LA NIETZSCHE RENAISSANCE TRA DELEUZE E DERRIDA

September 29, 2017 | Autor: Paolo Vignola | Categoria: Gilles Deleuze, Friedrich Nietzsche, Jacques Derrida
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FILOSOFIE LGBT N. 117

Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari)

IL CLAMORE DELLA FILOSOFIA Sulla filosofia francese contemporanea A cura di Paolo Aldo Rossi – Paolo Vignola

MIMESIS Filosofie

© 2011 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Filosofie n. 117 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono e fax: +39 02 89403935 Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD) E-mail: [email protected]

INDICE

PREFAZIONE

p.

7

IL SIGNIFICATO E IL METODO DELLA STORIA DELLE SCIENZE “COSTRUITA DALLA MENTE DELLO STORICO” IN FEDERICO ENRIQUES di Paolo Aldo Rossi

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11

HENRI-LOUIS BERGSON, TRA OTTO E NOVECENTO di Luca E. Cerretti

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23

«LES PSYCHOLOGUES NE SAVENT PAS TOUT. LES POÈTES ONT SUR L’HOMME D’AUTRES LUMIÈRES». POETICHE DELLA MEMORIA NELLE RÊVERIES DI GASTON BACHELARD. IPOTESI PER UN’ERMENEUTICA DELLA LETTERATURA di Emanuela Miconi

p.

39

L’HEGELISMO FRANCESE NEGLI ANNI TRENTA NOVECENTO. GRANDEZZA E LIMITI di Roberto Morani

p.

53

JACQUES MARITAIN E I DIRITTI DELLA PERSONA UMANA di Simona Langella

p.

63

PROSPETTIVE STORIOGRAFICHE NELL’OPERA HENRI DE LUBAC: CATTOLICITÀ, PARADOSSO E MISTERO di Matteo Zoppi

p.

73

LA NIETZSCHE RENAISSANCE TRA DELEUZE E DERRIDA di Paolo Vignola

p.

87

DEL

FILOSOFICO-TEOLOGICA DI

BLANCHOT, IL NEUTRO, IL DISASTRO di Giuseppe Zuccarino

p.

107

J.- F. LYOTARD E IL POSTMODERNO di Ignazio Semino

p.

123

FOUCAULT E L’ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ di Filippo Domenicali

p.

141

PIERRE HADOT: LA FILOSOFIA COME MODO DI VITA di Letterio Mauro

p.

155

CREDENZA RELIGIOSA E VIRTÙ EPISTEMOLOGICHE: IL CONTRIBUTO DI POUIVET ALLA FILOSOFIA ANALITICA DELLA RELIGIONE IN FRANCIA di Marco Damonte

p.

167

SIMONE DE BEAUVOIR: LA PASSIONE DELLA LIBERTÀ di Luisella Battaglia

p.

183

L’AMBIVALENZA DEL DEMOCRATICO. NOTE SUL SENSO CLAUDE LEFORT E JEAN-LUC NANCY di Alessandro Esposito

p.

205

KLOSSOWSKI E LA NOZIONE DI SIMULACRO NELLA FILOSOFIA FRANCESE DI FINE NOVECENTO di Pierre Dalla Vigna

p.

223

AUTORI

p.

233

DELLA DEMOCRAZIA IN

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PAOLO VIGNOLA

LA NIETZSCHE RENAISSANCE TRA DELEUZE E DERRIDA

Nella comparsa alle stampe delle edizioni critiche di Nietzsche, curate da Colli e Montinari e pubblicate nel 1964, si è soliti individuare le condizioni di possibilità, filologiche e filosofiche, di una “rinascita nietzscheana” o, per dirla alla francese, di una “Nietzsche renaissance”. Ma se gettiamo uno sguardo sul panorama transalpino di quegli anni ci rendiamo conto che una riscossa nietzscheana era già in atto, grazie soprattutto al diffondersi di una linea interpretativa radicalmente antidialettica, che ha in Gilles Deleuze uno dei maggiori promotori. Se vogliamo comprendere le ragioni di questa rinascita dobbiamo però portarci sicuramente più indietro della lettura deleuziana di Nietzsche, ed osservare il percorso per così dire generale del panorama filosofico francese tra gli anni Venti e la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. La parabola francese In un libro indispensabile per l’interpretazione della filosofia francese del secondo Novecento, Le même et l’autre, Vincent Descombes descrive il movimento che, come una parabola, a partire dagli anni ‘40 fino alla fine degli anni ‘70, conduce prima a una rivalutazione della filosofia hegeliana contro il kantismo ed il bergsonismo, per superarla poi durante gli anni ’60 tramite una riabilitazione di Nietzsche, attuata in vista di una critica radicale della dialettica e del ruolo fondamentale che il negativo avrebbe in essa1. Si può intendere la motivazione di questa parabola, che da Kant giunge a Nietzsche, come la ricerca sempre più urgente di un pensiero che si rivolgesse direttamente ai processi e ai conflitti che attraversavano la società nel suo complesso. Per Descombes infatti, tanto la fenomenologia quanto il bergsonismo, per non parlare dell’idealismo universitario, erano incapaci 1

Cfr. V. Descombes, Le même et l’autre, Minuit, Paris 1978, p. 22.

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di portare la riflessione teorica a diretto contatto con la storia dell’umanità, mentre una rilettura “atea e antropologica”2 di Hegel sembrava avere le carte in regola per questo compito. Se il primo a rispondere a tale urgenza è stato Jean Wahl, con La coscienza infelice nella filosofia di Hegel3, il ruolo cardine all’interno della parabola spetta sicuramente a Alexandre Kojève, poiché, tramite i corsi tenuti all’Ecole Pratique des Hautes Études dal 1933 al 19394, ha dato il contributo decisivo per una “antropologizzazione” del pensiero hegeliano, giungendo tramite la dialettica servo-padrone ad un’interpretazione radicale dei conflitti novecenteschi. Il tema portante dei seminari kojèviani è dato dall’intreccio tra “desiderio di riconoscimento” – proveniente direttamente dalla trama della Fenomenologia dello spirito – e “valorizzazione del lavoro di classe” teorizzato da Marx. Ma la formidabile “molla” kojèviana, che ha consentito al processo di giungere a Nietzsche, risiede nella capacità del professore moscovita di portare la filosofia su territori a lei inconsueti, come il cinismo politico, le guerre e i massacri, mostrando l’aspetto paradossale ed inconciliabile della ragione, vale a dire l’origine irrazionale del razionale5. Tra gli studiosi che partecipavano ai seminari di Kojève, i nomi di spicco erano quelli di Bataille, Merleau-Ponty e Lacan, affascinati dalle intenzioni kojèviane di lavorare sugli aspetti eccessivi e paradossali del pensiero di Hegel, piuttosto che sui momenti razionali e pacificanti6. Descombes ha mostrato come la lettura di Hegel da parte di Kojève desse modo di rintracciare le origini non razionali della ragione, nella direzione di una “ragione 2 3 4

5

6

Cfr. ivi, p. 43. J. Wahl, Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, Rieder, Paris 1929; trad. it. di F. Occhetto, Id., La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, ISEDI, Milano 1972. Il seminario di Kojève, che si svolgeva ogni lunedì pomeriggio e durò 5 anni, divenne ben presto leggendario, «le discussioni che esso suscitava scavalcavano le mura delle aule universitarie per prolungarsi nei circoli letterari, nei laboratori politici e sociologici in cui si incubava una estrema riflessione sulla crisi del moderno», M. Vegetti, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Jaca Book, Milano 1998, p.17. Al seminario parteciparono, tra gli altri, Raymond Queneau, Georges Bataille, Jacques Lacan, Alexandre Koiré, Eric Weil, MauriceMerleau-Ponty, André Breton, Roger Caillois e Raymond Aron. Cfr. V. Descombes, Le même et l’autre, cit., p.26. Per una interpretazione del pensiero di Kojéve, oltre al già citato M. Vegetti, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojéve, si segnala D. Auffret, Alexandre Kojéve: la philosophie, l’état, la fin de l’histoire, Grasset, Paris, 1990; cfr. inoltre R. Dati, Alexandre Kojéve interprete di Hegel, La Città, Napoli 1998. Cfr. V. Descombes, Le même et l’autre, cit., p. 25.

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allargata”, capace di offrire nuova linfa alle speculazioni filosofiche, abbracciando le tematiche scottanti del periodo: la realtà è la lotta mortale tra gli uomini, per degli obiettivi derisori – si mette in gioco la propria vita per difendere una bandiera, per ottenere riparazione da un’ingiuria, etc – ogni filosofia che ignora questo fatto fondamentale è una mistificazione idealista: tale è, messo sotto una forma brutale, l’insegnamento di Kojève7.

Inoltre, un altro carattere fondamentale della lettura kojèviana di Hegel è fornito dalla «umanizzazione del nulla»8, secondo la quale propria dell’uomo, e solo di esso, è la negatività, concepita tanto dal punto di vista antropologico quanto metafisico. Se ogni azione, per Kojève, è da intendersi come opposizione ad un avversario, dunque negazione dell’altro, e se non vi può essere novità che non sia prodotto di un agire, ne consegue che sarà la negazione ad introdurre il nuovo nell’antico9. Non solo, ma la negatività sarà allora l’essenza stessa della libertà, ciò che distingue l’uomo dall’animale10 in una lotta per il riconoscimento in cui l’uomo manifesta la necessità di affermarsi attraverso l’appropriazione del desiderio altrui e della sua riconduzione al proprio, dunque al di là della mera ed immediata conservazione animale11. Queste considerazioni permettono a Kojève di abbandonare la Filosofia della natura hegeliana, conducendo il professore moscovita ad una ontologia dualista per cui l’essere proprio della natura viene inteso nel senso dell’identità, mentre l’essere storico, proprio dell’uomo, viene inteso nel senso della differenza, in quanto negazione ed alterazione dell’ordine costituito. Per Descombes però l’ontologia di Kojève non è poi così dualistica, infatti l’identità e la differenza non sono totalmente irriducibili l’una all’altra, ma, proprio grazie alla dialettica, troveranno la loro zona d’indiscernibilità nella fine della storia, ovvero nel dispiegamento definitivo dello spirito hegeliano12. 7 8 9 10 11 12

Ivi, pp. 26-27. È il titolo del primo capitolo de Le même et l’autre. Cfr. ivi, p. 46. Cfr. A. Kojéve, Introduzione alla lettura di Hegel, trad. it. e postfaz. G. Frigo, Adelphi, Milano 1996, p.492. Cfr. R. Bodei, Il desiderio e la lotta, introd. ad A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, trad. it. P. Serini, Einaudi, Torino 1991, pp. X-XI. Nella post-fazione all’introduzione alla lettura di Hegel di Kojève, G.F. Frigo mostra come “le fine della storia” comporti l’esaurimento dell’agire antropogeno, caratterizzato dalla lotta per il riconoscimento, e quindi conduca ad una “morte dell’uomo” intesa come l’esaurirsi delle possibilità di sviluppo umano; cfr. G.F. Frigo, Postfazione (trad. it. e c.) ad A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel,

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I corsi di Kojève terminano nel ’39, e irradieranno il pensiero francese per alcune decine di anni, fino all’emergere di nuove esigenze in seno alla filosofia d’oltralpe. Per Descombes infatti, «se dopo il corso di Kojève tutto ciò che è moderno giunge da Hegel, dopo il ’68 tutto ciò che è moderno è ostile a Hegel»13, e la causa di ciò deve essere ricercata nell’interpretazione della parola “dialettica”. Se la dialettica ha per compito di estendere la ragione, è necessario pensare a cosa significhi una ragione “allargata”. Si può pensare ad un’estensione “quantitativa” dell’impero della ragione su zone sconosciute, oppure si può intendere un’estensione dimensionale, o qualitativa, che conduce ad una totale metamorfosi del pensiero. In questo ultimo caso il compito della ragione sarebbe quello di spingersi in direzione dell’altro, di ciò che inesorabilmente le sfugge e compromette perfino la sua conoscenza. Ancora con Descombes: tutta la questione è allora sapere se, in questo movimento, è l’altro che sarà stato condotto allo stesso, oppure se, per sbarazzarsi simultaneamente del razionale e dell’irrazionale, dello stesso e dell’altro, la ragione avrà dovuto metamorfizzarsi, cessare di essere la stessa e farsi altra/o con l’altro14.

Anche se la lettura kojèviana di Hegel presenta alcuni tratti che potrebbero sedurre il pensatore nietzscheano, come il senso del rischio o il pericolo della perdita di identità, ciò che, per la generazione definita post-strutturalista, andava criticato e rimpiazzato con uno strumento più radicale era proprio il sistema della mancanza o della negatività, da sostituirsi con la nozione di produzione o di creazione. Il desiderio inteso come negazione, ma anche come mancanza o assenza è precisamente ciò che Kojève proverà a mettere in evidenza nel IV capitolo della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Deleuze, da parte sua, combatterà la dialettica proprio sulla mancanza e sulla negazione, poiché egli porterà avanti la concezione di un desiderio essenzialmente affermativo, produttivo e creatore di realtà. Così, continuando a seguire la parabola, ciò che prenderà il nome di “filosofia del desiderio” marcherà il passaggio dall’attualità di Hegel alla sua vecchiaia. Eppure, in tale dinamica, è ancora Hegel, anche se indirettamente, a fare da battistrada. Infatti, ancorando il pensiero di Hegel alle contraddizioni della ragione, Kojève si è mosso lontano dal carattere di mediazione che la dialettica hegeliana dovrebbe avere, aprendo dunque la via, seppur ancora tutta da descrivere, per un’accettazione tragica dell’esi-

13 14

Adelphi, Milano 1996, pp. 764-765. V. Descombes, Le meme et l’autre, cit., p. 24 (trad. nostra). ivi, p. 25 (trad. nostra).

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stenza che troverà il suo compimento nella concezione dell’eterno ritorno, così come viene interpretata da Deleuze, ossia accettazione incondizionata dell’esistenza in quanto affermazione dei valori vitali. E proprio in Nietzsche la filosofia francese degli anni sessanta troverà le armi per andare all’attacco della negatività, in nome di un pensiero della differenza dagli esiti eterogenei tra i vari autori che l’hanno portato avanti, ma deciso a riabilitare definitivamente il filosofo di Röcken. Nietzsche renaissance Per giungere alla Nietzsche renaissance che a partire dai primi anni sessanta, e per più di un ventennio, ha segnato numerevoli produzioni editoriali nonché grandi convegni internazionali come quelli di Royamount (1964) e Cerisy-la-Salle (1972), è necessario comprendere il ruolo di alcune importanti tendenze interpretative che si sono prodotte in merito al corpus nietzscheano attorno alla metà del Novecento in Europa. La storia della lettura e della ricezione di Nietzsche nel Novecento, nella sua interezza e complessità, è sicuramente uno sterminato paesaggio di interpretazioni inconciliabili tra loro, ma possiamo riscontrare una ‘linea di inattualità’ che attraversa la ricezione tedesca e quella francese, mostrando – in particolar modo con Löwith, Jaspers, Bataille – l’intempestività del pensiero nietzscheano di fronte agli esiti della metafisica occidentale e davanti allo scenario storico-politico che andava profilandosi. Sia pure con le dovute distinzioni, i filosofi della Nietzsche renaissance hanno trovato diversi punti in comune nelle loro esigenze di portare il pensiero al di là della dialettica e dell’esistenzialismo, prediligendo in Nietzsche l’aspetto inattuale, vitalistico ed affermativo, il metodo a-sistematico, e lo stile della sua scrittura come evasione dalle categorie classiche della metafisica e dell’argomentare filosofico rigoroso. Inoltre, se concepiamo la storia della filosofia contemporanea non come una successione lineare ed un semplice avvicendamento di teorie e problematiche, ma piuttosto come una condensazione di strati eterogenei, la cui provenienza è dislocata in sentieri concettuali che possono ricondurre a svariate dottrine di pensiero, possiamo osservare come Nietzsche non sia stato necessario solo per una evasione dalla dialettica, ma anche per una critica filosofica delle posizioni strutturaliste. Il filo conduttore tra queste due esigenze risiede in una interpretazione della genealogia e del sistema delle forze nietzscheano completamente intrecciati, per ricercare, nel corso dell’evoluzione di un concetto o di un’istituzione, le “forze reattive” che

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hanno contribuito alla sua formazione. Non solo, per quanto riguarda questo altro aspetto, non bisogna uscire dalla Francia, ma gli stessi autori che compiono il passaggio da Hegel a Nietzsche sono anche coloro che dallo strutturalismo giungono a ciò che, soprattutto per esigenze storiografiche, si suole chiamare post-strutturalismo. Quest’ultimo si caratterizza essenzialmente, come dichiarò Foucault, nell’applicazione di alcune istanze dello strutturalismo in ambito filosofico – in primis la questione di una critica del protagonismo del soggetto – venutesi ad intrecciare con il ritorno a Nietzsche degli anni Sessanta15. Ora, e questo è il carattere del post che allontana il movimento dai suoi predecessori – poiché inserendo Nietzsche nella struttura quest’ultima tende a saltare –, se lo strutturalismo aveva sostituito al soggetto e alla libertà umana la forza della struttura intesa come l’ordine delle relazioni di significato nelle quali l’uomo è inserito, il post-strutturalismo mette in dubbio l’immutabilità di tale ordine, concentrandosi attorno al concetto di genesi e di produzione di tali strutture. In più, ed ecco l’intreccio, se il metodo genealogico di Nietzsche sarà dunque ciò che più potrà interessare il post-strutturalismo, il carattere vitalistico ed energetico della filosofia nietzscheana verrà a sostituire il formalismo e la staticità dello strutturalismo, tramite i concetti appunto di “energia”, “forza” e “produzione”. Se le differenze, per lo strutturalismo, erano ciò che poteva permettere la conoscibilità della struttura, per i post-strutturalisti esse determinano la genesi stessa degli ordini simbolici. Una genesi, una produzione impersonale, lavorerebbe incessantemente producendo la stessa soggettività non più immutabile, ma reinscritta in processi di soggettivazione temporanei. In tal maniera i rapporti sociali, così come il linguaggio e, nel caso di Deleuze e Guattari, la psicanalisi, vengono valutati in termini energetici, cosicché il pensiero dovrà andare alla ricerca di ciò che imprigiona o canalizza il libero flusso delle energie produttive. Tra gli agenti imprigionatori si ritrovano – oltre la struttura –, la dialettica, la soggettività e, in particolare per Deleuze, l’economia negativa del desiderio. Dato l’intreccio tra ermeneutica nietzscheana ed elaborazione concettuale singolare, possiamo allora dire che l’interpretazione di Nietzsche da parte di questi autori, in particolare Deleuze, Foucault e Derrida, per ciò che concerne queste quattro tematiche, risulti al tempo stesso caratterizzante e caratterizzata da il superamento dello strutturalismo. 15

Cfr. l’intervista rilasciata da Foucault Structuralism and Post-structuralism, in «Telos», XVI, n.55; trad. it. M. Bertani, in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, pp. 301-332.

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In realtà, un ruolo a parte viene giocato da Derrida che, pur riattivando il pensiero di Nietzsche in diversi testi, non solo non rifiuta in blocco, come Deleuze, la dialettica hegeliana, ma attinge buona parte delle sue risorse teoriche da pensatori controcorrente rispetto al movimento descritto da Descombes, come Husserl e Heidegger. Il percorso alternativo di Derrida sembra voler dimostrare, implicitamente, ciò che egli si pone come compito a livello teoretico: la messa in dubbio di qualsiasi linearità, storica o processuale16. Se però la Nietzsche renaissance ha dimostrato di essere una riattivazione, a più livelli, del pensiero nietzscheano, è indubbio che Derrida si inscriva in questo movimento, producendo degli effetti sulla filosofia contemporanea che hanno chiamato in causa più volte il filosofo della volontà di potenza. Basti pensare alla Grammatologia, testo autenticamente programmatico del pensiero di Derrida, incentrato sul ruolo della scrittura come strumento di messa in discussione di tutta la metafisica occidentale logocentrica, in cui Nietzsche è uno degli ispiratori, e per quanto riguarda i filosofi tout court l’unico ispiratore che non viene decostruito: «Nietzsche ha scritto quel che ha scritto. Ha scritto che (la sua) scrittura non è soggetta al logos e alla verità»17. Il progetto di una scienza del gramma, seppur problematica e rischiosa, rappresenta la via per rendersi conto del potere logocentrico della linguistica e della tradizione filosofica, e l’impresa stilistica di Nietzsche viene contrapposta all’interpretazione heideggeriana del filosofo di Röcken. Deleuze e il suo Nietzsche Rispolverando la problematica che ha visto protagonista l’interpretazione lukacsiana, ossia il preteso irrazionalismo su cui si baserebbe l’opera di Nietzsche, la risposta più esauriente a tale lettura sembra provenire da Deleuze, nei suoi Nietzsche e la filosofia e Nietzsche, comparsi a distanza di tre anni l’uno dall’altro. Secondo Deleuze, in merito al pensiero di Nietzsche, non è lecito parlare di irrazionalismo, in quanto non è il rifiuto della razionalità a guidare il progetto nietzscheano ma semmai il bisogno di approdare ad un pensiero critico radicale, in grado di riconoscere gli autoinganni radicati nell’immagine razionalistica del pensiero. Ciò significa che la critica non si baserà più sulle istanze “reattive” della coscienza e della 16 17

Il concetto stesso di linearità, nella sua estensione storica, viene osteggiato da Derrida, come vedremo, in tutte le fasi della sua opera. J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, p.33; Id., Della grammatologia, trad. it. AA.VV., Jaca Book, Milano 1998, p. 39. Dalla prossima citazione di questo testo indicheremo tra parentesi le pagine che si riferiscono all’originale francese.

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ragione, ma sulle analisi delle forze che soggiacciono a quest’ultime e, in maniera generale, sull’affermatività della volontà di potenza. Una critica del genere è volta, secondo la lettura deleuziana, ad introdurre come oggetto fondamentale della filosofia i concetti di senso e valore, tramite i quali è possibile conferire alla volontà di potenza una funzione al tempo stesso ermeneutica e creatrice. La critica allora, indirizzandosi verso lo scaturire creativo del senso e dei valori, raggiunge le dimensioni di una genealogia, volta a smascherare i procedimenti che hanno condotto ai valori presenti nella cultura all’epoca di Nietzsche: Genealogia vuol dire valore dell’origine e, al tempo stesso, origine dei valori. Genealogia si contrappone tanto al carattere assoluto dei valori quanto al loro carattere relativo e pratico. Genealogia significa elemento differenziale dei valori da cui deriva il loro stesso valore. Genealogia vuol dire dunque origine e nascita dei valori, ma anche differenza e distanza nell’origine […] l’elemento differenziale non è mai critica del valore dei valori senza essere anche elemento positivo di una creazione. Perciò Nietzsche non considera mai la critica come reazione ma come azione18.

Ubaldo Fadini evidenzia che nella lettura deleuziana «l’elemento differenziale dei valori, da cui deriva il loro stesso valore, è oggetto di una procedura disvelante singolare, quella genealogica, che non può che ribadire infine come esso sia elemento differenziale della forza, volontà di potenza come affermazione della propria differenza»19. È proprio su questo punto che si concentrano le peculiarità dell’interpretazione deleuziana di Nietzsche, infatti l’importanza della genealogia come critica radicale disvela il ruolo cardine della differenza e dell’affermazione nel pensiero. Deleuze vede nella differenza la possibilità di evadere dalle maglie della rappresentazione e dal gioco di mediazione della dialettica, nella direzione di un pensiero affermativo che non abbia più a che fare con la negazione e la contraddizione, ma che sia principio di creazione, tanto assiologica quanto concettuale. L’affermazione è l’essenza delle forze attive, plastiche e creatrici ma è anche ciò che Nietzsche chiama il “sì alla vita”, l’affermazioneaccettazione dionisiaca del caso nella molteplicità delle sue forme. Ora, 18

19

G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris 1962, pp. 2-3; Id., Nietzsche e la filosofia, trad. it. S. Tassinari, introd. e cura di G. Vattimo, Colportage, Firenze 1978. Nuova edizione a cura di F. Polidori, trad. it. F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1992, p. 5. Dalla prossima citazione di questo testo indicheremo tra parentesi le pagine che si riferiscono all’originale francese. U. Fadini, Deleuze plurale, per un pensiero nomade, Pendragon, Verona 1999, p. 39.

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nell’ottica di Deleuze, l’affermazione concerne allo stesso tempo l’accettazione e la creazione, due modi di dire “sì alla vita”. Inoltre, poiché l’accettazione della vita è accettare, innanzitutto, la morte di Dio, del mondo “vero” e di quello apparente, l’impossibilità dunque di qualsiasi trascendenza, la creazione da parte dell’umanità (o della volontà di potenza) dei valori immanenti alla vita significa la configurazione di un nuovo tipo di uomo, un übermensch ‘disintossicato’ dall’influsso delle forze reattive, dal risentimento e dalla cattiva coscienza, composto da un’enorme concentrazione di forze attive, capace di muoversi in un mondo interamente fatto di una molteplicità di interpretazioni. In questo senso, la distinzione nietzscheana tra forze reattive e forze attive è un altro cavallo di battaglia dell’interpretazione deleuziana, peraltro legato a doppio nodo con la genealogia e la differenza. Se il nichilismo rappresenta (ed è dettato da) il trionfo delle forze reattive, per Deleuze bisognerà comprendere fin dove possa spingersi questo genere di forze, in modo tale da invertirne il senso e lavorare in direzione dell’eterno ritorno che, secondo l’ottica del filosofo francese, fa ritornare solo ciò che è in grado di essere affermato, ossia ciò che è attraversato dalle forze attive. Tramite la distinzione delle forze si può allora comprendere la duplice natura della volontà di potenza, di cui Deleuze ha saputo mostrare gli aspetti indubbiamente più teoretici, tralasciando però le interpretazioni à la Heidegger che sembrano con ogni evidenza sminuire la ricerca singolare dell’autore a favore di un’istanza sedicente originaria, quella di un’ontologia fondamentale, armata della capacità retroattiva di scorgere l’oblio dell’Essere in quanto tale come oggetto fondamentale di indagine, di cui la filosofia occidentale si sarebbe resa partecipe. La volontà di potenza, e questo non solo per il Nietzsche di Deleuze, non è da intendersi come volontà di dominio se non nell’epoca del nichilismo, nella quale sono state condotte, ormai da tempo quasi immemorabile, le coscienze umane. Se in Heidegger, e in qualche modo anche in Lukacs, è proprio la concezione della volontà di potenza intesa come “volere il potere” ad essere erede della storia della filosofia, ciò che Nietzsche avrebbe inteso, a parere di Deleuze, si contrappone a tale prospettiva: La filosofia della volontà secondo Nietzsche deve sostituire la vecchia metafisica: la distrugge e l’oltrepassa. Nietzsche ritiene di aver fatto la prima filosofia della volontà […] La potenza, come volontà di potenza, non è ciò che la volontà vuole, ma ciò che vuole nella volontà20.

20

G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., (pp. 95-96), pp. 125-126.

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Nella concezione deleuziana la volontà di Nietzsche non è un insieme unitario, ma espressione della molteplicità del reale e della pluralità di forze in lotta tra loro, «elemento differenziale da cui derivano le forze presenti»21, dispositivo primario nell’organizzazione del senso e del valore. Il nocciolo della questione, ciò che fa dell’interpretazione di Deleuze un’autentica introduzione al pensiero di Nietzsche in quanto sistema filosofico coerente e programmatico, è che stando a Nietzsche e la filosofia non sarebbe la volontà a volere la potenza, ma quest’ultima semmai apparirebbe come il soggetto stesso del volere, mai unitario e predefinito, ma risultante dal gioco antagonistico delle forze. Questo soggetto, sicuramente non umanista, non è appunto nemmeno unitario, non è cioè capace di radunare in sé le diverse istanze della ragione, e dunque non è riducibile ad un rapporto di elementare appropriazione dell’oggetto. La cifra radicale dell’intuizione nietzscheana va individuata dunque, secondo Deleuze, nell’essenziale pluralismo che sottostà alla concezione della volontà; un tale pluralismo, portato agli eccessi proprio da Nietzsche, conduce la domanda fondamentale del “che cos’è?”, tesa a conoscere un’essenza immutabile dietro all’apparenza fenomenica, al “Chi è?”, ovvero all’indagine rivolta a conoscere la forza predominante, in grado di conferire il senso di un enunciato, o di risalire alle circostanze dell’istituzione di un valore. Ancora con Fadini possiamo dire che «Deleuze mette bene in evidenza il carattere “aggressivo”, “agonistico” del pensiero nietzscheano, soprattutto là dove sfocia in un radicale anti-hegelismo: alla base di tale esito c’è una concezione del rapporto tra (due o più) forze che non lo specifica come essenzialmente negativo. Una forza che entra in rapporto con un’altra forza, che le obbedisce, non nega quest’ultima, ma afferma la propria differenza»22. La contestazione del negativo fa tutt’uno allora con il valore cardine della differenza, nella misura in cui il primo risulta essere il motore della dialettica hegeliana, mentre la seconda sussiste sempre in base ad una sua affermazione, come forza singolare sulle altre. Il rapporto tra le forze sarebbe proprio il carattere essenziale dell’aforisma nietzscheano, in quanto «gioco di forze, uno stato di forze sempre esteriori le une alle altre»23. L’interpretazione dell’aforisma sulla base di 21 22 23

Ibidem. U. Fadini, Deleuze plurale, cit., p. 115. G. Deleuze, Pensée nomade, in AA. VV, “Nietzsche aujourd’hui”, UGE, Paris 1973 [atti del convegno di Cerisy-la-Salle], ora in G. Deleuze, L’île déserte, textes et entretiens, cit., pp. 357; Id., Pensiero nomade, trad. it. D. Tarizzo, in Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 315. Dalla prossima citazione di questo testo indicheremo tra parentesi le pagine che si riferiscono all’originale francese.

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questo gioco di forze è ciò che permette a Deleuze un’acuta risoluzione del problema posto da alcuni testi nietzscheani, tacciati di più o meno larvato antisemitismo o accusati di essere propedeutici ai fascismi. Lo stesso metodo nietzscheano della distinzione delle forze e del loro ruolo all’interno dell’interpretazione offrirebbe la chiave di lettura dell’aforisma, così come di tutti gli altri scritti, non consegnando il pensiero del filosofo di Röcken a nessun ideologia politica se non sulla base delle reali forze in grado di impadronirsene. Un aforisma è un gioco di forze, uno stato di forze che restano esterne le une alle altre. un aforisma non vuol dire nulla, non significa nulla, e non possiede né significanti né significati. Altrimenti non faremmo che restaurare l’interiorità di un testo. Un aforisma è uno stato di forze, l’ultima delle quali, la più recente, la più attuale e la provvisoriamente ultima è sempre la più esterna24.

Per Deleuze è necessario trovare la forza o le forze esterne che conferiscano all’aforisma di Nietzsche «un senso liberatorio, un senso di esteriorità»25. Nietzsche sarebbe quindi rivoluzionario soprattutto per il suo metodo: è il metodo nietzscheano a rendere il testo di Nietszche non più qualcosa sul quale domandarsi «è fascista? È borghese? È rivoluzionario in sé?», ma un campo di esteriorità in cui si fronteggiano forze fasciste, forze borghesi e forze rivoluzionarie26.

Come è avvenuto per la volontà di potenza, la metodologia stessa della scrittura nietzscheana è espressione del conflitto tra le forze. Qualsiasi pregiudiziale che abbia il compito di stendere un’interpretazione definitiva è allora destinata a frantumarsi di fronte al gioco delle forze soggioganti l’aforisma. L’operazione deleuziana, densa di significato nel suo voler attribuire una concreta e ben oliata sistematicità al pensiero nietzscheano, ha gettato le basi per una concezione di Nietzsche non solamente estranea, dal punto di vista costitutivo, all’imperialismo occidentale o al nazionalsocialismo, ma addirittura capace di offrire suggestivi spunti per una chiave rivoluzionaria del pensiero e dell’etica. Tuttavia, l’inattualità costitutiva della filosofia nietzscheana può solamente offrire degli spiragli, peraltro problematici, al fine di una elaborazione etico politica. Tali spiragli, nel momento in cui un interprete cerca di trasferirli sul proprio piano di riflessione, sono destinati ad eclissare la figura da cui provengono, ossia il pensiero stesso di Nietzsche. 24 25 26

Ivi, (p. 357) pp.315-316. Ibidem. Ibidem.

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Per Vattimo, altro illustre lettore di Nietzsche, la concezione anti-dialettica, che Deleuze ravvisa nel carattere differenziale della volontà di potenza, conduce ad un materialismo anti-metafisico come molteplicità irriducibile di forze, ma non può comunque servire per rimpiazzare il materialismo storico-dialettico di matrice marxiana, poiché Nietzsche «non si limita a dire che bisogna fondare miti nuovi, che bisogna fondare una società nuova. Vuole giungere alla fondazione ontologica di questa capacità mitologica, di questa capacità “mitopoietica” dell’uomo. Per questa ragione la storia non è per lui così importante come lo è per Marx. Nietzsche non è un rivoluzionario, egli mira piuttosto a teorizzare la possibilità di rivoluzione. Nella sua filosofia c’è qualcosa di più profondo della rivoluzione»27. Del medesimo avviso sembra essere Masini, per il quale tanto la distruzione della metafisica, quanto la decostruzione genealogica del soggetto non coincidono con il materialismo in quanto pratica rivoluzionaria, poiché esso potrebbe emergere solo sulla base storico-reale di una teoria emancipatrice della società che avrebbe la sua condizione nella comprensione dialettica del movimento immanente alla prassi storico-sociale28. Che il pensiero di Deleuze, così come appare nelle opere in cui l’autore fa valere la propria filosofia, sia orientato dalla possibilità di una tale sperimentazione a proposito delle concezioni nietzscheane, come ad esempio nella teoria dell’inconscio elaborata nell’Anti-Edipo, è un fatto emblematico. Nietzsche, ad un certo punto dell’elaborazione concettuale e precisamente dopo aver svolto il ruolo di ispiratore, si eclissa, offrendo comunque tutta la sua portata energetico-concettuale, man mano che l’argomentazione deleuziana (e guattariana) si volge alle relazioni tra politica ed inconscio, o, come recita il sottotitolo, tra capitalismo e schizofrenia. Ma a nostro avviso, il rigore che sottostà all’interpretazione offerta nei due testi consacrati a Nietzsche è tale da mantenere l’interprete sulla soglia di quegli spiragli emancipativi che il pensiero di Nietzsche offre. L’oltrepassare gli spiragli, anche se implica un ausilio esterno offerto da filosofi come Bergson e Spinoza, risulta sempre essere un passare per il ciglio dei monti in cui il pensatore dell’eterno ritorno amava passeggiare. In altri termini Deleuze sente di essere in qualche maniera violentato29 dal pensiero di Nietzsche, ma al tempo stesso, la triplice alleanza deleuziana di Hume-Bergson-Spinoza dovrà essere coronata dall’autentico ed essenziale 27 28 29

G. Vattimo, all’interno della Discussion in Nietzsche, Cahiers de Royamount [atti del convegno di Royamount del 1964], Ed. Minuit, Paris 1967, p. 220 (trad. nostra). cfr. F. Masini, Lo scriba del caos, Il Mulino, Bologna 1978, p. 24. Cfr. G. Deleuze, Pourparlers, Minuit, Paris 1990, p. 15; Id., Pourparler, trad. It. S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 15.

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“sì alla vita” della differenza in grado di affermare se stessa. Tuttavia, a nostro parere, l’effettivo ruolo del filosofo di Röcken all’interno di ogni singolo concetto deleuziano va messo in relazione con le altre sue componenti provenienti da altri filosofi, ed il risultato di tale commistione, in quanto autentica creazione concettuale, appartiene unicamente agli esiti del pensiero deleuziano. Un’ultima constatazione riguarda la concezione dell’inattualità che sottostà all’interpretazione di Nietzsche fornita da Deleuze, il quale riconosce nell’evidenziare il carattere metastorico, intempestivo del pensiero nietzscheano le ragioni di un “ritorno a Nietzsche” quale la Francia degli anni Sessanta ha conosciuto. Ma l’intempestività di cui parla Deleuze non è concepita solamente in quanto comprensione della storia estranea sia alla filosofia classica che a quella dialettica, bensì anche come “allergia” ad ogni codificazione tramite cui potersi appropriare del pensiero nietzscheano. Inoltre Deleuze si sforza di concepire l’intempestività a partire dalle sue potenzialità di creazione, come forze di produzione dell’evento. Nietzsche avrebbe quindi consegnato ai filosofi dell’avvenire non soltanto un metodo per porsi al di là della storia, ma uno strumento per sormontarla e creare il presente. Sulla stessa linea si situa Michel Foucault che, proprio per ciò che riguarda il carattere intempestivo ed inattuale del pensiero nietzscheano, individua nell’indagare le forze che intercorrono durante il divenire storico lo scaturire evenemenziale necessario a creare il presente come attualità del senso. Possiamo concepire l’operazione di Deleuze come un proseguimento del pensiero nietzscheano, una continuazione trasformatrice in grado di sviluppare una filosofia propria a partire dalle indicazioni del filosofo di Röcken, il quale aveva pensato all’immagine della freccia, scagliata da un pensatore in una data epoca e ripresa da altri in epoche successive, per illustrare la dinamica relativa all’evolversi del pensiero. Derrida e la decostruzione della renaissance Di fronte ad un certo ‘orgoglio’ nietzscheano esibito da Deleuze, che caratterizza la sua strategia di riattivazione del filosofo della volontà di potenza, appare interessante far valere le istanze di un altro protagonista del dibattito francese attorno a Nietzsche. Un grande protagonista del Convegno Internazionale di Cerisy-la-Salle e al tempo stesso un pensatore che, con le dovute e profonde differenze, ha condiviso molte delle tematiche deleuziane: Jacques Derrida, i cui testi e interventi su Nietzsche potrebbero descrivere

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l’altra faccia della Nietzsche renaissance. Una rinascita di determinate istanze nietzscheane o, per meglio aderire alla superficie derridiana, di determinati “stili” nietzscheani che reclamano la loro importanza strategica nell’opera del filosofo di Röcken nonché nella filosofia contemporanea. Derrida, in Nous autres Grecs, ha affermato che la propria lettura di Nietzsche «rimane molto differente da quella di Deleuze: dal suo stile, dalle sue traduzioni, dal suo trattamento del testo e del linguaggio, dal suo insistente passaggio attraverso Heidegger e attraverso le questioni “critiche” poste da Heidegger e dal Nietzsche di Heidegger»30. La lettura derridiana di Nietzsche non si presenta infatti sotto forma di un commentario esaustivo delle tematiche e dei concetti elaborati da Nietzsche, ma si manifesta tramite incursioni, privilegiando piuttosto aspetti apparentemente marginali – lo stile di scrittura, l’ambiguità di alcuni luoghi testuali e la vena polemica caratteristica del pensiero nietzscheano – e facendoli risuonare, fino all’iperbole, nel corso di un ricco itinerario filosofico, da Della Grammatologia fino a Politiche dell’amicizia. Così Derrida, nei due testi consacrati a Nietzsche, Sproni e Otobiographies, non mira a fornire un’interpretazione accurata e sistematica come quella deleuziana, bensì mette direttamente in gioco la propria maniera di riattivare il pensiero nietzscheano, lasciando dispiegare, tramite la scrittura di Nietzsche, una forza lacerante tanto l’ermeneutica tradizionale quanto l’impianto metafisico del Logos. L’obiettivo derridiano risulta allora essere quello di cogliere nel filosofo dell’Eterno Ritorno gli elementi per una introduzione ‘sovversiva’ e destabilizzante nel dibattito filosofico contemporaneo. Inoltre, con Derrida si giunge ad uno stadio iperbolico dell’inattualità, o intempestività, nietzscheana, tramite il suo Otobiografie. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio. Intempestività in grado di far tremare le fondamenta politiche della Nietzsche renaissance. In Sproni. Gli stili di Nietzsche, la mossa principale di Derrida consiste nel controeffettuare la lettura heideggeriana di Nietzsche ed il metodo ermeneutico a partire dal problema della donna, ritrovando nello stile di scrittura nietzscheano la radicalità ‘sovversiva’ volta al fine del “superamento del platonismo”, inteso derridianamente come decostruzione dell’idea di verità. Come già era stato teorizzato in Della Grammatologia,31 la lettura e la scrittura del testo divengono operazioni originarie e creatrici del senso, 30 31

J. Derrida, Nous autres Grecs, In Nos Grecs et leurs modernes, ed. B. Cassin, Paris 1992, p. 258 (trad. nostra). Cfr. J. Derrida, Della Grammatologia, cit., (pp. 30-33) pp.36-39.

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il quale non sarebbe già presente nella sua purezza e solamente da scoprire, ma da inventare o da trasformare soprattutto grazie allo stile – di scrittura e di lettura –, ogni volta diverso, di un particolare filosofo. In questo primo testo dedicato a Nietzsche, Derrida riprende diversi aforismi della Gaia Scienza e del Crepuscolo degli idoli per mostrare il singolare rapporto che lo stile di scrittura nietzscheano intrattiene con la figura della donna e con il tema della verità. Lo stile stesso sarebbe espresso sia in questo rapporto tra donna e verità, nella plurivocità del senso e dei sensi, sia nell’utilizzo dell’aforisma e delle figure che in quanto maschere avrebbero un ruolo squisitamente filosofico, non riconosciuto nella sua profondità da Heidegger. Il rovesciamento del platonismo, che dovrebbe coincidere con un suo superamento, non consiste nella semplice inversione dei valori, e dunque nel conferire alla donna l’essenza della verità. Si tratterà piuttosto di mostrare, tramite la strategia della scrittura e la figura stessa della donna, una non-verità della verità, il che significa una “verità plurale”: Modello della verità [la donna], essa è dotata di un potere di seduzione che regola il dogmatismo, fuorvia e prende in giro gli uomini, i creduli, i filosofi. Ma siccome, per quanto la riguarda, essa non crede alla verità, anche se ripone il proprio interesse in questa verità che non la interessa, la donna è ancora il modello: stavolta, il buon modello, o piuttosto il cattivo modello in quanto buon modello: si esercita nella dissimulazione, nel vezzo, nella menzogna, nell’arte, nella filosofia artiste: è un potere di affermazione.32

Heidegger sembrerebbe dimenticare il problema della donna, la quale è fondamentale che in Nietzsche possa essere vista sotto diversi aspetti: condannata come figura della menzogna, oppure degradata e disprezzata ma in quanto “verità”, per essere infine «riconosciuta e affermata quale potenza affermativa, dissimulatrice, artistica, dionisiaca»33. In questo modo non potrebbe darsi una essenza della donna, ma a guidare il senso del rapporto tra donna e verità sarebbe il fenomeno della propriazione: La propriazione del proprio viene precisamente denominata ciò che non appartiene a nulla, e quindi a nessuno, ciò che non decide più dell’appropriazione della verità dell’essere, e rinvia nel senza-fondo dell’abisso la verità come non-verità, lo svelamento come velamento, la simulazione come dissi-

32

33

J. Derrida, Eperons les styles de Nietzsche, Flammarion, Paris 1978, p.28; Id., Sproni. Gli stili di Nietzsche, trad. it. di S. Agosti, Adelphi, Milano 1991, p. 40. Dalla prossima citazione di questo testo indicheremo tra parentesi le pagine che si riferiscono all’originale francese. J. Derrida, Sproni, cit., (p. 79) p. 90.

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mulazione, la storia dell’essere come storia nella quale nulla, nessun essente si produce, ma solo il processo senza fondo dell’Ereignis, la proprietà dell’abisso che è necessariamente l’abisso della proprietà ed anche la violenza d’un evento che si produce senza essere.34

Il significato della propriazione, intesa come indecidibile tra il dare e il prendere, tra il possedere e il posseduto, viene ripreso dalla stessa lettura heideggeriana di Nietzsche ed è per Derrida una problematica capace di comprendere il senso della volontà di potenza, così come dell’eterno ritorno; una problematica “più grande” ancora della questione della verità o del senso dell’Essere, i quali vi si troverebbero inscritti. L’operazione di interpretazione messa in atto da Derrida si rivela allora soprattutto una decostruzione della lettura heideggeriana di Nietzsche, laddove il filosofo di Marburgo designava Nietzsche come l’ultimo metafisico, e la volontà di potenza come culmine della tradizione metafisico-nichilistica occidentale. Per Derrida l’indecidibilità della propriazione viene espressa da Nietzsche mediante l’eterogeneità del senso manifestata dalla polivalenza che egli conferisce alla figura della donna. Questa eterogeneità, che per Derrida è “lo stile di Nietzsche”, garantisce al rovesciamento del platonismo di non concludersi in una mera opposizione simmetrica, ossia in una semplice inversione della gerarchia dei valori. La condizione per uscire dal platonismo si ritrova invece nell’eterogeneità del senso capace di produrre una reale trasformazione della gerarchia dei valori. La donna dunque, recando in sé il movimento della propriazione, rappresenta per Derrida la possibilità di un nuovo rapporto tra la filosofia e la verità. Mancando di attenzione nei riguardi del tema della donna in Nietzsche, Heidegger vieterebbe di fatto alla sua lettura nietzscheana di comprendere il superamento della questione della verità. L’interpretazione nietzscheana mediante una decostruzione di altre interpretazioni, che in Sproni ha il suo primo esempio, mostrerà nei testi derridiani successivi la natura del rapporto tra Nietzsche e Derrida. Si può quindi parlare di una riattivazione di Nietzsche da parte di Derrida nella misura in cui quest’ultimo, mediante l’ausilio del filosofo di Röcken, controeffettua, decostruisce e critica le tesi di altri filosofi ed in particolare le loro letture nietzscheane. Otobiografie. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio è la pubblicazione della relazione presentata a Chicago nel 1984 in cui, invece che leggere, come l’uditorio si aspettava, un testo inerente la costituzione 34

Ivi, (p. 98) p. 109.

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americana, Derrida lesse un denso e acuto discorso su Nietzsche, che metteva in campo diverse problematiche legate all’indecidibilità di un senso stabile da offrire alle letture nietzscheane. Un gesto, quello di Derrida, che nella sua prassi, nel suo essere effettuato in tale forma, si può definire realmente intempestivo. Ma intempestivo forse fino all’iperbole è anche il contenuto del testo, in cui si sottopone la scrittura, e non le intenzioni o il “voler dire” di Nietzsche35, di fronte al problema del nazionalsocialismo. Derrida si mostra allora inattuale rispetto ad una “attualità” della critica e dell’esegesi francese in merito a Nietzsche, mettendo in atto una decostruzione della renaissance, cercando cioè di disarmare lo slancio politico di un discorso collettivo che trova la sua maggior forza nell’interpretazione deleuziana. E, seguendo l’analisi di Derrida, le ragioni di una decostruzione sono sicuramente ben calibrate dal punto di vista politico. Derrida si pone infatti l’obiettivo di mostrare il senso che le conferenze di Nietzsche Sull’avvenire delle nostre scuole hanno di fronte alla storia ed in merito all’ascesa nazista in Germania. In particolare, Nietzsche nella quinta conferenza accenna in maniera esplicita al bisogno, per i tedeschi, di una guida, di un führer, che abbia il compito di risollevare le sorti di una cultura decadente e ostile alla vita. Qui si sviluppa la contro-effettuazione derridiana della Nietzsche renaissance. Se da un lato è sicuramente riduttivo sbandierare un’affinità calzante tra quel che può significare führer per Nietzsche ed il führer hitleriano, dall’altro lato per Derrida è comunque “politicamente insufficiente” pensare che Nietzsche non avesse mai voluto riferirsi ad un ordine sociale e politico in qualche modo simile al nazionalsocialismo. Il grande problema filosofico però, secondo Derrida, è un altro, e non riguarda “ciò che Nietzsche avrebbe voluto dire” o ciò a cui alludeva, poiché tanto dal punto di vista storico che da quello del testo della quinta conferenza non sono il “voler dire” o l’intenzionalità dell’autore a guidare gli esiti dei suoi enunciati, ma un certo effetto di scrittura nel quale il nome proprio di Nietzsche rimane incatenato e da cui non può più slegarsi: Anche se il voler-dire di uno dei firmatari o degli azionisti della grande società anonima “Nietzsche” non c’entrasse per niente, non può essere soltanto un caso che il discorso che porta il suo nome, nella società e secondo le norme civili ed editoriali, sia servito come legittimo riferimento agli ideologi; e il fatto che la sola politica che lo abbia effettivamente assunto come portabandiera sia stata la politica nazista non ha niente di contingente36.

35 36

Cfr. J. Derrida, Otobiographies, Galilée, Paris 1984, p. 59; Id., Otobiografie, l’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, trad. it. di R. Panettoni, Il poligrafo, Padova 1993, p. 79. Ibidem.

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Ora, se si pensa al Nietzsche ‘di’ Deleuze, il contrasto con la tesi derridiana è lampante. Sembra palese che la controeffettuazione di Derrida vada a colpire un’immagine – almeno potenzialmente – emancipatoria di Nietzsche, che Deleuze ed altri autorevoli esponenti della Nietzsche renaissance costruiscono. Il problema, per Derrida, non è quello di individuare una ideologia “di destra” o (virtualmente) “di sinistra” nel pensiero di Nietzsche, ma intessere il suo nome nella trama della scrittura ed osservarne gli effetti di cortocircuitamento e disseminazione del senso, così come gli effetti politici. Non sarà più (soltanto) l’intenzione di Nietzsche a compiere il destino politico di un proprio messaggio, ma il suo voler dire verrà frantumato in una rete eterogenea di sensi che si articolano a partire dal loro differimento spazio-temporale. La distanza che Otobiographies misura dalla critica deleuziana è allora segnata dalla volontà di ripensare tutti i possibili effetti filosofici, etici e politici legati all’opera di Nietzsche, a partire dal movimento di disseminazione del senso attuato dalla scrittura, che è différance, ossia “differimento e differenziazione”. Si può dire che, mentre Deleuze cerchi di far passare attraverso Nietzsche una sua visione filosofica, Derrida inscriva gli esiti del testo nietzscheano proprio all’interno del movimento di différance. Se pensiamo a Nietzsche come “una macchina di scrittura”, il cui senso interiore, come per la scrittura derridiana, non sarebbe presente, le implicazioni con il nefasto futuro sarebbero in qualche maniera condotte a partire proprio dall’avvenire, consegnando, come ciò è avvenuto, l’opera di Nietzsche al pericolo più cieco. Ma d’altra parte, per Derrida, è proprio il metodo di scrittura nietzscheano, se compreso nel suo stile radicalmente intempestivo, ad offrire la chance per non farsi ingabbiare tanto dal nazismo quanto dall’irrazionalismo. È a partire dalla comprensione di questa radicalità che Derrida si pone in definitiva l’obiettivo di destabilizzare ogni critica ed ogni interpretazione del “voler dire” di Nietzsche, rilanciando una volta di più l’enigmaticità del suo pensiero. Non potendo in questo lavoro descrivere un confronto approfondito sul rapporto che, rispettivamente, Deleuze e Derrida intrattengono con Nietzsche, ci limiteremo ad indicare una comune esigenza di riattualizzazione del pensiero nietzscheano da parte dei due filosofi francesi. Tale esigenza, come abbiamo potuto osservare, ha in realtà motivi differenti e viene ‘soddisfatta’ con metodi assai diversi, che testimoniano anche l’inconciliabilità dei due modi di fare (e di intendere la) filosofia. Se infatti per Deleuze la filosofia è innanzitutto creazione di concetti, Derrida ha fatto della decostruzione – dei concetti, delle categorie e delle tematiche della tradizione

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– il proprio metodo filosofico. Il fatto che entrambi i filosofi francesi abbiano sviluppato un pensiero nietzscheano della “differenza”, dell’“evento” e dell’“esteriorità” non può essere tuttavia fonte di confusione tra le intenzioni di Deleuze e quelle di Derrida. Tra le due concezioni della “differenza”, ad esempio, non vi è una semplice differenza di grado, ma semmai una differenza di natura, dal momento che con Deleuze la “differenza”, ricercata nella sua “purezza ontologica”, appartiene ad una sorta di empirismo metafisico, mentre con Derrida la “differenza” diviene “différance”, rigorosa custode di un’economia testuale incapace di cedere a qualsiasi pretesa purezza, e a qualsivoglia ontologia. La différance derridiana non potrebbe “poggiarsi” sul piano di immanenza che Deleuze stabilisce per la creazione dei concetti, così come la distinzione tra forze attive e forze reattive, centrale per quanto riguarda l’intero orizzonte etico politico deleuziano, non esprimerebbe nulla all’interno dell’economia testuale di Derrida. Un altro punto di “scostamento” proviene dal problema del vitalismo: una filosofia vitalistica come quella deleuziana, che si sforza di non contemplare minimamente la mancanza sul piano di immanenza – intendendo quest’ultima, l’immanenza, come la meraviglia della vita, vale a dire la sua molteplicità costitutiva, slegata da ogni trascendenza –, non può che chiudersi a riccio di fronte alla decostruzione della metafisica della presenza e del presente vivente messa in atto da Derrida praticamente in tutti i suoi lavori. Se la grandezza di Nietzsche di fronte alla filosofia contemporanea può essere rintracciata nel suo stile che permette una pluralità di attualizzazione, il merito di Deleuze e di Derrida è stato però sicuramente quello di indicare due vie interpretative in grado non solo di comprendere ma anche di far proseguire il pensiero nietzscheano. L’immagine suggerita da Nietzsche che più si presta a questa attualizzazione è quella – usata per descrivere il movimento del pensiero lungo la storia – della freccia scagliata da un filosofo per essere raccolta da un altro pensatore in un’epoca successiva37. È un’immagine al tempo stesso di alleanza e di discontinuità, che permette anche la pluralità delle interpretazioni che un filosofo può ricevere dai pensatori dell’avvenire. La teoria nietzscheana della freccia per Deleuze descrive «l’immagine del filosofo, offuscata da tutti i travestimenti di cui ha bisogno, [che] deve trovare un nuovo ambito di attività nell’epoca successiva»38. Pensare la ri-

37 38

Cfr. F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, trad. it. di S. Giammetta, M. Montanari, in Id., Opere, Adelphi, Milano 1964, vol. III, t. II, p. 433; Id., La filosofia all’epoca tragica dei greci, trad. it. di F. Masini, in Id., Opere, cit., vol. III, t. I, p. 271. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., (p. 122) p.160.

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attivazione secondo una dinamica sagittale non conduce ad una continuità lineare, ma rappresenta uno sforzo creativo di attualizzazione del senso: «la catena dei filosofi non è l’eterna catena dei saggi e meno ancora la concatenazione della storia: è una catena spezzata, il susseguirsi delle comete, la loro discontinuità e la loro ripetizione»39. La freccia, nel suo percorso “spezzato”, illustra così tanto le affinità che si possono contrarre con un filosofo come Nietzsche, quanto una ri-attivazione plastica e trasformatrice del suo pensiero. In questo senso allora, Deleuze e Derrida hanno raccolto, ciascuno a proprio modo, la freccia – o le frecce – di Nietzsche e, sempre in maniera singolare, hanno cercato di proseguirne il tragitto.

39

Ibidem.

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