Intervista a Otto Pöggeler

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I NT E R VI S T A di Massimo Mezzanzanica

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Otto Pöggeler sul proprio itinerario scientifico In questa intervista Otto Pöggeler – studioso di Hegel e Heidegger, di Dilthey e Husserl, di Celan e Oskar Becker – ripercorre alcuni momenti della propria biografia intellettuale e discute qualche tema a lui congeniale: dal rapporto tra filosofia e filologia a quello tra filosofia e poesia, dalla questione relativa alla possibilità di un’ermeneutica “topologica” che integri “spiegare” e “comprendere” a quella della funzione della filosofia nel mondo tecnico. La presentiamo ai nostri lettori come testimonianza di un itinerario di ricerca esemplare (nella sua integrazione di ricostruzione storica e approfondimento sistematico, e nella sua fedeltà ad alcuni temi di fondo) e come omaggio a un maestro degli studi sul romanticismo, sull’ermeneutica e sulla fenomenologia. Professor Pöggeler, vorrei iniziare quest’intervista ricordando gli inizi della Sua carriera di studioso. Lei ha studiato filologia, germanistica, storia economica e sociale all’Università di Bonn, dove ha concluso i Suoi studi con una dissertazione in germanistica... Per l’esattezza su Hegel, ma si trattava in realtà di uno studio storico-letterario sulla situazione problematica dell’età di Goethe 1. Come ha incominciato a occuparsi di filosofia? Già ai tempi del liceo mi ero interessato di filosofia. Allora i miei interessi erano in tutto e per tutto di carattere matematico; ma poi, a causa delle vicende belliche, l’interesse si è completamente spostato. Volevo capire come fossero potute accadere cose come la dittatura e la guerra e come si potesse evitare di finire ignari, da bambini, in cose come quelle. Per questo ho studiato anzitutto storia, e contemporaneamente filologia. Filologia perché nell’università in cui ho studiato la filologia era molto ben rappresentata (nella facoltà di romanistica ho frequentato per esempio le lezioni di Curtius, pur non avendo studiato romanistica). E così i miei studi mi hanno portato a dover scegliere tra la storia economica e sociale, che avevo studiato molto intensamente, e la filologia. Ho poi concluso i miei studi con una dissertazione su Hegel nell’ambito della germanistica. In realtà, ho sempre considerato la filosofia una disciplina che può essere studiata solo come seconda disciplina. E resto della stessa opinione: oggi non ci si può occupare solo di filosofia, ma si deve partire o dalla matematica, come ha fatto Lorenzen, o dalla fisica, come ha fatto von Weiszäcker, o dalla filologia, come ha fatto Gadamer. O, per conto mio, anche dalla giurisprudenza, anche se oggi purtroppo nelle università tedesche la filosofia del diritto è poco rappresentata. 1

O. Pöggeler, Hegels Kritik der Romantik, Bouvier, Bonn 1956.

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Qual è stato l’effetto dei Suoi studi di filologia sul Suo modo di praticare la filosofia? In che misura per Lei è stata importante l’influenza di maestri come Johannes Hoffmeister e Ernst Robert Curtius? Johannes Hoffmeister era un allievo di Gundolf. Di lui mi hanno molto impressionato le lezioni sul romanticismo tedesco, delle quali egli stesso diceva che cercavano di continuare i celebri corsi di Gundolf sul romanticismo. Ma Hoffmeister – con cui ho potuto concludere i miei studi – ha dato anche importanti contributi alla filologia hegeliana. La sua impresa di un’edizione delle opere di Hegel è fallita, ma l’Archivio-Hegel, qui a Bochum, cerca di portare avanti il progetto di un’edizione critica delle opere di Hegel e la sua attività appartiene ugualmente alla filologia e alla filosofia. Io credo in effetti che, in confronto alla filologia classica, la germanistica non sia ancora una filologia effettivamente sviluppata. Per i filologi classici è ovvio occuparsi di Platone e di Aristotele come potrebbero occuparsi di Sofocle. Questo è del tutto impossibile nella germanistica. I germanisti non sono capaci di lavorare in questo modo stratificato: se ci si occupa di Hegel, si deve capire qualcosa di filosofia, per esempio anche di filosofia greca. Per tutto ciò la germanistica è troppo limitata, in quanto vuole occuparsi solo di letteratura, come se Platone e Hegel non fossero letteratura! La germanistica è limitata anche nel suo orizzonte storico, in quanto vuole comprendere una ristretta letteratura nazionale in base a se stessa, mentre Hegel non è comprensibile senza Aristotele. Ciò che mi ha attratto, nella filosofia, è anche il fatto che in essa oggi nell’università tedesca si dispone ancora di una sorta di licenza carnevalesca: per esempio, posso tenere e ho tenuto seminari sia su Pascal che sui filosofi tedeschi. Ciò sarebbe impossibile per un germanista, perché in questo modo egli trasgredirebbe i confini disciplinari. Credo che la filosofia debba mantenere questa ampiezza. Una seconda linea conduce dallo studio della germanistica o della filologia alla filosofia dell’arte. In quest’ambito ho scritto almeno due libri: La questione dell’arte2, che non si occupa solo di poesia, ma anche di architettura, e il libro su Celan3, un poeta di cui a mio avviso oggi si deve tener conto se ci si chiede come Hölderlin possa essere sviluppato nell’epoca attuale. E qui ci sono rapporti assai stretti con la filosofia, poiché non è possibile capire Hegel senza Hölderlin. Ernst Robert Curtius era la figura dominante a Bonn. Ho seguito costantemente i suoi corsi, soprattutto quelli su Dante. Ho anche frequentato il suo seminario, anche se in realtà non avrei potuto esservi ammesso, poiché non ero un romanista. Insieme a Auerbach, Curtius è considerato oggi negli Stati Uniti uno dei fondatori dello studio comparativo (come si dice da quelle parti) della letteratura. Qui in Germania egli è passato in una posizione di secondo piano, ma io credo che la valutazione degli americani sia giusta. Per me è stato assai difficile sottrarmi al fascino di Curtius per arrivare a un altro grande romanista, cioè a Erich Auerbach. Con Curtius si poteva a stento pronunciare il nome di Auerbach, o si poteva nominarlo solo criticamente. Curtius e Auerbach si impegnarono in una grande disputa sulla tradizione allegorica. Curtius sosteneva la concezione secondo cui 2O.

Pöggeler, Die Frage nach der Kunst. Von Hegel zu Heidegger, Alber, Freiburg i. Br.-München 1984. 3 O. Pöggeler, Spur des Wortes. Zur Lyrik Paul Celans, Alber, Freiburg i. Br.-München 1986.

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l’interpretazione alessandrina di Omero rappresenterebbe la tradizione dell’allegoria in quanto tale. Auerbach mostrava, al contrario, che nella tradizione cristiana, che si riallacciava a quella ebraica, nacque la cosiddetta allegoresi tipologica: Isacco è un prototipo di Cristo; ci sono grandi figure storiche che rinviano l’una all’altra e che conducono all’allegoresi tipologica. Con i suoi libri, non solo Mimesis4, ma anche Dante, poeta del mondo terreno5, Auerbach ha suscitato in me una grande impressione. Ciò che Auerbach sosteneva mi sembrava più giusto di ciò che Curtius ci insegnava nei suoi corsi su Dante. Secondo Auerbach, questa allegoresi tipologica conduce in un primo tempo a Dante: a questo proposito egli si richiama del resto all’affermazione di Hegel secondo cui le singole figure, Paolo e Francesca, nel loro destino terreno, hanno un destino eterno. Lo sviluppo porta poi a quello che Auerbach ha chiamato “realismo esistenziale”, che in ogni singolo attimo storico può esperire il destino. Nell’interpretazione di Dante queste impostazioni conducono a concezioni completamente diverse: per Curtius, Beatrice è una figura allegorica; per Auerbach, essa è al tempo stesso una figura terrena, che è stata incontrata da Dante. Ancora oggi credo che in questa disputa sia stato Auerbach ad avere visto più giusto e più in profondità. Che senso hanno avuto per Lei i cosiddetti “classici” della filosofia nella fase di passaggio dallo studio della filologia alla filosofia? Quali sono stati questi “classici”? Qui farei anzitutto il nome di Aristotele. L’Etica nicomachea, e in genere la filosofia pratica di Aristotele, è stata sempre per me una sorta di patria filosofica. Su questi temi ho tenuto seminari, anche insieme a filologi, ma non ho mai pubblicato nulla. Ho poi lavorato intensamente su Hegel, cui ho dedicato la mia dissertazione di dottorato. Retrospettivamente ci si chiede naturalmente: ha avuto senso cominciare con Hegel? Se si guarda alla storia dell’Europa moderna, il Rinascimento è un’epoca di transizione, ma nel XVII secolo è accaduto qualcosa di decisivo. Galilei, nella sua lotta con la Chiesa, e Newton, nel suo rapporto con una teologia assai singolare, cercano certo di ricollocare in un modo o nell’altro le loro nuove scoperte in una totalità, ma questo non riesce loro in modo convincente. Essi analizzano singoli fenomeni, per esempio il fenomeno della caduta libera, ma non dicono in modo adeguato come il particolare appartenga a una totalità dell’esperienza del mondo. Ma questo è oggi il nostro problema! Noi non sappiamo come collocare la nuova scoperta della profondità atomica delle cose, che possiamo cogliere e manipolare da una delle loro estremità, in una vita nel mondo dotata di senso. Lo stesso problema si è posto negli ultimi decenni nella tecnologia genetica, e ora nella cosiddetta intelligenza artificiale. Alcuni suppongono che nel XXI secolo l’umanità sarà in grado di investire la sua intelligenza in computer resistenti nel cosmo e che per così dire correggeranno tutto il cosmo. Questo è certo un vaneggiamento, che è tuttavia perseguito e sostenuto con mezzi enormi. 4

E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Francke, Bern 1946, tr. it. A. Romagnoli/ H. Hinterhäuser, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956. 5E. Auerbach, Dante als Dichter der irdischen Welt, De Gruyter, Berlin-Leipzig 1929, tr. it. M. L. De Pieri Bonino, Dante, poeta del mondo terreno, in: E. Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1963, 1984, p. 3-161.

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Il problema è: in che modo questi fenomeni, che esistono, appartengono alla nostra vita nel mondo nel suo insieme? Hegel ha posto a mio avviso questa domanda in modo tale che essa può ancora riguardarci. Nel corso della disputa di Galilei con la Chiesa, entrambi i partiti erano in fondo ciechi: la Chiesa era cieca rispetto al nuovo, e Galilei era a malapena in grado di dire che aspetto avrebbe potuto avere il mondo a cui egli aspirava nella sua libera cultura. Se leggiamo le concezioni teologiche di Newton – egli si è, infatti, occupato intensamente di teologia – esse ci appaiono strane ed estranee. Ma questo non è il caso della filosofia hegeliana, che ha considerato determinati problemi in modo a mio avviso fino a oggi convincente. A questo proposito continuerei a dare per acquisito (contro alcune tendenze attuali) che la Fenomenologia dello spirito rappresenta in qualche modo un’opera conclusiva nel primo sviluppo di Hegel. Qui compare la questione: in che modo determinate esperienze del mondo e determinati atteggiamenti rispetto al mondo appartengono a una totalità che li include? Secondo Hegel il tempo è il concetto che esiste. Il concetto è il lavoro scientifico nel suo insieme, che tende alla filosofia: essa esiste solo nel tempo, o dispersa nella storia. Il problema della Fenomenologia è di mostrare, almeno per i modi esemplari e decisivi del rapporto con il mondo, in che modo essi appartengano a una totalità che li include. In altri tempi nei licei si propagava il cosiddetto apprendimento esemplare, secondo cui non si impara che in Italia ci sono questo e quell’altro grande fiume, ma si impara che cos’è un fiume in genere, in modo da poter poi compiere dei passaggi dai piccoli ai grandi fiumi. Nella Fenomenologia dello spirito Hegel ha a mio avviso mostrato in modo convincente quale sia il significato di questi discorsi. Lei sottolinea l’esigenza, fatta valere da Hegel, che la filosofia sia un sapere relativo alla totalità, alla connessione dell’esperienza. Ma in Hegel si trovano almeno due concetti di totalità: la totalità come “vita” (negli scritti giovanili) e come “sapere assoluto”. In che misura tutto ciò è ancora sostenibile? Naturalmente oggi non possiamo più, con Hegel, dare per scontato che si possa giungere a una connessione relativamente ed essenzialmente conchiusa. Si deve anche tenere presente che la Fenomenologia manca di quella concretizzazione che Hegel ha poi cercato di dare quando era professore a Berlino. Egli si chiede per esempio nella sua Estetica: che cosa significa per noi che l’arte non si collochi più nel contesto delle antiche cattedrali o degli antichi castelli? A quel tempo le chiese venivano secolarizzate, le opere d’arte venivano messe nelle mani dei collezionisti dalle chiese e dai conventi o da coloro che li secolarizzavano. Alla fine si sviluppò quello che oggi chiamiamo museo, che non era più una collezione appartenente ai principi o ai papi, ma venne liberamente integrato nell’àmbito educativo nel suo insieme. Fu così anche a Berlino: il museo di Berlino è nato assai tardi, è stato costruito solo all’epoca dell’insegnamento berlinese di Hegel, molto più tardi dei musei vaticani o di quelli di Parigi e Londra. Tuttavia a Berlino è accaduto qualcosa di nuovo: il museo venne costruito contemporaneamente all’introduzione dell’archeologia e della storia dell’arte in una nuova università, e questo all’interno di un sistema educativo del tutto nuovo, che venne connesso al liceo e alla Università Humboldt. Hegel ha pensato fino in fondo questi problemi. Ma poi ha creduto di poter dar loro una soluzione definitiva, e qui naturalmente si è sbagliato. Egli riteneva, per esempio, che i pittori non potessero fare nient’altro 8

che quello che facevano i suoi amici pittori: restaurare vecchie opere e dipingere dal canto loro solo ritratti e paesaggi. Qui egli ha del tutto sottovalutato la via della pittura. Lo stesso vale anche in rapporto a un altro àmbito, quello dei problemi politico-costituzionali. Il concetto di connessione, attraverso il quale Lei ha poco fa caratterizzato il compito della filosofia, svolge un ruolo fondamentale in Wilhelm Dilthey. Attraverso Dilthey questo concetto di connessione arriva a Heidegger, come risulta chiaramente, tra l’altro, dalle considerazioni su Dilthey e Yorck nel §. 77 di Essere e tempo. Da studioso di Hegel e di Heidegger, ritiene Lei che la soluzione data da Heidegger a questi problemi della connessione e della totalità sia oggi per noi più importante di quella di Hegel, o pensa che dobbiamo mantenere una distanza critica da entrambe le impostazioni? Per quanto riguarda Dilthey, posso dire di essere stato fortunato. Alla fine del liceo ricevetti in regalo l’edizione delle opere di Dilthey, che è stata per me una presenza costante. Ritengo che Dilthey vada annoverato tra i grandi filosofi, e che oggi le sue opere siano lette troppo poco. Ciò era stato riconosciuto anche dal giovane Heidegger, e oggi dobbiamo ancora imparare che per Heidegger non sussisteva alcun contrasto tra la filosofia fenomenologica e la Scuola di Dilthey. Egli ha certamente imparato nella stessa misura da Dilthey e da Husserl, solo credeva di poter afferrare più saldamente l’aspetto metodico a partire da Husserl. Per noi oggi è naturalmente piuttosto difficile dire se possiamo semplicemente seguire Heidegger. Se si percorre la via che conduce da Hegel a Dilthey e poi a Heidegger, bisogna certamente dire che da Heidegger possono venire impulsi decisivi. Egli può indicarci quale è stata la cecità di Hegel! Il fatto che Hegel cerchi sempre di integrare il particolare in una totalità risulta già dai titoli sotto cui vengono discussi i suoi corsi universitari: l’estetica, per esempio, sotto il titolo “la dottrina hegeliana della morte dell’arte”. Ciò significa che l’arte ha un limite a partire dal quale deve essere integrata in una totalità che la include. A questo proposito si può cominciare a correggere Hegel muovendo da Heidegger. A partire dalla prima guerra mondiale, durante la quale aveva letto le lettere di Vincent van Gogh (che allora erano state pubblicate in olandese e in tedesco), Heidegger era fortemente interessato al modello di van Gogh. Questo aspetto è stato per esempio completamente trascurato nella discussione tra Derrida e lo storico dell’arte Meyer Shapiro! Heidegger non si è riferito a van Gogh solo nel saggio sull’origine dell’opera d’arte, ma sempre di nuovo a partire dal primo incontro. Heidegger era interessato alla questione: che cosa può mostrarci oggi la pittura in un approccio del tutto nuovo? Con questo suo interesse egli ha avuto anche grande successo, tanto che oggi a Parigi si scrivono saggi e libri su “filosofia e pittura” e un filosofo comprende se stesso a partire dalla prossimità alla pittura: un’idea impensabile per Platone o Plotino, e anche per Hegel! Qui Heidegger ha corretto Hegel, e ciò nonostante ritengo di dover dire che egli non ha visto la totalità. Egli ha sostenuto per esempio la seguente concezione: milioni di persone avrebbero potuto recarsi a Dresda negli ultimi duecento anni solo per vedere la Madonna Sistina di Raffaello; tuttavia il dipinto, in quanto opera d’arte, sarebbe fondamentalmente morto. Il dipinto, in quanto opera d’arte, apparteneva originariamente a un contesto rituale, e nella concezione di Heidegger l’arte resta legata a questo contesto. Questa conce9

zione attraversa tutta la sua opera e si esprime ancora nell’ultimo periodo. Ne concluderei che egli non è stato in grado di vedere che anche l’arte ha potuto in certo modo emanciparsi dal contesto rituale. Proprio van Gogh è un pittore moderno, ma è anche un restauratore, e questo si vede già nella sua intenzione di diventare predicatore. Se si considera tutto ciò, si deve riconoscere che il museo, pur non esaurendo il nostro rapporto con l’arte, appartiene al nostro attuale rapporto con l’arte. E dunque bisogna interrogarsi circa il suo apporto positivo. Hegel lo ha fatto e Heidegger no. Per questo Heidegger resta unilaterale nel suo tentativo di integrare il particolare nella totalità. Nei Suoi studi, oltre che nella sua biografia scientifica, è riscontrabile un intreccio tra impostazione storica e interesse teoretico. Qual è secondo Lei il significato dell’analisi storico-filologica per una filosofia sistematica che voglia trovare una soluzione ai problemi del presente? Credo che una scissione tra filosofare sistematico e riflessione storica sia insostenibile. A mio avviso ogni impostazione resta qualcosa di particolare, e dev’essere ricollocata in una totalità più ampia, cui si può pervenire anzitutto grazie a una riflessione storica. Tutto ciò che è nuovo nel nostro mondo – pensiamo per esempio alla fisica atomica – si è sviluppato storicamente, e qui si può naturalmente trovare un punto d’appoggio per interrogarsi sul significato per la totalità della vita. A questo proposito distinguerei però la mia posizione sia da quella di Heidegger, sia da quella di Hans-Georg Gadamer, con cui ho conseguito la libera docenza a Heidelberg6. Se continuiamo a considerare questo esempio della tecnica atomica, vediamo che Heidegger individua nella scoperta della dimensione atomica delle cose un grande rischio, che deve essere superato. Egli pensa solo storicamente, e si chiede: come si è sviluppato tutto ciò, e come possiamo spingerlo di nuovo indietro? Ma Heidegger non si chiede mai se qui non venga scoperto un nuovo livello della realtà effettuale. E invece è accaduto proprio questo. Non potremmo vivere, se un dio spegnesse il reattore atomico nel sole (un reattore a fusione). Questo livello delle cose, che oggi siamo in grado di decifrare, è semplicemente una realtà effettuale, che dev’essere riconosciuta. Ma ciò non avviene in Heidegger. Può essere interessante confrontare Heidegger con altri autori, per esempio con Ernst Jünger, con cui egli stesso ha discusso. Jünger ha sempre avuto grandi concezioni visionarie. Anzitutto la concezione dell’operaio, che egli ha poi valutato negativamente. Il romanzo Eumeswil7 propone una nuova concezione, che è semplicemente indimostrabile. Esso cerca di spiegare in che modo un cosiddetto “Anarca” vive tra i tiranni. Al termine del libro ci troviamo improvvisamente in quella che Jünger chiama “la foresta”. Nella sua concezione, questa foresta è nata dopo il fallimento del primo Stato mondiale e dopo gli incendi atomici; è una nuova foresta vergine, nata da alcune mutazioni provocate dalla radiazione atomica. Tutto ciò è assolutamente unilaterale e visionario, ma Jünger pone un problema che Heidegger non pone: che significato ha la scoperta di un nuovo 6 Cf. su ciò O. Pöggeler, Heidegger und die hermeneutische Philosophie, Alber, Freiburg i. Br.-München 1983; Id., Schritte zu einer hermeneutischen Philosophie, Alber, Freiburg i. Br.-München 1994. 7 E. Jünger, Eumeswil, Klett-Cotta, Stuttgart 1977, tr. it. M. T. Mandalari, Eumeswil, Guanda, Parma 2001.

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livello della realtà effettuale? A mio avviso si dovrebbe porre questo problema, anche se naturalmente non nel senso di queste visioni utopiche di Ernst Jünger, che non sono affatto giustificate. È un’idea sbagliata che la bomba di Hiroshima abbia causato tante mutazioni nelle informazioni genetiche. Hans-Georg Gadamer ci porta in un mondo diverso da quello del suo maestro Heidegger. Già il modo in cui egli considera l’ermeneutica è assai interessante. Nel sottotitolo di Verità e metodo egli parla di un’“ermeneutica filosofica” 8, ma non parla quasi di una “filosofia ermeneutica”, a meno di non imporgli questa nozione. L’espressione “ermeneutica filosofica” significa – e qui Gadamer traduce Heidegger nella dimensione delle scienze dello spirito – che l’esperienza ermeneutica è l’esperienza centrale: in che modo ci troviamo in una storia effettuale e in che modo possiamo riprendere criticamente e trasformare la storia effettuale attraverso l’interpretazione? Ciò che si potrebbe chiamare ‘analitico’, cioè la determinazione del senso funzionale della fisica atomica, resta dunque un fenomeno marginale. E qui, a mio avviso, si dovrebbe intendere diversamente l’ermeneutica, se si vuole svilupparla come filosofia ermeneutica, accostando alla parola “filosofia” l’aggettivo “ermeneutica”. Credo infatti che l’ermeneutico nel senso di Heidegger e di Gadamer (cioè il comprendere che si pone nella storia effettuale e riprende e trasforma la storia) sia solo un modo del nostro conoscere. L’altro modo è lo spiegare come forma a sé stante, che non può essere ricondotta al comprendere e non può nemmeno essere considerata un fenomeno marginale del comprendere. Spiegare significa qualcosa di completamente diverso: che si interpretano i singoli fenomeni attraverso una legge che può essere formulata matematicamente; che si rende in sé consistente questa connessione legale – cioè il formalismo matematico – e si passa poi a un esperimento, e l’interpretazione riesce o non riesce. Solo a questo punto si presenta la seconda questione: come si può inserire in un insieme più ampio ciò che è stato spiegato? Non si può dunque concepire lo spiegare come fenomeno marginale del comprendere, parlando di un’“ermeneutica filosofica” che deve avere un valore universale: si devono riferire lo spiegare e il comprendere, come modi del conoscere, a ciò che chiamerei “discutere” (Erörtern = collocare) – una parola che è stata trovata da Heidegger e che io ho però sempre connesso a Vico e al suo riferimento alla topica. Questo “discutere” discute il senso funzionale tanto dello spiegare quanto del comprendere. Se si chiama questo “discutere” “ermeneutica”, si perviene allora a una filosofia ermeneutica che può riferirsi nello stesso modo al matematico e allo spiegare, da una parte, e al comprendere in senso stretto, nel senso storico effettuale di Gadamer, dall’altra. Il concetto di “topologia” è stato da Lei sviluppato nei saggi su Vico e sulla “topologia dell’essere” in Heidegger9. Ci sono a Suo avviso analogie tra Heidegger e Vico per quanto riguarda la funzione della topologia nell’insieme della filosofia? A questo proposito, bisogna ricordare che Heidegger non si è mai occupato di Vico. Per quanto mi riguarda, mi sono avvicinato a Vico perché mentre Curtius – 8

H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Mohr, Tübingen 1960, tr. it. G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983. 9 O. Pöggeler, Heideggers Topologie des Seins, in: Id., Philosophie und Politik bei Heidegger, Alber, Freiburg i. Br.-München 1972, p. 71-104.

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che pure ne difendeva la topica – lo aveva semplicemente trascurato, Auerbach lo aveva tradotto assai precocemente e aveva scritto diversi saggi su di lui. Più tardi, ho cercato di attirare l’attenzione di Heidegger su Vico e gli ho suggerito di leggerlo, ma a questo proposito in lui c’erano semplicemente delle resistenze: latino e italiano, apparteneva a quell’umanismo» che non era per Heidegger un modo produttivo di filosofare. Oggi vediamo tutto ciò diversamente e, soprattutto, sappiamo che Vico non può essere definito solo attraverso l’umanesimo dell’età rinascimentale. In lui sono presenti anche la filologia e l’archeologia dell’età barocca. Vico rinvia inoltre, almeno indirettamente, alla cultura greca. Credo però che la parte iniziale di Verità e metodo sia fuorviante: Vico non era un sostenitore di Aristotele, ma era un platonico cristiano. Gadamer ritiene che attraverso l’elemento romano sia stata trasmessa a Vico la problematica della filosofia pratica di Aristotele; se però consideriamo ciò che lo stesso Vico afferma a proposito di Platone e di Aristotele, bisogna dire che egli appartiene alla tradizione di un platonismo cristiano. Ma adesso non è questo il problema; il problema è quello del suo apporto sistematico: se guardiamo ai problemi, parlerei assai più volentieri di una “filosofia topica” che di una filosofia ermeneutica. Tuttavia, nel corso di un semestre di studio negli Stati Uniti, ho capito che la parola “topica”, quale viene impiegata da Vico e quale noi la impieghiamo, non può essere tradotta in inglese. Si devono allora cercare espressioni ausiliarie, rinviando al greco “topos” o citando direttamente Vico e Cicerone. Quando in inglese si dice “topical” e “topical philosophy”, si pensa a una filosofia che avrebbe “temi” di qualche sorta, mentre le parole “hermeneutics” e “hermeneutical” suscitano grande interesse. Qual è, a Suo avviso, il significato filosofico della poesia di Paul Celan, cui Lei ha dedicato diversi saggi10? Quando ero studente ho letto per caso alcune poesie di Celan che mi sono piaciute molto; poi gli ho fatto visita nel 1957, durante un periodo di lavoro trascorso a Parigi. Da allora ho discusso molto con Celan, anche di questioni estetiche e di teoria della letteratura. Ancora all’epoca del mio studio a Bonn avevo scritto un saggio su Teoria della poesia e indagine topologica11 e avevo creduto di poter cogliere le parole fondamentali della riflessione occidentale sulla poesia nell’opposizione “entusiasmo e ironia”. Su tutto ciò ho potuto discutere intensamente con Celan. In quel periodo apparve un secondo saggio di estetica di Oskar Becker, il mio vero maestro di filosofia 12, che insieme a Heidegger era stato allievo di Husserl. Il primo era uscito nel 1929 nella Festschrift per Husserl13, il secondo apparve nel 1958 nella Festschrift per Rothacker e terminava con un’analisi

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Alcuni dei quali sono stati raccolti in Spur des Wortes cit. O. Pöggeler, Dichtungstheorie und Toposforschung, in: Toposforschung: eine Dokumentation, hrsg. P. Jehn, Athenäum, Frankfurt a. M. 1972, p. 69-73. 12 Su Becker cf. O. Pöggeler, Hermeneutische und mantische Phänomenologie, in: “Philosophische Rundschau”, XIII (1965), p. 1-39, poi in O. Pöggeler (hrsg.), Heidegger. Perspektiven zur Deutung seines Werkes, Kiepenheuer & Witsch 19702, p. 321-357. 13 O. Becker, Von der Hinfälligkeit des Schönen und der Abenteuerlichkeit des Künstlers, in: Id., Dasein und Dawesen. Gesammelte philosophische Aufsätze, Neske, Pfullingen 1963, p. 11-40. 11

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della poesia El Desdichado, di Nerval14. Becker credeva di trovare in questa poesia un’espressione della propria posizione, secondo la quale il poeta è sostenuto entusiasticamente dalla natura e dal divino, mantiene una distanza rispetto a entrambi e può coglierli solo in un’affettuosa ironia. Ciò si trova anche in Nerval: egli ha attraversato due volte l’Acheronte, sente il richiamo della fata – la natura, l’entusiastico, ma anche il sospiro del sacro, cioè il trascendimento di ogni affettuoso essere-al-di-là. Becker si riferisce all’estetica del primo György Lukács, che intendeva armonizzare norma e fatticità nell’arte. Di queste cose ho discusso molto con Celan, a cui allora avevo dato questo saggio, imparando molto da lui, per esempio sulla poesia e sulla teoria russa (lui sapeva il russo e io no). Allora Celan si occupava moltissimo di filosofia fenomenologica. Per il discorso Il meridiano aveva scritto lavori preliminari di circa trecento pagine, che stanno per essere pubblicati. Più o meno fino al 1962 Celan si è occupato di questi problemi; ancora nel 1961-62 egli ha studiato intensamente i corsi di Heidegger su Nietzsche. Poi tutto ciò non ha avuto seguito, perché si ammalò assai gravemente, occupandosi, sotto il peso della malattia, solo di alcuni poeti francesi e innanzitutto di Hölderlin. Direi dunque che questo rapporto con la lirica di Celan – e ciò risulterà chiaro solo quando si potranno leggere i lavori preliminari per Il meridiano – era sostenuto da un interesse comune. Oggi ci si chiede come Celan – il poeta della Niemandsrose – potesse richiamarsi a uno stalinista come Lukács e a un vecchio nazista come Becker. È assolutamente vero che Lukács è stato stalinista per alcuni decenni, ed è altrettanto vero che Becker, come Gottfried Benn, sebbene non sia mai stato nel partito, ha accolto con giubilo il presunto Aufbruch. Ma nel 1958-59 la situazione era del tutto diversa: nel corso dell’insurrezione ungherese del ’56 Lukács era stato arrestato, e per molto tempo non si seppe se fosse ancora vivo; allora nessuno diceva più che fosse stalinista. Per quanto riguarda Becker, è uno dei pochi che anche negli anni della dittatura nazista abbiano scritto su Husserl. Per esempio, nel 1936-37, Becker ha scritto un saggio su Husserl e Cartesio, in cui si richiamava alle Meditazioni cartesiane, delle quali allora esisteva solo la traduzione francese di Gabrielle Pfeiffer e Emmanuel Lévinas. Becker dice, a mio avviso giustamente, che in quest’opera Husserl supera la tradizione cartesiana nella direzione della monadologia di Leibniz. Egli individua tuttavia nello stesso Cartesio (nella concezione secondo cui l’idea di Dio si imprime in noi e al tempo stesso ci è superiore) un’impostazione che Heidegger non vede affatto, e afferma che questa concezione di Dio può essere presentata anche fenomenologicamente, cioè a partire dall’incontro con l’altro. L’altro mostra in se stesso un elemento infinito, come quello che Cartesio attribuisce a Dio. Concretamente: Raffaello non potrà mai dipingere come Michelangelo; in Michelangelo, in quanto altro, c’è qualcosa di infinito, che si sottrae. Oggi sappiamo che questa concezione è diventata fondamentale per Emmanuel Lévinas. Ho letto Totalità e infinito15 solo dopo aver scritto il mio libro su Hei-

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O. Becker, Von der Abenteuerlichkeit des Künstlers und der vorsichtigen Verwegenheit des Philosophen, in: Id., Dasein und Dawesen cit., p. 103-126. 15 E. Lévinas, Totalité et infini, M. Nijhoff, Den Haag 1971, tr. it. A. dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980.

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degger16, dunque dopo il 1963, ma ho subito avuto l’impressione che la nozione di “infinito”, limitata all’ambito dell’intersoggettività, sia stata discussa nella fenomenologia a partire dalle Meditazioni cartesiane di Husserl. Di questi problemi ho discusso con Celan; essi erano così stratificati, che la dimensione politica passava in secondo piano. Se lo dico adesso, non lo crede nessuno, ma quando disporremo dei lavori preparatori per Il meridiano vedremo in che misura Celan si è occupato di questi problemi. Il mio rapporto con le sue poesie, che sussisteva prima e indipendentemente da queste discussioni, si accentuò e intensificò grazie a queste discussioni. A ciò bisogna aggiungere un secondo elemento: essendo stato allievo di Becker, ho sempre posto a Heidegger questioni come: in che modo si può costruire una filosofia della matematica? Non sono mai stato allievo di Heidegger; lo si dice sempre, ma non è vero. Qui devo dire che per me il secondo grande stimolo a seguire Heidegger anche nella sua tarda filosofia provenne da Celan. Nei miei colloqui con Celan era sempre lui l’heideggeriano. Normalmente si interpreta questo rapporto in senso inverso: con Celan, io avrei sostenuto la posizione di Heidegger. Invece era Celan a essere assai convinto del valore della tarda filosofia heideggeriana, che a me rimase sempre alquanto estranea (diciamo quella che si esprime nei Saggi e discorsi17 e poi anche in In cammino verso il linguaggio18). Se mi pronunciavo criticamente nei confronti di questa filosofia, Celan talvolta si arrabbiava subito. Non consentiva critiche, anche se, dal punto di vista politico, non ammetteva compromessi. Egli ha condannato anche Martin Buber nel modo più deciso, quando Buber si incontrò con Heidegger nel 1957 senza parlare con lui di questioni politiche. Tutto ciò era indipendente dal fatto che nelle sue concezioni di teoria poetica e di estetica egli non fosse propriamente heideggeriano ma vedesse in Heidegger l’unica posizione di cui occuparsi più da vicino. La posizione propria di Celan era un’altra; credo anche che nel discorso Il meridiano oggi si possa già vedere che Celan si situa in ultima analisi più dalla parte di Buber. Allora Buber e Heidegger avrebbero dovuto partecipare insieme a un dibattito organizzato dall’Accademia delle belle arti di Monaco di Baviera. Ma, in seguito alla morte di sua moglie, Buber non poté partecipare, e ha poi tenuto la sua conferenza nel 1960. Tutto ciò fece allora molto scalpore, e tutti si chiedevano, persino nei quotidiani, se avesse ragione Heidegger o Buber. Celan mostrò grande interesse per queste vicende, e io direi ancora oggi che stava più dalla parte di Buber che da quella di Heidegger. Ma Heidegger era per lui una figura di gran lunga superiore. Egli fece visita a Heidegger non solo nel 1967, ma ancora nel 1968 e nel 1970, ed era previsto un altro incontro.

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O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1963, tr. it. Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, Guida, Napoli 1991. 17 M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1957, tr. it. G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976. 18 M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959, tr. it. A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973.

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Quale fu il tema della discussione tra Heidegger e Buber? Il tema era il linguaggio. Heidegger aveva tenuto la conferenza con cui si conclude il volume In cammino verso il linguaggio19. Per Heidegger il linguaggio parla con se stesso, e questo per Buber era scandaloso. L’uomo è incluso in questo colloquio del linguaggio. Per questo, secondo me, Lacan ha potuto tradurre in francese il saggio di Heidegger sul logos, per basarsi su di esso e per connettere con Heidegger quello che potremmo chiamare uno strutturalismo modificato. E di fatto è così: se si presta attenzione al modo in cui Heidegger interpreta i versi di Hölderlin, secondo i quali noi siamo un colloquio, ciò conduce sempre in Heidegger al fatto che in ultima analisi noi non parliamo con gli altri esseri umani ma con ciò che ci viene incontro in quanto divino. A questo proposito, Buber ha sostenuto allora nella sua conferenza una posizione del tutto diversa e ha affermato che, in senso stretto, con ciò Hölderlin viene frainteso; la concezione per cui il linguaggio deve venire concepito a partire dal dialogo è stata poi ricondotta da Lévinas alla posizione di Rosenzweig, che in alcune celebri lettere a Buber ha anche sviluppato alcune considerazioni critiche rispetto a questa forma del dialogo. In Lévinas ciò si ricollega all’impostazione cartesiana: Dio è, per così dire, colui che passa dappertutto e che assegna a ciascuno il proprio luogo, cosicché solo in base al rapporto con l’altro si può avere anche un rapporto con Dio. Questo è però più Rosenzweig che Buber. Nel 1960 questa posizione di Lévinas era poco nota. I suoi primi corsi su Il tempo e l’altro20 non vennero allora recepiti in Germania, e anche in Francia essi vennero soppiantati da Sartre e Marcel. Ma a partire da Totalità e infinito questa posizione è presente anche in Germania. C’è naturalmente già negli anni venti una filosofia dialogica, che però è sempre rimasta marginale. Nel 1960 Buber si trovava in una posizione di primo piano. Quando Celan allora venne a trovarmi, abbiamo ascoltato due dischi con incisioni di Buber, che poi Celan comprò e portò con sé a Stoccolma, dove la poetessa tedesca Nelly Sachs si era ammalata. Celan ha portato questi due dischi di Buber in ospedale, e subito lui e Nelly Sachs hanno parlato di questa controversia tra Heidegger e Buber. Questa controversia venne dunque discussa anche a Stoccolma. Tutto ciò oggi è stato completamente dimenticato, ma rappresenta lo sfondo del discorso Il meridiano di Celan. Per sottolineare le discontinuità nello sviluppo della filosofia di Hegel Lei ha parlato in Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes 21 di un’“idea” della fenomenologia che deve essere distinta dalla sua realizzazione concreta. Ritiene che questa distinzione tra l’“idea” di un’opera e l’opera stessa possa essere uno strumento storico-filologico per interpretare qualsiasi opera filosofica o questo schema è strettamente legato al contenuto della Fenomenologia dello spirito?

19 M. Heidegger, Il cammino verso il linguaggio, in: In cammino verso il linguaggio cit., p. 189-212 20 E. Lévinas, Le Temps et l’Autre, Presses Universitaires de France, Paris 1983, tr. it. F. P. Ciglia, Il Tempo e l’Altro, Il Melangolo, Genova 1987. 21 O. Pöggeler, Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, K. Alber, Freiburg i. Br.-München 1973, tr. it. A. De Cieri, Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirito, Guida, Napoli 1986.

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Propenderei per la seconda ipotesi: che si debba connettere strettamente questa idea al contenuto che si può ora effettivamente leggere nel libro. Ma credo – e questo abbiamo potuto mostrarlo con le nostre indagini storico-evolutive – che l’elaborazione della Fenomenologia abbia attraversato in Hegel stadi del tutto diversi. All’inizio Hegel voleva forse effettivamente scrivere non più di cento pagine, e ciò doveva costituire un’introduzione alla sua “Logica” o “Logica e metafisica”, come egli diceva all’inizio: un’introduzione alla filosofia speculativa. Ma, in contrapposizione ad altri filologi come Theodor Haering, nel 1960-61 ho cercato di mostrare che queste cento pagine avrebbero dovuto già esporre lo sviluppo d’insieme fino al sapere assoluto, quale oggi si mostra nella Fenomenologia22. Non è dunque, come ha affermato Haering 23, che Hegel abbia voluto fin dall’inizio concludere con la ragione, come fa più tardi nella sua Propedeutica di Norimberga e anche nella sua Enciclopedia. Egli voleva disegnare tutto il percorso, ma in modo assai breve – in quell’“apprendimento esemplare” di cui poi ha parlato anche la pedagogia. In altre parole, egli voleva mostrare in poche figure quali esperienze e atteggiamenti decisivi si attraversano quando si costruisce il sapere. Credo proprio che, dal 1960 fino all’inizio degli anni settanta, siamo riusciti a comprendere che cosa è veramente accaduto quando Hegel scrisse la Fenomenologia. Quando cioè voleva scrivere un’introduzione di cento pagine e produsse poi un libro che nella versione originale comprendeva settecento pagine, e questo in una situazione di grandi turbamenti: Napoleone arrivava a Jena, Hegel, che viveva in condizioni di povertà, ebbe il suo figlio illegittimo ecc. Egli si trovava dunque sotto una pressione assai grande quando finì questo libro. Poi scrisse a Schelling chiedendogli che cosa pensasse dell’idea di quest’opera. A mio avviso questa idea finora è stata completamente fraintesa, per esempio da Kojève, che considera il libro una concreta esperienza della storia. Si fraintende Hegel, se si intendono le argomentazioni sulla fenomenologia dell’autocoscienza come analisi real-filosofiche, cioè se si connettono queste argomentazioni a una concreta comprensione della storia. Si tratta di qualcosa di completamente diverso: Hegel usa degli esempi per spiegare la struttura dell’assoluto; e questa struttura dell’assoluto consiste nel fatto che la “cosa” nella sua forma compiuta è in effetti vita, e che dell’assoluto fanno parte vita e autocoscienza. Schelling affermerà del resto due anni più tardi, nelle Ricerche sull’essenza della libertà umana, che di questo assoluto fa parte ciò che è fondamento in Dio ed è Dio stesso, o l’esistenza. Questa è un’impostazione analoga, parallela, e io credo che sia riuscito il tentativo di chiarire ciò cui Hegel mirava effettivamente con la sua Fenomenologia – non mi riferisco ai miei primi saggi, ma alla conferenza sulla fenomenologia hegeliana dell’autocoscienza. Bisogna anche dire che, per esempio, i manoscritti parigini di Marx sono a loro volta una “fenomenologia dello spirito” (solo che il punto chiave non si trova nel presente ma nel futuro). Tuttavia Marx non ha compreso il Logico nella Fenomenologia di Hegel. È questo che ho inteso con “idea”: si deve effettivamente esaminare a fondo che cosa Hegel aveva davanti agli occhi, cioè mostrare come si costruisce il sapere, presenCf. il saggio Per l’interpretazione della fenomenologia dello spirito, in: O. Pöggeler, Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirito cit., p. 181-229. 23 Th. Haering, Die Entstehungsgeschichte der Phänomenologie des Geistes, in: Verhandlungen des 3. Hegelkongress, c/ di B. Wigersma, Tübingen-Haarlem 1934, p. 118-138. 22

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tarlo in base a esempi e poi si deve confrontare con tutto questo ciò che Hegel ha pubblicato. Si potrebbe naturalmente dire che se oggi uno studente universitario consegnasse una tesi di laurea composta da sei capitoli principali, e se il sesto capitolo avesse dodici pagine e il quarto ne avesse centocinquanta, il suo lavoro gli verrebbe restituito ed egli verrebbe respinto. E questo vale anche per Hegel. Ma, ciò nonostante, la Fenomenologia è un’opera in cui emerge qualcosa di nuovo, nella quale Hegel ha chiarito i suoi pensieri. A mio avviso è anche del tutto fuorviante avvicinarsi alla Fenomenologia come ha fatto Heidegger. Nel saggio su Hegel pubblicato in Sentieri interrotti24 egli interpreta l’Introduzione, ma dando a ogni parola un senso diverso da quello hegeliano. Hegel parla il linguaggio quotidiano, e attraverso questo linguaggio rende provvisoriamente comprensibile la sua azione teorica. Heidegger non riprende il linguaggio quotidiano, per esempio “verità” e “certezza”, nel suo senso. Posso senz’altro dire: “Sono certo che domani pioverà”. Ma se questa certezza è “vera” si vedrà domani. Qui stabiliamo la differenza che viene stabilita anche da Hegel nella Introduzione. Heidegger non assume però questa differenza nel senso in cui essa era intesa da Hegel, e non comprende ciò che Hegel fa effettivamente. Per esempio, egli fraintende la fenomenologia dell’autocoscienza considerandola come cartesianismo, come conversione all’io. È solo nei suoi corsi berlinesi che Hegel ha interpretato Cartesio come filosofo dell’io; questa è stata certo una svolta di importanza epocale nell’interpretazione di Cartesio – un fraintendimento di Cartesio, direi – che arriva poi fino a Heidegger. Nel periodo jenese Cartesio era per Hegel un filosofo della riflessione, e in questo senso la fenomenologia dell’autocoscienza non ha niente a che fare con Cartesio, ma si chiede semplicemente: in che modo tanto la vita quanto il sé e l’autocoscienza fanno parte dell’assoluto o di Dio? In base a quali esempi si può illustrare tutto ciò? Non si può, per esempio, semplicemente applicare la negazione, questo sarebbe altrettanto astratto dell’uccidere. Bisogna usare una negazione della negazione. Parlando di un’“idea” ho voluto dire che solo dopo centosessant’anni siamo riusciti a comprendere l’effettiva azione teorica di Hegel nella Fenomenologia. Credo infatti che le interpretazioni della Fenomenologia proposte da Heidegger e da Kojève25 siano assai caratteristiche e illuminanti, che esse non si siano affatto avvicinate all’effettiva azione teorica di Hegel, che per noi è assai più importante di quanto non lo siano Kojève e Heidegger. In questo senso ritengo che si debba distinguere, in un modo che può anche consentire una critica, ciò che Hegel voleva effettivamente da ciò che ha realizzato nelle circostanze opprimenti in cui si trovava. Ma non si può scindere un’“idea” da quello che è stato prodotto effettivamente. Questo sarebbe certamente sbagliato. Poco fa Lei ha fatto il nome di Marx. Ritiene che oggi, dopo il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est, si diano le condizioni per occuparsi di Marx in modo libero da pregiudizi? 24

M. Heidegger, Holzwege, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1950, tr. it. P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 103-190. 25 A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1947, tr. it. parziale P. Serini, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Torino, Einaudi 1948.

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Attualmente – e del resto è così già da più di un decennio – non si può più discutere di Marx all’Università. Forse quattordici o quindici anni fa ho tenuto il mio ultimo seminario sui manoscritti parigini, e allora mi sono ripromesso di non farlo mai più. Perché gli uni dicevano schiettamente: “Questo Marx è semplicemente un perfetto imbecille, a cui dobbiamo la nostra miseria”; e poi c’erano alcuni, appartenenti alle vecchie sette marxiste, che la pensavano in modo opposto, ma che forse dicevano le più grandi assurdità. Non era dunque possibile occuparsi di Marx, che naturalmente appartiene all’idealismo tedesco, in modo libero da pregiudizi. Ed è veramente un peccato. Ma ora ci troviamo in una situazione di transizione e bisogna ammettere che questo socialismo regolato dallo Stato ha gettato la Russia in una catastrofe. Questo è proprio quello che è accaduto, e negare che ciò si trovi già in Marx e abbia un’impronta hegeliana (che cioè si voglia pianificare e dirigere qualcosa a partire dal tutto) sarebbe certamente una forma di cecità. D’altra parte, nel socialismo ci sono stati motivi del tutto diversi: ridurre le disuguaglianze che possono sorgere, o ridurre la miseria. Questi motivi entreranno di nuovo in azione.

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