamento, come pochissimi autori della sua generazione, è capace di confrontarsi con l’orizzonte tecnologico ed estetico del nuovo millennio. Amico di Lotte Eisner, compagno di strada di Volker Schlöndorff, Edgar Reitz e Wim Wenders, nel passaggio da un’estetica del sublime a un’estetica intermediale, il regista bavarese non sembra essersi identificato mai, completamente, nella parabola di nessun movimento cinematografico. Forse Herzog non è mai stato neppure “moderno”, ma ha 229

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sempre interpretato i principi elastici della modernità secondo le proprie urgenze ed esigenze. È per questo che ogni giovane regista o chiunque voglia contribuire a creare immagini del mondo che restituiscano fiducia allo sguardo ha senza dubbio ragione di sentirlo suo contemporaneo.

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