La natura tecnica del tempo. L\'epoca del post-umano tra Storia e vita quotidiana

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POSTUMANI n. 7 Collana diretta da Antonio Caronia COMITATO SCIENTIFICO Alberto Abruzzese (IULM, Milano) Paolo Amodio (Università Federico II, Napoli) Roy Ascott (University of Plymouth, UK) Franco Berardi (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano) Gianni Canova (IULM, Milano) Gino Frezza (Università di Salerno) Derrick de Kerckhove (University of Toronto, Università Federico II, Napoli) Giuseppe O. Longo (Università di Trieste) Michel Maffesoli (Université de Paris V, Sorbonne) Mario Pireddu (IULM, Milano) Antonio Tursi, Luisa Valeriani (Università Sapienza, Roma)

I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

PIER LUCA MARZO

LA NATURA TECNICA DEL TEMPO L’epoca del post-umano tra Storia e vita quotidiana

MIMESIS Postumani

© 2012 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Postumani, n. 7 Isbn 9788857509747 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

INDICE

INTRODUZIONE

9 PARTE I L’UOMO E IL TEMPO

1. 2. 3. 4. 5. 6.

UNA SPECIE DI PHILIPPE PETIT CAMMINARE SUL TEMPO IL RIEQUILIBRIO DELLA SECONDA NATURA AGIRE FUORI DAL PRESENTE PENSARE FUORI DAL PRESENTE LA CHIAVE IMMAGINARIA DEL TEMPO

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PARTE II MORFOLOGIA DEL TEMPO SOCIALE 1. 2. 3. 4.

ELEMENTI DI MORFOLOGIA DARE SPAZIO AL DIVENIRE: LA CRONO-ARCHITETTURA ABITARE TRA STORIA E QUOTIDIANO: LA CROCE DEL TEMPO LA LINEA, IL CERCHIO E LA METAMORFOSI:

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LA SPIRALE DELLE MODERNITÀ

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PARTE III LA CRONO-ARCHITETTURA MONDO 1. LA NATURA TECNICA DEL TEMPO-MONDO 2. LE A-QUALITÀ DELLA RETE CRONOMETRICA 3. LA NATURALIZZAZIONE DELLA STORIA

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4. L’ACCELERAZIONE DELLA VITA SOCIALE 5. L’ODISSEA POST-UMANA VERSO IL TEMPO ANIMALE BIBLIOGRAFIA

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A Félix, con l’augurio che possa sempre camminare sulla fune della vita con la magia e la grazia di un funambolo.

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INTRODUZIONE

Ogni cosa ha la sua durata, anche la scrittura di un saggio. Vi è un momento, infatti, in cui l’autore sa che sta abbracciando per l’ultima volta l’interezza del suo lavoro prima di congedarsi da esso. Continuare a intervenire nel testo oltre la misura di questa durata lo trasformerebbe in un feroce tiranno, scacciato dalla stessa popolazione di parole che egli ha raccolto fondando la sua città di carta. D’altronde, è proprio il timore di questa rivolta che, mandando in esilio l’autore, permette all’indole nomadica del lettore di trovarvi, almeno per un po’, la sua dimora. Rimane, tuttavia, un’ultima traccia scritta, un post scriptum, che sotto forma d’introduzione l’autore può ancora attaccare alla porta della sua città oramai straniera. Con essa, tradizionalmente, si tracciano i conni discorsivi che hanno dato luogo alla sua fondazione, si indica il sapere utilizzato per edicarla, i metodi seguiti per la sua costruzione e le tesi che hanno fatto da Genius loci orientando il suo sviluppo urbano. Esiliato anch’io dalla mia città di carta, ho pensato che potesse essere utile seguire questi canoni introduttivi proponendo al lettore che vi si accosta un indovinello: quale invenzione ha fatto svoltare il cammino evolutivo dell’uomo dalla sua condizione di primate a quella umana? Ingaggiato in un tale indovinello, penserebbe forse alla potenza espressivo-comunicativa del linguaggio, alla capacità manipolativa espressa dal mondo oggettuale, all’impiego delle energie presenti nell’ambiente a partire dal fuoco, alla riproduzione dei cicli naturali con la quale ebbe inizio l’agricoltura e la nascita del fenomeno urbano. Passando al setaccio la preistoria, sarebbero probabilmente queste le principali invenzioni che resterebbero tra le sue maglie, rendendo visibili quei punti di svolta compiuti dai primi ominidi. Tra le svolte ltrate da questo setaccio, quale dovremmo scegliere? Ve ne è qualcuna tra queste che, al di là di una nostra personale predilezione, potrebbe veramente annullare l’importanza delle altre? Certo, ci si potrebbe accordare nel dire che ciascuna è parte di una sola costellazione senza la quale il cielo dell’umanità sarebbe buio; che ciascuna è una pietra miliare su quel percorso evolutivo che ha umanizzato la nostra

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specie. Prima di iniziare ad intraprendere il lavoro di ricerca racchiuso tra queste mura di carta, anche io avrei trovato condivisibile una simile posizione. Oggi, tuttavia, mi trovo nella condizione di dissentire da questo ragionevole accordo, convinto che la più grande svolta dell’uomo, ciò che lo ha ammantato della sua umanità, sia l’invenzione del tempo. A questa mia risposta, non mi sorprenderebbe di scorgere nel volto del lettore un moto di reazione tra la sorpresa e il disappunto. D’altronde, come negare che al giorno succeda la notte, che questa introduzione la sto scrivendo dopo aver terminato il mio saggio, che si nasce e si muore o, per tornare al nostro indovinello, che l’uomo si sia emancipato dal suo passato di primate percorrendo la sua storia logenetica verso l’umano? Posti davanti all’evidenza di questi fatti, che accadono secondo quel naturale legame tra il prima ed il dopo, solo un folle potrebbe negarli dicendo che il tempo è un’invenzione. Eppure, l’uomo ha generato la sua umanità da questa follia, cominciando a rendere artefatta la successione di quel prima e di quel dopo scandita dallo stimolo-risposta. È la rigidità di questa sequenzialità comportamentale che incatena la vita delle altre specie in una dimensione temporale modellata, attorno a loro, dall’incessante dinamica degli accadimenti che affollano il loro habitat. La nostra specie, diversamente, ha imparato a costruire nella mente un tempo vuoto da frapporre nella sequenzialità reattiva dello stimolo-risposta e nel quale, il suo pensiero, ha avuto modo di riavvolgersi riuscendo a riettere sugli accadimenti presenti nel suo campo percettivo, ricondurli a sequenze processuali coerenti, interrogarsi sulla loro origine, pregurarne il loro ripetersi e, quindi, a modicarne i loro esiti con il suo agire. È da questo vuoto temporale, dunque, che la specie ha potuto generare dei propri modelli temporali attraverso i quali manipolare la folla degli accadimenti presenti nel suo campo percettivo, inventando il suo tempo pieno d’umanità. Un’invenzione tanto più preziosa se si considera che il suo impiego ha travalicato gli ambiti di applicazione strettamente connessi alla manipolazione dei nessi temporali, per investire l’intera sfera del saper fare della specie e renderla, così, creativa. Il suo utilizzo è, infatti, ciò che ha permesso ai primi ominidi di interrompere la ripetitività del loro linguaggio animale dando spazio alle variazioni discorsive delle loro parole, di interrompere la ripetitività delle tecniche costruttive dando spazio alla variabilità dei loro artefatti, di legare casualmente la percussione delle pietre focaie con le quali accendere il fuoco, di comprendere e riprodurre i cicli naturali dando così inizio all’era agricola. Forse, solo ora si chiaricano i motivi che, a torto o a ragione, mi spingono a dire che l’invenzione del

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tempo eccede per importanza ciascuna di queste invenzioni, essendone la loro conditio sine qua non. Un’invenzione talmente sosticata da avvolgere i suoi meccanismi di funzionamento nell’illusione della naturalezza del suo scorrere, così come ci testimoniano gli esempi citati prima. Ciò non di meno, è sufciente utilizzare la stessa macchina cognitiva del tempo e ritornare indietro su ciascuno di questi esempi per cominciare a sospettare dell’esistenza della sua natura tecnica. Ecco allora che, riettendo al di là dell’immediatezza del legame tra il prima e il dopo, l’esperienza di genitori e la psicologia dell’età evolutiva portano a una condizione di evidenza come il bambino crei l’alternanza del giorno e della notte nell’arco di qualche anno; ecco che l’introduzione con la quale mi sto congedando dalla mia città di carta e che il lettore incontrerà sulla sua porta d’ingresso, ci dimostra come possiamo smontare e rimontare a nostro piacimento i nessi temporali ricreando l’illusione di una logica continuità; ecco che l’innumerevole produzione di racconti mitologici, trattati teologici e losoci ci dice quanto sia enigmatico il legame tra vita e morte o ancora che il poter porre e rispondere al nostro indovinello ci faccia comprendere quanto sia estesa la nostra capacità rappresentativa del tempo, a tal punto da consentirci di interrogare il nostro passato di primati mettendolo casualmente in relazione alla nostra condizione umana. Se, dunque, il tempo è «il numero del movimento secondo il prima e il poi», così come ci tramanda Aristotele nella Fisica, il rapporto tra queste due sponde, dal quale questo numero trae origine, è l’esito di un articio tipicamente umano. La stessa sica post-newtoniana, a partire dalla esposizione della teoria della relatività ristretta di Einsten (1905), considera anch’essa il numero di tale movimento non più in termini assoluti. Il legame tra il prima e il poi è, infatti, diventato elastico essendo la risultante di una deformazione spazio-temporale determinata dalla relazione tra il sistema di riferimento considerato e la velocità di propagazione nel vuoto della luce. Senza considerare, inoltre, come la domanda «cosa è il tempo?» continui ad essere oggetto di dispute nell’odierna teologia della sica teorica, portando alcuni a ripristinare la tesi dell’inesistenza della continuità temporale già espressa da Sant’Agostino nelle Confessioni. Il sico britannico Baurbur, ad esempio, ipotizza che il tempo sia nient’altro che una compresenza d’istanti, che egli chiama Adesso, e che solo per un inganno della mente li immaginiamo essere stesi uno dopo l’altro come dei panni sul lo del tempo. Ma - si chiede il sico - senza il supporto di questo lo tali Adesso non riuscirebbero lo stesso ad esistere in se stessi?

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Poco importa chi tra Aristotele, Sant’Agostino, Newton, Einstein o Barbour abbia ragione poiché, quello che indirettamente dimostrano, è solo l’esistenza di quel vuoto temporale che, come si diceva, rende il loro e il nostro pensiero umano. È in esso che entra la riessività di ogni pensatore, senza che lui se ne accorga, permettendogli di porre la domanda stessa sul tempo e, nel momento in cui vi risponde, di rinnovarne la sua invenzione sotto forma di verità. Tuttavia, se si valutassero queste opere d’ingegno fuori dal regno austero della verità, si scorgerebbe in esse il sigillo dell’epoca nella quale si è svolta la vita dei loro arteci. Per quanto geniale e originale sia l’inventore del tempo, egli trova sempre sul suo tavolo di lavoro degli strumenti linguistici e dei materiali concettuali già pronti all’uso. Essi, infatti, gli sono forniti dalla sedimentazione di un tempo non inventato da lui, ma dal suo mondo sociale. È l’utilizzo di questi indispensabili strumenti e materiali che, come degli a priori, orientano e condizionano le possibilità costruttive delle sue personali connessioni di verità del prima e del poi. Questo tempo, inventato dalla mente collettiva, non ha solo il potere di plasmare indirettamente le singole opere d’ingegno ma, soprattutto, di plasmare direttamente quell’opera d’ingegno costruita dall’azione reciproca, che chiamiamo società. Il suo funzionamento è ciò che permette, infatti, di dare un ritmo condiviso all’agire individuale oggettivandolo in scambio sociale; ciò che consente di conservare la memoria collettiva con la quale la vita sociale perdura al di là dei ponti generazionali; ciò che dà la possibilità di dischiudere l’orizzonte dei grandi ni grazie ai quali si costruisce il senso del futuro; è la condizione per organizzare le ritualità sacre e profane che mettono in relazione la vita degli individui con quella delle istituzioni o per scandire i processi biologici espressi dai corpi dalla nascita alla morte rendendoli con ciò socialmente signicativi. È, dunque, l’invenzione sociale del tempo che, al di là del vero e del falso, produce quegli effetti di realtà che plasmano in modo durevole le forme della vita associata dando ad esse il sigillo di umanità. La sua impronta, tuttavia, non dà un carattere d’uniformità al mondo sociale degli uomini ma di difformità, diversamente da come accade per il sigillo impresso dallo scorrere dei processi naturali sui mondi sociali animali. Ogni associazione umana che ha abitato il mondo, avendo una propria mente collettiva e una determinata visione del mondo (Weltanschauung), ha inventato il tempo dando ad esso una irripetibile forma. È questo umano sigillo di irripetibilità che ha differenziato i calendari e gli orologi degli Assiro-Babilonesi, degli Egizi, dei Greci, dei Romani, dei Maya o dei Cinesi, per citare solo alcune delle prime grandi civiltà.

Introduzione

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Eppure, nella contemporaneità, scorre un tempo che avvolge in una sola crono-sfera fatta di 24 fusi orari l’intero mondo, trovando a Grennwich il suo prima e il suo dopo. È lo scorrere di questo tempo-mondo che imprime quotidianamente il suo sigillo d’uniformità su ciascuna realtà geoculturale. La sua impronta la scorgiamo ogni qualvolta verichiamo data e ora negli orologi che fasciano i nostri polsi, nei micro-schermi degli smartphone che portiamo in tasca, nei tanti quadranti dell’arredo urbano, nei display degli arrivi e delle partenze di treni o aerei, nel quotidiano che sfogliamo, ai bordi degli schermi dei nostri computer. Per la prima volta nella storia dell’umanità esiste, dunque, un tempo uniforme che permette di sincronizzare le dinamiche personali e sociali al movimento rotatorio della Terra rendendo, con ciò, possibile l’opera d’ingegno che chiamiamo società mondiale. Pertanto, la città di carta che il lettore troverà dietro la porta di questa introduzione non è stata fondata per essere eletta capitale di un qualche regno di verità, ma per comprendere la natura tecnica dell’invenzione del tempo-mondo e di come, il suo funzionamento, plasmi la vita quotidiana e le dinamiche storiche delle società contemporanee. Coerentemente a ciò, il sapere utilizzato per edicare tale città è di tipo sociologico e questo, malgrado la direzione datale dalle sue correnti di pensiero oggi dominanti. Sono esse che sembrano impegnare la sociologia in una guerra d’indipendenza per tracciare, nell’ambito della divisione delle terre del sapere, propri specici conni disciplinari. Una guerra che spesso la porta a non sapere più chi essa sia e quale ruolo occupi rispetto ad altre discipline più forti ed antiche, ad irrigidire le sue posizioni metodologiche a scapito della profondità d’analisi dei fenomeni sociali, ad essere in ritardo rispetto alla comprensione dei fatti sociali generati dalla dinamica accelerata del mondo sociale contemporaneo. Io sono uno dei tanti disertori di questa guerra. Seguendo la lezione simmeliana, infatti, sono convinto che la specicità della sociologia sia quella di trasformare i suoi conni disciplinari in nuove strade di connessione tra le terre del sapere per giungere alla comprensione dei fenomeni storico-sociali di volta in volta analizzati. È percorrendo questa via transdisciplinare che il mio percorso mi ha fatto attraversare la paleoantropologia, l’etologia, la losoa, la neurologia, la psicologia, la storia, l’antropologia e, naturalmente, la sociologia per giungere alla comprensione del tempo-mondo in una cornice riessiva più ampia. Il metodo che ho seguito per edicare la mia città di carta fa riferimento all’approccio conoscitivo empirico-ideale della morfologia sociale. Caratteristica di tale metodologia è quella di cogliere in modo sparso i dati storico-sociali provenienti dal mondo empirico della vita quotidiana e di ri-

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congiungerli successivamente in un piano analitico ideale come parti di un tutto. Nel caso specico di questo lavoro la percezione generalizzata della scarsità del tempo, l’accelerazione della vita sociale, lo svuotamento del senso del passato, la scomparsa dei grandi ni meta-narrativi, la colonizzazione mondiale del tempo crono-metrico, l’interconnessione in tempo reale degli accadimenti socio-politici, la precarietà lavorativa, i ritmi convulsi del mercato mondiale, l’impossibilità dell’arte di governo di dispiegare politiche di lungo respiro, la rottura delle catene generazionali, il consumo del futuro attraverso lo sfruttamento delle risorse sociali e naturali, sono stati quei singoli dati storico-sociali provenienti dal mondo empirico della vita quotidiana contemporanea. Questi sono i singoli dati che, successivamente, ho ricongiunto in un piano analitico ideale come parti di quel tutto che è la forma reticolare del tempo-mondo. La tesi, inne, che ha fatto da Genius loci orientando lo sviluppo urbano della mia città di carta è quella dell’animalizzazione delle società umane, una volta che esse vengano schiacciate nel presente dal movimento uniformemente accelerato del tempo-mondo. Questo involontario ritorno del tempo umano verso quello animale è ciò che dischiude l’epoca del postumano e che lascio scoprire alla curiosità del lettore che deciderà di aprire la porta di questa introduzione. Desidero ringraziare tutte le persone che mi hanno fatto dono del loro prezioso tempo senza il quale avrei moltiplicato gli errori inevitabili d’ogni percorso di ricerca troppo ambizioso. Ringrazio, innanzi tutto, Sophie, per avermi protetto con amore durante il lungo periodo della scrittura; Giovanni La Fauci, che con sensibilità e competenza è riuscito a rappresentare gracamente dei passaggi nodali del mio discorso; Milena Meo, con la quale ho avuto un serrato confronto sui problemi più complessi che ho incontrato nel mio percorso di ricerca; Monica Musolino, che ha saputo vigilare con sapienza sulla chiarezza dell’esposizione degli argomenti trattati; Fabio Mostaccio, per avermi indicato la necessità di dare più spazio ad alcuni argomenti presenti nel testo; Tonino Perna, che ha saputo indirizzarmi come sempre verso il valore aggiunto della mia ricerca; Caterina Resta, per avermi accolto nel suo studio di casa durante una burrasca invernale mettendomi in mano i testi da cui ho attinto per iniziare la mia ricerca; Antonio Tramontana, con il quale ho sempre trovato un’ottima sponda per confrontarmi no al punto nale del saggio; inne, mio glio Félix, la sua nascita più d’ogni altra cosa mi ha permesso di riettere in modo nuovo su quel mistero in movimento che chiamiamo tempo.

PARTE I L’UOMO E IL TEMPO L’uomo è una corda, annodata tra l’animale e l’Oltreuomo – una corda tesa sopra un abisso. Un pericoloso andare al di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso rabbrividire e fermarsi. Quel che è grande nell’uomo è che egli è un ponte e non un ne: quel che si può amare nell’uomo è che egli è un passaggio e un trapasso. F. W. Nietzsche

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1. UNA SPECIE DI PHILIPPE PETIT

Funambolo (lat. Funàmbulus da fùnis fune, corda e ambulare camminare) è colui che cammina, salta o balla su di una fune sospesa messa in tensione. L’alchimia di quest’arte circense nasce dalla sincronizzazione tra il bilanciere usato dal camminatore di funi per parare i colpi della forza di gravità, che da destra a sinistra lo richiamano verso la sua natura terrestre, e il bilanciere emozionale degli spettatori. Lo stupore di chi assiste ad un numero di funambolismo cresce proporzionalmente all’altezza della fune, alla quantità di vertigine che questo cavaliere del vuoto decide di sdare nel suo duello aereo. È il caso di Philippe Petit, il funambolo francese che il 7 agosto del 1974 toccò illegalmente il cielo di Manhattan sdando una vertigine alta ben 412 metri che, no all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, misurava l’altezza delle Twin Towers. Il 6 agosto, eludendo la sorveglianza addetta alla sicurezza, Petit insieme alla sua equipe corsara lavorò tutta la notte sul tetto della Torre nord e della Torre sud per ancorare la fune di 60 metri necessari a coprire i 42 metri di quel canyon metropolitano fatto di vetro e acciaio. Al mattino seguente, messo nella giusta tensione l’esile marciapiede per la sua pericolosa passeggiata, l’arte del funambolismo per ben otto volte lo portò in atto d’estasi e bellezza1 a riunire i due titani architettonici. Iniziata la sua performance, il formicaio umano di Manhattan, da poco uscito dal sonno, cominciò a fermarsi trasformandosi ai piedi delle Torri in una platea di oltre centomila persone. Lo stupore, lo si può ben immaginare, trattenne con il ato sospeso gli improvvisati spettatori nel guardare quel puntino di carne e ossa portare con il suo bilanciere l’emozione collettiva ad oscillare verso le nuvole a più di 400 metri. L’estasi toccò poi la sua acme quando il funambolo francese ebbe la sfrontatezza, in una delle sue traversate, di sdraiarsi per

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Scrive il regista tedesco Werner Herzog: «Fu Philippe Petit che unì le Twin Towers, in un atto d’estasi e bellezza. Adesso che un atto di terrore le ha distrutte, questo libro le riunisce le riunisce e le resuscita, disobbedendo alla forza di gravità». Epigrafe nella copertina del libro di Philippe Petit, Toccare le nuvole. Fra le Twin Towers, i miei ricordi di funambolo, Tea, Milano 2003.

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alcuni minuti sul cavo d’acciaio della sua fune. Scrive Philippe Petit ricordando i primi passi dell’impresa che lo rese celebre: Poso il piede sinistro sulla fune d’acciaio. Il peso del mio corpo rimane sulla gamba destra, ancorato al anco dell’edicio. Appartengo ancora al mondo materiale. Se continuo a spostare il peso verso sinistra così lentamente, la gamba destra si alleggerirà e il piede destro sarà libero di raggiungere il lo. Da un lato, la massa di una montagna. Una vita che conosco. Dall’altro, l’universo delle nuvole, così pieno di incognite da parerci vuoto.[…]L’ignota, l’innita, la gioiosa morte allunga le braccia e si nasconde il viso. Le sue braccia minacciose: migliaia, decine di migliaia di tonnellate di calcestruzzo, vetro e acciaio. Una bocca profonda 110 piani e alta più di 400 metri. Un urlo interiore mi assale, il desiderio irrefrenabile di scappare. Ma è troppo tardi. Il lo è pronto. […]Determinazione! Tenacia! Ora è il momento. Il momento è dato alle tue mani: tieniti stretto al bilanciere. Gli dei nel bilanciere. Continuate a sofare la vita in quelle braccia articiali. Portatele voi, dategli vita. Rimanete pesanti, solidi. Rimanete orizzontali. Non siete un meccanismo, uno strumento. Siete un’estensione delle mie braccia, di me. Continuate a respirare. Continuate a oscillare. Siete la vita, la mia vita. Io dico: Portatela! Trasportate la mia vita dall’altra parte.2

C’è sempre qualcosa d’emozionante nei primi passi che conducono le nostre vite verso l’ignoto, in direzione di quella parte che ancora non si conosce e che, in chiave metaforica, ripete quell’ancestrale esperienza della nostra prima camminata. È per questo che le parole di Petit, probabilmente, sarebbero adatte a dare forma a quel groviglio d’emozioni che assale il bambino nell’affrontare i suoi primi passi. Anche lui, in fondo, è un piccolo funambolo che allargando le braccia come dei bilancieri posa i suoi piedi oscillando, tra paura e ducia, su di una fune a noi invisibile, trasportando la sua vita dall’altra parte di quel mondo, precedentemente conosciuto gattonando, verso quell’universo delle nuvole talmente pieno di incognite da sembrargli vuoto. Eppure il bambino, a sua volta, non fa che rivivere con i suoi primi passi l’infanzia dell’uomo3. Nelle pianure africane di qualche milione d’anni 2 3

Ivi, pp. 186-190. Scrive il biologo Adolf Portmann: «Parliamo di ‘portamento’ eretto, adoperiamo quindi, per questo tratto essenziale dell’umano, un termine il cui signicato si estende anche al nostro comportamento in seno al gruppo, a tutta la nostra condotta di vita. Implicitamente riconosciamo così che il nostro stare dritti testimonia dell’intima essenza del nostro rapporto con il mondo, inconscia azione svolta in questo senso dal nostro organismo, come di una profonda unità della specie umana[…]Di quante sotterranee connessioni testimonia la precoce conquista della

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fa, infatti, fu l’Australopithecus africanus a cominciare a spostare il peso dell’intera umanità verso sinistra in modo da alleggerire il piede destro, trasformandola in una specie di bipede barcollante4. Come indicano gli innovativi studi del paleoantropologo André LeroiGourhan5, l’incipit dell’uomo non fu, come comunemente si pensa, dato dall’aumento della massa celebrale ma dal riposizionarsi della nostra colonna vertebrale verso i 90°. Fu questa enigmatica rivoluzione anatomica che 2-3 milioni d’anni fa, secondo gli ultimi ritrovamenti fossili, permise agli australopitechi di camminare in posizione dando inizio alla nostra storia logenetica. Gli effetti rivoluzionari di questa postura si riverberarono sulla morfologia anatomica di tutto il corpo liberando dalla forza di gravità del suolo mani e testa. Diventando bipede, il cranio dell’australopiteco, e progressivamente degli ominidi a lui successivi, cominciò ad oscillare sulla sommità della colonna vertebrale scaricando lungo il suo asse tutto il peso - insieme a quello degli arti superiori, del busto e delle gambe - proprio sui piedi. In virtù di questa metamorfosi della colonna vertebrale la mandibola insieme al viso, sede degli organi di senso e della bocca, iniziò gradatamente ad arretrare rimpicciolendosi mentre, per compensazione, la parte posteriore della testa si spostò in avanti aumentando progressivamente la capienza della scatola cranica. In questo rimpicciolimento della parte anteriore della testa, la laringe cominciò ad abbassarsi permettendo una maggiore articolazione fonetica mentre, con l’aumento della volta cranica, trovò sempre più spazio la capacità di produzione simbolica del linguaggio. Come ha mostrato sempre Leroi-Gourhan, lo sviluppo siologico dell’articolazione fonetica è andato di pari passo con la possibilità intellettuale del linguaggio di memorizzare dei simboli espressivi capaci di essere a loro volta trasformati in suoni e gesti6.

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stazione eretta durante il primo anno di vita, questo grandioso e irripetibile rinnovamento dell’umano in ciascuno di noi!». In Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, Adelphi, Milano 1989, p. 159. Cfr. P.V. Tobias, Il bipede barcollante. Corpo, cervello, evoluzione umana, Einaudi, Torino 1992. Su questo cfr. A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole. Technique et langage (voll. I-II), Albin Michel, Paris 1964. Scrive Leroi-Gourhan: «Tout d’abord il convient de distinguer, dans le problème du langage, la possibilité physique d’organiser des sons ou des gestes expressifs et la possibilité intellectuelle de concevoir des symboles expressifs, transformables en sons ou en geste. Les symboles, à leur tour, peuvent être considérés comme concrètement liés à des opérations qui mobilisent le champ Manuel ou comme abstraits des opérations manuelles». Ivi, pp. 126-127.

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La conquista della posizione eretta portò con sé anche l’altra grande rivoluzione anatomica: la liberazione degli arti superiori. Se negli altri primati le braccia ed in particolare le mani sono prioritariamente asservite alla funzione di locomozione e solo secondariamente alla funzione di prensione, è solo nell’uomo7 che questa funzione secondaria è diventata totalmente dedita alla manipolazione. Attraverso questa libertà degli arti superiori di oscillare nel vuoto, proprio come dei primitivi bilancieri di funambolo, le mani hanno potuto cominciare a dischiudere quel campo operativo addetto alla manipolazione. Fu l’Homo habilis che 2,5 milioni di anni, oltre a portare a termine la rivoluzione della postura eretta iniziata dall’Australopithecus africanus, cominciò a raccogliere in questo campo manipolativo i primi oggetti umani riuscendo così ad ampliare le funzioni e la potenza del suo corpo. L’Homo habilis produsse questi primi artefatti attraverso l’utilizzo differenziato di due pietre. La prima usata a 90° come martello e l’altra, destinataria degli choc, come materia grezza dalla quale produrre l’utensile. Dalle prime pietre scheggiate casualmente cominciarono ad essere man mano selezionate quelle forme stereotipate più adatte ad essere dei prolungamenti del corpo assumendone pian piano le caratteristiche8. D’altronde, cosa sono le punte di freccia in selce costruite dall’uomo del paleolitico se non i prolungamenti delle sue unghie capaci di librarsi in volo come degli artigli d’aquila per colpire la preda? Esse non sono altro dalle unghie della mano, ma il loro prolungamento in quel corpo aggiunto necessario alla sua tattica della vita, come scrive l’architetto e losofo Righetto: Gli oggetti sono parte dell’ambiente che l’ecoide umano aggiunge al suo corpo, producendo sempre piccoli o grandi passi nella scoperta di una nuova identità, un’identità che egli realizza mediante la Natura Aggiunta, ossia parti dell’ambiente che così come stanno non sarebbero adattabili spontaneamente né al Corpo Reale né al Corpo Possibile.9

Se nel paleolitico abbiamo ampie tracce del secondo corpo di pietra - costruito grazie alla liberazione della mano - di quello fonetico, costruito dalla parallela liberazione della testa, ovviamente non ne restano altrettanti reperti10. 7 8 9 10

Anche gli scimpanzè sono dotati di pollice opponibile ma la loro postura mista, di quadrupedi e bipedi, non dà loro la stessa capacità d’azione che è invece già presente nei primi ominidi. Cfr. A. Leroi-Gourhan, Ambiente e tecniche, Jaca Book, Milano 1994. G. Righetto, La scimmia aggiunta. Una specie dotata di oggetti, Paravia Bruno Mondadori Editori, Torino 2000, p. 21. Le prime tracce materiali giunte no a noi di questo secondo corpo simbolico, sotto forma di grafti e pitture rupestri, datano 30-40 mila anni a.C. Per avere i reperti di scrittura vera e propria, bisognerà avvicinarsi lungo il lo del tempo molto

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Sono gli studi di neuro paleoantropologia11 a mostrarci come le aree corticali che maggiormente si attivano durante un’azione o durante l’attività comunicativa siano tra loro in stretta relazione. E questo a testimoniare quell’ancestrale dialogo tra il gesto e la parola avviatosi n dagli australopitechi e poi sviluppato dall’Homo habilis. L’esito logenetico di questa parallela fabbricazione di fonemi e oggetti è ancora inscritta nelle strutture della corteccia del nostro cervello come si evince dalla rappresentazione (g. 1) dell’homunculus motorio elaborata dal neurologo canadese Wilder Peneld.

Figura 1

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più vicino a noi intorno al V° millennio a.C. con la nascita delle prime città della storia in Egitto e Mesopotamia. Eppure, il linguaggio, molto prima di investire il campo tecnico della mano, oggettivandosi nei diversi supporti mediali, trova il suo luogo nell’edicio cranico attraverso l’oralità. Scrive Ornella Castelli: «Grazie all’apporto delle tecniche di neuroimmagine funzionale, che consentono di visualizzare quali aree della corteccia celebrale si attivano durante un’azione, e quindi anche durante attività comunicative, è stato confermato che le aree celebrali legate al linguaggio e quelle relative al corpo, alla sua azione sull’ambiente, sono in stretto rapporto tra loro.[…]Rimanendo nell’ambito dei primi comportamenti umani e analizzando anche gli schemi motori necessari per l’attuazione delle primitive strategie di attacco, difesa, inganno, ci rendiamo presto conto di una evoluzione nel dialogo tra mano e linguaggio». In Schemi motori e linguaggio, Annali dell’Università di Ferrara Museologia Scientica e Naturalistica, volume speciale 2007, p. 128.

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Tale rappresentazione è distorta proprio perché gli 8/10 dell’area celebrale dedita alle funzioni motorie sono, come evidenzia lo schema di Peneld, dedicati al controllo delle mani e dei muscoli dell’espressività facciale poiché esse esprimono movimenti estremamente rafnati. A sua volta poi, quest’area motoria primaria (M1 o area 4 secondo Brodmann) è strettamente in relazione alla contigua area cosiddetta di Broca - che nell’immagine corrisponde al numero 22 - dove risiede la capacità motoria propria della fonazione12. Il destino funambolico dell’umanità, dunque, ha avuto inizio già con la comparsa dell’Australopithecus africanus in quel punto in cui esso, cominciando ad alzarsi in piedi, ha liberato cranio e mani dalla pressione del suolo dando così avvio alla nostra rivoluzionaria storia logenetica. È stato poi l’Homo habilis a completare questa rivoluzione cominciando a produrre quel bilanciere fonetico-oggettuale con il quale ancora oggi l’homo sapiens sapiens vince la vertigine della lotta per la sopravvivenza. Aggrappandoci sempre più saldamente a questi supporti, il barcollare del nostro corpo bipede, non solo ha trovato un riequilibrio, ma anche un secondo corpo tecnicamente costruito attraverso il quale estendere in termini performativi la sua struttura anatomica.

12

Scrive Eric R. Kandel ripercorrendo le teorie neurologiche legate alla funzione linguistica: «Wernicke postulò che l’espressione del linguaggio comporti l’intervento di due distinti programmi, uno sensitivo e uno motorio, sotto il controllo di aree celebrali diverse. Egli emise che l’ipotesi il programma motorio, che coordina i movimenti della bocca necessari per l’emissione corretta delle parole, sia localizzato nell’area di Broca, che è particolarmente ben situata per questa funzione in quanto è posta immediatamente davanti dell’area motoria che controlla la bocca, la lingua il palato e le corde vocali. Il programma sensitivo, che controlla la percezione delle parole, veniva invece localizzata nell’area del lobo temporale da lui scoperta (e che ora è chiamata area di Wernicke).[…]La rappresentazione neuronale comune passa quindi dall’area di Wernicke a quella di Broca dove viene trasformata da rappresentazione sensoriale (acustica o visiva) in rappresentazione motoria che può potenzialmente condurre sia al linguaggio parlato che alla scrittura». In E. R. Kandel/ J. H. Schwartz/ T. M. Jessell, Principi di neuroscienze, Casa Editrice Ambrosiana, Milano 2003, p. 11.

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2. CAMMINARE SUL TEMPO

Rispetto a quanto detto precedentemente resta una questione da affrontare. Anche altre specie, che non hanno sperimentato le funamboliche libertà tecniche ottenute dalla nostra rivoluzionaria camminata, si servono nelle loro tattiche vitali sia di linguaggi che di artefatti. Intorno alla metà del XX sec., Karl von Frisch, osservando il mondo delle api, riuscì a decriptare la stele di rosetta del loro rafnato linguaggio composto non da fonemi ma da coreogrammi espressi dalle loro danze1. Non è pertanto la presenza del linguaggio a segnare la differenza tra l’uomo e le altre specie così come non lo sono, d’altronde, le capacità tecnico-costruttive. Come ci indicano gli studi di etologia di Uexküll2 e di Lorenz3, molte specie - dai mammiferi no agli insetti - esprimono tecniche adattive capaci di modicare il proprio ambiente attraverso ingegnose costruzioni. Non si può dire, ad esempio, che il castoro, conosciuto per essere un abile architetto di dighe, o che la formica, pianicatore di vere e proprie città sotterranee con i suoi formicai, ben prima dell’avvento dell’umanità, non siano altrettante espressioni di elaborate tecniche costruttive.

1

2 3

Con questa scoperta, che gli valse il nobel per l’etologia, Frisch comprese l’esistenza di due tipi di coreogrammi messi in scena dalle api operaie - a seconda dei ‘dialetti’ di ciascuna specie - per indicare la presenza di polline o nettare. Una tipologia circolare, per indicare una distanza dall’alveare tra i 5-80 metri ed una seconda compiuta attraverso una danza ad un otto rovesciato, per indicare una distanza maggiore tra i 40-100 metri. Non solo. Mettendosi in asse con l’azimut solare, la proiezione del sole sull’alveare, il tratto rettilineo della sua danza ad otto oscilla come una bussola indicando la posizione precisa del campo da bottinare. Gli esperimenti di Frisch sono riportati dall’etologo Giorgio Celli nel suo libro La mente dell’ape. Considerazioni tra etologia e losoa, Editrice Compositori, Bologna 2008. Cfr. J. Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, Quodlibet, Macerata 2010. Cfr. K. Lorenz, L’etologia, Bollati Boringhieri, Torino 2010 ed anche dello stesso autore L’altra faccia dello specchio, Adelphi, Milano 1974.

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Se, dunque, il saper parlare e il fare tecnico non sono delle prerogative esclusive del nostro essere diventati bipedi, le domande che ci vengono incontro sono le seguenti: perché le capacità costruttive degli animali non si sono orientate alla costruzione, ad esempio, dei canyon newyorkesi che hanno sospeso Petit tra le nuvole? E perché la loro capacità linguistica non è giunta all’elaborazione della scrittura, con la quale Petit ha tramandato la sua impresa? In sintesi, perché il saper fare degli animali non trasforma gli ambienti con lo stesso grado di creatività con cui gli uomini modicano il loro? Per rispondere dobbiamo andare oltre la rivoluzione anatomica della colonna vertebrale con la quale ci siamo emancipati dal suolo mettendoci a camminare in piedi nello spazio. Questa forma di bipedismo va integrata a quell’altra parallela rivoluzione interna al nostro mondo mentale grazie alla quale abbiamo imparato a camminare sul tempo. Se, infatti, grazie alla rivoluzione della nostra postura sica verso i 90° abbiamo liberato l’edicio cranico e le mani dalla pressione della forza di gravità - creando un vuoto tra noi e lo spazio - è grazie a quest’altra rivoluzione metasica che – creando un vuoto tra noi ed il tempo – abbiamo liberato il nostro pensiero da un’altra pressione: quella del presente. Ovviamente, non abbiamo tracce materiali che possano datare questa rivoluzione compiuta all’interno dei crani dei primi ominidi. Quello che però possiamo fare è dedurla dalla variabilità dei reperti fossili lasciati lungo la nostra storia logenetica, a partire dall’Homo habilis. La variabilità, come avremo modo di specicare, indica la facoltà di aprire la circolarità temporale insita nella dinamica produttiva, permettendogli di innovare man mano gli artefatti. Tale facoltà, infatti, è l’esito di quel funambolismo mentale che no ad oggi non ha smesso di emancipare l’uomo dal presente, consentendogli di progettare un proprio mondo diverso da quello animale. Il progettare, che nella sua etimologia (dal lat. pro-jèctus, da pro jàcere) signica ‘gettare in avanti’, non a caso indica quella analoga condizione di sbilanciamento in avanti che permette al nostro asse corporeo di dare corso alla nostra camminata bipede. Una camminata che Philippe Petit ha portato ai massimi vertici sbilanciando il suo corpo tra le nuvole. Riascoltiamolo: Poso il piede sinistro sulla fune d’acciaio. Il peso del mio corpo rimane sulla gamba destra, ancorato al anco dell’edicio. Appartengo ancora al mondo materiale. Se continuo a spostare il peso verso sinistra così lentamente, la gamba destra si alleggerirà e il piede destro sarà libero di raggiungere il

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lo. Da un lato, la massa di una montagna. Una vita che conosco. Dall’altro, l’universo delle nuvole, così pieno di incognite da parerci vuoto.4

Anche il nostro pensiero riesce a dislocare il suo peso sul piede sinistro del passato per alleggerire il piede destro del futuro, che, così liberato, riesce ad avviare la sua camminata sospendendosi funambolicamente sul presente. È grazie a ciò che l’uomo tocca non l’universo delle nuvole del cielo di New York, ma l’universo delle nuvole del cielo del suo mondo immaginario. Un universo umano pieno d’incognite e sconosciuto alla restante platea zoologica non essendo essi in grado di elevarsi dal suolo del presente. Solo il pensiero dell’uomo, infatti, detiene il segreto di questa arte funambolica con la quale si emancipa dal uire del tempo naturale immaginando un proprio mondo. Parafrasando la celebre espressione di Heidegger in Lettera sull’«umanismo» - «il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste»5- potremmo dire che l’immaginario è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste. È domiciliandosi nell’immaginario che l’umanità, n dai primi ominidi, è riuscita a differenziare la costruzione del suo mondo da quello degli altri animali. Si comprende allora già da qui come il mio modo di intendere l’immaginario si collochi esattamente all’opposto di come lo declina convenzionalmente la nostra tradizione culturale. L’occidente, attraverso il pensiero losoco prima e poi scientico, ha infatti identicato nell’immaginario quel luogo oscuro di non realtà dal quale emanciparsi attraverso la luce della ragione6. Domiciliando il pensiero funambolico dell’uomo nell’immaginario e trovandosi in presenza di questo pre-giudizio formulato dalla nostra tradizione culturale, credo opportuno dare una prima denizione di immaginario, considerando pressoché impossibile o quantomeno riduttivo formularla in termini univoci. È per questo motivo che procederò per straticazioni. In questa parte può essere interessante e coerente con il discorso che si sta facendo porre una prima straticazione di signicato 4 5 6

Petit, op. cit., p. 186. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, p. 61. Tale tradizione di pensiero la si trova sedimentata nell’etimologia stessa della parola immaginario dal latino imaginarius che a sua volta deriva da imago che signica apparenza, apparizione, fantasma o come specica il dizionario della lingua italiana Devoto Oli: privo di fondamento o corrispondenza con la realtà. Quest’ultima dimensione propria della res, del mondo delle cose, sarà quella sola dimensione che - potendosi misurare, pesare, toccare, ecc. - diventerà man mano l’oggetto di conoscenza della scienza sperimentale.

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di immaginario attraverso una piccola digressione sugli studi di Damasio sulla mente7. Per lui, quest’ultima non coincide né con il corpo, pur essendo esso la sua imprescindibile base di ricezione sensoriale, né con il cervello, pur trovando in esso la sua sede organica privilegiata. La mente, per il neurologo portoghese, è quel meta sé neurale - che è più della somma dell’attività percettiva del corpo e delle risposte intelligenti espresse dal cervello - capace di integrare l’uno e l’altro in una dimensione terza grazie alla quale otteniamo la coscienza di agire e pensare. È qui che entra in gioco l’immaginario, poiché questa capacità conformatrice della mente si articola per concatenazioni d’immagini8 associate tra loro. Proviamo a seguire i passaggi di questa concatenazione attraverso lo schema esemplicativo che lui stesso propone. Quando, ad esempio, si percepisce qualcosa, il corpo elabora dei segnali percettivi che tramite terminazioni nervose giungono al midollo spinale per poi attraccare nel porto di speciche aree del cervello (cortecce sensitive di ordine inferiore). È qui che questi segnali d’ingresso fanno da sorgente alle immagini sensoriali e che, pertanto, non sono solo visive ma anche olfattive, gustative, uditive, tattili. A loro volta, queste immagini percettive grazie ad aree intermedie interposte (nuclei subcorticali) vengono associate con una seconda tipologia d’immagini prodotte dalle zone corticali motorie (le aree M1, M2, M3) preposte ad inviare segnali d’uscita all’intero corpo per rispondere al mondo circostante. Il cervello, integrando le immagini sensoriali con quelle motorie, offre così la base neurale all’attività mentale vera e propria che a sua volta le elabora all’interno di immagini disposizionali terze. Scrive Damasio: Io suggerisco che la soggettività emerga nel corso dell’ultimo passo, quando il cervello produce non solo immagini di un oggetto, non solo immagini delle risposte dell’organismo all’oggetto, ma immagini di un terzo tipo, cioè immagini di un organismo nell’atto di percepire un oggetto e di rispondervi.9

7 8

9

Su questo cfr. A. R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1994. Scrive Damasio: «Quindi il punto è che le immagini sono, probabilmente, il contenuto principale dei nostri pensieri, a prescindere dalla modalità sensoriale nella quale esse sono generate e dal fatto che riguardino parole o altri simboli che corrispondono a una cosa o ad un processo». Ivi, p. 164. Ivi, p. 329.

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Ecco, l’immaginario viene generato da queste immagini di terzo tipo prodotte dalla mente10 attraverso le quali ci osserviamo percepire ed agire ottenendo quella coscienza di essere contemporaneamente attori e spettatori nel condurre la nostra esistenza. La mente diventa così la tessitrice di quella fune che ci distanza dall’immediatezza delle immagini percettive e motorie nel quale rimangono invece imbrigliate le altre specie dotate di intelligenza. Noi, a differenza loro, camminando su questo lo non viviamo, ma conduciamo la nostra vita facendo esperienza dell’esperienza grazie al fatto di essere sospesi nel cielo del nostro immaginario in un cronico stato di semiestraneazione, come lo denisce il socio-antropologo Gehlen: Non si può dunque evitare la conclusione che l’immaginazione è autenticamente l’organo sociale elementare. Ma non si pensi al tardo fenomeno delle rappresentazioni dell’immaginazione individuale che si danno come irreali,[…]si pensi invece a un cronico stato di semiestraneazione che viene sedimentandosi dalle trasposizioni globali e dai giochi imitativi della prima infanzia, a quello stato che costituisce lo sfondo inconscio della nostra convivenza con gli altri e del nostro autoavvertimento che vi si coglie.11

Come affermato poco prima, l’immaginario, dunque, non coincide con l’irreale o il fantastico, ma è piuttosto quella conditio sine qua non – o come dice Gehlen l’organo sociale elementare - che ci dà quella giusta distanza mentale dalla contingenza dell’hic et nunc permettendoci di coordinare le libertà di parola e di maneggio ottenute dal nostro bipedismo sico. Grazie allo sviluppo parallelo di questa seconda forma di bipedismo metasico, l’uomo, passo dopo passo, ha cominciato ad essere quell’unico animale che pur essendo nella temporalità non è della temporalità. Egli è come se frapponesse, tra sé ed il tempo, uno iato12 facendolo affacciare innanzitutto nell’aperto13 del suo immaginario e non nel chiuso 10

11 12 13

«A mio giudizio – scrive sempre Damasio - avere una mente signica questo: un organismo forma rappresentazioni neurali che possono divenire immagini, essere manipolate in un processo chiamato pensiero e alla ne inuenzare il comportamento aiutando a prevedere il futuro, a pianicare di conseguenza e a scegliere la prossima azione». Ivi, p. 141. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, p. 383. Che come indica la stessa etimologia latina da hiàtus da hià-re, indica proprio lo ‘stare aperto’. Sulla nozione dell’aperto come differenza tra l’ambiente animale ed il mondo umano cfr. G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Tori-

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di una stabile relazione corpo-ambiente così come accade negli animali. In questa vertiginosa apertura siamo usciti dal tempo per conoscerne il senso in termini di possibilità. Come scrive il giovane Heidegger: L’esserci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo.14

Per lui, l’uomo è il tempo stesso essendo quell’essere che si qualica soltanto in virtù di quella particella ci che lo espone costantemente all’inquietante apertura del tempo in quanto possibilità progettuale. È questa estrema possibilità del suo esser-ci a sradicarlo da quel sicuro domicilio dell’essere nel tempo dell’animale. In questa sua infermità temporale, egli è dunque aprioristicamente escluso dal poter abitare stanzialmente una qualsiasi denizione di tempo, poiché in realtà non fa che immaginarlo, nelle innite possibilità del suo esserci. Parafrasando quanto dice Rilke nelle Elegie Duinesi15, potremmo dire che noi non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche per un istante, il tempo puro dove sbocciano i ori a non nire. L’uomo è, pertanto, quell’unico animale che è escluso dall’essere nel tempo puro dove sbocciano i ori. L’innita possibilità del suo esserci è ciò che lo sospinge nell’apertura vertiginosa del suo immaginario fuori tempo rispetto a quello animale. È proprio grazie a questa fuoriuscita dal tempo animale che riesce a costruire costellazioni di senso per orientarsi in questo suo essere fuori tempo. Ogni cultura umana nasce e si denisce all’interno di una determinata costruzione della temporalità, trasgurando con il suo immaginario quel uire incessante di cambiamenti espressi innanzitutto dai processi naturali: l’alternanza del giorno e della notte, delle stagioni, delle fasi lunari, delle migrazioni degli animali, la nascita e la morte, ecc. Processi che, producendosi in quello spazio puro dove oriscono i ori, rimangono inconoscibili e caotici n tanto che l’uomo non li riconduce entro un recinto di signicato stabile, producendo un certo immaginario di tempo. Il calendario gregoriano, le età astrologiche, la periodizzazione scandita dai giochi olimpici nella Grecia antica, i miti di fondazione delle diverse narrazioni religiose, lo scambio Kula di doni e controdoni che organizzava la vita sociale nelle isole Trobriand, i riti di passaggio che marcavano

14 15

no 2007. M. Heidegger, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1998, p. 40. Scrive nella Ottava Elegia Rainer Maria Rilke: «Noi non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche per un giorno, lo spazio puro dove sbocciano i ori a non nire». In Elegie Duinesi, Einaudi, Torino 1978, p. 49.

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il corpo nelle sue tappe evolutive ecc., sono tutti esempi di conformazioni d’immaginari sociali che danno un senso al divenire, istituendo il tempo. In ciascuna di tali istituzioni immaginarie del tempo si crea quel paradosso antropologico che consiste nel poter cogliere il divenire solo uscendo da esso, attraverso la produzione di spazi di signicato socialmente costruiti. La stessa cosa, d’altronde, accade quando in termini più specici loso, sici, matematici, mistici, astronomi, interrogano il tempo, poiché in realtà essi non fanno che riessivamente e inconsapevolmente rientrare in quello spazio vuoto del proprio immaginario estraendone sue nuove conformazioni. Dunque, pro-gettando contemporaneamente l’asse del corpo sico in avanti nello spazio e l’asse metasico della sua mente in avanti nel tempo, l’uomo ha messo in piedi la sua umanità imparando a camminare funambolicamente sul mondo animale. Questa liberazione dallo spazio-tempo è alla base della posizione eccentrica dell’uomo di cui scrive Plessner: Nella misura in cui l’animale esiste come tale, è assorbito nel qui ed ora. Ciò non gli diviene oggettivo, non si distingue da lui: rimane la condizione, il ciò attraverso cui mediatore della realizzazione della vita. L’animale esiste a partire dal suo centro, vive nel suo centro, ma non vive come centro.[…] Se la vita dell’animale è centrica, la vita dell’uomo, che non può spezzare tale centratura ne è proiettato al di là, è eccentrica. L’eccentricità è la forma, caratteristica per l’uomo, del suo posizionamento frontale rispetto al campo circostante.[…]L’uomo non sta nel qui ed ora, bensì dietro di esso, dietro se stesso, privo di luogo, nel nulla; egli si scioglie nel nulla, in un assenza di luogo e di tempo spazializzante e temporalizzante.16

Ecco allora che, ritornando alla domanda che ponevamo in apertura ‘perché il saper fare degli animali non trasforma gli ambienti con lo stesso grado di creatività con cui gli uomini modicano i loro?’ – potremmo dare una prima risposta dicendo che l’animale, essendo centrato al suolo del qui ed ora del suo ambiente, non ha quello spazio-tempo eccentrico grazie al quale poter ri-creare l’ambiente che lo circonda. Attraverso l’elaborazione graca riportata qui sotto (g. 2), possiamo sintetizzare tutto il nostro discorso.

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E. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 312 e pp. 314-315.

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Figura 2, disegno di Giovanni La Fauci

L’uomo è quell’unico animale in grado di emanciparsi come un funambolo dal suolo del presente nel quale, invece, resta schiacciata la vita della restante platea zoologica. La fune, che permette ai passi del suo pensiero di elevarsi dalla pressione della forza di gravità del presente, è ancorata nel suo mondo mentale tra senso del passato e senso del futuro. Camminando su questa fune mentale, l’uomo accede al cielo del suo mondo immaginario riuscendo così ad incontrare il divenire in termini di possibilità progettuale. Ed è tale possibilità progettuale che gli permette quella sua apertura creativa che è condizione della variabilità del suo mondo linguistico ed oggettuale.

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3. IL RIEQUILIBRIO DELLA SECONDA NATURA

Dal discorso n qui condotto, si comprende come l’uomo – camminando eccentricamente come un funambolo sul qui ed ora – è l’unico animale che ha infranto la circolarità chiusa della reazione stimolo-risposta della vita animale intessendo un dialogo creativo con il mondo. L’esito di questo dialogo creativo è stato quello di aver potuto coltivare attraverso le sue parole e le sue protesi - una vera e propria seconda natura1 sconosciuta alle altre forme organiche che vivono reagendo al mondo. L’uomo invece di re-agire è colui che agisce creando quella parte di natura specializzata mancante al suo organismo non specializzato grazie alla quale ha potuto, nel suo cammino logenetico, riequilibrare il suo bipedismo meta-sico. Non detenendo una corazza sensoriale particolarmente possente, geneticamente sguarnito di armi offensive (artigli o denti) e orientandosi goffamente con il suo istinto, il suo corpo lo fa essere quel solo animale non ancora stabilizzato di cui parla Nietzsche2. Animale na1

2

Ho parlato di seconda natura nel mio lavoro Le metamorfosi: natura, articio e tecnica. Dal mutamento sociale alla mutazione socio-biologica, Franco Angeli, Milano 2007. A differenza della convenzionale dicotomia natura/cultura, l’idea di seconda natura a mio giudizio esprime meglio la relazione tra uomo e natura in termini non oppositivi ma analogici. L’uomo costruisce, infatti, la sua seconda natura a partire dalla sua natura organica non specializzata divenendone il suo irrinunciabile supporto vitale. La mia idea di seconda natura è, a sua volta, una categoria elaborata all’interno di quella tradizione di pensiero che trova nell’antropologia losoca tedesca la sua radice. Arnold Gehlen, appartenente a tale tradizione, ad esempio così la denisce: «La cultura è pertanto la “seconda natura”- vale a dire: la natura umana, dall’uomo elaborata autonomamente, entro la quale egli solo può vivere; e la sua cultura “innaturale” è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso “innaturale”[…]Proprio nel luogo in cui l’animale c’è l’“ambiente, sorge quindi, nel caso dell’uomo, il mondo culturale, cioè quella parte della natura da lui dominata e trasformata in un complesso di ausili per la sua vita». In Gehlen, op cit., pp. 73-74. Nietzsche mise a fuoco con queste poche parole la condizione umana allo stato di natura: «l’uomo è l’animale non ancora stabilmente determinato», F. Nietzsche, Al di la del bene e del male, Adelphi, Milano 1997, p. 68.

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turalmente deciente che proprio in virtù di ciò si rende adattabile alle diverse qualità ambientali che fronteggia riuscendo a dare stabilità alla sua animalità naturalmente difettosa costruendone una seconda. L’articio, dunque, lungi dall’essere il mero prodotto di una tecnologia, è innanzitutto quel “pezzo di corpo” che l’uomo, nella sua tattica di vita costruisce, per controbilanciare al suo esterno la natura barcollante del suo bipedismo meta-sico. Scrive a tal proposito Plessner: Come essere eccentrico, non in equilibrio, privo di luogo e di tempo, eternamente posto nel nulla, costitutivamente spaesato, egli deve divenire qualcosa e procurarsi l’equilibrio. Ed egli se lo procura soltanto con l’aiuto delle cose extranaturali, che scaturiscono dal suo creare.3

L’uomo è così quel solo animale anbio che non divide l’esistenza tra due elementi ma tra due nature: quella organicamente mancante del suo corpo bipede e quella da lui stesso ri-creata che lo ha riequilibrato specializzandolo di volta in volta. La seconda natura, per questo, non è nulla di articiale ma l’insieme del suo mondo tecnicamente ri-creato che supporta le mancanze della nostra prima. È per questo che Petit si è potuto rivolgere alle aste del suo bilanciere dicendo: «non siete un meccanismo, uno strumento. Siete un’estensione delle mie braccia, di me». In equilibrio tra la morte e la vita, in una sorta di sincronicità con i nostri antenati, anche il nostro funambolo francese non considera il bilanciere come qualcosa d’articiale o d’estraneo al suo corpo ma un suo naturale prolungamento. La classica dicotomia natura/articio è qui che mostra tutti suoi limiti. Essa, infatti, non permette di considerare le aste di Petit - ed in generale le diverse protesi materiali ed immateriali prodotte dall’uomo - come quella parte di corpo tecnicamente costruito che integra le funzioni di quello organico potenziandolo. In analogia con il mondo organico, che ha aperto il ventaglio della diversicazione della vita partendo da esseri unicellulari semplici, così l’uomo ha aperto il ventaglio della natura socialmente coltivata a partire dalle prime pietre scheggiate dalla mano e dai primi suoni scheggiati dalla sua lingua. L’uomo, proprio per questo, è stato coltivatore molto tempo prima di aprire la terra con l’aratro, poiché egli ha già da sempre coltivato il campo ultraterreno del suo immaginario dischiuso dal suo bipedismo metasico coordinando, nel suo fuori tempo, le libertà spaziali della parola e della mano ottenute dal bipedismo sico.

3

Plessner, op. cit., p. 334.

Il riequilibrio della seconda natura

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La stessa fase agricola, d’altronde, non è stata che uno degli esiti di questa contemporanea coltivazione del suolo e del tempo. Non è solo l’aratro costruito dalla mano ad aver iniziato la fase agricola, ma anche l’aver potuto immaginare e quindi com-prendere le concatenazioni temporali espresse dai cicli naturali. Cogliere in termini d’insieme le relazioni tra le diverse fasi che vanno dalla semina alla raccolta implica infatti una capacità d’osservazione dei mutamenti desituata dal presente, nel quale si può cogliere di volta in volta solo una delle fasi. Estraendo dal nostro vuoto spazio-temporale il pieno della seconda natura, la stessa struttura anatomica del nostro corpo, in un processo di feedback, ha cominciato logeneticamente a ri-adattarsi. Nell’alternanza dei diversi ceppi d’ominidi la nostra natura organica, attraversata anch’essa dalle leggi di variazione delle specie studiate da Darwin, è regredita allo stato fetale proporzionalmente alla maturazione della nostra seconda natura nella quale ci siamo ri-adattati. Riprendendo alcuni studi critici dell’evoluzionismo, è Bolk a cominciare a parlare del fenomeno dell’ominizzazione in termini di un processo neotenico4 di ritardamento. Partendo da studi di embriologia e anatomia comparata tra uomini e gli altri primati, la sua legge del ritardamento mostra come l’uomo sia un essere che nasce allo stato fetale: Ciò che nel processo evolutivo delle scimmie era un uno stadio di passaggio, nell’uomo è diventato lo stadio nale della forma.[…]gli altri primati si lasciano alle spalle un ulteriore tratto nale che l’uomo invece non attraverserà mai.[…]Se volessi esprimere il principio della mia teoria con una formulazione abbastanza forte, allora denirei l’uomo sotto l’aspetto corporeo come il primate giunto alla maturazione sessuale.5

Se, quindi, nello sviluppo embrionale delle scimmie e degli altri mammiferi, lo sviluppo corporeo nelle ultime fasi della gestazione si evolve specializzandosi nello specico della propria specie, nell’uomo tale stadio è come se si fermasse. L’uomo, in sostanza, congelando nel suo sviluppo prenatale tale stadio, come in un fermo immagine, nascerebbe con una struttura anatomica che negli altri mammiferi comprese le specie dei primati corrisponderebbe a quello fetale. Per Bolk la causa di questo blocco dello sviluppo anatomico umano è determinato dall’azione inibitoria del si4 5

La neutenia è quel fenomeno per il quale, in certe specie animali, alcuni o tutti gli individui permangono alla stato larvale, pur raggiungendo la maturità sessuale. È Bolk ad estendere questo fenomeno all’uomo. L. Bolk, Il problema dell’ominazione, Derive Approdi, Roma 2006, pp. 52-53.

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stema endocrino: sono infatti gli ormoni per lui gli autori del rallentamento dello sviluppo della nostra forma organica. È da qui che prende il nome di legge di ritardamento. Per l’anatomista olandese questo processo conservativo si è gradatamente potenziato dall’australopiteco all’homo sapiens6, atrozzando logeneticamente tutte quelle parti anatomiche più specializzate, rendendoci così le forme neonate dei nostri progenitori. Il limite dell’affascinante teoria di Bolk è che essa non integra questo nostro ritardo biologico con lo sviluppo della seconda natura socialmente costruita. Se la prima natura organica ha imboccato la strada conservativa nel processo di fetalizzazione diversamente la seconda natura, in un rapporto inversamente proporzionale, ha imboccato la strada propulsiva sospingendo la nostra specie in avanti. La mitologia greca, narrando le vicende di Prometeo – colui che riette in anticipo – ed Epimeteo – colui che riette dopo -, coglie appieno questa paradossale posizione del nostro percorso logenetico. Nel racconto i due fratelli titani furono incaricati dagli dei di dare a ciascuna specie animale una qualità particolare, ma il maldestro Epimeteo, nella sua distribuzione, si dimenticò proprio dell’uomo senza avere più niente da dargli in dote. Prometeo, per riparare al fatto, rubò dalla fucina di Efesto – il dio della tecnica – delle faville del suo fuoco per darle in dono agli uomini, dei quali divenne così amico, segnando con ciò la sua stessa condanna. Il furto del fuoco, infatti, scatenò le ire degli dei al punto che Zeus comandò proprio ad Efesto di costruire delle catene per imprigionare Prometeo sulle cime del Caucaso, invitando un’aquila a squarciargli il petto. Epimeteo e Prometeo sono presenti entrambi nel destino della specie umana. Interpretando alla luce del nostro discorso il mito greco, potremmo dire che il maldestro Epimeteo corrisponde alla natura ritardata del nostro corpo rispetto agli altri animali, mentre Prometeo corrisponde alla nostra seconda natura tecnica proiettata in avanti, alla quale siamo incatenati per poter vivere. Nel racconto mitologico solitamente si nomina solo il dono del fuoco fatto da Prometeo all’uomo, ma non si è altrettanto equi nell’individuare in Epimeteo l’involontaria causa prima di questo dono. È stato proprio l’aumento di questo ritardo organico epimeteico, infatti, ad averci fatto uscire dal mondo animale ri-aprendoci alla nostra relazione tecnica con il mondo, dalla quale abbiamo forgiato prometeicamente la nostra seconda natura. 6

Scrive Bolk: «Tuttavia possediamo una prova certa del fatto che l’uomo del paleolitico si è sviluppato più velocemente, cioè era adulto prima dell’uomo odierno. Questa prova[…] consiste nel fatto che l’uomo di Neanderthal aveva ancora un tipo di dentatura permanente come quello degli antropomor; un tipo che indica il veloce decorso di questo processo». Ivi, p. 66.

Il riequilibrio della seconda natura

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Gli animali, infatti, nascendo con corpi già maturi anatomicamente, non hanno bisogno del fuoco di Prometeo per sopravvivere. Il castoro, per riprendere l’esempio precedente, avendo una forma organica già tecnicamente specializzata, a partire dalle sue unghie aflate e dal suo corpo snello, è già adatto alla costruzione di dighe; lo stesso vale per il corpo delle formiche che, proprio in virtù della specializzazione delle loro possenti mascelle, sono in condizione di aprire la terra per scavarvi le piante urbane dei loro formicai, ma non di costruire dighe. Ciascuna delle due specie incorpora, nella particolare morfologia anatomica, una tecnica che dona loro un mondo percettivo e un mondo operativo tali da formare una totalità spazio-temporale chiusa come una bolla7, come la denisce Uexküll. Le forme anatomicamente perfette del castoro e della formica sono ciò che, allo stesso tempo, li vincola ad una determinata catena operazionale mettendoli in grado di costruire, con piccole variazioni, sempre e solo dighe e formicai. Le capacità tecniche del castoro e della formica, espressione dei loro corpi non ritardati, sono infatti poco aperte alla variazione se non in tempi adattivi estremamente lunghi legati al mutamento ambientale. E lo stesso vale per il linguaggio delle api. I loro strumenti del comunicare sono, infatti, integrati nelle loro forme corporee già mature per orientarsi verso la costruzione e all’organizzazione sociale delle loro città di cera, così come al poter volare per riempire il vuoto dei ori da bottinare. La complessità del loro linguaggio trova nella via del miele, tra ori ed alveare, quel rigido perimetro di signicazione funzionale8 che impedisce loro di andare al di là delle loro parole danzate. Nell’uomo, come sa bene la linguistica, il linguaggio funzionalizzato alla mera aderenza della parola con la cosa occupa solo una piccola parte di quel nostro saper sospendere la parola dal referente. E questo è stato reso possibile dal fatto che l’uomo vola senza ali più in alto delle api fuori dal tempo nel cielo del suo mondo immaginario essendo esso il suo vero e solo habitat n dai suoi primi passi. 7

8

Scrive Uexküll: «Per questo motivo, possiamo rappresentarci tutti gli animali che vivono intorno a noi come chiusi in una bolla di sapone che circoscrive il loro spazio visivo e che contiene tutto quello che per loro è visibile. Ogni bolla ospita gli assi dimensionali dello spazio operativo e quelli che abbiamo chiamato luoghi, grazie ai quali lo spazio di ciascun animale mantiene la solidità della sua struttura», op. cit., p. 74. A tal proposito è interessante l’esperimento che riporta Uexküll quando spostando semplicemente di due metri il loro alveare le api operaie di ritorno dai campi bottinati impiegavano dei minuti prima di potersi orientare comunicandosi la nuova posizione della porta della loro città. Il mondo operazionale delle api, perfetto ma rigido, è ciò che impedisce loro di dare immediatamente un’azione comunicativa plastica per integrare la nuova posizione. Cfr. ivi, p. 61.

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La natura tecnica del tempo

L’animale, incapsulato con la sua maturità anatomica nel suo ambiente, pertanto, non è come l’uomo una specie di ritardato che vive da estraniato nell’altrove del proprio immaginario e che, proprio per questo, può essere considerato il suo vero e proprio habitat. Ed è proprio per questo che non si può parlare, negli esempi considerati, di una seconda natura poiché la produzione di artefatti e di linguaggi animali è strettamente connessa alla prima natura dei loro corpi, che li rende inadatti a variazioni creative della loro tecnica, tali da far costruire canyon di vetro e acciaio e di stampare le loro emozioni. La loro maturità corporea diventa proprio quel limite anatomico invalicabile che non li predispone all’incontro con la vertigine del tempo. È a questo punto che possiamo dire che in fondo, anche se non abbiamo sdato una vertigine di 400 metri, tutti noi siamo una specie di Philippe Petit. La nostra impresa ha sdato una vertigine d’ordine zoologico che ha logeneticamente elevato il corpo dall’insostenibile pesantezza della forza di gravità della terra e, contemporaneamente, la mente dall’insostenibile leggerezza della forza di gravità del presente. La chiave di volta del nostro successo è stata l’aver saputo riequilibrare questo nostro barcollare metasico creando una tecnica funambolica sempre più sosticata che ci ha portati dall’altra parte di quel mondo conosciuto precedentemente quando aderivamo come le altre specie pienamente al suolo e al presente. Sempre più liberi dai vincoli della prima natura e sempre più vincolati a quelli della seconda come siamo, ci sembra che l’urlo interiore di Philippe Petit torni a riecheggiare in questa messa in tensione del destino umano, parlandoci di tutta l’umanità: Un urlo interiore mi assale, il desiderio irrefrenabile di scappare. Ma è troppo tardi. Il lo è pronto.[…]Determinazione! Tenacia! Ora è il momento. Il momento è dato alle tue mani: tieniti stretto al bilanciere. Gli dei nel bilanciere. Continuate a sofare la vita in quelle braccia articiali. Portatele voi, dategli vita. Rimanete pesanti, solidi. Rimanete orizzontali. Non siete un meccanismo, uno strumento. Siete un’estensione delle mie braccia, di me. Continuate a respirare. Continuate a oscillare. Siete la vita, la mia vita. Io dico: Portatela! Trasportate la mia vita dall’altra parte.9

Passo dopo passo è così che il nostro organismo è andato indietro rispetto al tempo animale, lasciando sempre più spazio alle possibilità immaginarie del tempo che hanno coltivato la nostra seconda natura, con la quale andiamo in avanti incontro all’universo delle nuvole.

9

Petit, op. cit., pp. 186-190.

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4. AGIRE FUORI DAL PRESENTE

Il mio aver perso tempo nel mettere nella giusta tensione la fune del discorso - proprio come fanno i funamboli prima di iniziare il loro pericoloso percorso – da qui in poi comincerà a metterci in cammino verso quel che più ci interessa: la relazione immaginaria dell’uomo con la temporalità. Nella parte che segue ed in quella successiva, cercherò di mostrare infatti come tale relazione metta radici nell’inseparabile legame tra corpo e mente, tra l’agire ed il pensare. Le immagini che costruiamo all’interno della nostra mente nascono solo grazie all’incontro del corpo con il mondo così come, a sua volta, il corpo agisce all’esterno del mondo con risposte creative grazie al formarsi nelle reti neurali di queste immagini mentali. L’immaginario, dunque, non trova la sua ragion d’essere fuori dal corpo, così come lo sviluppo di quest’ultimo non trova la sua ragion pratica fuori dalla nostra possibilità di uscire dallo svuotamento del presente del nostro immaginario poiché la mente è nel corpo così come il corpo è nella mente. Questa circolarità tra interno ed esterno, mente e corpo, con la quale incontriamo la temporalità in termini di possibilità immaginaria, inizia già nelle prime tappe dell’età evolutiva del neonato. Il suo nascere prematuramente come feto dal punto di vista anatomico lo espone subito al dovere, per via extrauterina, abitare la condizione plastica del suo corpo sviluppando quegli schemi cognitivi e motori naturalmente mancanti. L’età evolutiva in fondo non fa che ripercorrere ontogeneticamente lo sviluppo dell’immaginario motorio e linguistico, esplorato dall’umanità dall’alba della sua storia logenetica. Pur essendo il gesto e la parola profondamente intrecciati, per ragioni di comodità espositiva, li tratteremo distintamente, per poi coglierne le reciproche inuenze. Cerchiamo allora di capire come nasce il bipedismo meta-sico con il quale ci eleviamo tra le nuvole del tempo partendo dall’immaginario senso-motorio, per spostarci, nella parte seguente, verso l’immaginario linguistico.

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Essendo il gioco quella pratica esplorativa legata all’acquisizione del movimento, come mostrano gli studi di Lorenz1, mi sembra un ottimo campo d’osservazione per lo sviluppo dell’immaginario senso-motorio. Fin dalla prima infanzia, infatti, è attraverso di esso che diamo inizio alla comprensione che, come indica la stessa etimologia latina (cum-prehèndere), implica quel saper ‘prendere’ (prehèndere) il mondo ‘assieme’ (cum) al sé attraverso il fare. A partire dalla prima infanzia, in questo ludico comprendere, l’uomo intraprende un vero e proprio addestramento che crea le premesse allo sviluppo dell’immaginazione senso-motoria. Anche nei cuccioli d’animale il gioco è presente, ma come addestramento nalizzato a quelle peculiarità inscritte nella loro struttura anatomicamente completa. Nei gattini, ad esempio, l’acchiappare, lo scattare, l’appostarsi sono tutte quelle tecniche corporee che si affacciano nel gioco come preludio ludico alla specializzazione tecnica data dal loro corpo di predatore nato già maturo. Nell’uomo accade qualcosa di diverso. Già nei primissimi mesi di vita, nel gioco egli comincia ad incontrare la sua paradossale posizione rispetto alla temporalità. Il suo corpo, organicamente ritardato, lo esclude infatti dal poter beneciare di schemi pre-ordinati dall’istantaneità stimolo-risposta propri del tempo animale. Il neonato si trova a dover far fronte con il suo corpo ad una tempesta di stimolazioni esterne, privo di una struttura pulsionale capace di canalizzarle in termini immediati. È questa innata decienza, data dalla struttura anatomica del suo corpo fetale, che rende incomparabilmente più lunga l’infanzia dell’uomo rispetto alle altre specie. Le sue tecniche corporee necessitano infatti di una lunga maturazione extrauterina all’interno di quel recinto affettivo della socializzazione primaria che ha inizio dal rapporto simbiotico madre-bambino. In questo recinto affettivo, una delle principali funzioni del gioco è proprio quella di riuscire pian piano a ricostruire quegli schemi senso-motori mancanti capaci di canalizzare la caoticità del mondo. Una volta che nella sua ludica esplorazione corporea sperimenta un comportamento vincente, il bambino continuerà a ripeterlo abitualmente conquistando con ciò un passo verso la sua indipendenza. Questo processo di abitualizzazione comincerà ad esonerarlo dal dover ricominciare nuovamente a ripetere tutta la fatica della sua giocosa ricerca, permettendogli di veicolare la sua energia verso prestazioni sempre più complesse, come scrive Gehlen:

1

Scrive Lorenz: «Una chiara differenza tra gioco e comportamento esplorativo esiste di certo solo nella teleonomia. La funzione della curiosità è quella di conoscere oggetti e situazioni ambientali, quella del gioco è nello stesso legame che esso ha con l’acquisizione di movimenti appresi», Lorenz, L’etologia, op. cit., p. 338.

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In questo senso, esonero signica che la costituzione di un centro di gravità nel comportamento umano compete sempre più alle funzioni “superiori”, a quelle cioè che meno richiedono fatica e che soltanto alludono; dunque alle funzioni coscienti e spirituali.[…]Da questo punto di vista v’è motivo di apprezzare anche il ruolo dell’abitudine. Questa ha funzione esonerante, in primo luogo nel senso che in un comportamento abituale vengono a cadere l’impegno delle motivazioni e del controllo, lo sforzo delle correzioni e l’investimento affettivo[…]diventando così la base di un comportamento di grado superiore.2

Durante l’età evolutiva, è per questa via esonerante che man mano apprendiamo l’arte della fuga dalla gabbia istintuale nella quale rimane intrappolato il gattino. Gli schemi motori ri-creati nel gioco non ci richiudono, a loro volta, in una rigidità da noi stessi determinata poiché, come ci dice Gehlen, diventano la base abitudinaria grazie alla quale il nostro comportamento sale i gradini della complessità. Nel ludico dondolio tra plasticità e rigidità, prende infatti avvio quel processo di maturazione del nostro immaginario con il quale ci esoneriamo dalla unidirezionalità propria dello stimolo-risposta. Giocando, il bambino non fa che uscire dal tempo animale cominciando, proprio come i primi ominidi, a neutralizzare l’universalità del mondo circostante, scoprendo quel potenziale pluriversale di disponibilità delle cose alle sue pratiche creative. Come ci dicono gli studi di Winnicott, nel gioco il bambino non maneggia semplicemente dei giocattoli con una nalità volta ad uno scopo, come fa il gattino con il topo semistordito che le porta la madre per insegnargli l’arte della caccia. Nell’uomo, il gioco ed il giocattolo sono rispettivamente fenomeno ed oggetto transazionali che non trovano in sé il loro ne, ma solo quei mezzi necessari allo sviluppo di quello che lo psicoanalista britannico chiama la terza area, la creatività3. È in questa terza area sospesa tra sé e mondo che cominciamo ad ancorare la fune del nostro immaginario, mettendoci a camminare in equilibrio come funamboli sospesi sul tempo animale. In questa ludica attività 2 3

Gehlen, op. cit., p. 104. Scrive a tal proposito D. W. Winnicott «Gli oggetti transazionali e i fenomeni transazionali appartengono al regno dell’illusione che è alla base dell’inizio dell’esperienza. Questo primo stadio dello sviluppo è reso possibile dalla speciale capacità della madre di adattarsi ai bisogni del suo bambino, concedendogli così l’illusione che ciò che egli crea esista realmente. Quest’area intermedia di esperienza, di cui non ci si deve chiedere se appartenga alla realtà interna o esterna (condivisa), costituisce la maggior parte dell’esperienza del bambino, e per tutta la vita viene mantenuta nella intensa esperienza che appartiene alle arti, alla religione, al vivere immaginativo ed al lavoro creativo scientico», in Gioco e realtà, Armando Editore, Roma 2002, p. 43.

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di funambolo, il bambino comincia a sperimentare i vantaggi dell’apertura della sua struttura pulsionale non specializzata sviluppando, pian piano, quell’auto-avvertimento del sé che lo comincia ad orientare ad essere un centro progettuale creativamente autonomo. È in questa autarchia che la nostra coscienza comincia a camminare, sospendendosi sul presente e riuscendo così a dare risposte creative al mondo circostante proporzionalmente al grado di domesticazione del nostro corpo. Se si ha la fortuna di poter seguire la metamorfosi del neonato in bambino, come è capitato nella mia recente esperienza di padre, si può notare come tutto questo discorso si palesi giorno dopo giorno. Il disordine della motricità corporea di mio glio, propria dei primi giorni di vita, mese dopo mese ha cominciato a canalizzarsi verso l’ordine. In questo passaggio dal caos pulsionale all’ordine, ho potuto notare come nel gioco le mani e la testa abbiano fatto da traino verso risposte corporee sempre più rafnate ed efcaci alla relazione con il mondo circostante. Conquistata dopo pochi mesi di questo percorso la seduta eretta, ho costatato come sia riuscito a cambiare giochi passando dal semplice maneggio di oggetti al loro rudimentale assemblaggio. In termini ontogenetici sembrava di vedere confermate le teorie paleoantropologiche di Tobias sulla conquista della seduta eretta come preludio logenetico al nostro bipedismo: con essa abbiamo cominciato a liberare le mani cominciando a costruire oggetti4. Il gioco delle costruzioni, proprio per il fatto d’essere composto da pezzi, è stato un ottimo campo di osservazione di quanto si sta dicendo. Riuscendo a stare seduto, mio glio ha cominciato ad unire le parti scomposte dando forma alla sagoma di una nave. In un primo tempo, con piccole variazioni, tendeva alla riproduzione dello schema motorio vincente acquisito dal suo immaginario. In un secondo tempo, invece, partendo dalla memorizzazione dello schema-nave, ha cominciato a sperimentare variazioni sul tema, costruendo l’abbozzo di una macchina o di una casa. È qui che si coglie quella legge di esonero formulata da Gehlen secondo la quale l’acquisizione di una pratica, economizzando nella sua ripetizione abitudinaria il nostro dispendio energetico, ci spinge verso pratiche sempre più complesse. Il suo gioco – e quello di tutti i bambini no all’età adulta - non ha una nalità volta verso qualcosa (come l’acchiappare o il costruire una nave) ma verso il continuo fare e disfare del mondo che lo circonda. È così che già dall’infanzia impariamo a rompere le catene operazionali uscendo dalla gabbia dell’istante per cominciare ad andare incontro alle variazioni della nostra seconda natura. 4

Cfr. Tobias, op. cit., in part. il paragrafo Postura e locomozione nei primati superiori attuali.

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L’esistenza, dunque, di un oggetto è da cogliere sempre in relazione a questa apertura della catena operazionale umana, caratterizzata, inoltre, anche dalla sua capacità di variare da individuo a individuo, come ci dice Leroi-Gourhan: Les manifestations opératoires de l’homme se situent par conséquent sur un fonds instinctif très important, fait à la fois de dispositifs instinctifs de régulation des pulsions organique profondes, communes à tout les individus, et de dispositifs propres à l’inscription de programmes opératoires dont le détail peut varier sensiblement d’un individu à l’autre. Cette marge de variation individuelle, considérablement plus grande que chez les mammifères, mêmes les plus évolués, est un trait essentiel de la société humaine, le penseur, l’inventeur, le virtuose intervenant de manière décisive dans le dialogue entre l’homme physique et l’organisme collectif que constitue la société.5

Questa capacità operativa variabile dell’uomo, che, come scrive LeroiGourhan, non ha eguali nel restante mondo animale, è stata la leva che ha di volta in volta trasformato le tecnologie di ogni comunità umana. Essa non è che l’esito del perdurare di quell’abilità infantile con la quale l’uomo, memorizzando uno schema motorio per la costruzione, ad esempio, di un arco, riesce, nel doverlo ri-azionare, a cambiarne le fasi produttive ottenendo qualche altra cosa imprevista come una balestra. Non solo, ma a sua volta, se questa creativa variazione posta in essere da un determinato individuo viene ritenuta utile dal gruppo nel quale è collocato, la balestra diventa patrimonio della collettività. È stata questa la chiave che dall’osso d’antilope, usato all’alba dell’umanità come primo prolungamento delle braccia, ci ha fatto uscire aggrappati al bilanciere delle nostre astronavi oltre quell’universo delle nuvole, di cui ci parla Petit, facendoci vertiginosamente osservare il mondo dalla luna. Al di là di una dimensione diacronica, l’osso e l’astronave sono punti di una stessa circonferenza al cui centro sta quel fuori tempo del nostro fare immaginativo.

5

«Le manifestazioni operative dell’uomo si collocano dunque su una base istintiva molto rilevante, fatta rispettivamente di dispositivi intintivi di regolazione delle pulsioni organiche profonde, comune a tutti gli individui, ed di dispositivi propri all’iscrizione dei programmi operativi di cui il dettaglio può variare sensibilmente da un individuo all’altro. Questo margine di variazione individuale, considerevolmente più grande rispetto agli altri mammiferi, anche quelli più evoluti, è un tratto essenziale della società umana, il pensatore, l’inventore, il virtuoso intervenendo in modo decisivo nel dialogo tra l’uomo sico e l’organismo collettivo che costituisce la società»[T.d.A.]. In Leroi-Gourhan, Le geste et la parole, op. cit., pp. 18-19.

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5. PENSARE FUORI DAL PRESENTE

Quanto detto a proposito del pilastro senso-motorio dell’immaginario può essere esteso anche a quel suo secondo pilastro che trova nel terreno linguistico le sue fondamenta. Anche qui, quell’habitat immaginario di semiestraneazione dal presente è ciò che permette di aprire la concatenazione delle parole, permettendoci creativamente di generare un nuovo ordine del discorso a partire da uno qualsiasi dei suoi incastri. La differenza tra immaginario della mano e della bocca abita in quella sottile linea di conne tra potere e potenza. Se con l’immaginario della mano l’uomo esprime concretamente il potere creativo orientando l’agire verso la manipolazione del mondo oggettuale, in quello linguistico esprime il suo potenziale poiché, in esso, l’agire si compie in termini speculativi, senza la necessità della presenza stessa degli oggetti da manipolare. La complementarietà, tra il potere del fare e la potenza del saper parlare, è ciò che trova il suo luogo comune nelle strutture profonde della nostra mente. Questa continuità si palesa in modo più o meno sfumato in chi, parlando, accompagna il discorso gesticolando o come, in modo più palese, accade nel linguaggio dei sordomuti capaci di comunicazione grazie proprio all’articolazione delle loro mani. D’altronde, l’immaginario linguistico trova nella primissima infanzia il suo incipit nello sviluppo senso-motorio, e più precisamente nell’azione di fonazione. Dal Big Bang delle grida emesse pochi secondi dopo la nascita, il bambino, pian piano, inizia a mettersi in cammino verso il linguaggio dilatando come prima cosa l’universo sonoro, dove prenderà corpo man mano l’immaginario linguistico con le sue galassie semantiche. Con la lallazione, presente già verso i 5-6 mesi di vita, egli non fa che articolare innanzitutto quelle aree celebrali motorie della fonazione sganciate ancora da ogni intenzionalità concettuale. In questa fase aurorale, è come se si esercitasse con i suoi vocalizzi semplicemente, si fa per dire, all’accordatura delle corde vocali attraverso la sperimentazione di variazioni ritmiche a partire dall’emissione, dall’ascolto e dalla re-emissione di alcuni fonemi basici. Attraverso questa circolarità musicale il

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bambino comincia a trovare le parole ssando quei morfemi che meglio di altri richiamano innanzitutto l’attenzione di chi lo attornia1. Le prime parole a germogliare dalla vita del suono sono, non a caso, quelle legate al richiamo come ‘mamma’ e ‘papà’. Il bambino, con loro, comincia a sperimentare l’ottenimento di un determinato volere - come ad esempio il voler mangiare o l’essere rassicurato – che sfugge alla prossimità d’azione del suo sé corporeo. Da questo punto in poi, infatti, l’attività fonatoria diventa schema motorio signicante capace di veicolare signicato e che - inducendo azioni di accudimento da parte dei genitori - possiamo considerare come uno schema motorio sublimato. È con queste prime parole di richiamo che il bambino comincia a fuoriuscire dalla gabbia del presente, dato che, ad esempio, l’istinto della fame inizia ad essere canalizzato in termini rappresentativi esonerandosi pian piano dall’attivazione del pianto, ancora tutta interna allo schema stimolorisposta. Risultando vincenti per il bambino, questi primi morfemi cominciano ad essere primordiali punti di ancoraggio nello spazio sonoro ai quali cominciare ad agganciare la fune dell’immaginario linguistico. L’apprendimento di sempre nuove parole e la capacità di concatenarle plasticamente tra loro per aggregati semplici - come ad esempio l’accoppiata «mamma biberon» - sarà ciò che aumenterà esponenzialmente la capacità di tradurre in discorso il suo legame desituato con la temporalità. Da un certo punto di vista le tappe dell’età evolutiva del linguaggio possono essere viste come quell’innalzamento della fune che il bambino frappone tra sé e la situazione presenticata dal bisogno. In questo accrescimento vertiginoso dell’immaginario linguistico, dall’hic et nunc comincia anche ad aprirsi quel senso di separazione del sé dal mondo nel quale la coscienza funambolica avanza passo dopo passo, parola dopo parola, lasciando dietro di sé l’unità con il tutto. La sensibilità psicologica di Simmel coglie appieno questo fenomeno nel processo di differenziazione: La vita interiore incomincia piuttosto con uno stato di indifferenza, in cui l’io e i suoi oggetti giacciono ancora indivisi, in cui impressioni e rappresentazioni riempiono a coscienza, senza che il portatore di questi contenuti si sia già staccato da essi. È una consapevolezza secondaria, un frazionamento posteriore quello per cui un soggetto si distingue nello stato reale e nel momento determinato dal contenuto che è in lui.2

1 2

Cfr. Gelhen, op. cit., in part. cap. 24 I gesti sonori. G. Simmel, La losoa del denaro, Utet, Torino 1984, p. 99.

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Per lui, dunque, è con l’avvio di tale processo che usciamo da quella prima fase dell’esistenza nella quale coincidiamo con il mondo ma senza avere conosciuto ancora noi stessi. È solo oggettivandoci come esseri separati che, per il sociologo tedesco, nasce per differenza l’individualità con la quale diamo vita al nostro mondo interiore. Il prezzo da pagare per questa conquista del sé è quel senso di distanza incolmabile dall’unità perduta che, per Simmel, diventa generativo del nostro incolmabile desiderare. L’origine umana del desiderio è, infatti, sostanzialmente la proiezione fantasmatica, nella cosa voluta, di questa ancestrale distanza3 dal mondo e destinata, per questo, ad essere eternamente sfuggita ad ogni suo possesso. Distanza, desiderio e volere, sono dunque per Simmel quei tre sentimenti umani generati dal processo di differenziazione con il quale l’individuo conquista il proprio sé. Proviamo ad entrare in questa tripartizione simmeliana riconducendola nello specico del discorso sull’immaginario linguistico. Distanza, desiderio e volere, cosa sono in fondo, se non quelle regioni archetipiche che fanno da matrice al senso rispettivamente del passato, del presente e del futuro con le quali diamo luogo alla nostra relazione immaginaria con il tempo? Il senso del passato è ciò che il bambino scopre nella lallazione differenziandosi come altro dal materno. Con questo processo di individuazione nasce quella distanza dal ‘non più’, da quella età dell’oro che lo accoglieva nel tempo animale dello stimolo-risposta, della fame immediatamente soddisfatta dall’ottenimento del seno materno. La distanza da questo stadio ancestrale è nel presente che fa la sua comparsa manifestandosi ad ogni suo bisogno legato, ad esempio, alla fame o all’essere accudito. Sono questi punti da lui distanti ad aprire la voragine tra sé e mondo e ad innescare quel desiderio fantasmatico di ricomposizione con ‘il non più’ dell’unità perduta. Quando il bambino giunge a proiettare, con il suo voler dire, questo desiderio di presenticazione utilizzando la parola ‘mamma’ ecco che la distanza dal ‘non più’ comincia a trapassare nel futuro in termini di rappresentazione linguistica. È qui che la tecnica funambolica della parola permette l’attraversamento verso il futuro della vertigine del presente aperta dal passato. La parola diventa così capace di raccogliere passato-presente-futuro ricreando in essa un hic et nunc di grado diverso da quello animale poiché 3

D’altronde, una delle matrici che ha spinto Philippe Petit a ricongiungere con la sua fune le Twin Towers nasce probabilmente da questo desiderio di colmare con i 60 metri della sua fune la distanza mentale tra sé e il mondo.

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esso avviene nel cielo dell’immaginario linguistico e non al suolo dell’immediatezza lineare dello stimolo-risposta espressa dal pianto. Passato-presente-futuro diventano quei punti angolari di un solo triangolo immaginario con il quale troviamo le parole chiave per aprire con il pensiero le possibilità del tempo. Le prime parole del bambino, essendo dei morfemi liberi come ad esempio la parola ‘mamma’, capaci cioè di evocare senso senza ancora nessun altro legame linguistico, creano una triangolazione delle tre regioni del nostro immaginario linguistico in termini sincretici. In questi morfemi, infatti, passato, presente e futuro non si giustappongono secondo la freccia del tempo dal passato al futuro ma si compenetrano istantaneamente l’uno nell’altro illuminando come in un lampo il cielo del nostro immaginario linguistico. È questa triangolazione sincretica a creare le premesse alla vita del simbolo4 (dal lat. symbolon e dal gr. sy’mbállô ‘metto insieme’, ‘conchiudo’) con il quale le aree ancestrali del nostro immaginario fuori tempo - che ho ripartito tra distanza (passato) desiderio (presente) e volere (futuro) – vengono istantaneamente rilegate. Sia in termini pre-culturali che culturali il simbolo è propriamente quel segno – fonetico o oggettuale - che con la sua potenza fulminea richiama a raccolta l’immaginario di riferimento in un solo punto. Facendo l’esempio del simbolismo della croce possiamo cogliere come questa intensicazione sincronica, capace di rilegare l’una nell’altra le tre aree del nostro immaginario linguistico, si connoti in termini culturali. Come per i morfemi liberi, anche nella croce abbiamo contemporaneamente la distanza, che apre una voragine tra noi e l’evento passato della crocissione di Cristo; il desiderio, che nasce dalla volontà nel presente di attraversare questa voragine che ci distanza dal non più; ed il volere, che trova nella croce quel segno proiettivo con il quale, la gura di Cristo resuscita nella fede del credente orientandolo nel non ancora del suo agire futuro. Questa contrazione sincronica del nostro immaginario è ancora più potente se si considera che essa può avvenire al di là del referente stesso legato alla croce in legno, che vedo sull’altare, o alla madre che vedo affacciarsi alla culla. 4

Secondo la scansione delle sviluppo mentale del bambino formulata da Piaget, è attorno ai 18 mesi, alla ne delle fase senso-motoria, che la triangolazione della parola diventa generativa del nostro pensiero simbolico. In questo nuovo grado dell’immaginario linguistico possiamo descrivere cose che sono distanti nel passato, ricostruire nel discorso l’impossibilità di un desiderio irrealizzabile nel presente, anticipare gli effetti di azioni senza doverle mettere necessariamente in pratica. Su questo cfr. J. Piaget, Psicologia infantile, Einaudi, Torino 2001.

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È per questa potenza istantanea del linguaggio simbolico che la pubblicità ne fa un ampio uso nel condurre le sue guerre immaginarie alle masse dei consumatori. L’uso della parola target, mutuata dai pubblicitari proprio dal linguaggio bellico, indica quella parte specica dell’immaginario di massa da colpire per stimolarne i centri del piacere a proprio uso e consumo. Individuato il target, l’arte della guerra bellica smonta i simboli del suo immaginario di riferimento per assemblarli in termini simulacrali, dando avvio alla sua strategia di marketing e lanciando i suoi missili-spot, che con precisione chirurgica riescono a permeare in pochi secondi il disincanto dei consumatori. È la narrazione, diversamente, che ci fa esplorare l’immaginario linguistico in termini di movimento, costruendo diacronicamente il tempo del «c’era una volta». Diversamente dal simbolico, che trova nella forza centripeta dei segni la sua caratteristica, la narrazione è ciò che si esprime nella forza centrifuga che aumenta la supercie del nostro immaginario, distanziando tra loro i suoi tre angoli fatti di passato-presente-futuro. In essa le parole si dispongono una accanto all’altra, aprendo sentieri ai passi del nostro camminare sul lo del tempo sospeso sul presente, fra passato e futuro. Non è un caso che nel dialogo, interiore o comunicativo, usiamo l’espressione ho perso il lo del discorso indicando con ciò come quel funambolo del nostro sé sospeso, sia caduto per distrazione e con esso il percorso del pensare. I miti di fondazione, le ideologie della storia o le favole esprimono al massimo grado questa potenza narrativa capace di organizzare l’ordine del discorso con il quale ciascuna cultura e ciascun bambino costruisce il ritmo dinamico della temporalità. La narrazione è ciò che dunque fa camminare il pensiero facendoci costruire il nostro immaginario secondo un prima ed un dopo ed è questa caratteristica che le permette di essere la sede della memoria della nostra seconda natura. È questa esperienza arricchente del raccontare che ha usato il nostro funambolo francese per ssare le emozioni della sua impresa, potendo così farle camminare al di là del 7 agosto 1972 no a noi. Se la nostra natura organica viaggia nel tempo al di là dei ponti generazionali per via genetica, come accade al resto delle altre specie, quella prodotta socialmente si perpetua attraverso una memoria extraorganica. Questa seconda memoria nasce dal linguaggio, da quel corpo sociale fatto di parole capace di integrare tra loro le esperienze soggettive con il mondo intersoggettivo. È grazie alla narrazione di questo corpo linguistico che l’uomo ha potuto conservare, nei quadri della memoria collettiva, le esperienze individuali e collettive ritenute più signicative.

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Con ciò, non dobbiamo pensare alla memoria come un mero contenitore poiché, come ci dice Halbwachs5, il ricordo è una ricostruzione del passato fatta nel presente con la quale si escludono arbitrariamente degli accadimenti e, allo stesso tempo, si altera il contenuto stesso di ciò che viene salvato nel ricordo. Nel raccontare siamo infatti sempre in quella sospensione dal qui ed ora che richiama il non più ri-creandolo con il suo voler dire. In questa riaccordatura del presente narrativo, con la quale il passato riesce a passare nel futuro, ogni narratore lascia le tracce del suo passaggio come il vasaio sul suo vaso nel quale raccoglie il senso della memoria. Tra ‘ciò che scompare’ e ‘ciò che riemerge’ incessantemente nel uire del tempo, l’uomo ha da sempre raccolto nei vasi modellati dai giri del tornio del raccontare ‘ciò che resta’, proteggendo dal deperimento dell’oblio quegli elementi determinanti – racconti fondativi, accadimenti, memorie di alcuni luoghi, oggetti carichi di signicato - per la costruzione dell’identità di ciascun mondo sociale. E questo accade anche con i documenti – fotograci, lmici, sonori – prodotti dalla riproducibilità tecnica, nei quali sono le macchine mediali a sostituire il racconto artigianale del narratore6. La creazione narrativa della memoria, inoltre, trova nel rito il suo intreccio con l’immaginario senso-motorio7 creando coreograe che rinforzano la rievocazione del non più. L’integrazione di formule retoriche verbali con determinate performance corporali danno una grande efcacia alle modalità con le quali le società ricordano, potendo così perpetuarsi al di là dei ponti generazionali. I riti funebri, di passaggio, di nascita, di inversione, ecc., con la loro riattivazione periodica, nascono proprio dalla necessità di marcare delle discontinuità nella temporalità grazie all’integrazione del gesto e della parola nelle quali collocare i quadri nella memoria collettiva. In virtù della sua potenzialità diacronica, la narrazione diventa così in termini analogici quel codice genetico capace di tramandare – in termini

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7

Cfr. M. Halbwachs, La memoria collettiva, Edizioni Unicopli, Milano 2001. La sequenza, ad esempio, che documenta il discorso tenuto da Mussolini il 10 giugno 1940 dal balcone di Piazza Venezia - con il quale annuncia l’entrata in guerra dell’Italia - è anch’esso l’esito di una costruzione. Abbiamo da un lato l’operatore che con la cinepresa ha fatto rientrare arbitrariamente nell’inquadratura solo una parte della situazione e, dall’altro, questo ricordo costruito tecnicamente è a sua volta fruito dallo spettatore di oggi secondo l’inquadratura della sua sensibilità individuale. Dunque, anche nell’illusione della narrazione della realtà prodotta dall’immagine movimento, analogica o digitale che sia, il ricordare è sempre in qualche modo un ri-creare. Su questo rapporto tra corporeità e memoria sociale cfr. P. Connerton, Come le società ricordano, Armando Editore, Roma 1999.

Pensare fuori dal presente

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verbali e non verbali - quelle informazioni più utili a far viaggiare nel tempo la nostra seconda natura. Come vedremo nella parte successiva, sincronia e diacronia sono quei due assi che danno forma alla nostra relazione immaginaria che architetta il tempo sociale. Per il momento possiamo dire che sulla fune dell’immaginario linguistico, la sincronicità simbolica è ciò che fa da bilanciere dando un equilibrio di senso statico al nostro stare sospesi sul presente, mentre la diacronicità narrativa è ciò che dà movimento a questo stare facendo avanzare i passi del nostro pensiero in avanti ed indietro.

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6. LA CHIAVE IMMAGINARIA DEL TEMPO

La capacità del nostro agire e del nostro pensiero di liberarsi dalla pressione dal presente è, dunque, ciò che fonda la relazione immaginaria dell’uomo con il tempo aprendolo creativamente al mondo. Egli è, per questo, quel solo essere capace di vivere in una sorta di fuori tempo, che lo allontana da un rapporto diretto con il divenire immediatamente espresso dai processi naturali. Se la vita animale viene trascinata attimo dopo attimo da questo eterno uire divenendone parte, quella dell’uomo, diversamente, pur essendo immersa in esso, ha in più la capacità di uscirne, elevandosi nel cielo delle immagini e costruendo con la sua mente un controtempo. In questo controtempo il presente diventa per l’uomo così quel punto della fune dove il divenire, attimo dopo attimo, scappa riessivamente all’indietro, ancorandosi all’immaginario del passato, e proiettivamente in avanti, ancorandosi all’immaginario del futuro. Il prezzo da pagare al suo saper camminare sulla fune del tempo è di averlo conosciuto perdendolo eternamente ad ogni passo. Così come nella Genesi l’aver strappato la mela dall’albero della vita ha dato all’uomo la conoscenza escludendolo dal paradiso terrestre, allo stesso modo l’aver strappato l’attimo dalla vita animale è ciò che gli ha fatto conoscere il tempo escludendolo dall’illusione dell’eternità. È mettendosi in cammino fuori dal giardino di questa illusione, che avvolge la vita animale e per un tratto quella del bambino, che l’uomo incontra anticipatamente la morte. Ovviamente, anche gli animali la incontrano, ma soltanto nella concretezza del suo pericoloso manifestarsi in quel punto in cui la morte concretamente li convoca ponendo ne alla loro vita1. 1

Scrive Plessner: «L’animale non conosce la paura di fronte alla realtà pericolosa, poiché non si vive anticipatamente. Certo, anticipa se stesso in quanto vive veramente nel presente, ma non vive nel futuro, come invece fa l’uomo, che sa di sé perché è oltre il proprio stesso essere in anticipo, perché anticipa il suo anticipare. La vera paura e la vera preoccupazione non si formano necessariamente su un sapere attorno alle cose future, ma sono possibili soltanto laddove all’essere vivente è quanto meno dischiuso il modo temporale del futuro», in op. cit., p. 342.

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Nell’uomo la morte diventa invece quell’ombra proiettata nella coscienza che accompagna il suo essere in cammino nelle possibilità del tempo. È qui che l’incontro, se pur fugace, con il pensiero di Heidegger di Essere e tempo diventa inevitabile: La morte è per l’Esserci la possibilità di non-poter-più-esserci.[…]Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’Esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un’imminenza incombente eccelsa. La sua possibilità esistenziale si fonda nel fatto che l’Esserci è in se stesso essenzialmente aperto e lo è nel modo dell’avanti-a-sé.[…]Se l’Esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità.[…] Se l’esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva di angoscia.[…]Essa non è affatto una tonalità emotiva di depressione, contingente, casuale del singolo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell’Esserci, essa costituisce l’apertura dell’Esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria ne. Si fa così chiaro il concetto esistenziale del morire come esser-gettato nel poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile, e si fa più netta la differenza rispetto al semplice scomparire, al puro cessare di vivere e inne all’esperienza vissuta del decesso. L’essere-per-la-ne non è il risultato di una deliberazione improvvisa e saltuaria, ma fa parte in modo essenziale dell’esser-gettato dell’Esserci, quale si rivela, in un modo o nell’altro, nella situazione emotiva (tonalità affettiva). L’effettivo sapere o non sapere che rispettivamente si afferma nell’Esserci circa il suo più proprio essere-per-la-ne non è che l’espressione della possibilità esistentiva di mantenersi in questo essere in diversi modi.2

Dunque, la morte è quell’avanti-a-sé ineludibile del suo esser-gettato che l’uomo incontra nel suo essersi messo in piedi con il suo pensiero sul presente, riuscendo a scrutare l’orizzonte del tempo. Come, quando siamo seduti su qualche spiaggia, lanciamo il nostro sguardo sulla linea dell’orizzonte che separa il mare dal cielo, così l’uomo, quando si siede sulla contingenza della sua esistenza, apre sull’orizzonte del tempo lo sguardo del suo pensiero e incontra quella linea che separa vita e morte. Eppure, per Heidegger, questa anticipazione della possibilità della morte è ciò che non ci ri-chiude nella sua angosciosa attesa ma, al contrario, dischiude al nostro esser-gettati nel mondo quel piano della possibilità esistentiva. Esso è quel luogo d’apertura compreso tra il nostro Esserci e quella possibilità certa del nostro non-poter-più-esserci grazie al quale il tempo della necessità animale diventa il tempo della possibilità grazie alla quale possiamo abitare 2

M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, pp. 301-302.

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il mondo in modi pluriversali. Questo luogo progettuale, compreso tra la linea d’ombra della vita e della morte, è il luogo aperto nel quale la verità continuamente si rivela e si nasconde. Il nostro essere-per-la-morte precorrendo nel futuro l’unica possibilità certa della nostra nitudine è ciò che, parallelamente, ci apre all’aver cura3 del uire del tempo sottraendoci alla sua dispersione meramente biologica che trasporta la vita animale. Anche l’uomo, in un processo deiettivo4, ha la tendenza nel suo quotidiano a coprire questo sconcertante spazio di verità consegnandosi al passivo lasciarsi vivere dall’epoca nella quale è collocato. Posto di fronte all’angoscia della morte, l’uomo, immerso in questa esistenza inautentica, vi volge vigliaccamente le spalle, ma è con ciò che paga il prezzo di rinchiudersi nelle mura quotidiane della realtà intersoggettiva vivendola come sua unica ‘possibilità possibile’. Diversamente accade all’esistenza autentica che non volge le spalle alla morte. È facendo ciò, infatti, che queste mura quotidiane della vita data per scontata rivelano il loro carattere illusorio, aprendo l’esserci al suo saper uscire sia dalle verità sclerotizzate presenti nella sua epoca, sia da quelle da lui stesso raggiunte di volta in volta5. Prendendosi cura di tenere aperta questa unica possibilità possibile in vista della sua ne, l’esistenza autentica si apre alla possibilità perpetua di far uscire da sé l’autenticità del suo più profondo esistere con il quale dar forma alla sua esistenza. Parafrasando le parole del Vangelo di Giovanni si potrebbe sintetizzare la posizione heideggeriana dicendo che la verità (della morte) è ciò che rende libero il nostro essere al mondo. La libertà è proprio quel luogo ontologico di apertura (lichtung) che si mostra a noi quando diradiamo le nebbie della paura del morire potendo così uscire dalla gabbia dell’ambiente animale e 3

4

5

«Essere-per una possibilità, cioè per un possibile, può signicare: mirare a un possibile nel senso di prendersi cura della sua realizzazione.[…]Il mirare a un possibile prendendosene cura tende all’annullamento della possibilità del possibile rendendolo disponibile». Ivi, p. 312. Questo è il termine con il quale Hedegger indica l’oblio da parte della coscienza della suo essere per la morte: «L’essere-per-la-morte quotidiano, in quanto deiettivo, è una fuga costante davanti a essa. L’essere-per-la-ne assume la forma di una elusione della morte, caratterizzata dall’equivoco, dalla comprensione in autentica e dal scoprimento. Che l’Esserci, proprio di ciascuno, già da sempre effettivamente muoia, che cioè esso sia un essere-per-la-ne, viene coperto a tal punto da ridurre la morte ai casi di morte che capitano quotidianamente agli altri e che ci assicurano, comunque, che «si» è ancora «vivi» ». Ibidem. «L’anticipazione dischiude all’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni sclerotizzazione su posizioni esistenziali di volta in volta raggiunte. Anticipandosi, l’Esserci si garantisce dal cadere dietro a se stesso e alle spalle del poter-essere già compreso, e dal divenire troppo vecchio per le sue vittorie (Nietzsche)». Ivi, p. 315.

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dell’orizzonte pre-costituito del quotidiano, potendo così orientare le possibilità del nostro cammino esistenziale. Ecco, è qui che possiamo trovare un’altra straticazione del concetto stesso d’immaginario, poiché esso coincide con questa apertura indicata da Heidegger dal quale si irradiano quelle immagini guida che fondano i nostri impossibili progetti. È quello che è accaduto allo stesso Philippe Petit. Come racconta nei suoi diari è stato in un giorno dell’inverno del 1968 che, ancor prima di diventare un funambolo professionista e prima ancora che le Twin Towers fossero costruite, ha pregurato nell’immaginario il suo (im)possibile progetto dicendo: Ho solo diciott’anni: sono libero, ribelle, difdente. Nell’inverno parigino del 1968.[…]sebbene mi eserciti soltanto da pochi mesi ho già annunciato la mia intenzione di diventare un supremo artista del funambolismo, e camminare sul lo è già per me una passione ossessiva e fanatica.[…]Prendo un fascio di vecchi giornali e li sfoglio il più rumorosamente possibile. Tutt’a un tratto, il silenzio: sono catturato da un’illustrazione, leggo e rileggo un traletto su un edicio fantastico le cui torri gemelle, altre 110 piani, sorgeranno entro pochi anni sopra New York e faranno il solletico alle nuvole.[…]Così mi viene istintivo slarmi la penna dall’orecchio e tracciare una linea tra i due tetti: un cavo, ma senza il funambolo.6

Il libero diciottenne Philippe in un momento di noia sfogliando le immagini di vecchi giornali non fa che incontrare quel luogo aperto della lichtung heideggeriana, fondando dall’impossibile la possibilità della sua impresa. Tracciando a matita, sull’illustrazione del progetto delle torri il suo di progetto, impiegherà sei anni afnché quella linea immaginaria, ancora senza funambolo, possa diventare quel pericoloso sentiero grazie al quale guadagnare l’autenticità della sua esistenza, prendendosi cura della morte. Petit, nei primi passi della sua impresa del 1974, in poche battute, sembra esemplicare tutta la losoa heideggeriana: L’ignota, l’innita, la gioiosa morte allunga le braccia e si nasconde il viso. Le sue braccia minacciose: migliaia, decine di migliaia di tonnellate di calcestruzzo, vetro e acciaio. Una bocca profonda 110 piani e alta più di 400 metri.7

È qui che Petit incontra anticipatamente la morte sul suo cammino generando in lui la sua angoscia che così descrive:

6 7

Petit, op. cit, pp. 17-18. Ivi, p. 187.

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Un urlo interiore mi assale, il desiderio irrefrenabile di scappare.8

È a questa angoscia che Petit non volge le spalle, anzi se ne prende cura: Ma è troppo tardi. Il lo è pronto. Il cuore è premuto contro quel lo con tale forza che ogni battito echeggia, echeggia e dissolve ogni altro pensiero. Il secondo piede si posa con decisione sul cavo. Inondato dallo stupore, da un’improvvisa ed estrema paura, sì, da grande gioia e orgoglio, mi tengo in equilibrio sul lo. Con facilità. Un sapore ancora irriconoscibile mi pervade la lingua: il desiderio di librarmi in volo. Inizio la traversata, ma il mio corpo rimane immobile. È paura? Gli dei dentro di me. Determinazione! Tenacia! Ora è il momento.9

È in quel «ora è il momento» che Petit trova la chiave del suo esserci e apre l’impossibile alla possibilità già anticipata dalla linea tracciata a matita dal suo immaginario. Camminando, grazie al suo immaginario, al di là del tempo lungo più di sei anni e di quelle mura architettoniche invalicabili, egli non fa che compiere, a suo modo, quel cammino verso la vita autentica che egli, alla ne della sua impresa, imbracciando il suo bilanciere così denisce: Il giorno di oggi testimonia una spedizione sacra. Un percorso ciclico. La ripetitiva beatitudine dell’esplorazione, sempre la stessa e mai uguale. Una traversata. Il pellegrinaggio di un mortale e un mortale pellegrinaggio.10

Anche in questo caso tutti noi siamo in termini esistenziali una potenziale specie di Philippe Petit. Ogni cammino, infatti, capace di bilanciare il peso dell’anticipazione della morte in avanti, camminando nel nostro pellegrinaggio mortale verso quelle mete che trovano origine dal progettare del nostro immaginario, non fa che esplorare ciclicamente la beatitudine dell’esplorazione della vita. Sicuramente la lettura esistenziale di Heidegger della temporalità è una pietra miliare nella tradizione culturale occidentale e che qui, anche grazie alla collaborazione del nostro funambolo transalpino, ho solo sorato strumentalmente al discorso che si sta facendo e che rivolge esclusivamente all’essere isolato, come lo chiama lui, e cioè alla vita individuale. Per il losofo di Essere e Tempo, infatti, non potrebbe essere il contrario essendo 8 9 10

Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 202.

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l’epoca dove si è gettati in comune con gli altri quell’auto-evidenza data per scontata e quindi di per sé inautentica. Il mio sguardo, che non è losoco, ma che pure integra tale prospettiva, bensì sociologico, certamente non può che porre alcune questioni che vanno nella direzione di problematizzare la dicotomizzazione heideggeriana tra esistenza individuale (potenzialmente autentica) ed esistenza collettiva (di per sé sempre inautentica). Se ad uno sguardo indirizzato all’esistenza della singolarità il suo pensiero non fa una piega, è vero allo stesso tempo che allargando lo sguardo alla dimensione sociale questa rigida dicotomia gli impedisce di coglierne le reciproche inuenze. Quando infatti - prendendo cura dell’anticipazione della morte – entriamo nella dimensione dell’esistenza autentica per progettare il divenire, da dove attingiamo il materiale per la sua messa in forma se non dall’epoca che ci avvolge? E, ancora, il mondo in comune non è statico con le sue verità sclerotizzate, come scrive Heidegger, poiché esso è poroso alle progettualità autentiche di singole o più esistenze che – anche se con tempi diversi – espongono il mondo sociale al divenire. Non solo. A questo c’è da aggiungere che non è solo l’individuo a dare fondazione alla sua esistenza aprendosi alla condizione di essere-per-la-morte. Tutte le culture umane, n dai primi ominidi, custodiscono il loro destino mortale al punto da poter dire che la loro fondazione affonda religiosamente le sue radici proprio nella relazione con la loro nitudine. Non è un caso che le prime costruzioni umane che incontra il paleoantropologo siano delle dimore – una caverna, una collinetta segnata da pietre o un tumulo collettivo - destinate non ai vivi ma a seppellire i morti e che le prime città della storia, come ci ricorda Mumford11, furono le necropoli. Sono proprio queste città sepolte, che hanno preso cura collettivamente del nostro essere-perla-morte, permettendo all’intero corpo sociale di vivere al di là dei ponti generazionali. Dunque, più che altro bisognerebbe parlare di polarità tra un essere ovvero una collettività capace di vivere autenticamente o meno questa anticipazione del suo essere per-la-morte. Ma al di là della lettura critica del pensiero heideggeriano, ciò che qui interessa è che la morte, sia essa vissuta in termini singolari o sociali, resta la committente del senso della nostra esistenza. Essa è, infatti, quel senso di vuoto che avvertiamo pericolosamente sotto i nostri passi di funamboli ma che, parimenti, li guida in avanti facendoci trovare di volta in volta la chiave immaginaria con la quale aprire lo scrigno del tempo, dove è contenuto il tesoro delle sue possibilità al di là della morte. 11

Cfr. L. Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano 1997, in part. Vol I.

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A conclusione di questa prima parte, facciamo un breve epilogo di quanto detto. L’uomo, privo di un fondamento organico stabile, è dunque quel solo essere che, pur facendo parte dalla nascita alla morte del tempo della natura, non vive sincronizzandosi al suo divenire. Così come abbiamo visto sino ad ora, egli è escluso da una relazione diretta con quell’incessante uire di cambiamenti espressi dal suo corpo così come dall’ambiente nel quale esso è collocato. È il restante mondo della vita che - orendo e sorendo, emigrando, entrando in letargo, cambiando pelle, alimentazione, dando inizio al periodo dell’accoppiamento, ecc. - è immediatamente sincronizzato al uire del tempo naturale secondo modalità pre-determinate dalla loro appartenenza di specie. La nostra specie, come ho cercato di evidenziare in più punti, ha colmato il suo naturale ritardo affrontando la vertigine della sua apertura organica, imparando l’arte funambolica di camminare sospesa sul tempo. Ancorando la fune del suo mondo immaginario tra il passato ed il futuro, l’uomo ha imparato ad elevarsi dall’onnipresenza delle necessità biologiche - che schiaccia al suolo del qui ed ora la stabile vita animale - guadagnando l’orizzonte della pre-vedibilità del tempo. È scrutando quest’orizzonte che egli ha trovato quella giusta distanza con la quale poter pro-gettare con il suo saper fare ri-creativo, al di là di ogni ambiente animale, una seconda natura con la quale poter stabilizzare la sua precarietà biologica. È di tutto questo che mi sono occupato sino ad ora. Provenendo da questo percorso ho, a questo punto, lo sfondo nel quale poter collocare la domanda che ci porterà, gradatamente, al centro del mio discorso: cosa accade se nella contemporaneità l’uomo non riesce più a trovare quelle chiavi immaginarie per aprire lo scrigno delle possibilità? La risposta che possiamo cominciare a dare è la seguente: che l’uomo ridiventa animale senza poterlo essere no in fondo. Questa tensione socialmente e storicamente determinata, che ri-volge l’uomo contemporaneo verso le sue origini logenetiche, trova nella sua stessa infondatezza organica quel limite naturalmente invalicabile. È la stessa ragione che, dall’altro lato, impedisce all’animale di infrangere il tempo della necessità organica camminando sospeso sulla fune del fuori tempo umano. Per quanto la condizione contemporanea abbassi la fune del suo mondo immaginario, il suo funambolico camminare non potrà mai totalmente aderire al uire della vita animale. È questa paradossale condizione che nel quotidiano come nella storia riposiziona, come avremo modo di specicare, l’umanità verso una post-umanità. La tesi di questo libro è interamente contenuta in questa risposta analogamente a come l’intero albero è contenuto nel seme. Come si comprende,

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per far germogliare questo seme in modo da raccoglierne i possibili frutti interpretativi, occorre un terreno d’analisi adeguato che la mia sensibilità di ricerca individua nella morfologia. Un terreno d’analisi poco frequentato dalle scienze sociali e che per questo occorre percorrere, per conoscerne le specicità, prima di piantarvi la mia ipotesi. Pertanto, l’obbiettivo della parte seguente sarà proprio quello di delineare, in termini generali, le categorie analitiche essenziali della morfologia con le quali poter comprendere questa paradossale condizione che spinge l’uomo contemporaneo alla ricerca involontaria del tempo animale perduto.

PARTE II MORFOLOGIA DEL TEMPO SOCIALE Tuttavia, se consideriamo tutte le forme, e in particolare quelle organiche, troviamo che non esiste nulla di immutabile, di sso, di chiuso, ma che tutto ondeggia in un continuo movimento. J. W. Goethe

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1. ELEMENTI DI MORFOLOGIA

La morfologia, che trova nel modello di scienza universale di Goethe la sua fondazione moderna1, si caratterizza per un approccio conoscitivo empirico ideale. Diciamo subito che questo piano ideale non è da ricondurre a un qualche mondo trascendentale, sia esso teologico o metasico, ma a quel continuo ondeggiare del tutto espresso empiricamente dai singoli processi formativi presenti in natura. La natura, per il morfologo, a qualsiasi grado dell’organico e dell’inorganico si manifesti, è quell’idea costantemente all’opera poiché, come perentoriamente afferma lo stesso Goethe: Ciò che è formato viene subito trasformato nuovamente e se vogliamo giungere in una certa misura a una osservazione viva della natura, dobbiamo comportarci a nostra volta in maniera mobile e formatrice, secondo l’esempio che la natura stessa ci propone.2

La pietra vulcanica che troviamo in prossimità del cratere di un vulcano, l’albero d’ulivo che troviamo nel mediterraneo, l’ape che ronza nel campo di ori, il castoro che nel ume costruisce la sua diga o l’uomo stesso che ri-crea il suo mondo di supporto, non fanno che essere espressioni particolari di una sola energia conguratrice immanente alla natura stessa. È per questo che l’ambizione della morfologia goethiana è quella di una scienza della natura che sia essa stessa vitale attraverso la produzione di categorie analitiche capaci di metamorfosarsi in maniera mobile e formatrice secondo l’esempio che la natura ci propone in ogni dove. Quando Feyerabend scriverà contro l’ipostatizzarsi del metodo scientico non farà che ribadire nel ’900 questa esigenza goethiana di giungere 1

2

Tracciando un’archeologia del sapere morfologico mi sono occupato del pensiero scientico di Goethe nel mio testo, Le metamorfosi: natura, articio e tecnica. Dal mutamento sociale alla mutazione socio-biologica, op. cit., in part. cfr. Goethe, pianta originaria della morfologia moderna. W. J. Goethe, Gli scritti scientici [Vol I Morfologia I: botanica], Il Capitello del Sole, Bologna 1996, p. 8.

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ad una scienza anarchica capace di trasgurare creativamente le sue metodologie3. D’altronde, essendo l’uomo stesso parte dell’innito uire del tutto, secondo i limiti insiti nella sua natura, non può aspirare ad una scienza faustinana direttamente volta alla comprensione oggettiva e al dominio delle sue dinamiche. Questa rinuncia però non allontana il morfologo da quella tensione conoscitiva idealmente volta all’innito ondeggiare del tutto. Il riconoscimento del limite è, infatti, quel punto certo dal quale lo scienziato può intuire indirettamente la sua presenza, studiando empiricamente come ciascuna parte del mondo naturale partecipi al continuo ondeggiare del tutto. La modalità con cui ciascuna parte partecipa, secondo modalità speciche, a questo costante movimento del tutto esprime la categoria stessa di forma. Quest’ultima è, infatti, la risultante armonica che scaturisce dal modo con cui ciascuna conformazione – sia essa la pietra, l’albero, l’insetto, l’animale o l’uomo - resiste alle innite sollecitazioni del tutto stabilizzandosi all’interno del suo specico ambiente. La forma, più che una categoria astratta tra le tante, è dunque quel domicilio empiricamente osservabile che, all’occhio del morfologo, fa da sismografo alla comprensione di quel continuo ondeggiare del tutto della natura. Forma e movimento, esistendo l’una in funzione dell’altro, sono così le categorie vitali fondamentali della morfologia poiché, per essa, l’intero mondo è l’esito di questa armonia in costante divenire con la quale si esprime. Una tensione armonica molto vicina al pensiero orientale per il quale lo yin (il buio) e lo yang (la luce) sono le due parti inseparabili di uno stesso gioco cosmico tra potenza ed atto generando i diversi esseri del mondo ma, senza per questo, poter infrangere l’unità del cerchio dell’unità primordiale del Tao4. Usando questa afnità elettiva tra la morfologia ed il pensiero taoista, potremmo 3

4

Scrive il losofo della scienza Paul Feyerabend: «E la mia tesi è che l’anarchismo aiuta a conseguire il prpgresso in qualsiasi senso si voglia intendere questa parola. Anche una scienza fondata sui principi della legge e dell’ordine avrà successo solo se saranno consentiti di tanto in tanto modi di procedere anarchici. È chiaro, quindi, che l’idea di un metodo sso, o di una teoria ssa della razionalità, poggia su una visione troppa ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale», in Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza. Feltrinelli, Milano 2005, p. 25. «Il Tao ha prodotto l’Uno, l’Uno ha prodotto il Due (lo yin e lo yang), il Due ha prodotto il Tre, il Tre ha dato vita alla moltitudine degli esseri particolari uscendo dalla potenza (yin = dal buio) passano all’atto (yang = alla luce). L’unità primordiale (alla quale è ordinato il vario giuoco dello yin e dello yang) ne compone le vie». In Lao-Tze, Il libro del principio e della sua azione, Edizioni Mediterranee, Roma 1972, p. 133.

Elementi di morfologia

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dire che il movimento è lo yin, essendo quella energia elementare della natura che esce dal suo stato potenziale oscuro, mentre la forma è lo yang con il quale tale forza passa all’atto entrando nel mondo fenomenico. Come per il taoismo il gioco dello yin e dello yang produce l’innita moltitudine degli esseri all’interno dell’ordine dell’unità primordiale del Tao, così per la morfologia il gioco tra forma e movimento produce i diversi stati dell’essere dell’unità primordiale della Natura. Per la morfologia la natura, dunque, non è denibile con la sommatoria delle porzioni di materia di cui si compone e neanche solo con quella sua energia in costante divenire presente in essa. La natura è quella proporzione tra forma e movimento innitamente variabile dalla quale ha origine la diversicazione nella quale si manifesta il mondo. È attraverso l’individuazione di questa dinamica tra forma e movimento che la morfologia costruisce quel suo prezioso strumento comparativo che è l’analogia. A differenza della similitudine, con la quale si mettono in relazione due elementi tra loro distinti cercandone le reciproche somiglianze, l’analogia, tenendo ben distinti gli elementi della sua comparazione nelle loro reciproche identità, trova tali somiglianze in un elemento terzo presente in certe misure nell’uno e nell’altro5. Per la morfologia questo elemento terzo è proprio quella proporzione variabile tra forma e movimento, con la quale la natura si esprime analogicamente in ogni suo regno morfologico. Se la natura è tutta scritta in termini di proporzioni analogiche, il morfologo è colui che sa leggerne le corrispondenze tenendo ben distinto lo sguardo empirico delle differenze da quello ideale delle afnità. Con il primo egli volge la sua attenzione a rintracciare nella forma osservata le specicità che rendono, per riprendere l’esempio precedente, la pietra vulcanica, l’albero d’ulivo, l’ape, il castoro e l’uomo identità tra loro inconciliabili; è con lo sguardo ideale, invece, che ciascuno di questi regni morfologici viene ricondotto ad unità, essendo essi concepiti quali varianti di quella proporzione tra forma e movimento con la quale la natura imprime il suo marchio sul mondo. È attraverso questo sguardo stereoscopico dell’analogia, capace di unire l’occhio delle differenze con quello delle afnità, che Simmel, Jünger e Spengler estesero nel ’900 la scienza della natura goethiana al mondo umano fondando la morfologia sociale. Per ciascuno di loro la società non era altro dal naturale, ma non era neanche ad essa assimilabile così come, invece, fece il positivismo estendendo per similitudine le leggi dell’una 5

Scrive Goethe sull’analogia: «Ogni essere vivente è un analogo di tutto ciò che esiste. Perciò l’esistenza ci appare sempre nello stesso tempo separata e collegata». W. J. Goethe, Massime e riessioni, Fabbri editori, Milano 1998, p. 116.

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all’altra. A partire dai suoi fondatori, la morfologia sociale considera la società come parte del mondo naturale solo e soltanto in quanto espressione particolare di quella naturale proporzione tra forma e movimento. Il naturalista inglese D’Arcy Thompson, che in parte riprende il modello di scienza goethiano, esprime questa proporzione analogica parlando di geometria della natura: La forma di ogni porzione di materia, sia essa viva o morta, e i cambiamenti di forma che appaiono nei suoi moti e nella sua crescita, possono sempre venir decritti come l’effetto dell’azione di una forza. In breve: la forma di un oggetto è un diagramma di forze, almeno nel senso che da essa noi possiamo giudicare o dedurre quali forze agiscano o abbiano agito su di esso. In questo senso ristretto e particolare, essa è, nel caso di un solido, un diagramma delle forze che gli sono state applicate quando quella forma si è prodotta e, insieme, di quelle altre forze che gli permettono di conservarla; nel caso di liquidi, o di gas, è il diaframma delle forze che in quell’istante agiscono per frenare o equilibrare la sua intrinseca mobilità. In un organismo, grande o piccolo, noi dobbiamo interpretare in termini di forza, come dice la dinamica, non solo la natura dei moti della sostanza vivente, ma anche la conformazione dell’organismo stesso, la cui stabilità e il cui equilibrio trovano spiegazione nelle mutue relazioni tra forze o nei loro equilibri, come la statica li descrive.6

Trovo prezioso il brano di Thompson perché esso da quegli strumenti concettuali, scaturiti dalle sue osservazioni di naturalista, a partire dai quali poter distinguere i diversi regni morfologici e allo stesso tempo - per comparazione analogica – considerarli afni in quanto espressioni speciche di quella proporzione tra forma e movimento. Il punto da sottolineare è che per lui la forma – sia essa allo stato solido, gassoso, liquido o organico - è la risultante di un analogo diagramma di forze che Thompson ripartisce tra interne ed esterne. Continuando la strada tracciata da Thompson possiamo denire le forze interne alla forma come centripete, essendo tendenti ad addensare in una conformazione stabile una certa porzione di materia. Speculari a queste «forze centripete di conservazione» interne alla forma ci sono quelle forze che dall’esterno agiscono sulla forma esponendola di continuo alla dispersione nel tutto e che per questo possiamo denire centrifughe. Al di là del tipo di materia la forma è dunque la risultante armonica di queste due forze «interne ed esterne» sinergicamente contrarie. Ciò che, invece, morfologicamente distingue le forme inorganiche da quelle organiche è il tipo di tecnica con la quale ciascuna forma resiste all’ambiente entro cui è collocata. 6

D’Arcy W. Thomson, Crescita e forma. La geometria della natura, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 15.

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Nelle forme inorganiche questa tecnica centripeta è passiva essendo in balia dell’azione delle forze centrifughe che agiscono al suo esterno attraverso i quattro elementi terra, acqua, fuoco, aria. Nel caso ad esempio di un minerale la tecnica che «mantiene in forma la sua forma» è un tutt’uno con i legami atomici di cui si compone. È per questo che le forme inorganiche si trasformano per opera esclusiva delle forze centrifughe provenienti dall’esterno senza le quali tenderebbero con la loro staticità all’eternità. Sono gli organismi, invece, a re-agire all’ambiente producendo essi stessi una forza centripeta di controspinta: la vita. A differenza delle forme inorganiche, quelle organiche sono nella costante necessità di dover re-agire alle forze centrifughe presenti nei rispettivi ambienti secondo peculiari tecniche comportamentali con le quali stabilizzarsi all’interno dei rispettivi ambienti. Anche l’uomo, essendo parte del mondo organico, è chiamato a questa stessa tattica vitale ma senza disporre, come abbiamo detto nella parte precedente, di un fondamento biologico stabile. In termini morfologici, la forma dell’uomo è naturalmente difettosa, non essendo capace di produrre organicamente per intero quella forza centripeta di contro spinta con la quale potersi stabilizzare in relazione alle forze centrifughe provenienti dall’esterno. Nel suo stare al mondo, l’uomo deve chiudere da sé la forma aperta del suo corpo non specializzato costruendo articialmente quel pezzo di forma naturalmente mancante. Questa ridenizione articiale della sua natura non lo mette in antitesi agli altri regni morfologici poiché l’uomo entra con la sua tecnica ri-creativa ancor più dentro l’intelligenza activa del naturale imitandone i processi formativi. Così come nel macrocosmo naturale essa è quel continuo movimento energetico del tutto che trova nelle singole forme il luogo del suo manifestarsi così, nel microcosmo umano, la tecnica è quel fuoco prometeico che trova nelle singole forme tecnologiche il luogo del suo aforare nel mondo. Nella mia lettura morfologica, pertanto, la tecnica nell’uomo non è identicabile con i suoi strumenti di cui si compone analogamente a come la natura non è identicabile con la sommatoria delle sue parti. Ridurre la tecnica alla sua mera visione strumentale è uno dei più grandi errori che si possa commettere nel guardare il mondo umano. Strumentale la tecnica lo è solo per l’ape o il castoro, che la utilizzano per costruire alveari e dighe secondo modalità rigidamente inscritte nella specica morfologia dei rispettivi corpi. Nell’uomo la tecnica è al suo fondo, come aveva compreso già Heidegger7, niente di tecnico poiché essa è innanzitutto quell’energia 7

Scrive Martin Heidegger: «La tecnica non si identica con l’essenza della tecnica. Quando cerchiamo l’essenza dell’albero non possiamo non accorgerci che ciò

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formante con la quale l’uomo ridenisce ad un tempo la sua naturale informità e l’ambiente circostante trasformandolo in mondo umano. Questa lettura della tecnica in termini energetici fa comprendere come essa, per quanto possa spostare i suoi limiti, rimane sempre all’interno di quel processo formativo (Bildung) del naturale, essendone la sua declinazione umana socialmente e storicamente determinata. Così come l’arte pittorica nelle sue innite produzioni formali non può infrangere lo spettro dei colori visibili all’occhio del pittore, allo stesso modo ogni artefatto della tecnica umana, per quanto sosticato possa essere, non potrà mai infrangere quella proporzione analogica del mondo naturale. Ciò che invece muta è sempre la posizione dell’uomo innanzi ad ogni artefatto, poiché esso è l’espressione formale di una energia tecnica con la quale l’uomo forgia quella parte di forma naturalmente mancante alla sua identità corporea. Un espediente tecnico - il linguaggio, il fuoco, la ruota, l’agricoltura, la città, la scrittura, la codicazione del diritto, la stampa, le biotecnologie, ecc. – ha sempre dischiuso alle esperienze dell’uomo nuove forme del possibile nel mondo naturale ridenendo, contemporaneamente, la plasticità della sua stessa natura. Si potrebbe dire che come l’animale è legato stabilmente al suo corpo per poter vivere così l’uomo è legato stabilmente alla sua tecnica per poter vincere la lotta per la sopravvivenza. Questo legame vitale tra uomo e tecnica non è, dunque, inscrivibile in quella visione classica - che afigge tanto il senso comune quanto la maggior parte delle scienze sociali – espressa dalla relazione dialettica servo (tecnica) - padrone (uomo)8. La parte vera di questa relazione è qualcosa d’innegabile: l’uomo, essendo da sempre l’artece dei suoi strumenti, ne è anche il signore nella determinazione dei suoi modi d’uso. Il lato falso fa riferimento proprio agli effetti di ritorno (feedback) che questi oggetti, con le loro pratiche, hanno su di noi. Già a partire dalla leva, probabilmente uno dei primi e rudimentali prolungamenti articiali del corpo, l’uomo ha sperimentato l’ebbrezza della libertà dalle necessità naturali. Con l’avvento della leva, infatti, l’uomo fa esperienza della possibilità di poter spostare un volume di peso superiore alle capacità naturali proprie dei suoi muscoli riuscendo a costruire cose (artefatti) che prima

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che governa ogni albero in quanto albero non è a sua volta un albero che si possa incontrare tra gli altri alberi come uno di essi. Allo stesso modo, anche l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico». La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991, p. 5. Si fa riferimento alla dialettica hegeliana del Signore e del Servo, esposta nel quarto capitolo della ‘fenomenologia dello spirito’. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1970.

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non poteva fare. Eppure, da quel momento in poi, se egli vorrà “fare” ciò che prima «non poteva fare» – costruire delle mura difensive particolarmente possenti, organizzare uno stato, macinare il grano, irrigare i campi, dividere l’atomo, trapanare i crani per fare uscire i demoni, scrivere con i caratteri cuneiformi, ecc. – sarà costretto a farvi ricorso. Il fare ricorso, così inteso, si compone di due parti, una riessiva – interna alla coscienza umana – che riconosce in sé una mancanza, ed una attiva, che agisce all’esterno afdandosi a ciò che può colmare la sua mancanza. È proprio in questo afdarsi ad una potenza altra, aliena da noi e capace di soccorrerci come una divinità, che la tecnica spezza le sue catene di serva. Il Padrone (uomo) diviene, infatti, un po’ più servo proporzionalmente all’ammontare della potenza che egli stesso richiede alla téchne, la quale, a sua volta, in questa «trasfusione di potenza», diventa al contrario un po’ più signore. È tra queste due pietre focaie della mancanza e dell’afdamento che si è già da sempre acceso il fuoco prometeico della tecnica umana. Essendo la tecnica al suo fondo la declinazione umana di quella energia di congurazione del naturale, attorno al suo centro energetico non si dispone solo il mondo puramente strumentale dell’uomo, ma più in generale anche le forme sociali nelle quali tali strumenti trovano collocazione. Le diverse istituzioni sociali (religiose, politiche, economiche, scientiche, ludiche, giuridiche, estetiche, comunicative, ecc.), i rispettivi sistemi simbolici che ne ssano la legittimità, gli apparati organizzativi che ne regolano il funzionamento, i luoghi architettonici nei quali trovano sede, gli strumenti di cui si servono per le loro pratiche sono tutte quelle forme di una sola tecnologia sociale che trova il suo epicentro tecnico nell’azione reciproca. Quest’ultima è quella sorgente energetica del mondo sociale che crea in termini di analogia quel continuo ondeggiare del tutto, divenendo il presupposto vitale delle diverse forme associative. Come afferma Simmel, la società trova origine non dalla semplice giustapposizione di individui ma quando questi cominciano ad essere in relazione l’uno per/ contro l’altro, creando forme associative dagli scopi più diversi nelle quali l’uomo coltiva la sua natura culturalizzata: Un’energia o una disposizione di natura costituiscono il presupposto del concetto di cultura. Infatti, dal punto di vista di questo concetto, i valori della vita sono appunto natura “culturalizzata”.[…]Perciò, anche se i frutti ottenuti con innesti e una statua sono in egual misura prodotti della cultura, la lingua rivela tale differenza con molta nezza, col chiamare coltivato l’albero da frutta, mentre non dice che il grezzo blocco di marmo è stato in qualche modo “coltivato” no a farne una statua.[…] Lo stesso avviene nel caso della cultura che

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plasma il rapporto degli uomini con gli altri e con se stesso attraverso la lingua, il costume, la religione, il diritto.9

È in queste parole di Simmel che quell’espressione, data già in precedenza10, dell’uomo come coltivatore di una seconda natura trova tutta la sua valenza analogica. Ciò che accomuna la coltivazione dell’albero, della statua, della lingua, del costume, della religione e del diritto è quella energia conformatrice dello scambio sociale con la quale l’uomo coltiva il mondo circostante e lui stesso facendo germogliare dalla sua instabilità organica una seconda natura. È importante sottolineare come questa seconda natura non sia creata, ma ri-creata. Non è un caso che simmelianamente parlo di coltivazione per evidenziare come l’uomo sia, se pur indirettamente, legato alla prima natura così come il contadino lo è con la terra. Il coltivare è infatti la risultante di due metà di cui una è la tecnica del contadino - messa in campo dal suo lavoro con l’ausilio di determinati strumenti (l’aratro, i sistemi d’irrigazione, la potatura, ecc. ) – e l’altra è la terra che fa da presupposto all’azione della prima. Così è per la coltivazione sociale della seconda natura. Anch’essa è la risultante di due metà di cui una è la tecnica culturale – messa in campo dall’azione reciproca con l’ausilio di determinati strumenti istituzionali, organizzativi, simbolici, ecc. – e l’altra la sua natura organica che fa da presupposto all’azione della prima. Rispetto a questa accezione dell’uomo come essere ri-creativo e non creatore, sono illuminanti le parole del morfologo delle forme biologiche Portmann: Da millenni l’uomo ha a che fare con il misterioso fenomeno delle varianti naturali, sia che scelga e allevi forme animali[…], sia che coltivi piante[…]: sempre è costretto a operare la sua scelta su un materiale già predisposto dalla natura. Possiamo aumentare lo zelo della ricerca, accrescere il numero degli studiosi, organizzare speciali spedizioni: l’atto formativo, l’atto del formare resta riservato alla natura.11

Quello di cui parla Portmann lo possiamo estendere per analogia anche al mondo sociale. Per quanto, infatti, l’uomo possa variare etnicamente le modalità di coltivazione della sua seconda natura essa sarà sempre l’espressione particolare di quell’atto formativo con il quale la natura scrive il tut9 10 11

Simmel, op. cit., pp. 630-631. Cfr. parte I cap. 3 Il riequilibrio della seconda natura. Portmann, op. cit., p. 190.

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to in termini di analogia. Così come variabili sono le lingue dell’uomo lo sono anche i suoi mondi culturali, eppure, ciascuno è l’espressione di quella seconda natura coltivata nello spazio e nel tempo in modi innitamente variabili ma sempre afni a quel gioco di proporzioni tra forma e movimento. È questo sguardo che permette al morfologo sociale di non distinguere le culture umane in termini evoluzionistici - tra superiori ed inferiori, sviluppate e non sviluppate, complesse e semplici ecc. – poiché ciascuna è l’esito di una proporzione che trova nella sua stessa singolarità il suo valore intrinseco. Ciò che distingue il pluriverso culturale nel quale si declina la seconda natura dell’uomo è semplicemente il grado di diversicazione delle diverse forme di cui si compone e che, in genere, dipende dalla quantità dei consociati che partecipano all’azione reciproca. Così come analogamente nell’affollato mondo degli insetti si creano delle forme associative che specializzano la loro vita sociale così accade, ad esempio, nell’affollato mondo delle città. Sebbene la seconda natura possa essere più o meno diversicata, resta il fatto che essa è la risultante di quella tecnica con la quale l’uomo ri-crea socialmente quella contro spinta vitale naturalmente mancante con la quale controbilanciare le forze centrifughe del tutto che dall’esterno del suo ambiente lo sospingono costantemente alla disgregazione.

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2. DARE SPAZIO AL DIVENIRE: LA CRONO-ARCHITETTURA

Delineato l’approccio conoscitivo della morfologia, in questo e nei prossimi due capitoli, mi occuperò di utilizzarlo più specicatamente per leggere l’istituzione sociale del tempo ponendomi tre domande: quale ruolo svolge la sua conformazione nella seconda natura? Che forma ha? Ed inne, in cosa consiste il suo processo di metamorfosi? Rispondere a queste domande mi permetterà di elaborare quegli strumenti d’analisi di cui mi servirò nelle parti successive per leggere all’interno delle società contemporanee quel principio d’animalizzazione del tempo che sta mondialmente sospingendo l’umanità nell’epoca del postumano. Rimanendo un passo indietro rispetto a questa tesi, ancora tutta contenuta nel suo nucleo seminale d’ipotesi, cominciamo a dotarci di questi strumenti analitici ponendo la prima delle tre domande: quale ruolo svolge la sua conformazione nella seconda natura? Tra tutte le forme coltivate dall’azione reciproca quella del tempo occupa un ruolo di assoluta centralità1, essendo quello spazio aureo che da luogo alla coltivazione stessa della seconda natura. Potrebbe sembrare contraddittorio o quantomeno paradossale considerare la forma del tempo come spazio fondativo del sociale, eppure non è così se lo riconduciamo non a qualche generica estensione, ma a quello spazio immaginario de-localizzato nella mente umana.

1

Scrive a tal proposito Cornelius Castoriadis: «La società, e ogni società, è dapprima istituzione d’una temporalità implicita; esiste dapprima come autoalterazione e come modo specico di questa autoalterazione. Non basta dire che ogni società ha il suo modo di vivere il tempo, ma bisogna dire che ogni società è anche un modo di fare il tempo e di farlo essere, il che signica: un modo di farsi essere società. E questo far essere del tempo sociale-storico, che è anche il farsi essere della società come temporalità, non è riducibile all’istituzione esplicita del tempo sociale-storico, pur essendo impossibile senza di questa». In L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 54.

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Come oramai sappiamo, l’uomo è l’unico essere capace di mettere in forma attraverso la mente non solo immagini percettive e motorie, così come fanno gli altri animali dotati di cervello, ma anche delle immagini meta-cognitive dalle quali si osserva percepire ed agire. Questo fa in modo, come abbiamo visto con Plessner, che se la vita dell’animale è centrata nel qui ed ora, la vita dell’uomo, che pure non può infrangere tale centralità, è eccentrica, essendo contemporaneamente posta dietro il presente nell’altrove del suo mondo interiore. Condizione umana di semi-estraneazione che è bene espressa da quell’esperienza che facciamo individualmente quando ci affacciamo dalla nestra per osservare l’effervescenza sociale di una piazza. In tale circostanza dove siamo centrati? Siamo centrati dentro casa? Oppure, siamo centrati fuori casa? In realtà, in nessuno di questi singoli posti, essendo eccentricamente collocati in entrambi. E questo è così senza essere sdoppiati poiché sia la casa, dove siamo situati, che la piazza, verso cui è rivolta la nostra attenzione, sono entrambe contenute in un luogo terzo che è la nostra mente. Questa è, cioè, quel palco e quella platea che, in termini generali, permette all’uomo di essere attore e spettatore essendo sia centrato nell’effervescenza della vita, sia decentrato fuori da tale effervescenza grazie alle sua capacità meta-cognitiva. Così come il teatro è quel luogo che esiste solo perché composto dal palco e dalla platea, da attori e spettatori, così la mente dell’uomo è quel luogo senza estensione che gli permette eccentricamente di trovare posto nel mondo. L’immaginario è più specicatamente quell’energia creativa, innescata da questa tensione eccentrica tra l’essere dentro e l’essere fuori, che oggettiva le rappresentazioni all’interno del teatro della mente. È solo e soltanto grazie a queste rappresentazioni che l’uomo trova un pre-testo al suo saper parlare – la lingua – e dei movimenti pre-ssati al suo fare corporeo – le abitudini – uscendo dal suo disorientamento organico. Poiché ciascun uomo, ogni volta che nasce, non costruisce da sé né la lingua, né le abitudini, si comprende come entrambe abbiano luogo sempre in un teatro sociale pre-stabilito grazie alla messa in scena di un immaginario altrettanto sociale. Sino ad ora abbiamo parlato dell’immaginario come quella energia ri-creativa della nostra specie che ci distingue dal mondo animale, ma adesso dobbiamo cominciare a considerarla qualicata da determinate immagini condivise collettivamente. È Dilthey - uno dei fondatori della sociologia tedesca - a dare, a mio giudizio, ancora oggi una delle migliori denizioni d’immaginario sociale parlando di weltanschauungen, di visioni del mondo:

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Le visioni del mondo si sviluppano in condizioni diverse. […]Si manifesta, così, una relazione regolare in virtù della quale l’anima, spinta dal continuo mutamento delle impressioni e dei destini e della potenza del mondo esterno, deve tendere ad una saldezza interiore per poter opporsi a tutto ciò: così essa viene condotta dal mutamento, dall’instabilità, dallo scorre e dal uire della sua condizione, delle sue visioni della vita, al duraturo apprezzamento della vita ed a ni sicuri. Le visioni del mondo che favoriscono la comprensione della vita, che conducono ad obiettivi utili, si conservano e rimuovono quelle che meno si prestano in tal senso.2

Dilthey è stato uno dei pochi che, nell’ambito delle scienze sociali, è uscito da quella classica lettura distorta dell’immaginario che da Platone sino ad oggi ha visto in esso un riesso impoverito del reale. Per il sociologo tedesco è esattamente il contrario poiché la costruzione sociale della realtà avviene solo grazie al dispiegarsi di queste visioni collettive con le quali gli uomini traducono l’instabilità, lo scorrere, il uire, il mutamento del mondo. Questo fa comprendere come l’immaginario sia essenzialmente un’energia crono-poietica volta a produrre innanzitutto un determinato ordine temporale durevole nel divenire, aprendo degli spazi di signicato all’interno del ‘caos’ del mondo naturale. Parafrasando la celebre frase che Shakespeare fa dire a Prospero ne La Tempesta – «Noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni» - questi spazi sono fatti della stessa materia di cui sono fatte le visioni del mondo. Poiché per la morfologia non c’è materia che sia informe, possiamo considerare ciascuna visione del mondo come la forma sociale stessa entro la quale l’energia crono-poietica dell’immaginario collettivo, espresso da ogni mondo geoculturale, si oggettiva. Come sin da bambini comprendiamo il movimento di qualcosa prendendo un punto fermo dello spazio, analogicamente ogni società trova nella forma del tempo quel durevole punto fermo attraverso il quale comprendere il divenire dei processi naturali. Oltre a questa funzione esterna di orientamento, esso è anche quel punto sso che orienta la comprensione della vita sociale al suo interno. Ciascun mondo sociale è, infatti, composto al suo interno da un pluriverso di temporalità – come, ad esempio, il tempo scandito dalla politica, dai riti religiosi, dai ritmi economici, dalla routine quotidiana o dalla vita individuale - tra loro non coincidenti e a volte persino in contrasto. La forma del tempo, pur composta da questo 2

W. Dilthey, Le dottrine della visioni del mondo, Guida Editori, Napoli 1998, p. 180.

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pluri-verso di temporalità, è quell’uni-verso cronologico di riferimento comune senza il quale tale eterogeneità si disperderebbe. È per questa loro essenziale funzione d’orientamento che attraverso di loro tutto uisce della vita associata e non – cataclismi naturali, guerre, carestie, eventi ludici, cerimonie religiose e politiche, ecc. - tranne esse stesse, in quanto punti di riferimento atemporali senza i quali tali accadimenti non potrebbero essere compresi, raccontati, rivissuti, memorizzati e quindi anche dimenticati. Trovando la loro ragion d’essere proprio nel fatto di costituire dei punti atemporali, si comprende come le forme del tempo, pur costruendo il tempo sociale, non siano parte né del divenire prodotto dai processi naturali, né del divenire prodotto all’interno della seconda natura. È qui che quel leggere le forme del tempo in termini spaziali comincia ad apparire meno contraddittorio e paradossale. Esse sono infatti quelle forme architettate dall’energia crono-poetica dell’immaginario sociale con le quali ciascun mondo culturale trova uno spazio di signicato esteso dal passato al futuro grazie al quale la mente collettiva si libera dall’onnipresenza del tempo naturale. Come si diceva, l’uomo è quell’essere funambolico che ha imparato a camminare sul tempo elevandosi dal presente animale e guadagnando l’orizzonte della sua pre-vedibilità. Le forme del tempo sono esattamente quelle funi ancorate tra passato e futuro che ciascuno trova n dalla nascita, essendo messe in tensione dall’immaginario sociale nel quale è collocato. Così come ciascun uomo impara ad afnare la sua predisposizione sica a camminare in posizione eretta grazie alle sollecitazioni del suo nucleo familiare, così egli impara ad afnare la predisposizione metasica della sua mente a camminare da funambolo sul tempo grazie alle sollecitazioni dell’immaginario sociale entro il quale conduce la propria esistenza. Questo fa in modo che l’istituzione sociale del tempo appaia ai suoi consociati come un qualcosa di naturale e mai come la più sosticata delle tecnologie sociali prodotte dall’azione reciproca, con la quale l’uomo ri-crea quello spazio d’appoggio organicamente mancante nel divenire. Le forme del tempo sono per tale ragione più della somma delle parti di cui si compongono - espresse dai calendari, dagli orologi, dai meridiani, dalle mitologie, dalle leggi della storia, ecc. – con le quali ciascuna cultura ha da sempre costruito, rappresentato, oggettivato, strutturato, codicato e misurato il tempo. Ciascuna di queste parti è il contenuto manifesto e socialmente variabile di una funzione latente della forma

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del tempo che è quella di stabilizzare l’uomo all’interno di determinate visioni durevoli del mondo (weltanschauungen). È per questo che, ad esempio, così come di una torre campanaria che segna le ore noi possiamo scorgere solo ciò che si eleva dal suolo ma non le sue fondamenta radicate nel terreno così, in termini generali, dell’immaginario della cristianità che l’ha edicata noi possiamo scorgere solo il contenuto manifesto della sua visione escatologica ma non le sue fondamenta inconsce, che mettono radici in quel desiderio latente trans-culturale dell’uomo di stabilizzare il divenire. Se la differenza tra spazio e luogo risiede nel fatto che il primo è una generica astrazione del pensiero, come lo sono le forme della geometria, ed il secondo è uno spazio qualicato dall’essere vissuto, probabilmente lo stesso Bergson condividerebbe questa lettura della forma del tempo in termini di luogo, di spazio qualicato dall’attività dell’immaginario sociale. Come è noto, il losofo francese fu un acerrimo nemico, e a ragione, di tutte le letture spaziali della temporalità essendo che fossero foriere di una declinazione inautentica della durata3. La durata autentica era, infatti, per lui un usso determinato non dalla giustapposizione spaziale di segmenti – come, ad esempio, accade nel tempo dell’orologio fatto di spazi segmentati in secondi, minuti, ore - ma dalla concatenazione di attimi compresi l’uno nell’altro. Per Bergson l’ascolto di un brano musicale esprime bene l’esperienza della durata autentica, anche quella scandita dal bilanciere di un pendolo4. La nostra mente, pur percependo 3

4

Cfr. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, cfr. dello stesso autore anche Durata e simultaneità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004. Un’analisi più attenta con il pensiero della durata in Bergson sarà sviluppata successivamente a proposito della estinzione della durata nella vita quotidiana. Scrive Bergson: «Quando le oscillazioni regolari di un bilanciere ci invitano al sonno, questo effetto è forse prodotto dall’ultimo suono inteso, dall’ultimo movimento percepito? No, senza dubbio, perché allora non si capirebbe per quale motivo il primo non abbia già agito così.[…]Ma la verità è che ogni aggiunta di eccitazione si organizza con le eccitazioni precedenti, e che l’insieme ci fa l’effetto di una frase musicale sempre sul punto di terminare e che, per il sopraggiungere di una nuova nota, si modichi senza posa.[…]La vera durata, quella che la coscienza percepisce, dovrebbe quindi essere classicata tra le cosiddette grandezze intensive, sempre che le intensità possano chiamarsi grandezze; in realtà, non si tratta di una quantità, e non appena si cerchi di misurarla le si sostituisce inconsciamente lo spazio». In Saggio sui dati immediati della coscienza, op. cit., pp. 69-70.

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in modo distinto i diversi attimi di cui si compone il usso sonoro del brano che stiamo ascoltando, non li somma tra loro ma li coglie come parti inseparabili di un tutto melodico. L’immaginario, non essendo uno spazio sico e ancor meno uno spazio geometrico misurabile, è proprio quel luogo conformativo senza il quale non sarebbe possibile nessuna melodia, di cui parla il losofo francese. La musica stessa non fa che essere, d’altronde, una specica messa in forma del tempo. Il musicista, attraverso una successione di note disposte ritmicamente, ri-compone quella nebulosa sonora emessa sia dalla prima natura – il battito del cuore, del respiro, delle sue mani, il fruscio del vento, il moto delle onde, ecc. – che dalla natura sociale – il vocio di una piazza, il rumore emesso dal trafco degli automezzi, i tumulti di una guerra, il canto disarticolato delle macchine di una fabbrica, ecc. – dandole una forma sonora coerente e riconoscibile. La conditio sine qua non di ricomposizione della nebulosa sonora ha luogo proprio nell’immaginario del musicista. È da questa fucina creativa che la melodia diventa quel paesaggio melodico che è più della somma delle diverse fonti sonore giunte all’orecchio del musicista. La questione è che così come la mente del musicista crea un paesaggio melodico mettendo in forma il caos sonoro, analogamente la mente collettiva mette in forma il caos del divenire istituendo il tempo sociale. Entrambe le forme, quella musicale e quella sociale, trovano, infatti, nell’immaginario il loro comune centro energetico crono-poietico. È collocandosi in esso che, sia in termini individuali che collettivi, l’uomo si sottrae al mero uire delle cose potendo così trovare quella giusta distanza dal caos percettivo e dando luogo ad un determinato ordine riconoscibile come lo è, appunto, una melodia. Bergson, nell’associare l’esperienza della durata del tempo all’ascolto della melodia musicale, non mette a fuoco come entrambe siano possibili in quanto l’esito di un incrocio tra usso (fatto di attimi e di note) e ordine ( la forma del tempo e la forma melodica). È la stessa critica che Bachelard muove alla lettura bergsoniana, parlando della durata in termini dialettici: Presa così nel suo aspetto analitico, un’andatura temporale non avrà dunque diritto, in prima battuta, alla qualità di continuo; o almeno, afnché la continuità di un’andatura temporale sia fedele, reale, sicura, bisognerà che gli intervalli siano correttamente pianicati. Senza questa pianicazione interna, la forma non terrà; sparirà come abbozzo mancato: bisogna dunque sostenere la continuità mediante la solidità.5 5

G. Bachelard G., La dialettica della durata, Bompiani, Milano 2010, p. 226.

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Per cogliere l’andatura del divenire come continuo - ciò che per Bergson è il uire del tempo sganciato da ogni comprensione in termini di spazio – occorre, come giustamente dice Bachelard, una pianicazione degli intervalli per dar forma sostanziale ad esso, così come in musica il usso sonoro è pianicato dal ritmo6 delle pause. Nella mia prospettiva l’immaginario è l’energia crono-poietica che da luogo a questa pianicazione, essendo esso stesso l’intervallo degli intervalli grazie al quale, attimo dopo attimo, usciamo dal continuo della temporalità, che trascina la vita animale in un eterno presente in movimento, per costruire la forma melodica del tempo. È grazie a questa melodia istituita dalle forme del tempo che tutte le altre forme sociali – religiose, politiche, economiche, ludiche, ecc. – trovano quella partitura comune entro la quale poter scandire i propri tempi, poterli coordinare tra loro ed anche poterli far perdurare al di là dei ponti generazionali. La vita individuale, facendo quotidianamente la spola tra queste diverse forme sociali, è anch’essa ovviamente collocata all’interno di questa melodia al punto che i suoi stessi tempi - del dormire, del risveglio, del nutrirsi, del lavoro, del riposo, dell’intimità, dell’ozio, del gioco, ecc. – sono sincronizzati e disciplinati dai ritmi delle forme sociali del tempo. È per questo che, come si diceva, tra tutte le forme coltivate dall’azione reciproca quella del tempo occupa un ruolo di assoluta centralità essendo quel luogo comune grazie al quale l’uomo abita stabilmente il divenire affrancandosi socialmente dal suo disorientamento organico. La forma del tempo, essendo quel luogo abitativo grazie al quale gli uomini trovano quell’orientamento naturalmente mancante entrando così nella dinamica della seconda natura, può essere considerata più precisamente in termini di crono-architettura (g. 3).

6

Cfr. V. Cicero, Istante durata ritmo. Il tempo nell’epistemologia surrazionalista di Bachelard, Vita e Pensiero, Milano 2007. Colgo l’occasione di questa nota per ringraziare Enzo Cicero per le suggestioni che mi ha dato nelle nostre conversazioni sul rapporto tra Bergson e Bachelard.

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Figura 3, disegno di Giovanni La Fauci

È questo lo strumento analitico che, dopo aver risposto al primo quesito, possiamo raccogliere e che ci permetterà di leggere le forme del tempo, la più stabile delle forme sociali, come quello spazio architettato ad arte grazie al quale l’uomo trova un posto alla sua ex-sistentia, al suo ‘star fuori’ dall’immediatezza del tempo naturale. Scrive Norberg-Schulz in Esistenza, spazio e architettura: Chiunque elegga entro il suo ambiente un luogo in cui stabilirsi e vivere, è creatore di uno spazio espressivo. Con la sua scelta l’individuo dà signicato all’ambiente, assimilandolo ai suoi scopi, e adattandosi allo stesso tempo alle condizioni che sono ad esso pertinenti.[…]Lo spazio architettonico può essere considerato quindi denito una concretizzazione dello spazio esistenziale dell’uomo.7

Anche la crono-architettura può essere denita come uno spazio esistenziale dell’uomo poiché essa è quel luogo senza estensione in cui esso si stabilisce e vive dando signicato al divenire dell’ambiente, sia esso quello naturale che sociale. Essa, è inoltre quello spazio di conformazione che non esiste in sé essendo sempre edicata a partire da un determinato genius loci, da quello spirito del luogo proprio di ciascun ambiente nel quale ciascun 7

C. Norberg-Schulz, Esistenza Spazio Architettura, Ofcina Edizioni, Roma 1982, p. 14.

Dare spazio al divenire: la crono-architettura

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mondo sociale è collocato. Basti pensare come, ad esempio, il tempo architettato dalle società nomadiche che vivono attraversando lo spazio, quelle stanziali centrate sulla produzione agricola e l’allevamento, quelle metropolitane basate sulla cesura tra cicli naturali e ritmi sociali, esprimano in questi ambienti tra loro eterogenei crono-architetture altrettanto diverse. Dunque, così come l’uomo da luogo al vivere in comune normando lo spazio sico attraverso determinati segni - menhir, tombe, templi, edici monumentali, città, ecc. – così egli parimenti con le crono-architetture non fa che normare il perpetuum mobile della temporalità istituendo dei segni discontinui – attraverso le meridiane, i calendari, le ricorrenze di eventi importanti, le ritualità religiose e politiche, ecc. - grazie ai quali dà luogo al senso del prima e del dopo, del passato e del futuro, dell’efmero e del duraturo, del vivere in comune. D’altronde, sia le prime che le seconde tipologie di luoghi estese nello spazio, che le seconde estese nel tempo sono le facce di una stessa medaglia che trova il suo conio nelle diverse visioni del mondo (weltanschauungen) espresse da ciascuna natura sociale. È questa inseparabile unità che rende impossibile parlare del tempo senza ricorrere allo spazio e viceversa, così come si è accorta la stessa sica del ’900 a partire da Einstein8. Quando lo stesso acutissimo Bergson, dialogando con le teorie siche di quegli stessi anni, parla della durata in termini di istanti l’uno dentro l’altro non può prescindere dall’utilizzare lo spazio in termini di contenitore nel quale tali istanti si straticano. 8

Einstein con la formulazione della teoria della relatività secondo la quale il tempo non è assoluto, ma dipende dalla velocità (quella della luce è una costante universale: c = circa 299.792,458 km al secondo) e dal riferimento spaziale che si prende in considerazione non fa che riferirsi a questa inscindibile unità tra spazio e tempo. Secondo Einstein infatti è più corretto parlare di spaziotempo, perché i due aspetti sono inscindibilmente in relazione tra loro: «La simultaneità di due eventi determinati in riferimento a un sistema inerziale implica la simultaneità di tali eventi in riferimento a tutti i sistemi inerziali. Questo è ciò che si intende quando diciamo che il tempo della meccanica classica è assoluto. Diversamente accade secondo la teoria della relatività ristretta. La somma totale degli eventi che sono simultanei con un evento prescelto esiste, è vero, in relazione a un particolare sistema inerziale. Il continuo quadridimensionale non può più ora venire scisso oggettivamente in sezioni, le quali tutte contengono eventi simultanei; il termine adesso perde per il mondo spazialmente esteso il suo signicato oggettivo. È a causa di ciò che lo spazio e il tempo debbono venir considerati come un continuo quadridimensionale che è oggettivamente inscindibile, se si desidera esprimere il contenuto delle relazioni oggettive senza un’inutile arbitrarietà convenzionale». In A. Einstein, Relatività: esposizione divulgativa, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 305-306.

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3. ABITARE TRA STORIA E QUOTIDIANO: LA CROCE DEL TEMPO

È a questo punto che possiamo porre la seconda domanda: che forma ha il tempo? Domanda che alla luce del discorso n qui condotto potremmo riformulare in termini più precisi in questo modo: che forma ha la cronoarchitettura? La forma di una croce. Presente in molteplici pitture rupestri del neolitico ed anche come segno nelle prime forme di scrittura mesopotamica, la croce è uno di quei simboli che giace in quel bacino energetico dell’inconscio collettivo di cui ci parla Jung1 e che ha trovato nelle religioni misteriche i suoi luoghi tradizionali di emersione. In un saggio del 1931 intitolato proprio Il simbolismo della croce2 René Guenon, uno dei massimi studiosi delle dottrine tradizionali, ha evidenziato come tale segno compaia non solo nell’immaginario religioso del Cristianesimo ma anche in quello di Taoismo, Induismo, Islam, Ebraismo, Ermetismo. La croce, al di là delle speciche valenze simboliche espresse da questi immaginari tradizionali, è ciò che esprime al suo fondo la complementarietà tra una dimensione mondana essoterica, espressa dall’asse orizzontale, e una dimensione metasica esoterica, espressa dall’asse verticale. L’uomo illuminato3, per queste visioni mistico-religiose, è colui che abita all’incrocio di questa complementarietà armonizzando 1 2 3

Cfr. C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 1992. R. Guenon, Il simbolismo della croce, Rusconi Editore, Milano 1973. Scrive a tal proposito Guenon: «La realizzazione dell’Uomo Universale viene simboleggiata, dalla maggior parte delle dottrine tradizionali, con un segno[…]: si tratta del segno della croce, che rappresenta perfettamente il modo in cui viene raggiunta tale realizzazione, mediante la comunione perfetta della totalità degli stati dell’essere.[…] Il senso verticale rappresenta la gerarchia degli stati multipli, ognuno dei quali, considerato nella sua integralità, rappresenta un insieme di possibilità corrispondente a uno dei tanti modi o gradi che sono compresi nella sintesi totale dell’Uomo Universale. In questa rappresentazione della croce, l’espansione orizzontale corrisponde dunque all’indenità di modalità possibili della individualità soggette a condizioni particolari di manifestazione». Ivi, pp. 33-34.

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la molteplicità del suo divenire individuale nel mondo sociale – l’asse orizzontale – secondo dei principi sacri atemporali – l’asse verticale. Anche nelle architetture con le quali l’uomo ha segnato lo spazio la croce ha trovato il suo luogo di emersione, ne sono ad esempio testimonianza: le grandi piramidi della civiltà Egizia edicate con un alto grado di precisione seguendo l’incrocio dei punti cardinali; le città romane organizzate attorno all’umbilicus, ovvero il punto di incrocio tra cardo, quell’asse che va da nord a sud, e il decumanus, che va da est ad ovest, axis mundi da cui si genera la pianta urbana veniva divisa in quartieri; le chiese cristiane il cui altare è orientato ad est lì dove il at lux della Genesi viene ritrovato ogni giorno con il sorgere del sole in opposizione all’ovest dove il sole tramonta. Ancora oggi la croce, se pur spogliata di ogni valore sacrale, trova i suoi luoghi profani di emersione negli assi della latitudine e della longitudine dal cui incrocio si ricavano le coordinate geograche; nella bussola in cui il suo ago calamitato gira allineandosi lungo le linee del campo magnetico terrestre nord-sud permettendo l’individuazione dei punti cardinali; o ancora lo stesso quadrante dell’orologio, anch’esso diviso in quarti dall’asse verticale che trova alle ore 12 e 6 il suo nord ed il suo sud e dall’asse orizzontale che trova il suo est ed il suo ovest alle ore 3 e 9. In tutte queste diverse declinazioni sacre e profane, si comprende come la croce attraverso la sua complementarietà tra opposti sia quel segno archetipico grazie al quale l’uomo si orienta nello spazio-tempo. È per questo che anche le crono-architetture – che edicano più specicatamente spazi d’orientamento nel divenire – sono anch’esse caratterizzate da questa forma ancestrale. Al di là degli stili, geo-culturalmente variabili, che architettano il tempo sociale, la complementarietà della croce viene data tra l’asse verticale della storia e l’asse orizzontale del quotidiano. La dinamica sociale espressa da ogni natura sociale nasce infatti dall’incrocio tra un tempo sedimentato dalla memoria collettiva che non passa ed un tempo uido che, diversamente, un giorno dopo l’altro, continuamente muore e nasce. È per questo che alla domanda “che forma hanno le crono-architetture?”, la croce è non solo la risposta, ma anche quell’altro strumento analitico che possiamo raccogliere in quanto segno archetipico fondativo di ogni messa in forma del tempo. Vediamo di qualicare meglio questa complementarietà considerando per un attimo separatamente l’asse verticale della storia e l’asse orizzontale del quotidiano, in modo da rendere più incisivo lo strumento analitico della croce del tempo di cui ci serviremo nelle parti successive.

Abitare tra storia e quotidiano: la croce del tempo

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Partiamo dall’asse verticale che nelle crono-architetture edica il senso della storia. Simmel così denisce la forma della storia: Già il semplice dare un nome ad un qualcosa che è o accade, il suo puramente potenziale esser-storico, esige una certa misura di comprensione senza di cui esso sarebbe una inqualicabile e indistinguibile X. Se un accadimento lo deniamo come una battaglia, o come la costruzione di un canale, se un agire lo deniamo come dominare o come produrre, persino se lo deniamo incomprensibile, alla base v’è una comprensione di principio. Ora, però, quel che in primo luogo appare del tutto paradossale è che questa comprensione di per sé non ha niente a che fare con la realtà storica in quanto tale, ma è qualcosa di completamente atemporale.4

La storia è dunque quella cornice di senso al cui interno vengono collocati determinati accadimenti diventando signicativi per ciascuna comunità. Essa, come dice lo stesso Simmel, non ha niente a che fare con i fatti prodotti dalla realtà storica in quanto tale ma è qualcosa di atemporale poiché li trascende ordinandoli all’interno di un determinato racconto. È questa caratteristica di atemporalità che fa della storia quell’asse verticale sso delle crono-architetture grazie al quale si crea quella misura di comprensione di ogni singolo accadimento permettendone la narrazione, la storicizzazione. Come scrive Paul Ricoeur, tra tempo e racconto esiste una circolarità che attraversa tutte le culture umane: Esiste tra l’attività di raccontare una storia e il carattere temporale dell’esperienza umana una correlazione che non è puramente accidentale, ma presenta una forma di necessità transulturale. O, in altri termini, che il tempo diviene tempo umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo, e che il racconto raggiunge la sua piena signicazione quando diventa una condizione dell’esistenza temporale.5

Se la storia è questo ordine del discorso meta-narrativo - proprio perché posto da ciascuna comunità al di là di ogni singolo accadimento - si comprende come tale grande racconto sia quella cornice di senso costruita da ciascun immaginario sociale. Come abbiamo detto l’immaginario sociale è quella energia crono-poietica endogena ad ogni comunità umana grazie alla quale essa esce dal caos della prima natura elevandosi verso un ordine durevole del mondo. Paolo Jedlowski, ponendosi la domanda sul senso del narrare, da una efcace risposta dicendo che: «il racconto è un discor4 5

G. Simmel, La forma della storia, Edizioni 10/17, Salerno 1986, pp. 34-35. P. Ricoeur, Tempo e racconto, Jaca Book, Milano 1986, p. 91.

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so che apre un mondo all’immaginazione»6. Se si estende la risposta data da Jedlowski alla storia, intesa quindi come grande racconto, essa risulta essere ciò che apre un mondo all’immaginario sociale, grazie al quale gli uomini dimorano stabilmente nel divenire, costruendo determinate idee del tempo. L’idea presso la cultura classica di immortalare, attraverso la poesia e la storiograa, fatti e personaggi strappandoli alla vanità della vita, l’idea escatologica della resurrezione dei morti alla ne dei tempi generata dall’immaginario teologico del cristianesimo o l’idea teleologica del progresso generata dalle grandi ideologie marxiste o liberali della Modernità, sono tutti esempi di quelle visioni del mondo che hanno man mano architettato in occidente l’asse verticale della storia costruendo crono-logie, grandi racconti sull’origine e la direzione del tempo. Dunque, l’asse verticale della storia trova nella terra caotica della prima natura le sue fondamenta e la sua elevazione nel cielo delle visioni del mondo con le quali ciascuna comunità umana istituisce un ordine discorsivo normando il divenire del mondo. Attorno a questo asse gli eventi che attraversano ciascuna natura sociale vengono, da un lato, com-presi nel c’era una volta della memoria collettiva e, dall’altro, proiettati nel ci sarà ancora un’altra volta del senso del futuro. È grazie a questo asse compreso tra sud e nord, tra terra e cielo, tra passato e futuro, che le crono-architetture creano l’illusione collettiva di quel principio atemporale del tempo grazie al quale la seconda natura riesce a trasgurarsi al di là del ricambio generazionale. L’asse orizzontale della croce del tempo, come dicevamo, esprime invece la temporalità del quotidiano. Appoggiandosi all’alternanza dei processi naturali – il succedersi del giorno e della notte, delle fasi lunari, degli equinozi e dei solstizi, delle stagioni, ecc. – essa ri-crea un tempo che continuamente muore e nasce. Se l’asse verticale della storia è caratterizzato da un tempo sincronico che non passa, poiché conserva all’interno delle meta-narrazioni il senso del passato e del futuro, quello dell’asse orizzontale del quotidiano è un tempo diacronico che organizza l’incessante ondeggiare della vita sociale. Ciò di cui si compone questo continuo ondeggiare è l’azione reciproca nelle sue diverse declinazioni micro-molecolari così come le denisce sempre lo stesso Simmel: Qui si tratta quasi di processi microscopici-molecolari all’interno del materiale umano, i quali però costituiscono l’accadere reale che si concatena o si ipostatizza in quelle unità e sistemi macroscopici e stabili. Il fatto che gli 6

P. Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 24.

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uomini si guardano l’un l’altro e che sono reciprocamente gelosi; il fatto che si scrivono lettere o pranzano insieme; il fatto che riescono simpatici o antipatici prescindendo completamente da tutti gli interessi tangibili; il fatto che la gratitudine per la prestazione altruistica produce nel tempo un vincolo indissolubile; il fatto che uno chiede la strada all’altro o si veste e si adorna per l’altro – tutte le mille relazioni che si riettono da persona a persona, momentanee o durevoli, coscienti o inconsce, superciali o ricche di effetti, da cui questi esempi sono scelti del tutto a caso, ci legano in modo indissolubile. In ogni attimo questi li vengono lati, vengono lasciati cadere, ripresi di nuovo sostituiti da altri, intessuti con altri. Qui risiedono le azioni reciproche – accessibili soltanto alla microscopia psicologica - tra gli atomi della società, che sorreggono tutta la tenacia ed elasticità, tutta la varietà e unitarietà di questa vita così chiara e così enigmatica della società.7

L’asse orizzontale delle crono-architetture è ciò che costituisce quei sistemi macroscopici stabili, di cui scrive Simmel, permettendo quotidianamente ai diversi processi microscopici-molecolari dell’azione reciproca di ipostatizzarsi. Le meridiane, gli orologi, i calendari, le ricorrenze sacre e profane, sono alcuni esempi di questi sistemi organizzativi grazi ai quali vengono create quelle unità di misura standard capaci di concatenare tra loro il farsi e disfarsi dell’azione reciproca. Come scrivono Berger e Luckmann8, il quotidiano è quel luogo sociale caratterizzato da una compresenza di palcoscenici teatrali tra loro differenti dove costantemente l’attore sociale entra ed esce interpretando ruoli tra loro differenti. Il tempo organizzativo del quotidiano è ciò che scandisce i tempi scenici di tali entrate ed uscite permettendo all’attore sociale di far parte della molteplicità della vita sociale all’interno di una cornice sovra-individuale. Questa partecipazione dell’individuo alla molteplicità della vita sociale organizzata secondo misure standard – fatte di minuti, ore, mesi, anni – crea anche quel crono-perimetro di riferimento entro il quale la sua vita incontra il tempo in due punti opposti: la routine e l’esperienza9. Quando l’azione reciproca messa in scena dall’individuo sui diversi palcoscenici del quotidiano si ripete uguale a se stessa esso entra passivamente nel tempo routinario, quando questa ripetizione viene rotta per l’irrompere di un qualcosa di inconsueto egli incontra invece il tempo dell’esperienza. Se il tempo ripetitivo della routine da un punto di vista quantitativo è assolutamente maggiore, 7 8 9

G. Simmel, Sociologia, Edizioni di Comunità, Torino 1998, pp. 20-21. Cfr. P. L. Berger / T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Milano 1969. Cfr. P. Jedlowski, Il Sapere dell’esperienza, il Saggiatore, Milano 1994.

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poiché comprende la maggior parte del tempo individuale, il secondo quello dell’esperienza da un punto di vista qualitativo è incomparabilmente più signicativo. L’individuo, partecipando ai processi routinari, non fa che riprodurre le ritualità rassicuranti di un mondo dato per scontato, refrattario al nuovo, ma è con l’esperienza che diversamente egli destruttura tali certezze entrando in un tempo perturbante che, proprio per questo, ha in sé la capacità di trasformarlo. Accettando quel paradosso incarnato dal sociologo d’essere osservatore dei fenomeni sociali e parte stessa di tali fenomeni, mi permetto di riportare una mia personale esperienza nella quale ho potuto direttamente cogliere questo doppio livello del tempo quotidiano. Proprio in questi giorni ho avuto infatti l’occasione, insieme ad un gruppo di una cinquantina di persone, di organizzare una iniziativa di rivitalizzazione culturale all’interno di una delle tante cattedrali del deserto che la mitologia dell’industrializzazione ha sparso nei territori più pregiati del Meridione deturpandoli. Nel caso specico, tale cattedrale era ciò che restava di un cantiere navale che avrebbe dovuto costruire alisca, posto proprio sulla punta messinese della Sicilia nel borgo di pescatori di Torre Faro. Questo ex-cantiere, dopo un periodo di alcuni mesi di preparazione e di allestimento, per tre giorni esso è stato trasformato in un bene comune diventando luogo espositivo, teatrale e di socializzazione aperto alla cittadinanza. L’esperienza è stata talmente sentita e forte da creare quella che Maffesoli chiama una comunità emozionale10, rendendo difcoltoso il rientro nella routine poiché ciascuno sentiva che una parte di sé era stata trasformata da questo inconsueto accadere. Naturalmente tale esperienza è stata resa possibile proprio grazie all’esistenza del tempo routinario senza il quale tale esperienza non avrebbe trovato il suo carattere di stato d’eccezione. La routine, con il suo carattere conservativo, e l’esperienza, con il suo carattere sovversivo, sono infatti intimamente legati formando i due estremi dell’asse orizzontale del tempo quotidiano nel quale l’individuo oscilla tra ri-produzione e produzione del tempo. Aver specicato questi due assi delle crono-architetture non ci deve far dimenticare che esse esprimono una complementarietà poiché ciascuna natura sociale edica - con stili e modalità differenti - crono-architetture abitando all’incrocio tra l’orizzontalità mobile del tempo quotidiano e la verticalità ssa della storia. Il primo traccia nella natura sociale l’alveo entro il quale scorre il continuo ondeggiare micro-molecolare dell’azione reciproca organizzato secondo determinate scansioni; il secondo eleva nella natura sociale il palazzo del senso facendolo svettare verso il cielo 10

Cfr. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, Armando Editore, Roma 1988.

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meta-narrativo in modo da renderlo quel punto visibile capace di orientare, tra passato e futuro, il continuo ondeggiare del quotidiano. L’orizzonte del quotidiano e la verticalità della storia, in quanto elementi complementari, esistono l’uno in funzione dell’altra11, formando appunto quella croce del tempo grazie alla quale l’uomo architetta un preciso orientamento nel divenire.

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Scrive a tal proposito il losofo psicoanalista greco Cornelius Castoriadis: «Il tempo istituito come tempo identitario, o tempo di orientamento-individuazione, è quello relativo alla sua misurazione o all’imposizione al tempo di una misura, e come tale contiene una segmentazione in parti identiche[…]. È il tempo del calendario, con le sue divisioni numeriche, in massima parte appoggiate alla periodicità dei fenomeni naturali (giorni, mesi lunari, stagioni, anni), poi perfezionate in funzione d’una elaborazione logico-scientica, ma sempre in riferimento a fenomeni spaziali.[…]Il tempo identitario è tempo solo perché è riferito al tempo immaginario che gli conferisce il suo signicato di tempo; e il tempo immaginario sarebbe indenibile, irreperibile, inafferrabile – cioè non sarebbe nulla – al di fuori del tempo identitario.[…]Ciò che accade nel tempo immaginario non è semplice ripetizione di un evento che ha luogo nel tempo identitario, ma costituisce una manifestazione essenziale dell’ordine del mondo, così come esso è istituito dalla società considerata, manifestazione delle forze che la animano, dei momenti privilegiati di attività sociale relativamente al lavoro, ai riti, alle feste o alla politica». Ivi, pp. 58-59.

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4. LA LINEA, IL CERCHIO E LA METAMORFOSI: LA SPIRALE DELLE MODERNITÀ

Come tutte le forme anche le crono-architetture che mettono in croce il tempo sociale nascono e muoiono, ed è qui che arriviamo all’ultima delle tre domande: in cosa consiste il loro processo di metamorfosi? Non tutta l’esperienza sociale della temporalità si consuma ordinata all’interno delle architetture che danno forma al tempo. Al loro esterno scorre una dinamica della vita sociale disordinata che le assedia costantemente nel continuo farsi e disfarsi dell’azione reciproca. All’ombra delle crono-architetture che irregimentano la temporalità non c’è momento che l’agire per, contro, con, assieme, senza l’altro/i trovi sosta. Il suo usso, che nell’asse orizzontale del quotidiano trova la sua fonte principale, restituisce un’esperienza della temporalità più vitale ed articolata che spesso è in contraddizione con l’asse verticale della storia che ne guida la direzione in un determinato uni-verso meta-narrativo. Si potrebbe dire che il uire vitale dell’azione reciproca è quel tempo a-storico che edica e nutre di legittimità un determinato immaginario meta-narrativo attorno al quale essa può ri-trovare il senso storico della sua dinamica un giorno dopo l’altro. Come si diceva, l’uno è complementare all’altro come gli assi di una croce. È Nietzsche che denisce questa complementarietà parlando di storia e non storico: Ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà.[…]Ciò che non è storico assomiglia a un’atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi, per sparire di nuovo con la distruzione di quest’atmosfera. È vero, solo per il fatto che l’uomo pensando, ripensando, paragonando, separando, unendo, limita quell’elemento non storico, solo per il fatto che dentro quella avvolgente nuvola di vapore nasce un chiaro e lampeggiante raggio di luce – cioè solo per la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diventa uomo: ma in un eccesso di storia l’uomo viene nuovamente meno, e senza quell’involucro del non storico non avrebbe mai cominciato e non oserebbe mai cominciare.1 1

F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 2003, pp. 10-11.

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L’oscillare continuo dell’azione reciproca tra il suo essere quel lampeggiante raggio di luce - che da un passato ad un futuro orienta l’individuo, un popolo e una civiltà lungo l’asse verticale della storia - ed il suo essere quella avvolgente nuvola di vapore – che prepara in una dimensione non storica tale lampo - è ciò che da un ritmo discontinuo alla dinamica sociale fatto di cambiamento e mutamento, di crescita e metamorfosi. Quando questo ritmo, scandito dall’azione reciproca, scorre prevalentemente all’interno delle crono-architetture dominanti siamo nel cambiamento sociale o crescita in termini morfologici. In esso, il nuovo, portato dal ricambio generazionale assume una connotazione costruens contribuendo ad accrescere la memoria e l’identità del contesto sociale e con esso lo slancio vitale verso il futuro. Quando questo uire micromolecolare dell’azione reciproca esonda dagli argini organizzativi tracciati dall’asse orizzontale del quotidiano germogliando nuove visioni durevoli del senso verticale della storia inizia a prodursi quel processo di metamorfosi delle crono-architetture. Qui, il nuovo ha una connotazione destruens non riuscendo ad essere assimilato dalle crono-architetture le quali, per questo, vi si oppongono irrigidendosi come ultimo tentativo di resistenza. Il prevalere di questo tempo uidicato è ciò che invecchia le crono-architetture esistenti, annunciando l’esigenza di una nuova espressione della potenza cronopoietica capace di oggettivarla nella solidità di una nuova crono-logia. La metamorfosi sociale, dunque, è ciò che nasce da questa nuvola non storica dell’azione reciproca che avvolge l’orizzonte quotidiano. Con il suo lampo mostra la sua potenza dirompente illuminando l’inizio di una nuova storia sociale capace di liberare dal «c’era una volta…» istituito dalla precedente crono-architettura. Le forme del tempo che architettano il tempo svolgendo, come abbiamo detto, un ruolo centrale nella natura sociale nel momento in cui si trovano attraversate da questo processo metamorco generano un mutamento in tutte le altre forme sociali. È per tale ragione che prima di aforare nello spazio sociale il mutamento si annuncia sempre nella metamorfosi del tempo attraverso una nuova visione del mondo generata da nuove modalità di azione reciproca. Tre fasi distinte si possono identicare nella metamorfosi sociale: la fase pre-liminare, liminare e post-liminare. Nella fase pre-liminare, accade che dall’effervescenza dello scambio sociale emergono nuove pratiche organizzative del quotidiano ed elementi di un nuovo immaginario sociale con il quale una determinata elite

La linea, il cerchio e la metamorfosi: la spirale delle modernità

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costruisce una nuova visione del senso della storia. È da questo incrocio tra quotidiano e storia che comincia ad essere edicata una nuova cronoarchitettura che mette progressivamente in crisi la crono-architettura dominante. Quest’ultima, non trovando più centro nell’energia vitale dello scambio sociale, comincia ad apparire vecchia e inadeguata. Facciamo l’esempio dell’avvento della società borghese. In questo caso, la fase pre-liminare corrisponde a quella in cui la borghesia architetta nuove forme del tempo organizzando sia nuove forme dello scambio materiale, sia elevando un nuovo immaginario sociale che trova nell’illuminismo quel senso futuri-centrico della storia. Man mano che l’azione reciproca darà forma a questo nuovo cantiere del tempo del mercante quello dominante, architettato dal tempo messianico e scandito quotidianamente dalle campane, comincerà ad andare in crisi mostrando il suo carattere conservatore. Da questa crisi pre-liminare, la metamorfosi passa in una fase liminare di ibridazione «fra un non più e un non ancora». In questa fase, la natura sociale è compresa fra i resti della vecchia crono-architettura e la nuova non ancora pienamente nita ed operante. Seguendo l’esempio questa fase di passaggio possiamo identicarla nella fase rivoluzionaria, in cui l’immaginario illuministico borghese, come quel lampeggiante raggio di luce di cui scrive Nietzsche, si appresta a diventare la nuova crono-architettura dominante rompendo la carcassa della vecchia architettura del tempo feudale divenuta oramai posticcia. Ma, non avendo pienamente sviluppato ciò che Marx chiamerebbe la coscienza di classe, la nuova forma del tempo borghese genera forme sociali che si ibridano con quelle tradizionali. È il caso delle forma politica della monarchia-costituzionale espressione ibrida tra l’istituzione del vecchio potere medievale e quello razionale-legale della nuova classe borghese. Quando quest’ultima fase metamorca si dispiega completamente siamo invece nella fase post-liminare, nella quale la con-fusione si cristallizza in una nuova crono-architettura capace di istituire una nuova dinamica sociale incrociando le nuove forme del senso della storia e nuove forme organizzative del quotidiano sociale, in un nuovo mondo di rimpiazzo. È la fase dell’avvenuta trasformazione in cui dalla carcassa della vecchia crono-architettura nel quale abitava il mondo feudale sorge per intero la conformazione della nuova architettura borghese, nella quale la società occidentale troverà domicilio nel divenire abitando all’incrocio

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tra il tempo quotidiano scandito dagli orologi e la metanarrazione della direzione storica del progresso. Naturalmente, queste tappe generali della metamorfosi in ciascuna realtà sociale prendono innite variabili, tante quante sono le storie delle culture; ma, anche se diversamente agiti, questi tre passaggi morfologici ne scandiscono le partiture generali. La metamorfosi sociale, in questa circolarità tra una crono-architettura ed un’altra, se da un lato da una nuova misura alla realtà sociale, dall’altra la ricostruisce sempre attraverso delle permanenze attorno alle quali si addensano nuove forme: politiche, religiose, ludiche, estetiche, economiche, di sapere, di genere, ecc. Per rimanere nel moderno: abbattute nelle piazze europee le istituzioni dell’Ancien Régime il usso vitale rivoluzionario non ha fatto che riuire dalle piazze nella permanenza della politica producendo lo Stato costituzionale; l’espulsione di Monet, Degas, Sisley, Renoir, Cézanne, Pissarro nel 1874 dalla galleria Salon, che deniva gli stilemi della pittura ufciale del tempo, è ciò che segna - con la contro esposizione ospitata nello studio del fotografo Nadar – la nascita del nuovo stile chiamato impressionismo; nel ’900 le novità portate dal principio di indeterminazione di Heisemberg e dalla teoria relativista di Einstein, non riuscendo ad essere assimilate dalla monoliticità della sica newtoniana, la travolgono solidicando nuovi paradigmi scientici. In questa circolarità, dunque, il mutamento non fa che ruotare attorno a queste permanenze - politico, estetico, di sapere per seguire l’esempio precedente – producendo sempre nuove forme di cristallizzazione2. Si potrebbe dire in chiave morfologica che se il mutamento è la circonferenza - dove trova collocazione l’innita variabilità portata dal succedersi delle istituzioni - le permanenze ne sono il loro centro comune che le riconduce a sé in quanto sue espressioni metamorche. È per questo che, ad esempio, se ponessimo nella circonferenza la democrazia ateniese di Pericle, il totalitarismo di Hitler e l’assolutismo di Luigi XIV noteremmo la loro irriducibilità storica mentre, spostandoci dalla parte della permanenza – e cioè l’esigenza della dimensione politica – che ciascuna ne è una sua metamorfosi concreta. Quindi, se la permanenza è l’esigenza a partire dalla quale l’azione reciproca trova un suo nucleo a-storico che la magnetizza - e dunque più che una cosa è una forza centripeta - la forma 2

L’idea di permanenza alla quale mi riferisco è molto vicina all’idea delle forme pure elaborata da Simmel. A tal riguardo cfr. Simmel, Sociologia, op. cit. in part. Cap. I Il problema della sociologia.

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sociale è la sua oggettivazione storicamente data, la sua solidicazione capace di produrre effetti di realtà. In fondo già le prime lenti sociologiche costruite da Comte3 distinguevano tra una osservazione in movimento – che egli riconduceva alla legge dei tre stadi – ed una statica, dove collocava le costanti istituzionali attraverso le quali si ordinava la dinamica sociale. Entrambe le lenti, per lui, dovevano essere tenute assieme sapendo che quella statica studiava l’ordine anatomico dell’organismo sociale – i suoi organi istituzionali mentre quella dinamica la sua siologia. Se lo studio siologico aveva come legge il progresso verso lo stadio positivo, quello anatomico aveva come legge la solidarietà armonica tra i diversi organi istituzionali. Ricollocando il nostro discorso nell’ottica comtiana, si potrebbe ricondurre lo studio delle forme storicamente determinate all’interno della dinamica sociale e quello della permanenza nella statica. Eppure, nonostante le afnità, a prevalere sono le differenze. Proviamo ad evidenziarne i punti di maggiore distanza. Innanzitutto, sebbene anche la morfologia riconduca il fenomeno sociale alla sfera della vita, ciò non è determinato come in Comte da una similitudine ma da una analogia. Se la similitudine comtiana è basata su un parallelismo diretto tra natura e società - che gli permette di estendere direttamente le leggi della prima alla seconda - per la morfologia i due fenomeni restano irriducibili. Lo strumento comparativo dell’analogia, come abbiamo avuto modo di specicare precedentemente, è ciò che mette in relazione natura e società in quanto espressioni particolari di uno stesso ritmo vitale che si sostanzia nel mondo naturale nei suoi diversi organismi e in quello della vita associata dell’uomo nelle sue diverse forme istituzionali. Cosa c’è di comune tra un albero d’ulivo e l’istituzione della chiesa? Niente sul piano della similitudine, ma è sul piano analogico che entrambe sono la risultante di aggregazioni di forze vitali che nel primo caso producono forme vegetali e nel secondo le forme della natura sociale. Tali conformazioni resteranno vive n tanto che l’albero d’ulivo potrà svolgere la sua osmosi clorolliana, resistendo al disordine portato dai quattro elementi, così come l’istituzione Chiesa potrà vivere n tanto che potrà svolgere la conservazione dei sacramenti resistendo al disordine portato dal usso dell’azione reciproca. Se il botanico studia le peculiarità della vita nell’albero d’ulivo, il sociologo le studierà nella peculiarità dell’istituzione ecclesiastica.

3

Cfr. A. Comte, Corso di losoa positiva, UTET, Torino 1967.

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L’altra differenza con Comte è l’idea di proporzione. Come è impossibile pensare lo sviluppo indenito dell’albero d’ulivo così, per il pensiero analogico, è altrettanto impossibile che la Chiesa possa crescere come forma sociale all’innito. La forma cresce sempre in un ritmo morfogenetico proporzionato4 nei suoi punti estremi dalla nascita e dalla morte. Inne, ultimo punto di distanza, è l’a-nalismo del mutamento in opposizione alla visione comtiana di una storia universale irreversibilmente tesa verso lo stadio positivo. Vizio questo non solo della prima sociologia ed antropologia, ma più in generale del pensiero occidentale attraversato ancora oggi da una matrice fortemente etnocentrica. Ponendoci, invece, in un’ottica morfologica, tutto ciò è un non senso. Così come gli alberi non hanno una nalità se non la vita stessa, così il sociale non è inscritto in nessuna teleologia storica positiva dato che la sua sola nalità è trattenere il usso dell’interazione attraverso la durata delle sue tipiche forme di permanenza. Volendo rappresentare gracamente queste due letture del mutamento potremmo usare la linea per la lettura comtiana e la spirale per la mia lettura morfologica. Nel primo caso ogni mutamento anche in presenza di contraddizioni – come ha evidenziato il marxismo attraverso la dialettica conittuale delle classi sociali – è collocato su di un continuum lineare che orienta teleologicamente la storia. La linea, così orientata, diventa una freccia del tempo verso l’armonia dello Stadio positivo (Comte) o verso il Socialismo (Marx) con la ricomposizione della dialettica storica. La spirale è conformata da una linea che, pur avvolgendosi attorno ad uno stesso asse, non trova la sua origine come nel cerchio, forma invece tipicamente riconducibile alla temporalità delle società tradizionali. In un certo senso la spirale, forma presente nei primi organismi e nelle prime rafgurazioni umane, mette insieme linea e cerchio in una forma terza che le trascende entrambe. Ecco allora che se mettessimo nel suo asse le permanenze - attorno alle quali si magnetizza il sociale - e nelle sue spire le differenti conformazioni – le solidicazioni storicamente date – avremmo una rappresentazione del mio concetto di mutamento come si cerca di evidenziare nell’elaborazione graca riportata qui sotto (g. 4).

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Testo classico sulla proporzione delle forme naturali rispetto al loro habitat è il volume di Thompson D’Arcy W., Crescita e forma. La geometria della natura, Bollati Boringhieri, Torino 2001.

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Figura 4a, disegno di Giovanni La Fauci

Figura 4b, disegno di Giovanni La Fauci

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Se, per riprendere l’esempio permanente, la democrazia ateniese, l’assolutismo e il totalitarismo descrivono ciascuno un anello imperfetto ed unico della spirale, la permanenza processuale della politica ne costituisce il loro asse comune. Negli stessi anni in cui Comte fondava la prima lettura organicista del mutamento è un altro francese, che nulla a che fare con la sociologia, a delineare una lettura del mutamento rappresentabile attraverso il nostro modello della spirale: Charles Baudelaire. Ne Il pittore della vita moderna nel denire il bello, al di là del suo valore estetizzante, è lui per primo ad introdurre il concetto di Modernità come evento ciclico5: La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. Vi è stata una modernità per ogni pittore antico; e la maggior parte degli splendidi ritratti che ci restano dei tempi passati indossano i costumi del proprio tempo.[…]E questo elemento transitorio, fuggitivo, dalle metamorfosi così frequenti, nessuno ha il diritto di disprezzare e di trascurare. Quando lo si sopprime, si cade per forza nel vuoto di una bellezza astratta e indenibile.[…]Insomma, perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia tratta fuori la bellezza misteriosa che vi si immette, inconsapevole, la vita umana.6

Se alla parola efmero sostituissimo quella di forma – posta nell’anello della spirale - e alla parola eterno sostituissimo quella di permanenza – il suo asse - ci troveremmo nel quadro del mutamento proposto dalla mia prospettiva morfologica. La modernità, così intesa nel suo signicato originario, non è più una fase positiva ultima della storia - dato che c’è stata una modernità per ogni pittore antico - piuttosto essa si concretizza nel momento in cui si crea una corrispondenza tra l’eterno e l’efmero. Le modernità accadono ciclicamente quando il pittore estrae, dalla contingenza temporale nella quale è collocato, la permanenza dell’eterno in una maschera tipicamente storica e quindi – in termini baudelairiani – transitoria, fuggevole, efmera. È solo quando questa corrispondenza si consuma no in fondo che ciascuna modernità, diventando passato, può lasciare spazio ad un nuovo ed irrepetibile suo anello. All’interno della cornice sociale, è solo quando il usso dell’azione reciproca estrae dall’asse delle permanenze la realtà sociale producendo le sue forme istituzionali che può invecchiare metamorfosandosi in 5 6

Su questo cfr. P. L. Marzo / M. Meo (a cura di), L’eterno e l’efmero. Contributi per una lettura altra del mutamento sociale, Aracne, Roma 2010. C. Baudelaire, Opere, Mondadori, Milano 1996, pp. 1285-1286.

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una sua nuova modernità. Questa lettura della modernità, come fenomeno ciclico mai uguale a se stesso, apre a mio giudizio nuove possibilità interpretative del mutamento sociale facendoci uscire dalla sua visione che l’ha ipostatizzata lungo l’idea lineare del tempo come l’epoca progressiva che succede al Medioevo. Anche il Medioevo stesso è stata quell’epoca moderna che sbucata fuori dalla carcassa dell’epoca romana dopo che quest’ultima, a sua volta, aveva conchiuso l’anello della sua modernità lungo la spirale della nostra civiltà. Va da sé che questa polarità tra modernità e antichità attraversa ogni natura sociale sia essa coltivata su larga scala nelle altre civiltà o su scala ridotta nelle altre culture. La spirale, esprimendo questo ritmo tra forma e movimento, tra eterno ed efmero, è dunque quel terzo strumento analitico che possiamo raccogliere a chiusura della nostra morfologia del tempo.

PARTE III LA CRONO-ARCHITETTURA MONDO Le campane, legate un tempo ai giorni festivi, sono, come gli uomini, estromesse dal calendario. Somigliano alle povere anime, che si agitano molto, ma non hanno una storia. W. Benjamin

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1. LA NATURA TECNICA DEL TEMPO-MONDO

Si stima che metà della popolazione umana, composta attualmente da 7 miliardi di individui, viva in uno spazio urbano. Il dato è solo provvisorio poiché, come è noto, il tessuto urbano non fa che espandersi nello spazio globale producendo città, metropoli e megalopoli. È facile intuire come tale processo, in un rapporto direttamente proporzionale, porti con sé il orire di sempre nuove strutture ed infrastrutture: aeroporti nazionali ed internazionali, stazioni ferroviarie e metropolitane, grandi centri commerciali, ufci per i servizi pubblici e privati oltre che naturalmente strade, piazze e complessi abitativi. Si stima anche che oggi esistano un miliardo di computer nel mondo e che questa cifra cresca di anno in anno a un tasso del 12 %. La loro capillare diffusione veicola, a sua volta, un nuovo fenomeno di urbanizzazione che non si espande nello spazio geograco, ma nello spazio elettricato: quello del World Wide Web. È spostandosi mentalmente nel Web che milioni di utenti quotidianamente fanno esperienza della vita metropolitana di Internet, fatta di strade ipertestuali, siti, luoghi di socializzazione (social network), centri commerciali virtuali, ecc. Quali sono i percorsi tracciati da questi uomini e donne, dai volti l’uno diverso dall’altro, in questi spazi urbani sici ed elettronici? Quali paure, desideri, sogni, progetti o credenze mobilitano i loro corpi e i loro pensieri all’interno di questi labirinti della vita sociale contemporanea? Non ci è dato di saperlo. Neanche la più grande immaginazione riuscirebbe, infatti, a costruire una mappa entro la quale poter rappresentare questi loro inniti percorsi. Altrettanto impossibile sarebbe, poi, riuscire a costruire una immaginaria mappa nella quale poter includere i loro mondi interiori, nei quali questi percorsi trovano il loro centro di mobilitazione. Esistono, tuttavia, dei gesti che accomunano quest’inimmaginabile trama rizomatica umana che, un giorno dopo l’altro, viene tessuta e sciolta in sempre nuove combinazioni formali. Uno sguardo fugace all’orologio che fascia il polso; estrarre dalla tasca lo smartphone per vericare l’ora come se fosse un orologio a cipolla; camminare con la testa a mezz’aria cercando

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di individuare nell’arredo urbano la presenza di un grande quadrante nel quale poter scorgere gli angoli formati dalla lancetta delle ore e dei minuti; vericare l’anticipo o il ritardo di una coincidenza nei display degli arrivi e delle partenze di treni o aerei; vericare se il quotidiano che si sfoglia sia di oggi; cercare con il movimento rapido delle pupille l’icona numerica del tempo ai bordi dello schermo di un computer o di un iPad. Sono questi i gesti quasi impercettibili che, più volte al giorno, vengono ripetuti da miliardi di uomini e donne mentre si spostano nei loro inimmaginabili percorsi sici e mentali. Se è impossibile costruire una mappa spaziale in grado di rappresentarli, tuttavia, la contemporaneità offre la possibilità di costruire una mappa temporale universale capace di includerli. Quei gesti comuni, infatti, sono sintomatici dello scorrere di un solo tempo planetario. È esso che, oltrepassando distanze geograche e culturali, avvolge quei miliardi di individui, dai mondi interiori e sociali così distinti, orientandoli in un solo perimetro temporale. È per tale ragione che possiamo cominciare a chiamare questa sconnata temporalità sociale come tempo-mondo. Il sistema di riferimento universalmente riconosciuto di Grennwich1 è propriamente ciò che istituisce questo tempo-mondo. Sono i suoi 24 fusi orari che, quotidianamente, permettono di sincronizzare le dinamiche degli ecosistemi sociali al movimento rotatorio della Terra. La circolazione dei passeggeri delle rotte aeree, dei ussi mass-mediali digitali, l’interconnessione delle agende delle élite politiche ed economiche trans-nazionali, le brillazioni in tempo reale delle borse mondiali, in una parola il sistema globale contemporaneo sarebbe impensabile senza il tempo-mondo delle ventiquattrore che trova nel meridiano di Greenwich il suo 0 iniziale. Non solo gli orologi mondiali che organizzano i micro-eventi del quotidiano sono sincronizzati in avanti o indietro rispetto alla stella polare di Greenwich, ma anche i macro-eventi della storia uiscono tra i suoi meridiani. Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, ebbene questo effetto farfalla è ciò che oggi caratterizza la sfera unicata della temporalità. In

1

È dall’ottobre del 1884 che la Conferenza Internazionale dei Meridiani riunita a Washington alla presenza del Presidente degli Stati uniti d’America, da 41 delegati provenienti da 25 paesi, si stabilì che dal quartiere londinese di Greenwich sarebbe stato collocato il primo meridiano a partire dal quale sarebbe iniziato alla mezzanotte il calcolo del giorno universale misurato su un orologio di 24 ore. Su questo cfr. D. Guedj, Il metro del mondo, Longanesi, Milano 2004.

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essa, infatti, un evento quotidiano è in grado di provocare istantaneamente un uragano sociale dall’altra parte del mondo. L’attacco alle Torri gemelle di New York l’11 settembre 2001; lo tsunami in Indonesia del 26 dicembre del 2004; la recente crisi economica mondiale innescata nel 2008 dalla economia statunitense con il crollo della banca di investimenti Lehman Brothers sono tutti esempi di quell’effetto farfalla che caratterizza le società contemporanee nell’epoca della loro reciproca interdipendenza. Ciascuno di questi eventi locali non fa che irradiare istantaneamente effetti politici ed economici ovunque come cerchi concentrici prodotti dalla caduta di una pietra in uno specchio d’acqua alimentato dal uire planetario della temporalità contemporanea. Gli effetti di questi cerchi concentrici sono talmente intensi da aver generato anche nello spazio mentale degli uomini un ulteriore grado di coscienza del senso della temporalità capace di entrare sia nella sfera riessiva dell’uomo della strada che in quella dello scienziato sociale. Entrambi, se pur con gradi di consapevolezza diversi, comprendono di esser parte di un solo divenire mondiale in grado di produrre effetti concreti sia nel perimetro della loro vita quotidiana che in quello più ampio della vita associata nella quale mettono radici. Più complessa è, invece, la comprensione della natura di questo tempomondo. Esso non è scandito da intervalli temporali qualsiasi, ma dalla concatenazione di segmenti temporali esatti e calcolabili di varia estensione composti da: secondi, minuti, ore, giorni, anni, secoli e così via. Non solo. Questa scala temporale matematizzata è, inoltre, in grado di scomporre e misurare l’istante sino al nanosecondo pari ad un miliardesimo di secondo. Una unità di misura che, pur sfuggendo ad ogni percezione umana, è costantemente utilizzata nei laboratori mondiali dediti alle ricerche nel campo della telecomunicazione elettronica e della sica delle particelle. Lo stesso accade poi nei laboratori astronomici dove, all’esatto contrario, non si studia l’attimo ma la storia dell’universo iniziata dal Big Bang circa 13,72 miliardi di anni fa, almeno così si crede secondo gli ultimi studi. Naturalmente la vita di tutti i giorni non si svolge negli estremi di questa scala del tempo capace di estendersi, indifferentemente, nelle frazioni innitesimali dell’istante come nella storia universale. La vita di quei miliardi di uomini e donne che quotidianamente controllano l’orario del tempomondo secondo una comune gestualità è, per così dire, compresa nella parte di mezzo di questa scala matematica del tempo in grado di calcolare con la stessa esattezza la dinamica sociale, il usso delle particelle elementari e la dilatazione dell’universo. È questa scansione matematico-quantitativa che dà al uire del tempo-mondo un peculiare carattere cronometrico che

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lo diversica sia dai processi naturali, i quali sfuggono ad ogni esatta calcolabilità, sia dalle ritualità religiose costruite tradizionalmente riferendosi al tempo circolare delle stagioni. La scansione cronometrica del tempomondo si compie astraendosi da ogni processo vitale e culturale, essendo l’espressione di un movimento perpetuo capace di autogenerarsi, così come accade a qualsiasi altra macchina automatizzata, in grado, cioè, di funzionare senza l’intervento esterno di qualcuno o qualcosa. Gli orologi, siano essi a carica o a batteria, sono l’oggettivazione concreta dell’automazione del tempo-mondo, essendo il loro movimento generato da meccanismi e circuiti elettronici riposti al loro interno. È per tale ragione che ad essi non occorre che dall’esterno il sole tracci nel cielo il suo arco come per le meridiane o che la sabbia scorra nell’esile collo delle clessidre o che l’acqua uisca per attivare i meccanismi idraulici degli orologi ad acqua. Non sono solo gli orologi a generare il tempo-mondo. Anche le leggi logico-razionali della storia compongono l’altra metà del tempo-mondo generandone il suo signicato, quel senso che non passa capace di sottrarsi al usso della vita di tutti i giorni scandito dai suoi orologi. Questo particolare connubio tra lògos e historìa ha avuto origine, così come, d’altronde, la diffusione degli orologi, in quella visione tecnico-scientica del mondo occidentale. L’alba di questa nuova visione del mondo ha cominciato a manifestarsi attorno al ‘600 illuminando nel ‘700 le terre europee della luce della ragione. L’800 poi è stato il mezzogiorno che ha tolto ogni ombra di dubbio alla nostra modernità attraverso tutte quelle grandi narrazioni borghesi e proletarie della storia che hanno spinto le masse a rivoluzionare la loro realtà sociale. Oggi che siamo nel tramonto dell’occidente, diagnosticato con un secolo d’anticipo da Oswald Spengler, poco o niente rimane di queste meta-narrazioni per la gioia del pensiero debole post-modernista. La questione, che sfugge a questi rafnati pensatori, è che mai come oggi siamo nello splendore di quella visione tecnico-scientica nata dal cuore della nostra modernità. Essa si è semplicemente, si fa per dire, liberata da tutti quei fronzoli fatti di parole capaci di scaldare gli animi degli occidentali facendoli uscire dalle loro case, per radunarli contro il potere costituito. È grazie a ciò che, nalmente, il progetto della modernità è diventato scarno ed essenziale, conuendo in quella metanarrazione universale della storia basata sullo sviluppo indenito delle tecnologie e delle ricchezze materiali. In fondo, ciò di cui stiamo discutendo è la realizzazione di quello stadio positivo di cui parlava Auguste Comte su scala planetaria. L’unico errore del fondatore della sociologia è che l’asse di rotazione di questo stadio ultimo della storia non è più ad occidente ma ad oriente, lì dove oggi risplende il sole dell’avvenire.

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La visione del tempo-mondo, quella sua metà che costruisce quel senso che resta capace di sottrarsi al usso della vita quotidiana, trova il suo fondamento in questa ideologia neo-positivista transcontinentale. Quel legame nato ad occidente tra logica-strumentale e storia, trasgurandosi in questa visione scientista del tempo-mondo, raggiunge i suoi massimi livelli automatizzandosi. Anche la storia del tempo-mondo, infatti, si compie al di là degli equilibri degli ecosistemi naturali e sociali trovando in sé l’origine del suo movimento così come accade a quella sua metà scandita dal movimento cronometrico degli orologi. È per tale ragione che possiamo cominciare a denire queste due metà automatizzate del tempo-mondo come parti di una sola natura tecnica del tempo. Essa è ciò che determina una vera e propria rivoluzione del tempo umano riuscendo, per la prima volta, a rilegare quella inimmaginabile umanità in un solo quotidiano organizzato dalle scansioni degli orologi ed in una sola storia orientata verso quella visione neo-positivistica del mondo. Comprendere questo nuovo orizzonte rivoluzionario della contemporaneità dischiuso dal tempo-mondo costituirà l’oggetto del mio discorso da questo punto in poi. Come già annunciato nella parte precedente, per far ciò utilizzerò quegli strumenti concettuali ricavati dalla morfologia per analizzare il tempo sociale. In questa terza parte, in particolare, utilizzerò la categoria morfologica della crono-architettura che ho denito come quello spazio senza estensione, qualicato dall’immaginario sociale, grazie al quale ciascuna cultura trova un luogo stabile a partire dal quale il divenire, sociale e naturale, si colora di signicato permettendone così la sua comprensione. Abitando nelle crono-architetture l’uomo, come si diceva, ricrea socialmente l’appoggio organicamente mancante alla sua natura e riesce a camminare come un funambolo al di sopra del usso delle necessità biologiche. Quale è, dunque, la forma del tempo che nella contemporaneità architetta quell’appoggio organicamente mancante a livello mondiale? Quella di una rete cronometrica mondiale. È questa forma che, con le sue architetture, sorregge quella cromosfera tecnica del tempo che fascia la Terra come una sorta di nuova atmosfera. In essa non circolano gas naturali e neanche i gas di scarico della nostra civiltà, ma le vite di quegli uomini e di quelle donne dai visi l’uno diverso dall’altro. Abitando all’interno di questa nuova architettura reticolare del tempo-mondo ciascuno di loro non fa che diventare cittadino del mondo e componente di una sola specie: quella umana. Eppure, questa unicazione mondiale della specie è più della somma delle sue parti essendo alla origine di un suo nuovo destino comune che rende antiquate, o quantomeno di secondo ordine, quelle ripartizioni geograche e culturali che hanno da sempre separato l’umanità in sue innite

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declinazioni, tante quante sono state le idee del tempo. La natura tecnica del tempo, attraverso la sua rete cronometrica, oltrepassa queste divisioni umane troppo umane in un solo divenire di specie che volge verso la natura organica. È da questo ri-volgimento che l’epoca dell’umano tramonta a favore dell’alba di una nuova epoca: quella post-umana. Gli irraggiamenti della sua aurora mostrano pian piano come quella unità aristotelica dello zoòn politikòn, che indicava l’uomo come animale sociale, sia spezzata a favore della dimensione della zoé, della nuda vita non qualicata da nessuna nalità sociale, sia essa religiosa, etica, politica, estetica, ecc. Sintomo di ciò è l’impotenza della politica, di quell’arte del governo esercitata, in modi sempre diversi, da quel pluriverso umano legato ancora alle sue tradizioni geo-culturali. È giunto dunque il momento di far germogliare ed accrescere il seme di questa ancora ipotetica possibilità interpretativa della contemporaneità. Per far ciò, seguendo le indicazioni metodologiche della morfologia goethiana, comincerò analizzando la forma reticolare della crono-architettura mondo da un punto di vista prima statico e poi dinamico. È attraverso questo cambio di ottica che man mano individueremo quegli elementi principali dell’epoca post-umana, nella quale la natura tecnica del tempo-mondo sospinge l’uomo verso la sfera zoologica dove trascorre la vita animale.

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2. LE A-QUALITÀ DELLA RETE CRONOMETRICA

Partiamo dunque dalla rete, che caratterizza l’architettura del tempomondo iniziando ad interrogarci sulla specicità di questa forma. Come è noto, la rete è quell’arnese di lo o fune fatto a maglia per prendere pesci, uccelli e animali selvatici. Nella Roma antica essa era l’arma di una determinata categoria di gladiatori, i reziari, che serviva ad immobilizzare l’avversario rinchiudendolo tra le maglie nelle quali egli era alla mercè del vincitore. Nel Vangelo, invece, la rete è simbolo della cattura delle anime con la quale Gesù radunava gli uomini per iniziarli alla sua parola1; d’altronde anche il Regno dei cieli è paragonato ad una rete che raccoglie ogni anima no alla ne dei tempi quando, con il Giudizio Universale, verrà fatta una selezione tra le anime buone e quelle cattive.2 Secondo la tradizione iraniana, è al contrario l’uomo, il mistico in particolare, che si arma di una rete per tentare di catturare Dio3. Inoltre, in molte tradizioni orientali, il cielo stesso è talvolta paragonato ad una rete, di cui le stelle sarebbero i nodi di maglie invisibili, questo come monito all’impossibilità dell’uomo di sfuggire a questo universo e al potere delle sue leggi4. La rete è, dunque, quell’oggetto concreto o simbolico con il quale si cattura l’animale, l’avversario, l’anima, Dio o il destino stesso dell’uomo. Nella rete cronometrica mondiale tutte queste valenze simboliche e concrete, come vedremo, sono presenti con la differenza che essa non è tessuta con un lo qualsiasi, ma con quello del tempo computato tecni1 2

3 4

«Gesù mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli Simone, detto Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: seguitemi vi farò pescatori di uomini». Matteo 4,18. «Il Regno dei cieli è è simile a una rete gettata nel mare e che raccoglie cose di ogni specie. Una volta riempita e riportata a riva, sedutisi hanno raccolto tutte le cose buone in certe ceste e le cattive le hanno gettate via. Così sarà alla ne del mondo». Matteo 13,48-49. Cfr. J. Chevalier/ A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur, Milano 1994, in Vol. II alla parola rete. Ibidem

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camente. Morfologicamente, ho denito la tecnica come la declinazione umana dell’energia conformatrice della natura che, trovando la sua sorgente nell’azione reciproca, coltiva nei diversi contesti geo-culturali le innite conformazioni della natura sociale. Dunque, anche le forme del tempo sono generate da tale energia tecnica facendo aforare, dal fondo degli immaginari socialmente e storicamente determinati, spazi durevoli nel divenire. Eppure, l’architettura reticolare del tempo-mondo segna un salto costruttivo. Essa è infatti quella forma che afora da un immaginario basato sulla concatenazione del linguaggio numerico. Questo immaginario che sottende la tessitura reticolare del tempo-mondo, come abbiamo visto nel capitolo precedente, ha trovato la sua origine nelle leggi scientiche della Storia e nelle scansioni esatte dell’orologio generate dalla visione del mondo occidentale. Sono queste due macchine del tempo, divenute patrimonio dell’intera umanità, che oggi tessono il lo della rete che avvolge l’intero mondo in una crono-architettura d’ordine cibernetico. È essa quella disciplina tecno-scientica che studia i fenomeni di autoregolazione mettendo in relazione i controlli automatici delle macchine, i controlli adattativi degli animali e la teoria dell’informazione attraverso il linguaggio asettico del calcolo numerico. È da questi studi, iniziati attorno al 1950, che cominceranno ad essere progettati i primi calcolatori elettronici e ad essere elaborati i primi linguaggi macchina dando inizio all’epoca dell’informatica. I fondatori della cibernetica Wiener, Turing e von Neumann erano convinti che tale scienza, essendo fondamentalmente basata sul linguaggio asettico del numero, potesse riguardare anche altri campi disciplinari come l’economia e la sociologia5. L’esattezza della loro intuizione non fa che essere quotidianamente confermata dalle scansioni numeriche generate dal tempo-mondo. Sono esse che oggi giungono a mettere in relazione, come vedremo man mano, la macchina autoregolata del mercato mondiale con gli ecosistemi naturali e sociali calcolandone l’efcienza produttiva. Lo spazio durevole del divenire generato da questo 5

Scrive a tal proposito Norbert Wiener: «Fin dagli inizi del mio interesse per la cibernetica, sono stato ben conscio che riessioni basate sui concetti di regolazione e di comunicazione che ho trovato applicabili in ingegneria e in siologia erano anche applicabili in sociologia e in economia. Comunque mi sono deliberatamente trattenuto nel mettere in luce questi campi come ho fatto per gli altri, ed eccone le ragioni: la cibernetica non è altro che matematica, se non in atto almeno di potenza.[… ]Questo non vuol dire comunque che le idee della cibernetica non siano applicabili alla sociologia e alla economia. Vuol piuttosto dire che queste idee dovrebbero essere provate in ingegneria e in biologia prima di venire applicate a un campo così informe». In Dio & Golem s.p.a. Cibernetica e religione, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 83-87.

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immaginario cibernetico, infatti, non è più una crono-architettura edicata dalla tecnica meta-narrativa della parola, con la quale la lingua di ciascuna cultura ha tradizionalmente aperto lo scrigno delle possibilità del tempo umano. Il tempo-macchina mondiale, per la prima volta nella storia umana, ha aperto tale scrigno attraverso un linguaggio numerico inaccessibile al senso delle parole con le quali gli uomini hanno immaginato il loro tempo. Ciò è dovuto al fatto che, come scrive Heidegger, ogni linguaggio tecnico è caratterizzato da un parlare che non dice ni-ente, nessuna cosa in particolare: Qualcuno può parlare in continuazione, senza che il suo parlare dica niente. Al contrario, un silenzio può dire molte cose.[…]Pensiamo ai segnali Morse, che si limitano al numero e all’ordine dei punti e delle linee[…]In questo caso la sequenza dei segnali viene ricondotta alla sequenza tipica delle decisioni sìno, e per produrla vengono predisposte delle macchine, in cui le emissioni e i colpi della corrente eseguono uno schema di segnalazione astratta e forniscono i messaggi corrispondenti.[…]L’univocità dei segni e delle formule, che qui si esige necessariamente, assicura la possibilità di una comunicazione sicura e veloce.[…]È questo il motivo per cui, fondamentalmente, una poesia non si lascia programmare.[…]Il linguaggio tecnico costituisce l’attacco più duro e più minaccioso a ciò che è proprio del linguaggio: il dire in quanto mostrare e far apparire il presente e l’assente, la realtà effettiva nel suo senso più ampio.6

Il proprio del linguaggio umano, così come lo intende Heidegger, è dato dunque da quella sua capacità di far apparire il presente e l’assente così come accade nel linguaggio poetico. In fondo, anche le meta-narrazioni di ciascuna cultura sono accomunate da questa capacità. Anch’esse, infatti, aprendo lo scrigno delle possibilità umane del tempo, rendono presente una sua possibilità abitativa del divenire architettando il tempo sociale. È per questo che così come la poesia anche le narrazioni del tempo non sono programmabili ed esatte come lo è, invece, l’universo numerico della macchina basata sulla sequenza di sì-no. Oggi che siamo immersi nella società reticolare digitale, basata sulla matrice dello 0-1, siamo andati ben oltre questo primitivo linguaggio tecnico dei segnali Morse di cui ci parla Heidegger. Ciò che accomuna questo primitivo linguaggio tecnico con l’odierno linguaggio digitale dal quale nasce la società in rete7 è la qualità quantitativa di tipo neutrale. 6 7

M. Heidegger, Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, Edizioni ETS, Pisa 1989, pp. 50-52. Sulla nozione di società in rete come l’effetto della rivoluzione della tecnologia dell’informazione e della comunicazione cfr. M. Castells, La nascita della società

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Solitamente quando si pensa al neutro lo si coglie, ad esempio, nel quadro linguistico come quel terzo genere grammaticale indenito che si qualica solo per non essere né maschile né femminile. Il neutro è anche presente in chimica ed è quella soluzione con un valore di Ph 7 che sta esattamente a metà tra il valore massimo di acidità 14 e 0 che è il valore massimo delle soluzioni basiche. Anche la sica comprende l’idea del neutro considerandola come quel corpo in cui la somma algebrica delle cariche elettriche positive e negative è nulla. Il neutro inoltre fa la sua comparsa nelle scienze naturali riferendosi a piante e animali ibridi e quindi sterili. All’interno di un conitto tra due o più Stati belligeranti, invece, il neutro si coniuga nei termini di uno Stato che sceglie di non schierarsi con nessuna delle due fazioni belligeranti. Inne, nel capo delle scienze giuridiche, anche la posizione di terzietà del giudice nel dibattimento processuale è quella gura neutra equidistante tra accusa e difesa che, proprio in virtù di tale posizione, garantisce nel suo giudicare le parti avverse. In tutte queste declinazioni il neutro denisce, dunque, quella presenza terza che non trova in sé la sua qualità, ma solo in relazione a determinate qualità che lo qualicano come ciò che è senza qualità. Anche il tempo cronometrico è in sé senza qualità e per questo caratterizzato dalla neutralità. Tale temporalità, infatti, trova la sua qualità solo in quanto capace di essere quel tempo cibernetico terzo capace mettere in relazione le diverse qualità espresse dalle crono-architetture di ciascuna realtà geo-culturale. Visto sotto il prolo dell’a-qualità neutra, il tempo è semplice strumento d’interconnessione delle diverse nature sociali. È grazie alla sua capacità di farsi mero intermediario del tempo-mondo che ciascuna società lo utilizza per realizzare i suoi scopi particolari, evitando, con ciò, quel dialogo della parola sempre pronto a scivolare nel fraintendimento, se non addirittura nella polemica conittuale. Le narrazioni del divenire custodite dalle grandi tradizioni a sfondo sia religioso che laico – come ad esempio quella Cristiana, Ebraica, Musulmana, Buddista, Taoista, Confuciana, Induista, Liberale, Socialista, Illuminista, Positivista, ecc. – sono, infatti, tra loro irriducibili proprio perché spazi di senso durevoli edicati dalla possibilità della parola. In tale contesto, ciò che può operare una loro reductio ad unum, è solo la neutralità reticolare del tempo numero grazie alla quale ciascuna, salvaguardando il proprio spazio discorsivo sul divenire, diventa uno dei suoi innumerevoli nodi di attraversamento. È questa la grande illusione generata dalla metanarrazione cibernetica fondata sulla concatenazione logico-strumentale del tempo. È, infatti, proprio in virtù del suo essere quell’indispensabile legame in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2008.

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temporale - che serve mondialmente a ciascuna natura sociale per mettere in rete la propria visione del mondo – che non lo rende, in realtà, neutrale ma, al contrario, padrone del tempo di ciascuna. Come si diceva, la tecnica non è descritta univocamente da quel paradigma servo (tecnica)-padrone (uomo). Se, infatti, gli uomini, per realizzare le innumerevoli possibilità immaginarie del divenire, si afdano universalmente al tempo servile della rete cronometrica, essi non fanno, tuttavia, altro che trasferire ad esso la potenza della loro signoria rendendosi, con ciò, servi del loro servo. È dunque con questa trasfusione mondiale di potenza che la servitù neutra del tempo tecnico assume universalmente la signoria delle possibilità pluriversali del tempo umano. La crono-metria reticolare è, per questo, quello spazio durevole che è diventato esso stesso lo scrigno cibernetico mondiale entro il quale sono rinchiuse tutte le possibilità narrative del tempo umano. La natura tecnica del tempo numerico è, come dicevamo, un linguaggio che non dicendo niente neutralizza apriori ogni possibile dialogo e conitto con esso mostrandosi paradossalmente, proprio per questo, come l’unico tempo possibile della mondializzazione. Rinchiusi come siamo in questa forma del tempo reticolare, per la prima volta è il neutro a qualicare le qualità delle forme che architettano il tempo locale trasformandone il loro valore d’uso meta-narrativo in valore di scambio crono-metrico. Come è noto, valore d’uso e di scambio è quella dicotomia con la quale Marx polarizzò il mondo delle merci: La merce è in primo luogo,[…]oggetto di bisogni umani, mezzo di sussistenza nel senso più ampio. Questo esistere della merce come valore d’uso e la sua esistenza naturale tangibile coincidono.[…]Un medesimo valore d’uso può essere sfruttato in modo diverso. La somma delle sue possibili utilizzazioni si trova però racchiusa nel suo esistere quale oggetto dotato di determinate qualità.[…]Il valore di scambio appare in primo luogo come un rapporto quantitativo, entro il quale valori d’uso sono intercambiabili.[…]Astraendo quindi del tutto dal loro modo d’esistenza naturale e senza tener conto della natura specica del bisogno per il quale sono valori d’uso, le merci si equivalgono in determinate quantità, si sostituiscono le une alle altre nello scambio, sono considerati equivalenti e in tal modo rappresentano la medesima unità malgrado la loro variopinta apparenza.8

Proviamo a ricostruire il ragionamento di Marx sostituendo al valoremerce il valore-tempo. Anche la forma che architetta il tempo è, infatti, 8

K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 9-10.

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come la merce oggetto di bisogni umani e mezzo di sussistenza nel senso più ampio essendo ciò che permette agli uomini di uscire socialmente dalla loro naturale precarietà organica. Questo esistere del tempo espresso da ciascuna natura sociale come valore d’uso abitativo - in quanto architettura meta-narrativa che dà ai suoi consociati un senso durevole al divenire - e la sua esistenza tangibile coincidono. Proprio per questo, la somma delle sue utilizzazioni abitative del tempo si trova racchiusa nel suo esistere quale oggetto dotato di determinate qualità che, nel caso specico, sono date dall’immaginario di ciascuna cultura. Il valore di scambio del tempo crono-metrico è invece un rapporto quantitativo, entro il quale il valore d’uso del tempo sociale è intercambiabile. Il tempo neutro, astraendo del tutto dalle specicità qualitative del bisogno di senso, espresso da ciascuna cultura, non fa che renderle quantità. Nella rete cibernetica gli usi sociali del tempo locale per questo rappresentano in essa la medesima unità malgrado la loro variopinta apparenza metanarrativa. In questa neutralizzazione tecnica del valore d’uso dei diversi tempi sociali in un solo valore di scambio mondiale d’ordine crono-metrico, risuona con tutta la sua forza la celebre massima di Benjamin Franklin: «il tempo è denaro»9. In fondo, così come il tempo tecnico, il denaro opera la medesima neutralizzazione delle singole qualità delle merci, anch’esso è quella unità di misura esatta divenuta l’equivalente universale dello scambio economico mondiale10.

9

10

«Considera che il tempo è denaro; chi potrebbe guadagnare col suo lavoro dieci scellini al giorno e per mezza giornata va a spesso, o poltrisce nella sua stanza, anche se spende solo sei pence per i suoi piaceri, non deve contare solo questi; inoltre ha speso altri cinque scellini, o meglio li ha buttati via». In M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, Milano 1994, p. 72. Tale neutralizzazione è insita in quella formula del sistema di capitale elaborata da Marx D-M-D, nella quale la merce (M) diventa lo strumento per produrre più denaro (D) e non più il ne dello scambio economico. Si legge nella formula generale del capitale di Marx: «La forma immediata di circolazioni delle merci è M-D-M: trasformazione di merce in danaro e ritrasformazione di danaro in merce, vendere per comprare. Ma accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, specicatamente differente, la forma D-M-D: trasformazione di denaro in merce e ritrasformazione di merce in danaro, comprare per vendere. Il denaro che nel suo movimento descrive quest’ultimo ciclo si trasforma in capitale, ed è già capitale per la sua destinazione.[…]Nella compera a scopo di vendita principio e ne sono la medesima cosa: denaro, valore di scambio, e già per ciò il movimento e senza ne». In Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 179.

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Il potere autarchico del denaro raggiunge il suo apice nella domenica del 15 agosto del 1971 quando Nixon comunica al mondo l’abolizione del goldexchange standard ponendo ne alla convertibilità del dollaro, ultima tra le monete mondiali a poterlo fare, in oro. Si compie così denitivamente il processo di spiritualizzazione insito nella losoa del denaro che già Simmel aveva compreso imponendo la sua impronta nello stile della vita sociale: Il signicato del denaro per lo stile della vita consiste proprio nel fatto che, grazie alla sua posizione al di là di ogni unilateralità, può diventare per ognuna di essa qualcosa di simile ad una loro parte. È il simbolo, in un ambito ristretto ed empirico, dell’ineffabile unità dell’essere, dalla quale scorre nel mondo la sua energia e la sua realtà in tutta la sua ampiezza e in tutte le sue differenze.[…] Questo essere, per quanto vuoto e astratto possa essere il concetto puro, appare come la corrente calda della vita, che si versa negli schemi dei concetti delle cose, che li fa, in un certo senso, orire e dispiega la loro essenza senza badare al fatto che il loro contenuto e il loro comportamento siano diversi e reciprocamente ostili11.

Il denaro grazie alla sua neutralità unilaterale può dunque qualicare come una divinità le diverse qualità della realtà sociale - oggetti, lavoro, prestazioni, opere d’arte, alimenti, risorse energetiche, affetti, ricerca scientica, ecc. – rendendole con ciò parte di una stessa rete astratta dello scambio economico. È per tale ragione che anch’esso condivide con la natura tecnica del tempo quella stessa matrice cibernetica capace di calcolare numericamente il mondo umano dandovi, nel caso specico, un preciso prezzo. Se, dunque, le macchine del tempo sono scandite dalle misure uniformi del tic-tac dell’orologio o della connessione causa-effetto degli eventi, anche quella della macchina economica è scandita dalle misure uniformi della compra-vendita del denaro. L’incontro di questi due tipi di misure neutrali numeriche è ciò che, d’altronde, permette alle Borse mondiali di creare quelle pre-condizioni standard per i loro diversi giochi speculativi dal quale si genera il 98 per cento della ricchezza mondiale scambiata ogni giorno12. Pensiamo ad esempio ai cosiddetti contratti futures che possiamo considerare delle vere e proprie scommesse basate sul movimento del mercato in una specica direzione e in un periodo di tempo determinato. 11 12

Simmel, La losoa del denaro, op. cit., p. 699. Scrive a tal proposito il sociologo ed economista Tonino Perna: «Il fatto che ogni giorno si scambiano nel mondo qualcosa come 1500 miliardi di dollari (più del valore del reddito nazionale italiano!) e che solo il 2 per cento di questi ussi monetari corrisponde a contropartite di scambi con merci, la dice lunga sul peso raggiunto dalla sfera monetaria raggiunta dal capitalismo contemporaneo». In Fair trade. La sda etica al mercato mondiale, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 26.

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La natura tecnica del tempo

In termini esemplicativi, essi sono dei contratti che impegnano ad acquistare o a vendere, ad una data futura, una determinata quantità di merce (commodity futures) o attività nanziaria (nancial futures) ad un prezzo pressato. I più semplici da comprendere sono i commodity futures fatti dagli agricoltori mondiali nel tradizionale mercato delle materie prime. Un agricoltore, ad esempio, può vendere in una data futura e ad un prezzo concordato con l’acquirente il suo grano o i suoi animali prima che essi siano pronti per la vendita. Con ciò il venditore si garantisce con certezza un certo prezzo, che gli permette una pianicazione anticipata della sua attività produttiva. L’acquirente, da parte sua, accettando questo prezzo pressato non fa che scommettere, in base a delle aspettative, sul valore futuro degli animali e del grano, su un loro maggiore rendimento alla ne della scadenza del contratto future. In breve, quello che succede è che l’acquirente del contratto future assume una posizione di rendimento di più lungo periodo investendo nel presente sul futuro, mentre il venditore, al contrario, in una posizione di immediato rendimento, anticipa nel presente il suo guadagno futuro. Le contrattazioni del tempo-denaro dei futures, essendo regolamentate da Borse specializzate, di cui quella di Chicago è la principale per i prodotti agricoli, è ciò che permette agli operatori di conoscere ogni giorno la sua posizione derivante dalla compravendita e di valutare l’opportunità di intervenire chiudendo l’operazione. Si comprende, dunque, come sia la logica del tempo scandito dall’economia nanziaria ad imporre i termini della contrattazione dei futures gestendo la vita materiale non solo di singoli contadini, ma anche l’economia di sussistenza di intere popolazioni. Tale operazione, così come più in generale gli altri contratti nanziari, è possibile solo in virtù dell’intreccio tra la calcolabilità numerica del denaro e quella del tempo poiché l’una esiste in funzione dell’altra. È in questo circuito cibernetico – che diventa cortocircuito nelle grandi crisi nanziarie - del tempo e del denaro che le qualità spazio-temporali espresse dalle diverse nature sociali mondiali diventano equivalenti universali, tra loro interscambiabili, edicando mondialmente l’odierna società neutrale. In essa tutto - il grano che germoglia, l’allevamento degli animali, il lavoro come oggettivazione della persona, la durata dei ritmi naturali e sociali, il senso del futuro delle generazioni, il valore del memoria – viene qualicato da un continuo ondeggiare di numeri trovando nei graci nanziari delle Borse mondiali il loro quotidiano provvisorio calcolo. Tale ondeggiare è reso possibile solo in virtù dell’unicazione reticolare tessuta dal tempo tecnico capace di far saltare quotidianamente le distanze geo-culturali tra le diverse nature sociali. È questa rete che ogni giorno crea quell’habitat ideale entro il quale lo spirito del capitalismo può imporre la sua fede attraverso

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l’istituzione ecclesiastica del mercato mondiale basata sul solo sacramento dell’extra-protto. D’altronde, come aveva compreso Weber, l’ascesi del capitalismo trova la sua origine proprio nello spirito dell’etica protestante: Il puritano volle essere un professionista, noi lo dobbiamo essere. Infatti, quando l’ascesi passò dalle celle conventuali alla vita professionale e cominciò a dominare sull’eticità intramondana, contribuì, per parte sua, a edicare quel possente cosmo dell’ordine dell’economia moderna – legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica -, che oggi determina, con una forma coattiva invincibile, lo stile di vita di tutti gli individui che sono nati entro questo grande ingranaggio (non solo di coloro che svolgono direttamente un’attività economica), e forse continuerà così a farlo nché non sia stato l’ultimo quintale di carbon fossile. Solo come un leggero mantello che sempre si potrebbe deporre, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi[…]. Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio.13

L’architettura cronometrica reticolare è oggi quell’ingranaggio meccanico, di cui scrive Weber, che edica mondialmente questa gabbia di durissimo acciaio impedendo ai diversi immaginari sociali di aprire lo scrigno delle possibilità del tempo. La rappresentazione iconica dei 24 fusi orari di Greenwich (cfr. g. 5) illustra bene l’idea della gabbia del tempo-mondo.

Figura 5

13

Weber, op. cit., pp. 239-240.

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Naturalmente, l’immagine riprodotta qui sopra, è solo una rappresentazione stilizzata del tempo-mondo che permette agli occhi di riposarsi dopo aver seguito lo scorrere delle parole con le quali ho cercato di sviluppare, nella camera oscura delle riessioni n qui condotte, quell’istantanea scattata alla crono-architettura mondo. Eppure, credo che la sovrapposizione tra l’immagine iconica del tempo di Greenwich e quella scattata dalla mia ottica morfologica possa sintetizzare in un solo colpo d’occhio la nostra analisi statica della crono-architettura del tempo-mondo. Ciò che ancora non compare in questa sintesi sono quegli elementi socio-zoologici dell’epoca post-umana. In realtà, come si evincerà nella parte successiva, essi sono già presenti tra quei caratteri sino ad ora evidenziati dalla forma reticolare della temporalità contemporanea. Per scorgerli occorre semplicemente continuare a riposare lo sguardo ancora un po’.

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3. LA NATURALIZZAZIONE DELLA STORIA

L’individuazione dei caratteri statici della forma del tempo-mondo è ciò che ci consente di giungere ad un punto decisivo del nostro percorso, che possiamo cominciare ad affrontare ponendoci le seguenti questioni: cosa sono gli uomini, se vengono espropriati delle tradizionali crono-architetture che li hanno qualicati come cristiani, musulmani, ebrei, taoisti, confuciani, induisti, animisti, atei, gnostici, socialisti, liberali, illuministi ecc.? Cosa sono essi, se i loro immaginari sociali del tempo vengono neutralizzati all’interno della gabbia cibernetica del tempo-mondo? In sintesi, cosa sono gli uomini, se i loro funambolici cammini sociali sul usso del tempo naturale vengono universalmente sincronizzati dalla natura tecnica del tempo? Una specie. La specie è quella categoria biologica usata per classicare degli organismi, consistente di un gruppo di individui simili generalmente capaci di riprodursi fra loro e di procreare discendenti fecondi1. È questo carattere sessuale-riproduttivo che meglio di ogni altra categoria può accomunare gli uomini della contemporaneità una volta che essi, uscendo dalle architetture del tempo delle loro nature sociali, vengono avviluppati da una sola rete cronometrica mondiale. Questa nuova identità di specie è quel primo elemento socio-zoologico che dobbiamo mettere a fuoco per comprendere l’epoca post-umana. L’idea di specie non ha niente di naturale, essa nasce dalla storia delle idee e precisamente dalle scienze della vita che cominciarono a svilupparsi nella nostra tradizione tra XVII e XVIII secolo. Sono state queste scienze biologiche a costruire un nuovo ordine del discorso2 dal quale nacque una rappresentazione logico-razionale della natura.

1 2

Cfr. AA.VV., Dizionario enciclopedico dei termini scientici, BUR, Milano 1990, alla parola specie. M. Foucault, Le parole e le cose. Una archeologia delle scienze umane, Bur, 1996 Milano. Cfr. in part. cap. V Classicare.

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Le lingue parlate dagli uomini da sempre hanno prodotto discorsi sulla natura ed anche liste ed enciclopedie che hanno raccolto e ordinato il suo variegato mondo brulicante di forme di vita. Eppure, questi ordini discorsivi non erano precisi. I loro criteri di catalogazione si perdevano in racconti poco scientici, legando piante ed animali a qualche loro proprietà mitologica o a qualche loro proprietà magica beneca o maleca. Essi includevano, inoltre, animali inesistenti: centauri, unicorni, draghi e molti altri esseri fantastici. Nelle loro liste, poi, comparivano persino uomini mostruosi frutti di bizzarre metamorfosi con gli esseri naturali. I bestiari del medioevo3, nati dalla lettura dell’opera di Ovidio, sono un esempio di come anche la nostra cultura pre-scientica producesse questi accostamenti tra gli uomini e gli animali. Anche l’uomo, infatti, faceva parte di questi ordini cartograci del mondo naturale ottenuti tracciando conni incerti nel mondo tra descrizioni anatomiche e immaginarie. Ci volle il pensiero razionale delle scienze della natura per depurare questi imprecisi ordini discorsivi dai loro elementi inverosimili in modo da poter ripristinare con precisione chirurgica i conni tra la realtà della natura e la sua immaginazione. Piante e animali, grazie a questa nuova visione realistica, cominciarono così ad essere collocate dagli scienziati della natura in precisi casellari tassonomici in base ai loro caratteri meramente organici. Le loro classicazioni tassonomiche, in fondo, erano la trasgurazione di quei reticoli che i pittori rinascimentali usavano frapporre tra i loro occhi e i soggetti da ritrarre in modo da riprodurre con precisione l’illusione ottica della tridimensionalità nelle loro tele. Anche gli scienziati della natura, qualche secolo dopo, cominciarono a frapporre le quadrettature tassonomiche tra i loro sguardi e le forme della natura in modo da riprodurre, con altrettanta precisione, l’illusione ottica della verità. Il primo ritratto scientico della natura, ottenuto grazie a questi reticoli tassonomici, fu quello di Linneo nel 1735 nel suo Systema Naturae. Attraverso la nomenclatura binomiale, il naturalista svedese, cominciò a ordinare piante e animali attribuendo loro due nomi (originariamente in latino). Il primo era riferito al Genere di appartenenza dell’organismo stesso ed era uguale per tutte le specie che condividevano alcuni caratteri principali (nomen genericum); il secondo termine, essendo più preciso nella sua descrizione, era ciò che permetteva di designare la Specie propriamente detta dandole un nome specico (nomen triviale). La quadrettatura tassonomica ha origine proprio da questa intersezione di Genere e Specie con la qua3

Cfr. L. Harf-Lancner, Métamorphose et bestiare fantastique au moyen age, École Normale Supérieure de Jeunes Filles, Paris 1985.

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le Linneo per la prima volta fece quadrare il cerchio della vita naturale. La chiave di volta che gli permise di ottenere questa quadratura fu quella di applicare con rigore le regole metodologiche che Descartes aveva già predisposto nel 1637 nel suo Discours de la méthode distinguendo tra res extensa e res cogitans. Anche Linneo comprese che se nello spazio esteso (quello appunto della res extensa) gli esseri naturali si mostravano con qualità sensibili mutevoli e fallaci, occorreva procedere osservandoli con scettico distacco guadagnando il punto di vista dell’io in quanto cosa pensante (la res cogitans appunto). Fu solo chiudendo gli occhi e aprendo la mente che Linneo giunse infatti a formulare l’a priori della nomenclatura binomiale, fatta da Genere e Specie, imboccando così la strada maestra verso il suo Systema Naturae. Fu solo dopo aver inforcato le lenti quadrettate di questo a priori che gli fu possibile riaprire gli occhi, riuscendo a collocare con certezza quella moltitudine di piante e animali affacciata al suo sguardo in un solo ordine fatto da geometrie organiche. Da allora le teorie scientiche della natura non hanno smesso di cambiare, eppure questa visione classicatoria della vita non ha fatto altro che perfezionarsi lasciando inalterata la sua matrice originaria, che così viene espressa da Giovanni Boniolo e Stefano Giamo nel volume da loro curato: La sistematica o tassonomia,[…]è quella parte della biologia che si occupa della classicazione degli esseri viventi. Ma per classicare, o categorizzare, occorre avere criteri e, in senso più lato, teorie che permettano di stabilire chi e cosa va dentro questa classe e chi o cosa vada dentro l’altra.4

È questo ordine sistemico che continua a ripartire le forme naturali in classi circoscritte da criteri e teorie scientiche capaci di radiografare il mondo della vita e di ridurlo all’essenziale, scarnicandolo da ogni possibile descrizione immaginaria. Nulla sfugge a questo gioco sistemico di incasellamento della bio-diversità poiché ciascun essere occupa un suo specico posto. È per tale ragione che anche il cartografo della mappa tassonomica, e cioè l’uomo, trova nel suo ordine quadrettato una sua precisa collocazione di Genere che lo classica come homo e un nome proprio di specie che lo classica come sapiens. Una collocazione, che a sua volta, lo comprende in un solo ordine graduato che ampliandosi lo mette in relazione a cerchie zoologiche sempre più ampie. Come in una sorta di gioco di scatole cinesi (g. 6) - che parte dal contenitore più ampio del Dominio

4

G. Boniolo / S. Giaimo, Filosoa e scienze della vita. Un’analisi dei fenomeni della biologia e della biomedicina, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 129.

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no a quello più piccolo della Specie – anche l’uomo5 viene inscatolato in un solo ordine organico, superando così ogni presunta superiorità data a lui da qualche ente divino creatore del mondo e della vita.

Figura 6

L’appartenenza a quest’ordine, anche se non sembra, comporta una vera e propria rivoluzione copernicana. Se grazie a quest’ultima l’umanità ha scoperto che il pianeta dove abita non è centro di nessun ordine cosmologico, ma un granello di sabbia disperso nell’universo, con la rivoluzione copernicana delle scienze biologiche essa ha scoperto di essere una specie tra le tante. Grazie a questa rivoluzione gli uomini, nalmente, ottengono così quella verità naturale di sé che nessuna losoa è riuscita a spiegargli o mondo religioso a rivelargli in termini così nudi e crudi. Infatti, al di là della sua irripetibile forma somatica, della sua appartenenza etnica, della sua lingua e delle sue abitudini, del suo sistema di credenze sacre e profane, c’è qualcosa di più ampio che lo accomuna. Il minimo comune denominatore di questo qualcosa di più ampio è dentro

5

La collocazione completa dell’uomo nell’ordine tassonomico è la seguente: Dominio Eukaryota, Regno Animalia, Phylum Vertebrata, Classe Mammalia, Ordine Primates, Famiglia Hominidae, Genere: Homo, Specie: Sapiens, Sottospecie Sapiens Sapiens.

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di sé, come d’altronde tutte le grandi verità, ed è la sua realtà organica di specie. Riducendo le sue identità multiple all’osso, è il caso di dirlo, è questa la sua realtà ultima in quanto comune a tutti gli uomini. La sua comprensione, richiede solo che ciascun uomo sappia osservare, e osservarsi, con gli occhi di un biologo, assumere la sua visione del mondo: quella che, ipostatizzandosi come oggettiva, diventa la base di un immaginario organicista universale ed universalizzabile. È incarnando questa visione biologista del mondo che gli uomini diventano tutti uguali, parte di un solo ordine pre-sociale, componenti di un solo stato di natura rigoglioso di esseri viventi che, come lui, sono ripartiti in specie in grado di riprodursi e di procreare discendenti fecondi. L’immaginario biologico ha un’altra caratteristica importante: quella di sapersi trasgurare in domini di pensiero non biologici. Come tutte le grandi verità rivelate, essa ha un potere di contagio epistemico, diventando fondamento di tutti quegli ordini discorsivi che attualmente, se pur da angolature diverse, mirano a denire l’essenza ultima dell’uomo. È grazie a questa sua capacità di contagio che l’immaginario biologico produce effetti concreti costruendo la realtà delle società contemporanee. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, è uno di questi casi di contagio e di traduzione dell’immaginario biologico in effetti di realtà. L’idea di uomo che questo diritto universalizzato sottende è, infatti, inconsapevolmente fondata da una sua riduzione a specie, diventando un tutt’uno con la volontà universale di giustizia umana. Facciamo l’esempio proprio del primi due articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: Articolo 1 Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Articolo 2 1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di calore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. 2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico internazionale del paese o del territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione duciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.

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La natura umana, così come si evince negli Articoli 1 e 2, non fa che essere ssata per sempre secondo quella ideologia6 generata dalla luce della ragione illuminista basata sulle parole d’ordine: Liberté, Égalité, Fraternité. In questo caso la questione non è tanto etica, cioè quella di considerare tali parole secondo la dicotomia del bene e del male. Ciò che invece deve essere considerato è il fatto che nel cono di luce di tale visione del mondo, socialmente e storicamente determinata, si pretende di rischiarare per sempre la natura umana. Il punto che invece sfugge a questo sistema normativo universalizzato è che non esiste l’uomo una volta per tutte. Anche quando adesso io stesso lo nomino, lo faccio da un punto di vista che, in quanto tale, è sempre parziale. Il sistema giuridico prodotto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, se pur per nobili intenti, invece, non fa che ipostatizzare l’uomo e la sua umanità diventando in tal modo esso stesso fonte di un diritto disumano. Forse, l’unica oggettività dell’uomo è la sua non oggettività. Non è un gioco di parole, ma mi riferisco a quanto detto nella prima parte a proposito dell’apertura della sua prima natura organica. È questa natura plastica e non chiusa, si diceva, che fa dell’uomo l’essere della possibilità, l’animale poietico per eccellenza capace di ri-creare in forme sempre diverse le sue nature sociali. Sono esse che hanno declinato all’innito il suo status di umano rendendolo con ciò non oggettivabile. Neanche l’immaginario biologico può operare l’oggettivazione dell’umano essendo esso stesso, come abbiamo visto, un prodotto della seconda natura, così come essa è stata coltivata ad occidente da un certo momento in poi. Eppure, è proprio questa visione organicista dell’uomo come specie a sostanziare la natura universalizzata del soggetto giuridico dei Diritti Umani. L’Articolo 2, in particolare, è ancora più esplicito in tal senso. Il soggetto giuridico che qui è indicato come individuo è, infatti, denudato da ogni qualità umana determinata da razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica, origine nazionale o sociale, ricchezza, nascita o altra condizione. Sottraendo dall’uomo ciascuna di queste qualità umane, cosa resta? La sua mera riduzione ad organismo, a specie animale accomunata semplicemente dalla sua capacità riproduttiva. È così, dunque, che quella visione tassonomica dell’uomo, con la sua apparente neutralità ed oggettività,

6

Scrive a tal proposito Slavoj Žižek: «L’uomo, il latore dei diritti umani, è il risultato di una serie di pratiche politiche che danno cittadinanza; i diritti umani sono, in quanto tali, una falsa universalità ideologica, che nasconde e legittima la reale politica dell’imperialismo occidentale, gli interventi militari e il neocolonialismo». In Contro i diritti umani, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 63.

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scorre come un ume carsico tra gli ordini discorsi non biologici dando ad essi quelle parole precise con le quali poter denire la natura umana. La questione è che oggi, vivendo in una sola realtà sociale interconessa dal tempo-mondo, questi discorsi universalistici sull’uomo non fanno che proliferare proprio come le specie. È per tale ragione che il riduzionismo biologista, così come lo abbiamo colto nell’esempio dei Diritti Umani, è profondamente intrecciato con il riduzionismo espresso dalla natura tecnica del tempo. Se la forma reticolare del tempo-mondo mette in gabbia l’intera geograa sociale imponendo ai suoi abitanti un solo immaginario della temporalità, solo l’immaginario biologico può qualicare questi reclusi - dai volti l’uno diverso dall’altro – attribuendo loro una sola identità trans-culturale di specie. Tra le maglie cibernetiche della rete cronometrica e le quadrettature tassonomiche della biologia esiste, infatti, una profonda afnità legata al fatto che entrambe riescono a decomporre e a trascendere le nature sociali - che hanno immaginato in forme sempre diverse l’umano - in un solo ordine tecnico del tempo ed in un solo ordine organico della vita. È da questo connubio tecnico-scientico, tra rete cronometrica e tassonomica, che le qualità sociali degli uomini vengono neutralizzate in quanto parti di una sola specie, di una sola bio-classe sociale proletaria, capace, cioè, di riprodursi al suo interno e di procreare discendenti fecondi. La stessa divisione in classe marxiana, pur sussistendo in termini economici, diventa di secondo ordine se osservata dal punto di vista del sistema di produzione tecnica del tempo. Contadini, operai, commercianti, impiegati, quadri dirigenti, intellettuali, scienziati ed anche chi lavora per cercare una occupazione, sono tutti quei crono-proletari che dal momento del loro risveglio entrano in una sola fabbrica mondiale del tempo. Solo il sonno permette loro di uscire da questa fabbrica, dove si forgiano intervalli temporali esatti e calcolabili, dando il cambio ad altri proletari che trovano il risveglio in qualche altro fuso orario di Greenwich. Cosa accomuna questa indistinta massa di proletari estranei l’uno all’altro se non il fatto di essere organizzati in un solo scacchiere tecnico del tempo e di far parte di una sola bio-classe sociale di lavoratori e consumatori? E qui arriviamo ad un secondo elemento socio-zoologico che denisce l’epoca post-umana complementare al primo, alla sua identità di specie. Se la rete cronometrica raccoglie gli uomini in una sola temporalità, se essa li spoglia delle loro qualità offrendoli al riduzionismo biologista, dal suo canto, l’ordine storico non può che mutare anch’esso verso una storia

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naturale. Questa naturalizzazione della storia umana nasce dall’impossibilità di poter costruire nuove meta-narrazioni del senso del tempo. Nella parte dedicata alla morfologia del tempo, si diceva che ciascuna natura sociale edica la propria crono-architettura attraverso un grande racconto condiviso. Questa metanarrazione è ciò che emancipa l’intera collettività dal divenire caotico della prima natura elevandola verso un ordine di senso durevole del tempo, verso una propria forma della storia. È grazie a questa forma che la memoria collettiva viene conservata, che gli accadimenti vengono compresi diventando più o meno signicativi e che viene progettato il senso dell’avvenire. Dunque, sostanzialmente, la storia esprime quella energia crono-poietica, insita in ogni mondo sociale, grazie alla quale gli uomini collettivamente si elevano come funamboli dal mondo zoologico. L’animale non costruisce una sua storia poiché vive sincronizzato nel usso del tempo naturale, sia quello che lo avvolge nel suo ambiente e sia quello scandito dal suo corpo orientandolo al soddisfacimento dei suoi bisogni. Se dunque l’uomo, dando forma alla sua storia, incontra il tempo in termini di possibilità, l’animale lo incontra in termini di necessità rimanendo imbrigliato nella sfera del tempo naturale. È questo che crea una diversicazione tra sfera zoologica ed umana. La questione è che oggi l’epoca post-umana ha ridotto notevolmente questa diversicazione, poiché la rete cronometrica, neutralizzando le metanarrazioni che istituiscono le forme della storia, ricolloca la specie umana nel tempo della necessità naturale. Anche se il tempo-mondo scaturisce da ritmi esatti e neutri, che nulla hanno a che vedere con i ritmi inesatti della prima natura, esso non fa che riprodurne tecnicamente i suoi vincoli poiché, come scrivono i francofortesi Adorno e Horkheimer: Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura, cade tanto più profondamente nella coazione naturale. È questo il corso della civiltà europea.7

È questo uno dei paradossi generati dalla natura tecnica del tempo. Essa, cercando di spezzare con la logica del calcolo la costrizione naturale - che trascina passivamente la vita animale ingabbiandola nelle sue necessità biologiche - non fa che sospingere la specie umana in un’analoga necessità legata ai meri bisogni della sua prima natura organica. All’interno della rete cronometrica proporzionalmente alla riduzione dell’orizzonte immaginario delle possibilità del tempo cresce, infatti, l’esigenza di intere popo7

M. Horkheimer / T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 21.

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lazioni di dissetarsi, cibarsi, emigrare, sopravvivere, curarsi. Sono questi quei bisogni meramente biologici che fanno cadere sempre più profondamente l’uomo nella coazione naturale, verso il suo stato animale postumano. Oggi, infatti, non è possibile costruire una narrazione della storia così forte da ricondurre questi bisogni in un orizzonte di senso capace di qualicarli e trascenderli secondo quei tradizionali sistemi umani fatti di credenze sacre e profane. D’altronde, l’uomo-specie, essendo una quantità che somma tutti gli uomini, al di là delle loro appartenenze etniche, non può certo camminare nella storia supportandosi sulle funi tessute dalla antiquata tecnica narrativa della parola. Solo la fune cibernetica del tempo tessuta da numeri, neutralizzando i signicati del tempo espressi dalle culture umane, può reggere mondialmente il cammino di un’intera specie nella storia. Cammino che, essendo l’espressione di un uomo a-qualicato della sue nature sociali, non può che orientarsi nel suo ambiente mondiale verso le necessità biologiche legate al suo sostentamento organico. La natura tecnica del tempo-mondo è, proprio per questo, ciò che chiude l’orizzonte delle possibilità del tempo umano ri-orientando l’intera specie verso una sola storia naturale. È per tale ragione che l’arte di governo che produce questo nuovo ordine bio-storico non può che essere concretizzato da una politica essa stessa bio-politica. Nelle scienze sociali fu Michel Foucault ad elaborare questo nuovo paradigma della sovranità, che così descrive: La biopolitica ha a che fare con la popolazione. Più precisamente: ha a che fare con la popolazione in quanto problema al contempo scientico e politico, come problema biologico e come problema di potere.[…]Il secondo problema da mettere in rilievo, dopo la comparsa dell’elemento costitutivo della popolazione, è quello della natura dei fenomeni presi in considerazione.[…] Considerati di per sé, individualmente, sono fenomeni aleatori e imprevedibili. Ma considerati invece a livello collettivo presentano delle costanti che è facile, o comunque, possibile, stabilire. Inne, questi fenomeni si vericano essenzialmente nella durata, devono cioè essere considerati all’interno di un certo limite di tempo più o meno ampio; sono insomma fenomeni di serie.[…] Nei meccanismi instaurati dalla biopolitica, infatti, si tratterà certo in primo luogo di previsioni, di stime statistiche, di misure globali, ma si tratterà anche di modicare[…] dei fenomeni generali ovvero dei fenomeni considerati nella loro globalità. Sarà pertanto necessario modicare o ridurre gli stati morbosi, prolungare la vita, stimolare la natalità.[…]In breve: si dovranno installare dei meccanismi di sicurezza attorno a quanto di aleatorio vi è in ogni popolazione di esseri viventi: Si tratterà, insomma, di ottimizzare uno stato di vita.8 8

M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998, p. 212.

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Per Foucault, dunque, la biopolitica è espressa da tre caratteristiche essenziali. La prima, ciò che la costituisce, è la considerazione da parte dell’arte di governo della popolazione come problema sia biologico che politico. Le scienze statistiche e demograche, racchiudendo la popolazione in delle vere e proprie tassonomie socio-politiche, sono per lui ciò che permette alle tecnologie di potere di funzionare e di esprimere la governamentalità della vita. La seconda è la denizione dei fenomeni espressi dalla popolazione come riducibili a durate seriali grazie alle quali poterne conoscere gli sviluppi. Qui, per Foucault, sono in particolare le scienze dedite allo studio geograco, ambientale, climatico, idrograco messe in relazione naturalmente alla scienza medica, a permettere al potere di conoscere i processi siologici del corpo sociale della popolazione. La terza caratteristica, inne, è quella che permette alle strategie di potere di intervenire su questi fenomeni attraverso dei meccanismi di controllo e normalizzazione volti al prolungamento della vita e alla stimolazione della natività dell’insieme dei componenti della popolazione. In questo caso, per il pensatore francese, è soprattutto quel criterio di utilità proprio della scienza economica a guidare le politiche sociali nel loro intento di produrre un sano e robusto sviluppo della popolazione. È grazie alla rete cronometrica che tutti questi elementi tipici della sovranità biopolitica trovano una possibilità di diffusione su scala globale naturalizzando la storia delle società contemporanee. Sono infatti le sue maglie reticolari che raccolgono gli uomini in una sola popolazione di specie, in una sola bio-classe sociale; è il suo tempo esatto e calcolabile che permette di rendere seriali le durate dei fenomeni vitali generate da questo corpo sociale compreso in un tutto organico; ed è grazie alla sua natura cibernetica che è possibile prevedere la sua crescita e mettere in campo dei provvedimenti utili per ottimizzarne il suo sviluppo. Esempi di quanto si sta dicendo sono: i meeting della FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) per accrescere i livelli di nutrizione e aumentare la produttività agricola; la stipula dei trattati sui problemi ecologici, come quelli di Kyoto 1997, Buenos Aires del 1998 o più recentemente di Copenaghen del 2009, per scongiurare disastri ambientali; gli accordi sul commercio e la moneta mondiale organizzati dal WTO (World Trade Organization) e dal FMI (International Monetary Fund) per ottimizzare il funzionamento del mercato mondiale; l’alternarsi, a partire dal 1948, delle conferenze sui Diritti Umani per estendere la libertà in ogni Nazione; i provvedimenti presi in materia di sanità globale dall’WHO (World Health Organization) per combattere e prevenire pandemie. Sono

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tutte queste grandi organizzazioni sovra-nazionali che esprimono l’amministrazione biopolitica della popolazione mondiale guidandola nell’alveo della naturalizzazione della storia, dove sono i bisogni organici l’unica sua possibile metanarrazione. Poco importa come ogni singolo Stato dispieghi questa politica biologica nel suo spazio territoriale, se dispoticamente o democraticamente, poiché ciascuno è una tessera di diversa grandezza di uno stesso mosaico post-umano che vive all’unisono in una sola storia naturale di specie.

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4. L’ACCELERAZIONE DELLA VITA SOCIALE

L’analisi statica della rete cronometrica ha permesso di individuare i primi due elementi socio-zoologici dell’epoca post-umana. Nel capitolo appena concluso, abbiamo visto come nelle sue maglie gli uomini vengano ridotti ad essere una specie e le loro vite irretite in una sola storia naturale. Occorre adesso integrare l’analisi morfologica statica con quella dinamica. È lo stesso Goethe, d’altronde, a dirci che, dopo aver denito le parti di cui si compone una forma, occorre comprenderne il movimento comportandoci a nostra volta «in maniera mobile e formatrice, secondo l’esempio che la stessa natura ci propone»1. Nel caso specico, si cercherà di comprendere, in maniera mobile e formatrice, la forma del tempo mondo, secondo l’esempio che la sua stessa natura tecnica ci propone. Potremmo dire, usando una metafora, che la nostra analisi della crono-architettura mondo verrà ora spostata da una visione fotograca – grazie alla quale abbiamo colto la sua forma reticolare, il suo materiale fatto di numeri, la sua logica costruttiva cibernetica ed il suo stile architettonico neutrale – ad una cinematograca. Questo cambio di ottica analitica permetterà di arricchire la comprensione della natura tecnica del tempo permettendoci così, nel capitolo successivo, di continuare ad individuare altri elementi socio-zoologici dell’epoca postumana. Detto ciò, procederemo analizzando quei fenomeni della vita delle società contemporanee indotti dallo scorrere del tempo-mondo e che, se pur con gradi d’intensità diversi, si manifestano in ogni spazio geo-culturale. Tra questi fenomeni rientra sicuramente quello della scarsità del tempo. Dalle pratiche più semplici della vita quotidiana – legate all’organizzazione della vita domestica, alla frequentazione della propria cerchia d’amicizie, alla gestione degli impegni lavorativi, agli spostamenti nei diversi palcoscenici della realtà sociale – a quelle più dense di signicato – legate alla fruizione dei prodotti culturali (libri, spettacoli teatrali, mostre, lm, ecc.), alla produzione di ricerche scientiche, alla coltivazione dei diversi 1

Goethe, Gli scritti scientici, op. cit., p. 8.

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ambiti della sfera dell’intimità o alla cura del proprio sé - il tempo sembra sfuggirci e non essere mai sufciente, cosa che lo rende uno dei beni più preziosi e ricercati. Ovviamente, in questo noi è compresa tutta quell’umanità dai visi irripetibili e dai percorsi esistenziali inimmaginabili eppure, come si diceva, accomunata da quella assillante liturgia gestuale rivolta a vericare nei quadranti degli orologi l’ora di Greenwich. La quotidiana ripetizione di questa liturgia cronometrica è ciò che permette al tempo-mondo di penetrare nei mondi interiori, altrettanto irripetibili, dei componenti di questa moltitudine umana. È con questa penetrazione che la natura tecnica del tempo attecchisce nella sfera psicologica impedendo agli individui di percepire come continuo il usso ritmico della loro attività mentale grazie al quale riescono a dare signicato a ciò che stanno vivendo, pensando e sentendo. Più ciascun individuo, controllando l’ora, coltiva dentro di sé questa natura cibernetica, e più la sua dimensione psicologica diventa parte di essa, nodo di attraversamento del suo ecosistema reticolare. Questa messa in rete del mondo interiore è ciò che permette al tempo-mondo di tagliare - con le sue lame fatte di secondi, minuti, ore – la continuità temporale espressa dalla dimensione profonda degli individui. Gli accadimenti sociali e personali, non riuscendo più ad essere collocati in questa continuità psico-dinamica, li attraversano passivamente andando ad accumularsi nei loro mondi interiori come non vissuti no in fondo. La sindrome da stress è l’esito di questo accumulo, di questa quantità di tempo incapsulata che non riesce più a uire nell’alveo del tempo continuo. Questa crono-patologia, che colpisce ampie parti della popolazione mondiale, è rivelatrice di questo penetrante taglio cronometrico nel quale la temporalità viene scomposta consegnando, a ciascun individuo, una serie di segmenti entro i quali egli deve comprimere le qualità del suo tempo vissuto. Non solo. Questa segmentazione temporale a lui pre-costituita lo spinge, infatti, a compiere dei veri e propri equilibrismi sul lo del tempo-mondo in modo da poter incastrare, a volte anche in modo schizofrenico, ogni tassello della sua vita quotidiana. È questa schizofrenica ricomposizione della temporalità che permette all’individuo di fare molte cose. Ma è proprio questa quantità di cose da fare che rende scarso il suo tempo da poter dedicare a ciascuna di esse. Lo stesso accade poi anche nelle macro dinamiche sociali. È quello che, ad esempio, sta accadendo alla vita socio-politica italiana galvanizzata dall’attuale attacco della nanza mondiale ai rendimenti dei suoi Buoni Ordinari del Tesoro (BOT). All’interno della cosiddetta Zona euro, l’Italia, non essendo riuscita a rispondere prontamente all’artiglieria pesante, se pur immateriale, dei grandi gruppi nanziari - Citigroup, Goldman Sachs,

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JPMorgan-Chase e Morgan Stanley - si trova anch’essa in una dimensione di scarsità di tempo. Situazione evidenziata in questi giorni dal presidente del FMI Christine Lagarde sulle prime pagine dei principali quotidiani nazionali2 dove dichiara: «Italia acceleri su riforme con credibilità». A queste dichiarazioni allarmistiche fanno eco altri titoli giornalistici ad indicare la scarsità di tempo nella quale arranca la politica italiana: «Parti sociali: lunedì nuovo esecutivo, tempo scaduto»; oppure «Via libera della commissione Bilancio al DDL di stabilità. Dalle ore 12,30 il provvedimento è in aula per una approvazione lampo»; ed ancora «Road map della crisi/il tempo è scaduto». È interessante notare come le parole perentorie di Christine Lagarde esprimano quel tempo dominante reticolare trans-nazionale capace di esprimere la sua sovranità persino alla settima potenza economica del mondo. Così come scrive Carl Schmitt - «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»3- nello stato di eccezione della crisi nanziaria globale non è più a decidere lo Stato italiano secondo una propria amministrazione della dinamica socio-politica. Sovrano è, infatti, il tempo-mondo scandito dai ritmi della necessità del mercato nanziario in base a quella equivalenza numerica tra denaro e tempo di cui ci siamo occupati. Eppure, la scarsità del tempo non fa che portarci dritti alla sorgente di questo fenomeno e come vedremo di altri: l’accelerazione cronometrica della vita sociale. Già il morfologo Ernst Jünger in un saggio del 1960 sullo Stato Mondiale, all’epoca ancora polarizzato dalla contrapposizione ideologica Usa/Urss, aveva colto nell’accelerazione del tempo uno dei suoi elementi cardine: La domanda: «Dove siamo oggi?» fa innanzi tutto sorgere la controdomanda: «Ma stiamo poi da qualche parte?» È evidente che ci troviamo in movimento e, precisamente, in una forma di movimento che non possiamo chiamare propriamente andare, né procedere e nemmeno camminare. Da tempo invece tale movimento si compie accelerando: in crescente accelerazione.[…]Non è possibile oggi pensare l’uomo come un essere immobile che si erge, siede o troneggia in quanto centro e corona della creazione, come fu spesso rappresentato dall’arte e dalla losoa.4

2 3 4

Le dichiarazioni del presidente del FMI e dei successivi titoli citati sono estratti dalle prime pagine on line del Corriere della Sera, la Repubblica ed il Sole 24 Ore visitate il 12 novembre 2011. C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1998, p. 33. E. Jünger, Lo Stato Mondiale, Guanda, Parma 1998, pp. 17-18.

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Con la liquefazione nel mercato mondiale della vecchia polarizzazione tra sistema liberale e sistema socialista, il tema dell’accelerazione appare oggi in tutta la sua portata essendo quel ritmo che connota la dinamica stessa del tempo-mondo. È il suo capillare reticolo che, innestandosi in ogni dove, sincronizza le dinamiche delle nature sociali al suo incalzante movimento rendendole parti di un solo ecosistema tecnico così come accade alla vita dei suoi componenti. In questo ecosistema, tutto circola in costante accelerazione: le notizie dei grandi accadimenti di ciascuna realtà geoculturale, le immagini mediali, le mode, le comunicazioni, i passeggeri nei cieli transcontinentali, le scoperte scientiche, i capitali digitali e le merci, le innovazioni tecnologiche. Nelle sue maglie numeriche tutto si muove, si dissolve e viene sostituito in un moto perpetuo che trova in sé la ragion d’essere proprio come accade agli ingranaggi di un orologio. L’unica cosa a non essere sostituita è l’ecosistema cibernetico stesso che regola mondialmente tale circolazione rendendola con ciò possibile. Le stesse qualità spaziali, attraversate dalla dinamica del tempo-mondo, vengono deformate come se fossero parte di una sola materia plastica da predisporre al suo attraversamento. È quello che accade, ad esempio, alle specicità degli spazi paesaggistici, lacerati dalle reti autostradali o da quelle ferroviarie dei treni ad alta velocità; agli spazi politici, le cui scelte all’interno dei loro perimetri nazionali, come abbiamo visto nel caso dell’Italia, vengono compresse da quella equivalenza tempo-denaro; ed anche agli spazi corporei, resi sempre più performanti da integratori, droghe e psicofarmaci. Non vi è spazio che riesca ad ostacolare quel movimento in costante accelerazione capace di travolgere quasi sempre ogni volontà che – per motivi ancorati ad un senso ecologista, religioso o politico - non sia afne ad essa. È questo che, come scrive Jünger, ha fatto perdere all’uomo la sua centralità rappresentata dall’arte e dalla losoa, ed io aggiungerei più in generale, dagli immaginari sociali che hanno man mano costruito quello spazio di senso durevole del divenire. Nelle società contemporanee il senso profondo del tempo cibernetico - potremmo dire il suo fondamento epistemico neutrale - è infatti la velocità stessa, poiché più si è veloci, e dunque più efcienti, e più si è nella sfera della legittimazione del vero. Oltre alla scarsità del tempo, è questa equivalenza tra verità-velocità quell’altro tipico fenomeno che connota la dinamica accelerata impressa alla vita delle società contemporanee dalla rete cronometrica. Questo regime di verità cinetico istituito dall’accelerazione tecnica del tempo si esprime in diversi campi. Ad esempio, nella lotta darwiniana tra le specie oggettuali elettroniche dove a sopravvivere, nella natura competitiva del mercato, sono ad esempio gli smartphone, tablet o computer più

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veloci e performanti. E questo, poi, secondo un ciclo dell’innovazione del prodotto esso stesso sempre più ridotto dai ritmi incalzanti dell’ecosistema del mercato scanditi dal tic-tac della produzione/consumo, della compra/ vendita e dell’usa/getta. Ne incontriamo un altro esempio, se dalla lotta darwiniana degli oggetti ci spostiamo a quella che si svolge tra gli Stati nella natura del mercato mondiale. Qui si compete per vincere il premio aziendale come migliore nazione-operaia dell’anno. Anche in questo tipo di lotta nell’ordine naturale della storia, gli Stati più adatti alla sopravvivenza sono, infatti, quelli che maggiormente accelerano sul tachimetro del P.I.L. spingendo più in fondo sul pedale della crescita economica. Ed è così che il premio aziendale come migliore nazione-operaia da qualche anno, così come probabilmente per i prossimi, va ad Oriente ed in particolare alla straordinaria performance dell’economia cinese. Si tratta della mega-macchina collettiva dello sviluppo che tutte le altre nazioni inseguono producendo politiche economiche e sociali sempre più restrittive e mortifere per le proprie popolazioni. In tutti questi casi, ciò che decide cosa deve sopravvivere e cosa deve soccombere è il regime di verità della velocità. Ma, come ogni verità storica, anche il regime di verità della velocità per funzionare ed essere efcace ha bisogno di un avvenire verso cui andare, di un futuro da realizzare. È qui che l’equivalenza verità-velocità ci fa incontrare un altro carattere tipico della dinamica accelerata del tempo-mondo: il progresso come destino dell’umanità. La verità dromosferica5, oltrepassando il muro del suono di qualsiasi parola narrativa, è infatti proprio nella metasica del progresso che trova quel punto di fuga eternamente differito in avanti verso cui tendere. È l’inseguimento ascetico di questa età dell’oro mondiale - dove l’umanità sarà prospera grazie allo sviluppo del mercato capitalistico e quasi immortale grazie allo sviluppo della tecno-scienza che consente alla rete cronometrica di deformare prospetticamente la visio5

Il termine dromosferico viene coniato da Paul Virilio. L’architetto e urbanista francese con questo termine indica nel dromos (corsa) l’idea di una velocità talmente intensa da farsi spazio avvolgendo l’intera sfera planetaria. È così che denisce questo spazio-tempo dischiuso dalla velocità: «Non più lo spazio “geograco” delle bionde colline della Toscana sotto il sole del del Rinascimento[…] una visione durevole del mondo vicino; ma lo spazio dell’oltre-cielo e dell’oltremare, «vale a dire lo spazio cosmico» la cui oscurità non è più tanto quella dovuta all’assenza di sole, quanto la notte di un tempo senza spazio e senza altra estensione misurabile che i suoi “anni-luce” senza stagioni, poiché all’alternanza diurno\notturno oramai si aggiunge un’alternanza dello spazio terrestre e della sua assenza extra-terrestre». In La velocità di liberazione, Mimesis, Milano 2000, p. 24.

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ne del futuro di ogni società contemporanea. Per entrare nel regno messianico del progresso, infatti, occorre avere fede nella sua esistenza terrena e riconoscere la verità della velocità poiché sarà essa, parafrasando la parola evangelica6, a rendere l’umanità libera. Questo universale re-incantamento della storia come progresso è talmente totalizzante e totalitario da rendere inattuale ed illegittima ogni altra visione del senso dell’avvenire. Nella contemporaneità, infatti, è questa mistica visione futuro-centrica che viene quotidianamente proiettata dallo scorrere dei 24 fusi orari di Greenwich riproducendo, proprio come i 24 fotogrammi di una pellicola, l’illusione dell’immagine movimento della storia umana verso il futuro. Eppure, mentre questo lm storico/fantascientico scorre catturando l’attenzione dell’immaginario collettivo di specie, la cruda realtà è il compiersi nel presente di quella storia naturale di cui parlavamo, dove solo i bisogni organici contano per le strategie biopolitiche che amministrano la vita della popolazione mondiale. Se, infatti, da un punto di vista della storia naturale, è l’orizzonte dei bisogni a forgiare concretamente la metanarrazione dell’epoca post-umana, da un punto di vista della storia sociale – o almeno di quel che ancora ne resta – è il ‘progresso per il progresso’ quell’ultimo simulacro metanarrativo che permette alla specie ancora di sognare il proprio avvenire umano. La questione è che questa metanarrazione del progresso umano ha una funzione precisa: legittimare il compiersi della storia naturale di specie. In termini marxiani, potremmo dire che l’ideologia del progresso è la sovrastruttura, quella falsa coscienza capace di occultare la lotta strutturale delle bio-classi sociali mondiali orientata all’ottimizzazione della vita organica. D’altronde, a ben guardare, persino i primi grandi motori metanarrativi di massa costruiti in occidente per inseguire il progresso - chiamati di volta in volta: illuminismo, liberalismo, positivismo, socialismo, nazi-fascismo – sono stati spenti proprio perché ancora assemblati da parole provenienti da vecchie storielle a sfondo losoco sul senso ultimo della storia. Senza più queste briglie narrative, il progresso oggi è narrato a livello globale: dagli indici statistici nei quali la vita media degli uomini si allunga, dai surplus accumulati nei bilanci di ne anno delle multinazionali, dalla crescita delle megalopoli mondiali, dall’immissione nel mercato di prodotti capaci di migliore il comfort della vita di tutti i giorni. Quale parola losoca, politica o religiosa può contraddire la certezza di questi numeri, che fanno del progresso umano un fatto aritmetico e non più una sua interpretazione? 6

Giovanni 8,31-42: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».

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Il contraccolpo di questa religione materiale è l’ingresso dell’umanità in quella condizione postmoderna di cui parla Jean-François Lyotard: Semplicando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni. La funzione narrativa perde i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi ni. Essa si disperde in una nebulosa di elementi linguistici narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi, descrittivi, ecc., ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis. Ognuno di noi vive ai crocevia di molti di tali elementi.7

È dunque questa condizione di incredulità postmoderna a creare un vero e proprio buco nero anti-ideologico capace di inghiottire non solo le vecchie prospettive della storia occidentale, ma più in generale i grandi racconti di tutta l’umanità. È questo processo di annichilimento metanarrativo che determina un altro fenomeno complementare a quello del progresso come destino dell’umanità: l’atroa del passato. Questa atroa la si coglie, ad esempio, passeggiando nei grandi musei mondiali come quello del Louvre, che ne è uno dei più grandi e dei più frequentati con i suoi 8,5 milioni di visitatori l’anno8. Sono le sue collezioni a raccogliere in 380.000 pezzi, tra oggetti ed opere d’arte, parte di quella nebulizzazione della storia umana seguita alla decomposizione degli involucri metanarrativi. Passeggiare lungo i labirintici percorsi delle sue gallerie rende concreta quella idea di vivere ai crocevia – come scrive Lyotard – di quel che resta dei grandi eroi, dei grandi pericoli, dei grandi peripli e dei grandi ni della storia andati in frantumi sotto forma di quadri, vasi, sculture, armature, frammenti di templi, statue votive e quant’altro. Per quanto ciascuno di questi frammenti riesca a catturare l’attenzione dei visitatori, lungo le loro estenuanti maratone culturali, nessuno di questi sguardi sembra riuscire a poterli liberare da quell’aureola contemplativa che li circonda di morte. Non vi è, infatti, nessuno di questi spettatori, dalle lingue l’una diversa dall’altra, in grado di ritrovare con le parole quella potenza metanarrativa necessaria a riportare in vita questi 380.000 pezzi. In fondo, le stesse guide con i loro discorsi più o meno istruiti non fanno che quotidianamente ripetere la messa di requiem ai pezzi più signicativi di questo cimitero della storia umana9. In nessun altra cultura o civiltà precedente 7 8 9

J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981, p. 6. I dati sono forniti dal sito ufciale del museo del Luovre, cfr. www.louvre.fr Scrive a tal proposito Roberto Peregalli: «Un esempio emblematico è la piramide di vetro e acciaio innalzata davanti al Luovre, monumento sepolcrale per eccellenza, una scultura che maschera la sua vera funzione, quella di essere l’ingresso principale al museo. I visitatori sono costretti a scendere nel sottosuolo, come per

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alla nostra si era mai immaginato di costruire dei luoghi dove ammassare degli oggetti da contemplare senza funzione religiosa. La costruzione dei musei, come d’altronde l’istituzione dei grandi parchi metropolitani, è infatti profondamente intrecciata con quella scissione tra passato e futuro iniziata con l’illuminismo e portata a termine dalla rivoluzione industriale. Ciò che sta al fondo dell’idea di musealizzazione è, infatti, l’intento di strappare determinati oggetti dal usso distruttivo del progresso capace, attraverso la riproducibilità tecnica degli oggetti industriali, di essere più famelico e vorace di ogni altra temporalità legata alla caducità delle cose. Ma è proprio in questo nobile intento che l’oggetto viene estirpato dalla funzione che lo rende vivo ed imbalsamato nella logica della collezione. Scrive Walter Benjamin a proposito del collezionismo: Ciò che nel collezionismo è decisivo, è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con altri oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza. Cosa è poi questa completezza? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione.10

Ecco, i musei non fanno altro che creare con le loro collezioni delle mappe tassonomiche delle specie oggettuali nelle quali ricreare un nuovo ordine storico per l’intera umanità. Un ordine scientico e meticoloso che, proprio in virtù di ciò, non racconta nessuna storia viva, ma solo una sequenza di informazioni su ciò che non c’è più. Oltre al processo di musealizzazione, ciò che manifesta l’atroa del passato è il citazionismo. Se da un lato, infatti, i pezzi originali della nebulizzazione della storia vengono esposti nelle teche dei musei mondiali, dall’altra, essi diventano una innita fonte di ispirazione per quella tipica tecnica contemporanea del taglia ed incolla. È il sistema moda, in particolare, a giocare al meglio ed in modo più fruttuoso questa tecnica basata sulla creazione combinatoria. La moda, opera una vera decostruzione di quel rigido ordine tassonomico delle collezioni dei musei per costruire le proprie collezioni nate solo per essere contemplate e dimenticate ad ogni

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la metropolitana o le cripte dei cimiteri, fare un lungo percorso per poi risalire in supercie a vedere le opere. È un sottosuolo accecante, rivestito di marmo funerario, dove l’elemento rigoroso e umano dell’edicio originario ha lasciato il posto a un insensato shopping-center». In I luoghi e la polvere. Sulla bellezza dell’imperfezione, Bompiani, Milano 2010, p. 120. W. Benjamin W., I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p. 214.

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cambio di stagione. È grazie al citazionismo della moda che la nebulizzazione della storia umana riesce ad essere nebulizzata dallo spruzzo di un profumo orientale, ad essere impressa su stoffe dai motivi africani, a diventare bigiotteria indiana, trasformarsi in decorazioni in stile provenzale per interni in stile provenzale, ecc. In questo saccheggio citazionista della storia i codici culturali vengono sradicati dalle loro nature sociali d’origine per essere reicati per quelle stesse masse di visitatori che dal Louvre, facendo poche fermate di metro, si spostano ai grandi magazzini delle Galeries Lafayette. Nell’immagine riprodotta qui sotto (g. 7) abbiamo uno dei tanti esempi di arredamento alla moda in stile etnico. È interessante come questo bricolage estetico sia l’esito tra una decorazione connotata dall’immaginario esotico africano ed il fondo neutro dato dal muro e dal pavimento connotato da un immaginario razionalista moderno.

Figura 7

E cosi, dunque, i codici culturali tradizionali, senza più l’insostenibile pesantezza metanarrativa, uttuano leggeri nell’atmosfera rarefatta della moda. Solo la mente assemblatrice di qualche grande stilista riesce, infatti, a riporli a terra oggettivandoli, giusto per il tempo di una collezione, in capi d’abbigliamento, accessori, arredi e oggetti di design. Sono tutte quelle variegate specie oggettuali che, successivamente, la grande distribuzione espone nelle vetrine dei negozi mondiali permettendo alla specie umana di

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contemplare questo prêt-à-porter sempre aggiornato di quel che resta della storia umana. È da dietro questi vetri che questa metamorfosi stilizzata dei codici culturali genera quel sex-appeal dell’inorganico11 capace di accoppiare il desiderio dei consumatori al culto delle merci. La società dello spettacolo animata dal sistema dei mass-media è, poi, ciò che eleva questi feticci della merce in un solo orizzonte religioso, poiché come scrive Guy Debord: Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. La tecnica spettacolare non ha dissipato le nubi religiose in cui gli uomini avevano deposto i loro poteri staccati da loro stessi: le ha soltanto riallacciate a una base terrena.12

Mentre questa spettacolare religione mediale va avanti, legando con il potere delle immagini l’intera specie al feticcio della merce, l’accelerazione del tempo-mondo produce un altro spettacolo meno splendente, eppure più concreto: la riduzione della bio-diversità e della socio-diversità. Partiamo dalla riduzione della bio-diversità citando alcuni dati. Nei rapporti di Greenpeace, sempre aggiornati come dei bollettini di guerra, si legge che dell’80% delle foreste13 che nel passato ricoprivano la supercie del pianeta sono state distrutte e la maggior parte di queste negli ultimi 30 anni. L’accelerazione poi di questo processo di deforestazione è impressionante. Ogni 2 secondi scompare una supercie boschiva grande quanto due campi di calcio e in una settimana un’area dalle dimensioni del Lussemburgo (2.400 kmq) viene distrutta. Sono questi alcuni dei numeri della guerra lampo che gli uomini conducono contro questi regni vegetali cresciuti per millenni e depositari del 90% delle specie animali. È evidente, quindi, che l’abbattimento di una foresta porta con sé una proporzionale scomparsa della bio-diversità in essa contenuta. Sono in particolare i reparti scelti delle grandi compagnie di legname a fare da incursori in questa ecoguerra mondiale condotta contro ogni grado dell’organico con il quale la 11

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Scrive Walter Benjamin rintracciando nei Passages l’origine di questo fascino per la merce: «Grandville estende i diritti della moda agli oggetti d’uso quotidiano e al consumo intero. Seguendola nei suoi estremi, egli scopre la sua natura. Essa è in conitto con l’organico; accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere. Il feticismo, che è alla base del sex-appeal dell’inorganico, è la sua forza vitale. Il culto della merce lo mette al suo servizio». In Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p. 152. G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997, p. 58. Tutti questi dati sono estratti dai rapporti sulla deforestazione stilati da Greenpeace, cfr. www.greenpeace.org

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natura si differenzia. È così che lo spazio vitale dell’homo sapiens si estende come un cancro fulminante ai polmoni verdi del pianeta. Come è noto, infatti, è il regno vegetale a convertire in ossigeno quella quantità naturale di anidride carbonica proveniente per lo più da oceani e vulcani. È questo respiro planetario delle piante che ha permesso di stabilizzare la quantità di CO2 nella atmosfera consentendo a questo strato gassoso di trattenere la giusta quantità di calore solare grazie alla quale la vita ha potuto aver luogo sulla Terra. La questione è che oggi, se da un lato la deforestazione riduce la capacità polmonare di questo respiro, dall’altra, sono i paesaggi vulcanici dell’era industriale ad immettere sempre più CO2 nella biosfera generando il cosiddetto effetto serra. E così, sempre più calore solare viene trattenuto dall’atmosfera portando a quello sbrinamento del ghiaccio polare di cui tanto si parla. Il centro di ricerca internazionale Catlin Arctic Survey, al termine di una ricerca condotta nel marzo del 2009, ha elaborato una proiezione matematica secondo la quale nel 2020 rimarrà solo il 20% dei ghiacciai del Polo nord che, con molta probabilità, nel 2030/2040 verranno completamente liquefatti14. È in questo caloroso clima planetario che, ovviamente, quei processi di selezione naturale studiati da Darwin accelerano sospingendo un incalcolabile numero di specie all’estinzione. La dinamica accelerata del tempo-mondo non riduce solo la bio-diversità, ma anche la socio-diversità, estinguendo le stesse parole parlate dagli uomini. Ciascuna lingua, essendo un qualcosa di vivo, è sempre stata soggetta al ciclo della nascita e della morte. Così è stato, ad esempio, per il latino. La questione è che oggi questo siologico processo è mondialmente accelerato. L’Unesco15 stima infatti che le 5000 lingue parlate nel mondo siano attraversate da un processo di estinzione con un ritmo di una ogni quindici giorni e che, nelle ultime tre generazioni, sono scomparse 200 lingue e 632 sono segnalate come in pericolo e le altre 502 sono segnalate 14

15

www.catlinarcticsurvey2009.com/ . Le stime dei dati di questo processo sono tutt’oggi fonte di divisione nella comunità scientica attenta allo studio dei mutamenti climatici. Ma è poi soprattutto l’individuazione delle cause che generano questo caloroso clima planetario ad essere oggetto di vere e proprie dispute teologiche a carattere scientico. Vi è, infatti, una fazione di scienziati critici che rintracciano nell’impatto antropico la causa prima della riduzione dei ghiacciai e l’altra che, invece, minimizza tale fattore attribuendolo ad un normale periodico riassetto dell’equilibrio climatico naturale. L’unica cosa certa è che la riduzione dell’assorbimento di Co2 dovuta alla deforestazione e l’accelerazione della rivoluzione industriale di cui è protagonista la Cina e l’India non fanno che ispessire quella naturale schermatura di anidride carbonica che permette alla Terra di trattenere il calore solare all’interno della bio-sfera. Cfr. www.unesco.org/culture/en/endangeredlanguages

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come seriamente in pericolo. Così come la scomparsa di una foresta non segna semplicemente la sparizione di alberi, ma di tutta la bio-diversità in essa contenuta, così la scomparsa delle lingue non implica la semplice sparizione di parole ma della bio-diversità della natura sociale in essa contenuta poiché come scrive Claude Hagège: Le lingue non consentono solo di parlare o di scrivere per rappresentare, ben oltre la nostra scomparsa sica, la nostra storia, ma la contengono. Tutti i lologi, o tutte le persone che nutrono curiosità per le lingue, sanno che in esse si depositano tesori che raccontano l’evoluzione delle società e le avventure degli individui. Le espressioni idiomatiche, le parole composte hanno un passato che mette in scena personaggi viventi. La storia delle parole riette quella delle idee. Se le società non muoiono non è solo grazie agli storici e ai narratori ufciali, ma anche grazie al fatto che possiedono delle lingue, e dalle lingue sono narrate.16

La lingua, dunque, non è un semplice strumento comunicativo, poiché la loro concatenazione narrativa detiene la storia, le avventure degli individui, le visioni del mondo, in una parola la vita stessa della società. Per il linguista franco-tunisino, le principali cause della scomparsa delle lingue sono di tre tipi: siche) causate da epidemie, catastro naturali, genocidi, migrazioni; economiche e sociali) come quelle determinate dall’integrazione delle culture nomadi e rurali nella struttura sociale dei grandi centri urbani17; politiche) generate dall’imposizione da parte del potere statale di una lingua dominante a svantaggio delle altre minoranze etniche presenti nel proprio spazio territoriale. Come si evince dalla tipologia di Hagège, le cause della morte di una lingua non sono delle cause endogene essendo determinate da un mutamento delle condizioni siche, sociali, economiche o politiche. Ebbene, queste cause oggi vengono esasperate dall’accelerazione del tempo-mondo producendo quella impressionante riduzione del patrimonio linguistico certicata dall’Unesco. Questo a testimoniare come la stessa socio-diversità dell’umanità segua democraticamente la stessa dinamica di estinzione, così come accade a ciascuna altra specie. Solo il monolinguismo cibernetico - che parla mondialmente del tempo senza con ciò 16 17

C. Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2005, p. 14. A tal proposito Hagège fa l’esempio delle giovani generazioni di nubiani giunti nelle grandi città egiziane di al Cairo e ad Alessandria. Cercando una emancipazione sociale attraverso il lavoro e vivendo in un ambiente mediale di lingua araba essi hanno man mano smesso di parlare la loro lingua d’origine spezzando la possibilità di comunicarla alle generazioni successive.

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dire niente di esso - è ciò che riesce ad imporsi attraverso il suo ecosistema reticolare ad ogni mondo sociale e naturale. La scarsità del tempo, la velocità come regime di verità, il progresso come destino dell’umanità, l’atroa del passato e la riduzione delle differenze: è tutta quella fenomenologia generata dalla dinamica accelerativa del tempo-mondo. Anche in questo caso, occorre adesso riposare lo sguardo da questa visione cinematograca della crono-architettura mondo per comprendere, nel prossimo capitolo, come siano questi fenomeni a sospingere la vita delle società contemporanee verso la sfera zoologica.

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5. L’ODISSEA POST-UMANA VERSO IL TEMPO ANIMALE

Grazie a quanto è emerso dall’analisi dinamica della rete cronometrica, possiamo ora riprendere il nostro cammino verso quegli elementi sociozoologici rimasti ancora sullo sfondo. Prima di imboccare con decisione questo cammino, facciamo una piccola digressione sul viaggiare poiché, come avremo modo di spiegare, non sempre la linea retta è il percorso più breve per raggiungere la meta. Non è un caso che uno dei primi racconti che ha inaugurato la nostra tradizione letteraria narri proprio di un viaggio, quello di Ulisse tra le sponde del Mediterraneo verso la sua amata isola, Itaca. Una storia già conosciuta e decantata nel mondo dell’oralità ma che Omero, attorno all’VIII secolo a.C., raccolse nel poema dell’Odissea facendola viaggiare nel nascente mondo della scrittura. La trama inizia all’indomani della caduta di Troia alla quale, come è noto, contribuì proprio l’astuzia del re di Itaca inventando il celebre cavallo di legno con il quale la lega achea valicò con l’inganno le mura della città nemica, espugnandola. La narrazione dell’Odissea inizia da qui, con la narrazione del periglioso percorso di ritorno di Ulisse verso casa, verso la sua isola perduta dietro le lunghissime vicende belliche della guerra di Troia. È in questo racconto mitico che si manifesta l’archetipo del viaggio nel quale l’andare e il ritornare diventano parte di un solo movimento circolare. Un movimento che, tuttavia, non traccia un cerchio perfetto ma un cerchio spezzato. Ulisse, infatti, giungerà nella sua pietrosa isola non con la sua precedente identità di re ma, all’opposto, sotto le sembianze di un mendicante che solo il suo cane Argo riuscirà a riconoscere. È rifugiandosi nel segreto di questa identità capovolta che egli preparerà il piano per riportare l’ordine politico turbato dall’insediamento dei proci nella sua corte durante la sua assenza. Ciò che ha trasformato Ulisse al suo arrivo, e anche la sua Itaca, è appunto il cerchio spezzato del viaggio. Ecco, l’archetipo del viaggio è connotato da questa circolarità imperfetta che avvolge chi lo compie in un campo energetico capace di metamor-

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fosarlo in qualche parte di sé. Il tipo di percorso scelto, le tappe che lo articolano, i paesaggi attraversati, gli incontri avuti, i disagi degli spostamenti, gli imprevisti vissuti sono tutti elementi che, al di là della meta raggiunta, attivano questo campo energetico che non fa mai tornare esattamente uguale il viaggiatore nella sua personale Itaca. Anche la lettura è una forma, se pur particolare, di viaggio. Il lettore di questo saggio, ad esempio, si è spostato lungo sentieri fatti di caratteri e spazi, ha trovato nei capitoli le sue tappe, ha attraversato paesaggi dischiusi da immagini retoriche e metaforiche, si è intrattenuto con gli autori citati, ha avuto disagi quando la scrittura non era sufcientemente chiara, ha vissuto imprevisti viraggi discorsivi più o meno piacevoli. Probabilmente, anche questo particolare viaggiatore giunto n qui ha qualcosa di impercettibilmente diverso nel suo mondo riessivo così come, d’altro canto, è stato per l’autore mentre tracciava con la scrittura i percorsi da proporre al suo lettore immaginario. Tutto ciò mostra come non sia tanto lo spazio la conditio sine qua non del viaggiare, quanto piuttosto il tempo a dispiegare, attraverso la sua durata, il suo campo energetico rendendo anche il lettore o lo scrittore un viaggiatore. Chi viaggia solo con la mente, infatti, entra in un tempo comune a quello di Ulisse che non è né quello della patria lasciata, né quello dei luoghi visitati, ma è invece una temporalità a se stante nella quale l’energia metamorca del viaggio ha modo di produrre i suoi effetti. Solo l’uomo ha sviluppato questa dote di conoscersi e trasformarsi viaggiando nel tempo senza mettere necessariamente in la i suoi passi sullo spazio. Le crono-architetture, creando un tempo a se stante rispetto a quello naturale, sono la manifestazione a livello sociale di questa singolare dote umana. Anch’esse permettono, alle comunità che le edicano, di viaggiare nel tempo, facendole andare verso una propria Itaca immaginaria, un’età dell’oro perduta dietro l’inizio stesso delle loro rotte verso l’avvenire. In fondo, sia il pensiero escatologico cristiano che il materialismo dialettico - per citare due esempi di crono-architetture costruite dalla nostra civiltà non hanno fatto altro che far viaggiare nel futuro milioni di persone verso l’unità con un’Itaca perduta, chiamata dal primo Paradiso e dal secondo Socialismo. Un’unità che, ovviamente, non è stata raggiunta da nessuno dei due così come, d’altronde, è accaduto al resto delle altre comunità umane nelle loro singolari odissee. Ciascuna di queste, infatti, non ha fatto altro che riattivare l’archetipo del cerchio spezzato del viaggio che ha metamorfosato le società stesse che le hanno intraprese. Vi è, tuttavia, un punto profondo che accomuna tutte le odissee sociali compiute dagli uomini attraverso le loro crono-architetture e che rende

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ciascuna loro Itaca parte di un solo arcipelago umano. Questo punto è la ricerca della patria perduta per eccellenza, la ricerca di quella unità originaria con il mondo naturale persa dietro il processo di ominizzazione. Come oramai sappiamo, è la storia logenetica dell’uomo ad aver aperto la sua identità organica permettendogli di diventare l’unico animale in grado di spezzare il cerchio del viaggio nel tempo entrando nel campo metamorco della sua tecnica ri-creativa. È in questo campo energetico che ciascuna comunità umana ha coltivato, attraverso lo scambio sociale, le forme della propria seconda natura sociale con le quali si è trasgurata cercando di ripristinare, nei suoi percorsi nel tempo, l’ordine perduto della prima natura. Un ordine irraggiungibile proprio perché ciascuna di queste odissee sociali nel tempo si è orientata verso una Itaca posta in un piano immaginario trascendente al mondo naturale. Anche nella contemporaneità la crono-architettura mondo, raccogliendo la popolazione umana in un’unica odissea nel tempo, ripropone l’archetipo dell’andare e del tornare del viaggio nel tempo. Ma con una variante. La dinamica generata dalla rete cronometrica, infatti, produce un movimento circolare che non la fa andare verso qualche nuova Itaca immaginaria posta su di un piano altro dal mondo naturale. L’odierna odissea dell’umanità, infatti, va verso la prima natura stessa richiudendo il cerchio spezzato dell’archetipo del viaggio. Nel capitolo precedente, abbiamo visto come le società contemporanee vengano sospinte dal usso in costante accelerazione del tempo-mondo verso una eterna dislocazione nel futuro senza una visione del mondo capace di individuare una meta da raggiungere e senza una costellazione metanarrativa che ne orienti il percorso. Ciò che ancora non abbiamo evidenziato è come questa progressiva odissea umana, ponendo nel movimento stesso la sua Itaca, determini anche un involontario contro-movimento regressivo. Si potrebbe dire che più le società contemporanee diventano parte dell’ecosistema generato dalla crono-architettura mondo e più esse fanno viaggiare l’umanità verso l’origine animale smarrita dietro la sua storia logenetica. È di questo che dobbiamo occuparci per comprendere quegli elementi socio-zoologici rimasti ancora sullo sfondo. Per comprendere da cosa nasca questa progressiva regressione contemporanea, credo che sia opportuno ritornare per un attimo all’origine del nostro percorso, lì dove ci siamo occupati di mettere a fuoco quel singolare rapporto dell’uomo con il tempo che lo emancipa dal restante mondo zoologico. Tale emancipazione, come si diceva nella prima parte, è l’esito di quella rivoluzione del tempo compiuta dai primi ominidi qualche milione di anni

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fa negli spazi angusti dei loro piccoli crani. Furono loro che riuscirono a far camminare il pensiero dell’umanità sul tempo e non più nel tempo dando vita così all’alba dell’umanità. La differenza è sostanziale. È da allora che l’uomo ha cominciato ad ancorare la fune del suo mondo mentale, che gli ha permesso di camminare come una specie di funambolo elevandosi al di sopra del usso del tempo naturale. Si diceva anche, che è stata questa vertiginosa distanza che gli ha permesso di distanziarsi dalla dimensione dell’immediatezza, che schiaccia al suolo del qui ed ora la vita animale. È questo schiacciamento che impedisce agli esseri non umani di intraprendere dei propri viaggi nel tempo architettando un proprio contro tempo rispetto a quello naturale. Diversamente accade nell’uomo. Grazie alla sua funambolica distanza meta-cognitiva dall’immediatezza, egli è l’unico animale ad aver spezzato la circolarità del divenire naturale riuscendo così a viaggiare in un proprio usso temporale. La questione è che nella contemporaneità, come si diceva, l’accelerazione del tempo-mondo ha tecnicamente saldato questo cerchio spezzato attraverso tutti quei fenomeni indotti dal suo uire: la scarsità del tempo, la velocità come regime di verità, il progresso come destino dell’umanità, l’atroa del passato e la riduzione delle differenze. Più questa dinamica accelerativa intensica questi fenomeni, più essi aumentano la forza di gravità del presente abbassando il cammino funambolico dell’uomo verso il uire del tempo naturale, paricandolo alla restante platea zoologica. È proprio questo schiacciamento dell’uomo sul presente animale quell’elemento socio-zoologico mancante e che nella contemporaneità richiude il cerchio spezzato del viaggio nel tempo intrapreso dall’umanità all’interno della crono-architettura mondo. La sua dinamica in costante accelerazione è infatti ciò che, in un rapporto inversamente proporzionale, riduce quello spazio mentale dall’immediatezza grazie al quale ciascuna comunità umana ha potuto far aforare nel suo immaginario una Itaca da raggiungere. È come se la circolazione del tempo-mondo tra i suoi 24 fusi orari esercitasse una forza centripeta tale da far ricadere le società contemporanee in un regime di realismo animale, dove è la ferrea logica del presente a creare per esse dei conni temporali invalibili. Gli istanti cronometrici senza più durata sembrano, infatti, forgiare gli anelli di una sola catena che, per quanto lunga, riporta la mente umana costantemente al piolo del qui ed ora. È con questo incatenamento che l’uomo, al di là della sua collocazione geo-culturale, si ritrova in quel rigido perimetro del comportamento animale basato sullo stimolo-risposta riprodotto dall’utilità e dal calcolo logico-razionale del tempo cibernetico.

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Il paradosso di tale incatenamento è che l’uomo, essendo un essere naturalmente ritardato1, non dispone di schemi reattivi tali da potersi armonicamente riadattare a questo ritorno verso l’istante animale perduto. È il viaggio intrapreso dal processo di ominizzazione che, come si diceva nella prima parte, lo ha metamorfosato in un essere che nasce organicamente allo stato fetale, senza disporre, cioè, nella sua architettura anatomica di una specializzazione particolare, se non quella di non avere specializzazioni. Sono solo gli animali non umani che, disponendo di una morfologia organica già specializzata alla nascita, possono rispondere prontamente alle stimolazioni-chiave come la fame, l’istinto sessuale, l’attacco e la fuga, la risposta reattiva ai cambiamenti stagionali che li spingono alla migrazione o al letargo. Sono tutte queste le stimolazionichiave che attivano negli animali schemi di risposta immediati alle variazioni che si presenticano nei loro ambienti specici. Questi schemi comportamentali reattivi non sono solo inscritti nella loro struttura genetica poiché, come ci spiegano gli studi etologici, essi sono suscettibili di piccole variazioni. Lorenz, ad esempio, nella sua argomentazione intorno all’apprendimento esplorativo2, dimostra come anche gli animali - con gradi di complessità differenti dipendenti dalla loro appartenenza di specie - imparano dal tempo, integrando i propri schemi comportamentali innati con quelli appresi nel corso delle loro esperienze. Tale capacità, dunque, ci dice che anche l’animale ha una sua dimensione temporale extra-genetica alla quale riferirsi per poter cambiare le sue risposte, esplorando nuove possibilità comportamentali. Nonostante ciò, la vita animale resta comunque centrata nel qui ed ora, non potendo elevarsi su quella fune tessuta dal pensiero dell’uomo che, esonerandolo dalla contingenza delle situazioni, gli permette di esplorare non solo nuove possibilità comportamentali ma il tempo stesso riuscendo a pregurare e cambiare i nessi tra passato e futuro. Per quanto, ad esempio, il comportamento esplorativo possa far modicare ad un leone il suo schema di caccia per afferrare la sua gazzella, esso non sarà che una variazione su 1 2

Cfr. Parte I in part. Cap. 3 Il riequilibrio della seconda natura. Scrive a tal proposito il fondatore dell’etologia Konrad Lorenz: «Sull’apprendimento, facoltà di cui sono dotati quasi tutti gli organismi che presentano un certo sviluppo del sistema nervoso centrale, si fonda nei vertebrati superiori un processo originale di acquisizione individuale di informazioni, l’esplorazione.[…] Per capire questo processo è importante tenere presente la situazione di stimolo dell’animale: tutto questo accade solo quando egli non ha fame e non ha veramente , in altre parole solo in un campo di distensione». In Natura e destino, Mondadori, Milano 1985, pp. 273-274.

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un tema comune attivato dallo stimolo chiave della fame. Un tema, che si ripete da milioni di anni all’interno di quel cerchio chiuso dell’immediatezza che gli impedisce di conoscere il tempo in termini di possibilità. È l’uomo, invece, che inibisce la stimolazione della fame attraverso la sua coscienza riessiva riuscendo a ri-creare una tecnica di caccia talmente variabile che, nella sua storia logenetica, è passata dalle primitive punte in selce agli odierni proiettili, gli stessi che oggi stanno facendo estinguere lo stesso leone. Il celebre esperimento sul riesso condizionato condotto da Ivan Pavlov con il suo cane, facendogli associare al suono della campana l’offerta di cibo, non fa che essere esplicativo di questa rigidità del comportamento animale. Il medico ed etologo russo, notò infatti che grazie a questa associazione anche in assenza di cibo bastava far risuonare la campanella per fare attivare la secrezione salivare del suo cane secondo quella rigida scansione basata sullo stimolo-risposta. Il comportamento umano, basato anch’esso sul riesso condizionato, così come su altri tipi elementari di reazione, è integrato dalla sua capacità eccentrica che gli consente di essere sia attore, sul palco del qui ed ora, che spettatore della sua vita, decentrato sulla fune del suo controtempo mentale. D’altronde è questa eccentrica capacità che ha permesso allo stesso Ivan Pavlov di interrogarsi e di comprendere i nessi temporali del comportamento del suo cane animale attraverso il suo cinico esperimento. La questione è che oggi, con lo schiacciamento sul presente, tutta l’umanità sembra assomigliare sempre più al cane-pavlov piuttosto che al suo padrone Ivan Pavlov. In fondo, abbiamo già incontrato questo appiattimento umano verso il comportamento animale a proposito delle dichiarazioni fatte dal presidente del FMI Christine Lagarde alla politica italiana, con le quali sollecitava a dare risposte immediate alle stimolazioni scandite dalla natura competitiva del mercato nanziario. In questo caso è un’intera nazione che entra nella temporalità animale dello stimolo condizionato. Cosa sono, infatti, le manovre nanziarie a cui stiamo assistendo se non le secrezioni salivari di una nazione-pavlov attivate dal campanello d’allarme suonato dal presidente del FMI? Anche in questo caso, dunque, la natura tecnica del tempo-mondo, accelerata al suo massimo grado dalla mega-macchina automatizzata del sistema nanziario, non fa che sospingere la dinamica sociale italiana, così come in generale quelle mondiali, verso l’esemplicazione dello schema comportamentale animale dello stimolo-risposta.

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La questione ancora più inquietante è che la stessa povera Lagarde è un presidente-pavlov, in quanto è eterodiretta dalla logica cronometrica per la quale il tempo diventa denaro e viceversa. Se lei, infatti, non suonasse prontamente la campana alla settima potenza economica del mondo - così come a tutti gli altri Paesi-pavlov del cosiddetto terzo mondo presi ancor più brutalmente al guinzaglio dagli accordi capestri imposti proprio dal FMI - ci sarebbe qualcun altro a farlo con estremo onore insediandosi al suo posto. E questo perché, se i presidenti passano, è il dispositivo temporale cibernetico che non passa e che giudica democraticamente l’operato dei grandi manovratori della macchina nanziaria così come ogni altro comune operaio che troviamo alla catena di montaggio. In entrambi i casi, infatti, il criterio di giudizio attinge a quella logica aritmetica del maggior surplus in minor tempo capace di giudicare tutta la piramide sociale secondo quel regime di verità della velocità di cui ci siamo occupati. È sotto questo regime che la prontezza di riessi - in un mondo dove non c’è più tempo per riettere ma solo per accelerare - diventa quel regolatore di efcienza capace di esemplicare il comportamento umano animalizzandolo. In questo passaggio dalla riessività al riesso condizionato, imposto dalla schiacciante accelerazione del tempo-mondo, non si esemplica solo il comportamento della popolazione umana ma, di conseguenza, anche la complessità delle nature sociali contemporanee entro le quali essa è ripartita. Molte volte, si denisce l’attuale società globale come complessa, scambiando la sosticazione dei dispositivi tecnici con la sosticazione ben più ampia espressa dalle nature sociali con le quali l’uomo si è distinto dagli altri animali. Eppure, mai come oggi il passaggio dalla riessività al riesso condizionato è ciò che non solo esemplica le nature sociali, ma le sospinge mondialmente a diventare parte di un solo superorganismo. Questo è l’altro elemento socio-zoologico determinato da quella progressiva regressione dell’odissea post-umana nel usso accelerato del tempo-mondo e che adesso dobbiamo analizzare. Il superorganismo, nella gerarchia dell’organizzazione biologica, si colloca un gradino al di sopra degli organismi cellulari essendo composto da animali che agiscono in stretta collaborazione come, ad esempio, le colonie di formiche. Il livello essenziale di ogni superorganismo è quello della sociogenesi, nel quale ogni suo componente è diviso in caste specializzate che operano insieme come se fossero un solo corpo. Quello che permette alla moltitudine dei componenti di una colonia di agire come se fosse un solo corpo è la presenza di regole rigide estremamente funzionalizzate che la inducono a rispondere a determinate stimolazioni

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ambientali secondo uno spettro di possibilità limitate. Un corpo capace, attraverso sosticati sistemi comunicativi, sia di disseminarsi nello spazio circostante, che di concentrarsi all’interno di vere e proprie città come quelle sotterranee dei formicai composte da cunicoli e camere. Molte volte l’osservazione della vita degli insetti eusociali ha fatto riettere sulle analogie che intercorrono con l’organizzazione del mondo degli uomini. A partire dalla nascita delle prime città nella storia3, anche gli uomini hanno sviluppato un’organizzazione basata dalla divisione del lavoro e dalla straticazione sociale. Senza considerare, poi, come le città siano state all’origine di quel salto tecnologico nel sistema comunicativo grazie al quale è nata la scrittura. Ciò che però ha distinto la vita dei formicai da quella delle città è dato dai sistemi di credenze espressi dagli immaginari sociali. Sono essi che hanno permesso alle comunità umane, non solo di dare un ordine alla loro organizzazione, ma anche di esprimere quell’eccedenza ri-creativa dell’uomo che ha fatto variare la loro seconda natura sociale sconosciuta all’organizzazione dei superorganismi. È nell’epoca post-umana che la comparazione assume i caratteri di una vera e propria similitudine nel quale l’organizzazione sociale delle formiche sembra sovrapporsi a quella degli uomini. Sono i biologi americani Bert Hölldobler e Edward Wilson ad aver affrontato un interessante ed approfondito studio sulle formiche attraverso la categoria del superorganismo. Ascoltiamoli: Nel cervello di una formica operaia non vi è alcuna rappresentazione di un progetto dell’ordine sociale. Non esiste un supervisore che esegua questo piano generale nella propria testa, né una casta che agisca da cervello. Piuttosto, la vita della colonia è il prodotto dell’auto-organizzazione. Il superorganismo esiste nelle singole risposte programmate degli organismi che lo compongono. Le istruzioni di assemblaggio dagli organismi sono da un lato gli algoritmi dello sviluppo che hanno dato luogo alle caste, dall’altro gli algoritmi comportamentali, responsabili del comportamento degli individui all’interno delle caste istante per istante.4

Anche la natura tecnica del tempo crea quell’ambiente cronometrico ideale che avvolgendo mondialmente le società contemporanee le sospin3

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Cfr. L. Mumford, op. cit. Lo stesso Emile Durkheim attribuisce all’aumento del volume di popolazione in uno stesso spazio quel naturale passaggio dalla società segmentaria a quella organica nella quale il lavoro dei sui componenti si specializza dando vita alla straticazione sociale. Su questo cfr. La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1999. B. Hölldobler / E. Wilson, Il superorganismo, Adelphi, Milano 2011, p. 32.

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ge verso una tale organizzazione sociale. Una volta che gli algoritmi, esatti e calcolabili, impressi dall’accelerazione cronometrica comprimono la capacità immaginativa della popolazione mondiale, esemplicandone i comportamenti secondo regole di efcienza altrettanto rigide, la loro organizzazione sociale non fa che funzionare anch’essa come un superorganismo. La differenza è che il superorganismo, nel quale l’umanità diventa un solo corpo, non si addensa tanto nello spazio, quanto piuttosto nel tempo reale generato dalla riproducibilità tecnica del digitale. Sono gli algoritmi del codice binario dello 0 e 1 che permettono agli algoritmi cronometrici di metamorfosarsi in uno spazio immateriale capace, proprio per questo, di materializzarsi istantaneamente in ogni spazio geoculturale. Quello che rende possibile questa convertibilità metamorca è il fatto che entrambi sono dei codici cibernetici fondati dal linguaggio matematico. È in questo suolo spazio-temporale che l’intera popolazione umana si addensa sempre più velocemente nel presente, diventando un tele-superorganismo, capace cioè di auto-organizzarsi al di là delle distanze geograche. Ancora oggi molti considerano questo spazio-tempo cibernetico come ‘virtuale’, considerandolo un surrogato della realtà, senza accorgersi di come proprio in esso si assembli concretamente il tele-superorganismo, che diventa così una nuova realtà sociale dominante su ogni altra realtà geo-culturale. Joshua Meyrowitz, denendo i luoghi mediali come nuovi spazi d’interazione, è stato uno dei primi studiosi a comprendere l’effettiva realtà dello spazio-tempo cibernetico, poiché come scrive: La natura dell’interazione non è determinata dall’ambiente sico in quanto tale, ma dai modelli di usso informativo.[…]La nozione di situazione come sistema informativo permette di rompere l’arbitraria distinzione spesso posta tra studi dell’interazione faccia a faccia e studi delle comunicazioni mediate. Il concetto di sistema informativo indica che gli ambienti sici e gli ‘ambienti ’ dei media appartengono ad un continuum e non a una dicotomia. I luoghi e i media favoriscono entrambi i modelli stabiliti di interazione tra individui, i modelli stabiliti di ussi di informazione sociale. 5

Questo continuum spazio-temporale non solo diventa quel nuovo luogo d’interazione faccia a faccia, esso diventa anche quel luogo terzo attraverso il quale i corpi degli attori sociali producono effetti di realtà incidendo letteralmente su altri corpi. È quello che dimostra l’attività

5

J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1995, pp. 60-62.

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dell’European Institute of TeleSurgens (EITS)6, centro di eccellenza della chirurgia a distanza attivo già dal 1997, una data preistorica nel campo dell’innovazione informatica. Il Prof. Jacques Marescaux, fondatore del centro, nel 1996 è stato il primo a compiere una operazione chirurgica transoceanica assistita da robot, in collegamento tra New York, dove era collocato il corpo del paziente, e Strasburgo, dove invece era collocato il corpo del chirurgo. Se dal punto di vista spaziale la mano del chirurgo e il corpo anestetizzato da un lato si allontana – poiché l’una è a Salisburgo, l’altro è a New York – è nello spazio-tempo cibernetico che si riduce al minimo permettendo l’operazione. Anche le operazioni nanziarie, con altrettanta precisione chirurgica, usano concretamente questo spazio-tempo cibernetico per accorciare l’intervallo della compra-vendita dei titoli tra le Borse mondiali producendo concretamente sempre più ricchezza. Ed è per tale ragione che oggi si sta provvedendo ad accorciare all’inverosimile questo intervallo attraverso l’istallazione sul fondo dell’oceano Atlantico del primo cavo sottomarino a bre ottiche costruito dalla società Hibernia Atlantic7. Questo nuovo super-cavo sottomarino non servirà a trasportare informazioni qualsiasi - voce, telefonate, testi o immagini – ma i dati nanziari tra le borse di NewYork e Londra, facendo guadagnare cinque milli-secondi ai trader delle due principali piazze nanziarie del globo. Una frazione temporale impercettibile, ma un’eternità nel mondo delle transazioni computerizzate nel quale l’equivalenza tra denaro e spazio-tempo diviene sempre più vitale per la crescita del mercato nanziario mondiale. È in questo spazio-tempo cibernetico che il tele-superorganismo trova dunque il terreno nel quale addensarsi scavando anch’esso al suo interno un proprio formicaio cibernetico chiamato comunemente Internet. Contrazione della locuzione inglese Interconnected Networks (ovvero Reti Interconnesse), è anch’esso costituito da cunicoli fatti di bre ottiche, cavi coassiali, linee telefoniche e collegamenti satellitari. Nella parte superiore dell’elaborazione graca riportata qui sotto (Fig. 8)8 vengono evidenziati i ussi informativi che, in tempo reale, viaggiano in questi cunicoli cibernetici da un punto all’altro del pianeta; nella parte inferiore, in modo speculare, sono evidenziati i punti del pianeta nei quali maggiormente gli utenti accedono a questi cunicoli cibernetici. 6 7 8

Cfr. www.websurg.com La notizia è riportata da La Repubblica in un articolo di Federico Rampini – inserto AFFARI&FINANZA - di lunedì 31 ottobre 2011. L’elaborazione graca è opera di un ricercatore della Microsoft Chris Harrison. Fonte delle due immagini www.chrisharrison.net

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Figura 8

Come ogni formicaio, anche quello elettronico di Internet è costituito, oltre che da cunicoli cibernetici, anche da camere cibernetiche che, nel caso specico, corrispondono alle banche dati contenute nei mega-computer dei Server Web. Un Server Web è un servizio che si occupa di fornire, tramite software dedicato e su richiesta dell’utente (denominato client), le di qualsiasi tipo, tra cui le pagine web visualizzabili dai programmi di navigazione (browser) presenti in ogni PC. Nelle camere dei Server Web non si accumula foraggiamento di natura organica, ma informazioni sotto forma di testi, musiche, ricerche, immagini, dati personali, informazioni di istituti pubblici e privati, conti bancari. Sono queste informazioni multimediali che in modo sempre più pervasivo e performante rendono riproducibile tutta la realtà delle società contemporanee. Un foraggiamento informatizzato sempre più appetibile ed indispensabile che spinge già 1/3 della popolazione mondiale9 ad entrare nel formicaio di Internet attraverso le sue porte di 9

Il dato è il frutto di uno studio statistico elaborato da una ricerca condotta nel 2010 dall’istituto ITU (International telecomunications union). Un dato provvisorio essendo la penetrazione di Internet a livello mondiale in costante crescita grazie alla possibilità di connessione on line tramite Tablet e smartphone e alla riduzione del

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accesso – computer, tablet e smartphone – per poter comunicare, svagarsi, lavorare, ricercare, consumare, ecc. E più questi accessi ogni anno si moltiplicano10, più ciascun utente, proprio come una formica, contribuisce con le sue informazioni – le contenenti testi, audio, immagini - ad arricchire sempre più velocemente le riserve di dati immagazzinate nei Server Web. È, dunque, attraverso i cunicoli delle connessioni telematiche e delle camere dei Server Web che si accresce esponenzialmente l’architettura del formicaio di Internet sfuggendo alla capacità rappresentativa dei singoli cervelli dei suoi utenti così come, d’altronde, accade ai cervelli delle formiche nel loro formicaio. Esso, infatti, si auto-organizza senza la necessità - come dicono i biologi Hölldobler e Wilson – di «un supervisore che esegua questo piano generale nella propria testa, né una casta che agisca da cervello» poiché è lo stesso formicaio di Internet a funzionare nel suo insieme come il cervello elettronico del tele-superorganismo umano. Se, infatti, lo spazio-tempo cibernetico è ciò che addensa nel suolo del presente la colonia umana rendendola un solo corpo, è il formicaio di Internet il suo sistema nervoso centrale che ne organizza attraverso la comunicazione istantanea la vita. Nelle tre immagini riportate qui sotto è possibile avere una visione della mappa di Internet (Fig. 9)11, del calco di un formicaio (Fig. 10)12 e dell’immagine al microscopio elaborata gracamente al computer delle reti neuronali umane (Fig. 11)13.

Figura 9

10 11 12 13

Figura 10

Figura 11

digital devise dei Paesi meno sviluppati. Su questo cfr. www.itu.int/ITU-D/ict/ statistics/ Sempre l’ITU stima che solo nel 2011 la Rete ha registrato un incremento dei dati scambiati del 62% rispetto all’anno precedente. Fonte immagine: www.physorg.com L’immagine è tratta dal saggio di Hölldobler / Wilson, op. cit., p. 410. L’immagine è tratta dal saggio di Kandel / Schwartz / Jessell, op. cit., p. 75.

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La cosa interessante, che risalta immediatamente agli occhi, è come tutte queste diverse tipologie celebrali siano caratterizzate da forme reticolari tra loro analoghe, nelle quali ferve un’altrettanta analoga attività comunicativa interconnettiva. D’altronde, come spiegano sempre Hölldobler e Wilson, un elemento essenziale della vita di un superorganismo è il sistema comunicativo con il quale i suoi componenti scambiano rapidamente e in modo efcace informazioni utili per la sopravvivenza della vita della colonia. Nelle formiche questo linguaggio viene veicolato dal feromone, una sostanza chimica rilasciata dalla estremità dei loro addomi lungo le tracce delle loro escursioni. Nel caso in cui una formica operaia trovi, ad esempio, del cibo, essa rilascia sul suolo questa sostanza chimica che le permette di ritrovare il sito dopo ogni suo viaggio al formicaio. Inoltre, se il sito è ricco di foraggiamento, la scia del feromone rilasciata dal suo passaggio, vaporizzandosi, viene captata dalle antenne delle altre formiche operaie reclutandole verso il medesimo punto. È attraverso questo sistema di comunicazione bio-chimica che il superorganismo sviluppa un suo sistema nervoso che gli permette di coordinarsi nel suo ambiente come se fosse un unico corpo. Sia un sistema nervoso periferico - costituito da ogni singola formica - che permette al suo corpo di disseminarsi nello spazio, che un sistema nervoso centrale - costituito dal formicaio - nel quale afuiscono tutte le informazioni provenienti dall’esterno, producendo risposte utili alla sopravvivenza dell’intera colonia. Lo stesso accade nel tele-superorganismo umano. Se, come si diceva, è il formicaio di Internet il suo sistema nervoso centrale, i suoi utenti costituiscono i ricettori del suo sistema nervoso periferico, che consente al suo corpo di captare e muoversi in modo coordinato nello spazio-tempo cibernetico. La differenza è che il medium, che veicola le informazioni nel tele-organismo umano, non è il feromone ma uno estremamente più veloce: l’elettricità. Un medium, questo, capace di estendere mondialmente l’elettricità bio-chimica delle reti neurali dei cervelli dei suoi utenti ogni volta che essi, come delle formiche operaie, traducono in codice binario la realtà geo-culturale che li circonda. Telecamere, macchine fotograche, registratori MP3, sono quei sistemi mediali capaci di captare e tradurre digitalmente i piccoli come i grandi eventi della vita sociale trasformandoli in le multimediali, rendendoli così in grado di essere inviati istantaneamente on line nel World Wide Web. Macchine mediali sempre più diffuse, essendo ambite e desiderate dalla massa mondiale dei consumatori, e grazie alle quali si estende il sistema nervoso periferico del tele-superorganismo, che fa afuire sempre più informazioni nel sistema nervoso centrale del formicaio di Internet. E più questo sistema nervoso periferico/centrale si

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sviluppa in modo proporzionale, più il tele-superorganismo riesce a produrre effetti di realtà - di natura politica, economica, sociale, ecc. - dallo spazio-tempo cibernetico a quello geo-culturale. Esempio eclatante di ciò è l’attacco terroristico al World Trade Center di New York l’11 settembre 2001: gli occhi elettronici delle talecamere digitali hanno captato e trasmesso istantaneamente l’accadimento al sistema nervoso centrale del tele-superorganismo rendendolo live per i milioni e milioni di spettatori sparsi in ogni realtà geo-culturale. È questo sistema nervoso mediale, che ha prolungato su scala mondiale l’elettricità bio-chimica, che veicolava i pensieri angosciosi di chi era presente rende tale angoscia paralizzante per l’intera colonia umana. Una angoscia planetaria che ha creato effetti di realtà talmente concreti da cambiare gli equilibri geo-politici mondiali e da legittimare l’intervento militare degli Usa prima in Afghanistan (2001) e poi in Iraq (2003). L’11 Settembre 2001, è stato solo l’evento più eclatante di questa messa in onda on line dei grandi eventi mondiali di quella nuova storia naturale del tele-superorganismo che si compie al di là delle collocazioni geo-culturali delle società contemporanee14. Ciò che, però, rende diversa l’interconnettività delle informazioni che viaggiano elettricamente nella rete celebrale umana dalle altre è che solo la prima ha la possibilità di tessere quel lo di pensieri sul quale ciascun uomo si eleva come un funambolo al di sopra del presente. Né la rete del formicaio, né tanto meno la rete del formicaio mentale di Internet riescono, infatti, ad elevarsi dal presente riproducendo così la logica di funzionamento di un superorganismo. Solo la rete neuronale umana ha la capacità di essere, oltre che cervello, anche quel luogo mentale capace di integrare le stimolazioni del sistema nervoso periferico del corpo con quelle del sistema nervoso centrale del cervello. La mente umana è la sola, come si diceva nella prima parte15, a poter produrre quelle immagini terze capaci di indurre quella coscienza riessiva attraverso la quale immaginare il tempo in termini di possibilità. Ciascuna comunità umana, come abbiamo visto, ha edicato a partire da questo luogo mentale le cronoarchitetture attraverso le quali ha intrapreso le sue odissee nel tempo, verso quel comune arcipelago di isole umane irraggiungibili da ogni altro animale. Eppure, nella contemporaneità, è il uire del tempo generato dalla crono-architettura mondo che, sommergendo questo arcipelago umano, ha dato inizio a quella involontaria odissea post-umana verso il mondo zoologico. 14 15

Lo stesso è, infatti, accaduto con la cosidetta primavera araba che grazie al social network di Twitter ha mobilitato nel 2011 l’attenzione del tete-superorganismo sui Paesi del Nord Africa partecipando ai loro processi di emancipazione democratica. Cfr. Parte I in part. Cap. 2 Camminare sul tempo.

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POSTUMANI Collana diretta da Antonio Caronia 1 2 3 4 5 6

Franco Berardi, Alessandro Sarti, Run. Forma, vita, ricombinazione Derrick De Kerckhove, Dall’alfabeto a Internet. L’homme “littéré”: Alfabetizzazione, cultura, tecnologia Cristian Fuschetto, Darwin teorico del postumano. Natura, artificio, biopolitica Fabiana Gambardella, L’animale autopoietico. Antropologia e biologia alla luce del postumano Massimo Ilardi (a cura di), Il potere delle minoranze. Immaginari, culture, mentalità all’assalto del mondo Antonio Caronia, Antonio Tursi (a cura di), Filosofie di Avatar. Immaginari, soggettività, politiche

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