L\'economia aretina fra Due e Trecento

Share Embed


Descrição do Produto

Andrea Barlucchi

L’ECONOMIA ARETINA FRA DUE E TRECENTO

Dotata di un patrimonio documentario non molto consistente e trascurata dai lavori che andavano a privilegiare le città toscane più famose, la realtà aretina è sempre stata meno nota rispetto al resto della regione anche e soprattutto nell’ambito della storia economica (Cherubini 1991a; Pinto 2010). Tuttavia il divario si sta colmando grazie al moltiplicarsi degli studi negli ultimi anni, per cui si comincia ad intravedere una certa fisionomia del complesso produttivo locale in età bassomedievale che, pur caratterizzando sempre Arezzo in modo peculiare, consente di abbandonare definitivamente quell’immagine da Cenerentola di Toscana che la nostra città si porta dietro da sempre (Cherubini 2003; Franceschi 2002). Le potenzialità informative della documentazione inedita, soprattutto di quella conservata presso l’Archivio di Stato di Firenze, non sono state però ancora realizzate appieno, ricerche sono tuttora in corso soprattutto in relazione al tema dell’economia di questi secoli ed è quindi necessario avvertire il lettore che ha davanti un risultato provvisorio. I fattori produttivi del territorio Tra gli elementi caratterizzanti la struttura dell’economia aretina nei secoli di sviluppo successivi all’anno Mille in primo piano sta senz’altro la posizione geografica, che si comprende bene in tutta la sua importanza solo tralasciando le piante di carattere amministrativo odierne e concentrando l’attenzione su quelle fisiche: allora appare chiaramente la sostanziale equidistanza della città fra il Tirreno e l’Adriatico e la sua collocazione sul grande incrocio viario nel quale convergono i corridoi di attraversamento interno della Penisola – Valtiberina e Valdichiana – e gli assi trasversali costituiti dalle principali vallate appenniniche – dell’Arno a ponente, del Marecchia e del Metauro a levante. In altre parole, Arezzo si trovava in prossimità di uno snodo stradale importante che se anche aveva perso in età tardo imperiale romana il tracciato della Cassia dirottato verso Firenze conservava intatte le sue potenzialità in termini di sviluppo economico (Fig. 1). È lo Statuto del 1327, il più antico giunto fino a noi, ed informarci su quelle che erano considerate le arterie di vitale importanza per la città (Marri Camerani 1946, p. 217): in primo luogo ovviamente i due percorsi che portavano a Firenze, uno per Pieve a Maiano e la riva sinistra dell’Arno, l’altro per Quarata e il ponte a Buriano lungo la cosiddetta

Setteponti. Quindi le due direttrici verso il territorio senese, una per l’Olmo-Badia al Pino, l’altra per Pescaiola-Chiani attraverso Pieve a Presciano e la Valdambra. Definite le arterie che collegavano Arezzo alle più vicine città toscane il testo della rubrica statutaria passa ad enumerare le strade dirette al di là degli Appennini. Verso nord, la via attraverso il Casentino consentiva di raggiungere l’alto Mugello e da qui Bologna, oppure la Romagna per la valle dell’Archiano o per l’Alpe di Serra. Una seconda strada diretta in Romagna conduceva a Rimini passando dalla pieve della Chiassa e dal castello di Montauto, per poi guadagnare la valle del Marecchia. Verso nord-est un itinerario dominato dal castello di Pietramala metteva in comunicazione con Anghiari, poi con Sansepolcro e da qui direttamente coi porti Adriatici seguendo il corso del Metauro. Sempre in questa direzione correva la cosiddetta via de Malluogo che tenendosi in altura conduceva in Valtiberina passando per la Badia di San Veriano e sboccando in pianura tra Anghiari e Citerna. Seguendo invece il fondovalle tracciato dal Cerfone una strada giungeva a Città di Castello, porta dell’Umbria. Infine un’antica importante direttrice conduceva in Valdichiana a Castiglion Fiorentino (all’epoca Aretino) e poi a Cortona, per proseguire verso Roma. Arezzo era dunque allo snodo di assi viari fondamentali per tutto il centro Italia, collocata in posizione geografica dominante rispetto sia ai percorsi nord-sud che est-ovest. Considerando le grandi aree economiche che i secoli di sviluppo bassomedievale stavano disegnando, la nostra città si trovava a cavallo fra quella toscana e quella che dalla Romagna giungeva al regno meridionale passando per i territori umbro-marchigiani, l’una rivolta naturalmente al Tirreno, l’altra all’Adriatico (Dini 1984, p. 27; Goldthwaite 2009, p. 14). Si tratta di caratteristiche da tenere costantemente presenti. Dopo la posizione geografica dobbiamo considerare l’assetto orografico. Il territorio aretino comprende due lunghe e profonde conche appenniniche, il Casentino e l’alta Valtiberina, e due ampie vallate, l’una tracciata dal corso delle Chiane, l’altra da quello dell’Arno e dell’Ambra. Le conche appenniniche sono caratterizzate dalla contiguità di terreni posti a differente altitudine, per cui si determinano ambienti agricoli molto differenziati in un’area ristretta, ognuno capace di produzioni specifiche: nel giro di pochi chilometri si passa da quote altimetriche relativamente basse (300 metri) a quote alte (1.500 metri e oltre) attraverso tutta la gam-

145

ma delle gradazioni intermedie (pianura, collina, alta collina, montagna). Le zone vallive presentano un grado minore di variabilità, sfumando dall’aperta pianura all’alta collina, ma sono caratterizzate da terreni profondi e fertili ben riforniti da un punto di vista idrico (anche troppo, in Valdichiana). Il quadro generale ci appare quindi estremamente favorevole in termini economici, potenzialmente molto produttivo.

La prima caratteristica immediatamente visibile all’osservatore che all’epoca si fosse affacciato sul Casentino era l’ampia copertura arborea dei contrafforti montuosi dalla quale si otteneva prezioso legname di ogni genere in grande quantità, al punto che per lavorarlo erano state impiantate anche seghe idrauliche (Cherubini 1992a, p. 23). Una menzione speciale merita il castagno che qui trovava terreni particolarmente adatti. Altra peculiarità era l’allevamento del bestiame, attivi-

Fig. 1. La viabilità aretina nel XIV secolo secondo lo Statuto del 1327 (elaborazione grafica dell’Autore)

Dal momento che l’operosità umana nelle quattro grandi aree così delineate dà luogo in età medievale a sviluppi e dinamiche originali, appare necessario esaminare ogni zona per conto suo. Cominciamo dalla conca casentinese, qui considerata secondo l’uso attuale e non quello del periodo che chiamava Casentino solo la parte alta della valle, quella appartenente alla diocesi di Fiesole. Bisogna avvertire inoltre che, per quanto riguarda il versante occidentale della vallata, in ambito economico le interazioni con il territorio fiorentino per tramite del Pratomagno erano intense tanto da non poter distinguere precisamente un’area dall’altra.

146

tà che desidereremmo conoscere meglio nei suoi contorni ma che purtroppo è poco documentata: doveva comunque essere consistente, considerando che già a metà Duecento abbiamo notizia del trasferimento estivo di grossi greggi ovini, di proprietà dei conti Guidi, in Maremma (Cherubini 1992b, p. 48; Calzolai 2007-2008, pp. 300-301). La lana delle pecore locali dava origine ad un tessuto ruvido ma resistente denominato appunto “Casentinese”, apprezzato per queste sue caratteristiche nella confezione non solo di panni, che si esportava anche a Firenze (Hoshino 1980, p. 70). Nella nostra vallata abbiamo una delle più precoci attestazioni in ambito toscano dell’impianto di gualchiere, cioè opifici idraulici per la folla-

tura dei panni, essendone in funzione due già alla metà del XII secolo a Capraia e a Faltona (Barlucchi 2010). Derivava dall’allevamento anche la produzione di cuoiami, attività che sembra particolarmente praticata a Poppi (Bicchierai 2005, pp. 59-61). Caratteristica locale era la lavorazione del ferro, sviluppata al punto da creare una particolare tecnologia detta anch’essa “casentinese”, che aveva in Pontenano, Raggiolo e Montemignaio i suoi centri maggiori; fra i suoi manufatti, le armi (Melis 1967; Barlucchi 2007). Precoce appare la costruzione di mulini da grano che dall’XI secolo almeno si affollavano in numero definito “impressionante” intorno a Bibbiena lungo il corso dell’Arno e quello dell’Archiano, testimonianza di una produzione granaria che non sappiamo quantificare con precisione ma che doveva essere di tutto rispetto, tale da soddisfare le esigenze di una popolazione in forte crescita (Wickham 1997, pp. 177-178). Oltre al frumento, molto coltivata appare la vite soprattutto nella zona collinare intorno a Poppi, dalla quale si otteneva un vino “vermiglio” particolarmente apprezzato oggetto di commercio anche a Firenze e fino a Roma (Cherubini 2009, p. 51). A cavallo fra Casentino e Valtiberina intorno ai Monti Rognosi si trovavano gli unici depositi minerari del territorio aretino (ferro e rame), conosciuti e sfruttati fin dall’epoca antica, dei quali si intuisce l’utilizzo anche in età medievale.

Fig. 2 b. Macina per guado (Turingia, Germania)

Fig. 2 a. Il guado (Isatis tinctoria L.) in un libro botanico del 1796

In Valtiberina, dove erano sorti i consistenti agglomerati di Sansepolcro, Anghiari e Pieve Santo Stefano, troviamo “un’economia in cui lo sfruttamento della terra si integrava con l’attività manufatturiera e commerciale” (Franceschi 2010, p. 378). La fertilità del terreno e l’abbondanza di acqua avevano creato qui precocemente un ambiente favorevole allo sviluppo al punto che già agli inizi del XII secolo il fondovalle ci appare intensamente coltivato e il Tevere regimentato (Benedetti 1997, pp. 44-46). Prevalevano i cereali, ad un gradino inferiore la spelta, il miglio, e il panìco; tra le leguminose, le fave, che potevano servire anche di alimentazione umana. Sui contrafforti collinari i castagneti offrivano i loro frutti. Fra le colture specializzate, anche qui la vite che ha lasciato molte tracce nella toponomastica. Ma la vera ricchezza della vallata era rappresentata dal guado, dalle cui foglie opportunamente trattate si ricavava una sostanza tintoria utilizzata per la colorazione dei panni (Fig. 2 a-b). Anche l’area marchigiana confinante era interessata da questo genere di coltivazione (Cherubini 1992c). Le quantità di guado

147

che da qui raggiungevano la grande città industriale di Firenze sono impressionanti: fra il 1362 e il 1363 la sola compagnia di Giovacchino Pinciardi mercante-imprenditore di Sansepolcro ne esportò quasi un quintale al giorno (Pinto 1997). Gli scambi commerciali in cui erano impegnati gli operatori valtiberini, non solo limitati al guado, appaiono abbracciare alla luce della documentazione trecentesca una vasta area geo­grafica estesa dal Tirreno (Pisa, Firenze, Siena) all’Adriatico (Rimini, Cesena, Fano) e gli Statuti della Gabella di Sansepolcro del 1358 testimoniano la grande varietà delle merci in transito (Fanfani 1935; Pinto 1996, p. 230). L’allevamento del bestiame svolgeva un ruolo economico importante, sia per la produzione alimentare che per la lana e il cuoio ricavati (Czortek 2000); almeno dalla fine del Duecento sono in funzione delle gualchiere, mentre qualche decennio più tardi si lavora un panno definito «biturgense» e si costituiscono compagnie di lanaioli che a Sansepolcro trovano anche la forza di riunirsi in corporazione (Franceschi 2010, pp. 365367). A metà Trecento sempre al Borgo esisteva pure un’Arte dei Calzolai che aveva 31 iscritti, dotata di un proprio Statuto (Fanfani 1936, pp. 89-91). Ancora nel settore tessile appare sviluppata la manifattura dei veli di cotone, attestata nel Quattrocento ma probabilmente già in funzione nel periodo precedente. Infine dobbiamo menzionare l’impianto di una cartiera vicino a Sansepolcro nel 1334, a riprova ulteriore di vivacità economica e capacità imprenditoriale (Franceschi 2010, pp. 369-371). Tutto ciò faceva dell’alta Valtiberina un’area densamente popolata rimasta tale nel tempo nonostante la Peste del 1348, aspetto questo enigmatico che interroga gli studiosi (Pinto 1996, pp. 226-227). L’ampia, fertile e ricca di acque pianura della Chiana è sempre stata considerata terra di ”enorme potenziale produttivo” costantemente però minacciato dal regime lento e incerto del deflusso idrico (Cataldi 2007, p. 108). La questione dell’impaludamento e delle sue conseguenze sull’intero habitat, diversa a seconda dei momenti storici, suscita da sempre accese discussioni. Nel valutare il condizionamento rappresentato da questa peculiarità bisogna tener presenti alcuni elementi. Innanzitutto, anche nel momento di massima estensione toccato alla fine del Medioevo la palude della Chiana arrivò a coprire non più di un dodicesimo della vallata (Pinto 1982, p. 18). In secondo luogo, nel contesto economico dell’epoca le zone umide rappresentavano una risorsa importante da diversi punti di vista: l’allevamento brado trovava nelle sodaglie ai margini delle superfici acquitrinose terreni atti al pascolo nelle stagioni secche e in inverno, la caccia poteva esercitarsi su specie animali non comuni, la pesca era largamente praticata, infine le giuncaie e i canneti offrivano in abbondanza materiali che si prestavano agli usi più svariati (Pinto 2003a, pp. 11-15). Possiamo dire che la Val-

148

dichiana aretina – cioè la parte alta di quello che all’epoca era un fiume (Marrocchi 2003, p. 83) – nei secoli che ci interessano presentava questi fattori economici di segno positivo (Meacci 2007). Riprova ne è in primo luogo l’incremento demografico che si riscontra in tutti i grossi castelli della vallata, in sintonia con il più generale andamento del periodo fino alla crisi trecentesca, attestato dall’allargarsi progressivo delle cinte murarie. Ma anche altri indici che provengono dalle fonti documentarie dell’epoca vanno in questa direzione, ad esempio la produzione di grano che in annate normali permetteva di rifornire Arezzo e anche di effettuare esportazioni al di fuori del contado. Accanto alle granaglie, anche qui dominava il guado, la cui coltura poteva essere intercalata a quella del frumento piantandolo dopo la mietitura e raccogliendolo prima della nuova semina in modo da sfruttare al massimo i terreni. E infine la robbia, altra essenza tintoria costosa che consentiva profitti ancora maggiori in termini assoluti ma che richiedeva un uso esclusivo dei campi e un grosso immobilizzo di capitali avendo la pianta un ciclo produttivo biennale. La coltivazione della robbia appare particolarmente diffusa nei comprensori di Castiglion Fiorentino e Cortona (Taddei 2009, pp. 179-195), mentre al business del guado, che godeva di un mercato veramente internazionale, partecipavano un po’ tutte le popolazioni della vallata. Fra le colture specializzate non mancavano la vite e l’olivo, anche se non in modo particolarmente significativo: a Cortona però si producevano vini bianchi e rossi che godevano di una certa fama (Cherubini 1991b, p. 214; Pérol 2004, p. 245). Grossa risorsa della zona era inoltre la pesca, per il cui sviluppo alla fine del Duecento il Comune aretino aveva rea­lizzato addirittura un lago artificiale a Brolio nei pressi di Castiglion Fiorentino, opera molto impegnativa il cui completamento richiese diversi decenni di lavoro: oltre ad ottenere pesce in abbondanza, l’invaso consentiva di drenare dal padule acque in eccesso grazie anche al complesso di mulini edificato sulle sue rive (Cherubini 2003, p. 258; Meacci 2007, pp. 132-137). L’allevamento del bestiame poteva giovarsi, oltre che dei rilievi a separazione della nostra zona dalla Valtiberina, delle aree umide e della proprietà comunale cittadina qui concentrata; intorno alla metà del Trecento la documentazione comincia a parlare di grandi buoi bianchi («unum par bobum pili blanchi vel quasi, qui boves sunt magni», un paio di buoi di pelo bianco o quasi, che sono grandi), forse già di razza chianina (Franceschi 2009, p. 663). L’allevamento consentiva una certa produzione laniera locale, ma a parte questo non sembra nel complesso che le attività artigianali, pur presenti necessariamente per sopperire alla domanda della popolazione concentrata nei grossi castelli, abbiano avuto uno sviluppo particolare. È l’agricoltura che dà il tono all’economia della vallata.

Considerazioni in parte analoghe possono farsi per la vicina Valdambra. Anche qui troviamo il guado la cui coltura, attestata almeno dalla seconda metà del Duecento, vede impegnati non solo i piccoli proprietari terrieri ma anche la grande Badia di Agnano (Barlucchi 2011). La produzione agricola locale appare orientata decisamente alle colture specializzate fra le quali spicca l’olivo che qui sembra avere, allo stato attuale della ricerca, la zona di maggior impianto dell’intera regione con veri e propri uliveti (fino a 60 piante per appezzamento). Famoso e ricercato era però il vino della vallata, anche se ciò risulta evidente solo a partire dal XV secolo (Cherubini 1991b, p. 214). Completano il quadro gli alberi da frutto, diffusi nelle numerose “chiuse” cioè terreni recintati dedicati alle colture specializzate che punteggiavano questa area. Infine il frumento, esportato anche in anni di carestia. Come in Valdichiana, non molto sviluppato risulta l’artigianato. Infine dobbiamo ricordare la fertile pianura circostante la città che ci appare intensamente coltivata e abitata, la zona prima verso la quale si dirigevano i sogni, desideri e investimenti dei cittadini aretini di tutti i ceti sociali (Cherubini 1963; Canaccini 2008). La città artigiana Un primo dato che le recenti ricerche hanno ormai accertato è la presenza fra Due e Trecento entro le mura cittadine di un forte tessuto artigiano che copriva ogni settore produttivo (Cherubini 2003; Franceschi 2006). Scorrendo le pagine di un registro notarile o le liste degli iscritti alla Fraternita dei Laici, non si sfugge all’impressione di trovarsi in mezzo ad una vera folla di maestri, lavoranti, apprendisti dei più svariati mestieri. La debolezza politica delle Arti e dell’associazione di Popolo non rispecchia la realtà economica, anzi essa è stata semmai fonte di equivoci, facendo ritenere a torto carenti nella nostra città le manifatture. Così ad esempio tra le carte di un unico registro del notaio Feo di Rodolfo, attivo negli anni ’20 del Trecento, sono state contate ben 65 diverse qualifiche professionali, quasi tutte relative ad attività estranee all’agricoltura (Canaccini 2002). Non diversamente da molte altre realtà urbane del periodo, il settore di punta appare quello laniero, per il quale sono in funzione fin dagli inizi del Duecento diverse gualchiere sui corsi d’acqua circostanti la città e sull’Arno (Franceschi 2006, pp. 169-170). Ad organizzare il lungo, complesso e costoso ciclo produttivo troviamo imprenditori (lanifices) che adottano il sistema cosiddetto della “manifattura disseminata” tipico dei grandi centri tessili italiani, nel quale le diverse fasi lavorative sono dislocate in più sedi. Già nel primo Trecento è documentato l’uso del filatoio a ruota e del telaio orizzontale

largo azionato da due lavoranti, innovazioni tecnologiche – soprattutto quest’ultima – che consentivano un forte incremento produttivo. La materia prima sembra di provenienza locale, ma questo è uno degli aspetti ancora da approfondire. Sempre nel settore tessile è stata notata la consistente presenza di tintori, riuniti in società dotate di cospicui capitali. In origine può essere stata la facilità di approvvigionamento di guado e di robbia a stimolare la crescita dell’attività della tinta, ma quelle che abbiamo davanti – almeno nella documentazione trecentesca – sono figure imprenditoriali a tutto tondo, capaci anche di riunirsi in corporazione – caso piuttosto singolare. Caratteristica tipica aretina, almeno nel panorama dell’Italia centrale, è la lavorazione di manufatti in cotone, nella quale la nostra città già a metà del Duecento appare profondamente coinvolta (Davidsohn 1960-1973, VI, p. 161). Per comprenderne appieno il valore economico bisogna tener presente che il cotone proveniva dal Medio Oriente essenzialmente attraverso Ancona e gli altri porti adriatici, e che la sua produzione, da cui si ottenevano grossi profitti, era quasi monopolizzata dalle città dell’Italia settentrionale (Mazzaoui 1981). Per fare un esempio, fra il 1308 e il 1309 sei bambacarii aretini (cioè coloro che lavoravano la bambagia, il cotone) importarono massicce quantità di tale fibra – dell’ordine di diversi quintali – acquistandole da due mercanti uno dei quali di Spoleto (Franceschi 2006, pp. 174-175). Già agli inizi del XIII secolo comunque la documentazione ci mostra dei bambacai cittadini effettuare vendite a credito al monastero di Santa Fiora (Cherubini 1963, pp. 7 e 22). È anche questo un settore sul quale si è concentrata l’attenzione dei ricercatori. E perfino tessuti di seta, altro importante ambito economico da mettere a fuoco, troviamo in questa dinamica Arezzo duecentesca, anche se non è chiaro se gli operatori del settore si limitassero alla commercializzazione o ne avessero già impiantato la produzione: in attesa di riscontri sulla documentazione inedita, possiamo citare due setaioli iscritti alla Fraternita di Santa Maria nel 1262 e altrettanti impegnati, quasi un secolo dopo, ad ampliare i loro patrimoni terrieri (Cherubini 2003, p. 261; Carbone 2002, pp. 131 e 133). Un rilevante comparto artigiano era quello del ferro, testimoniato dal gran numero di addetti distribuiti nei molti mestieri che ad esso facevano riferimento, dai semplici fabbri ai ferraioli, dai maniscalchi ai frenai, da ultimo ai campanai. Al suo interno, un ruolo importante doveva svolgere la produzione di armi, sia da offesa che da difesa, il cui contorno preciso però ancora ci sfugge. Ma una contrada cittadina prende addirittura il nome da una di queste lavorazioni specializzate, quella di San Pier Piccolo ai “Cervellieri”, gli artigiani che producevano caschi leggeri in cuoio e acciaio, e per l’esercito di Carlo d’Angiò venne richiesta ad Arezzo la forni-

149

tura di 300 archi di corno con il relativo corredo di frecce e faretre (Cherubini 2003, pp. 266-267 e 283; Franceschi 2006, p. 168). Nel più generale settore della lavorazione dei metalli non vanno dimenticati i ramai, ai quali è dedicata una intera rubrica statutaria, e le diverse botteghe di orafi dalle quali uscivano oggetti di indiscussa raffinatezza artistica. Altri ambiti artigiani, sia pure documentati ad un livello minore, sono quelli delle pelli e del cuoio: nel quartiere di Porta Crucifera esisteva una contrada detta di Pellicceria (Cherubini 2003, p. 263). Si trattava di attività che, se praticate su vasta scala, potevano risultare molto remunerative e consentire investimenti in ambiti diversificati, come mostra il caso del borsaio Giannino di Accoltino che negli anni ’40 del Trecento figura tra i proprietari di mulini in compagnia di giudici, notai e speziali (Franceschi 2009, pp. 658-659). Numerosi i calzolai che troviamo negli anni ’60 del Trecento impegnati ad investire nell’acquisto di terreni somme di denaro anche di una certa consistenza (Carbone 2002, pp. 138-139 e 149-150). Un mestiere particolare era quello dei bicchierai, i quali ad Arezzo risultano addirittura riuniti in corporazione di 14 membri negli anni ’20 del Trecento, con botteghe concentrate principalmente nel burgus Bicherarie (Canaccini 2002). Naturalmente erano presenti vasai, capaci anche di produzioni ceramiche di qualità, e fornaciai, particolarmente attivi nel primo Trecento grazie alla impegnativa politica edilizia portata avanti dai Tarlati, con varie iniziative la più nota delle quali è la costruzione delle nuove mura cittadine (Francovich - Gelichi 1983; Franchetti Pardo 1986, pp. 62-67; Ciccaglioni 2008). A completamento del quadro, sebbene non propriamente parte delle attività economiche ma ad esse correlato in più sensi, dobbiamo menzionare lo Studium precocemente installato che rendeva la città meta di studenti e professori dalle più varie provenienze: come avevano ben capito gli aretini del tempo, l’università non era un inutile quanto costoso orpello, ma la fucina dove si plasmavano le nuove classi dirigenti da un punto di vista sia politico che economico, anche se tutti studiavano Cicerone (Stella 2006). L’area economica aretina Tutti i fattori produttivi fin qui esposti si componevano a formare un’area economica che dobbiamo cercare di delineare nei suoi contorni (Fig. 3 a-b). La considerazione da cui partire è lo stretto legame, quasi simbiotico, che legava la città al suo territorio, a quelle conche e vallate così ricche di risorse primarie e attività economiche diversificate (Franceschi 2009). Le fabbriche casentinesi producevano semila-

150

a

b

Fig. 3 a-b. Tessere mercantili dei Tarlati, XIII-XIV secolo

vorati ferrosi utilizzando minerale proveniente dai Monti Rognosi e dall’Elba, forse anche dalle Colline Metallifere; di questi si rifornivano le botteghe dei numerosi fabbri cittadini e comitatini. Le gualchiere valtiberine e quelle della pianura sull’Arno follavano panni ottenuti dalla lana dei greggi appenninici, poi il tessuto passava nelle mani dei tintori – di Sansepolcro o di Arezzo – che provvedevano a colorarlo con tinture ottenute dal guado e dalla robbia di cui erano generosi i campi. Il Casentino forniva i fanghi da purgo e le sostanze tanniche indispensabili nel trattamento dei panni. L’allevamento degli animali praticato sui crinali appenninici dava anche pelli e cuoio per svariati usi, che venivano lavorate in città e in alcuni centri specializzati del contado. Dalle Chiane arrivava ai bicchierai aretini la terra bianca necessaria ad colandum vitreum. Questa integrazione fra centro urbano e territorio, vero punto di forza della realtà aretina, induce a riconsiderare in senso positivo il tono complessivo dell’economia cittadina, lasciando da parte impossibili comparazioni con il modello di sviluppo fiorentino orientato allo scambio di merci e alla fornitura di servizi sulla lunga distanza (Franceschi 2006, pp. 166-167). C’è poi da dire che la nostra percezione del contado – di qualsiasi contado dell’Italia centrosettentrionale – è cambiata negli ultimi tempi: oggi parliamo di una società comitatina diversificata al suo interno e stratificata, al cui vertice sta una “borghesia di castello” che con le sue multiformi attività non legate al settore agricolo viva-

cizza le produzioni artigiane e gli scambi che intervengono nel contado stesso (Pinto 2008a e 2008b). All’interno di tali nuove coordinate storiografiche acquistano particolare valore due caratteristiche della realtà aretina di questo periodo messe in luce anch’esse di recente: la propensione ad associarsi in compagnie pure di piccola e piccolissima taglia per condurre iniziative in qualsiasi ambito economico e la facilità di accesso al credito (Franceschi 2006, pp. 176-177; Scharf 2006, p. 148). Relativamente alla prima, le ricerche ulteriori tutt’ora in corso nello sterminato fondo Notarile dell’Archivio di Stato di Firenze non possono che confermarla pienamente. E non si tratta solamente di associazioni che si contraggono fra abitanti del circuito urbano, ma anche di compagnie nelle quali sono in relazione cittadini e comitatini dei centri minori del territorio (i “borghesi di castello”). Si viene così a tessere una rete fittissima e robusta di interessi coinvolgente città e contado ad ogni livello della scala sociale. E prima di arrivare in città le merci e i manufatti potevano essere oggetto di compravendita anche nei mercati locali intermedi. Per il territorio aretino non disponiamo di un quadro completo, ma tutto lascia intendere che la trama dei centri minori di scambio fosse fitta come in altre parti della Toscana: i grossi castelli di Poppi, Bibbiena, Anghiari, Sansepolcro, Pieve Santo Stefano, Castiglion Fiorentino, Cortona, Lucignano e Monte San Savino svolgevano questo ruolo intermediario, per non dire della rete dei piccoli mercatali come mostra l’esempio della Valdambra. A proposito delle attività commerciali, bisogna sottolineare il fatto che Arezzo è una delle prime città – non solamente di area toscana – che accoglie l’istituto giuridico della guarentigia (= garanzia) idea­ to ed elaborato dai grandi mercanti fiorentini e senesi nella prima metà del Duecento (Bizzarri 1932). Si trattava com’è noto di una formula di garanzia da apporre alle obbligazioni commerciali che conferiva efficacia esecutiva al documento notarile: in parole povere, il creditore non soddisfatto se in possesso di un contratto guarentigiato poteva esigere il sequestro immediato di beni del debitore insolvente nella misura di quanto mancante al suo pieno soddisfacimento. Nessun giudice sarebbe potuto intervenire a difesa del debitore. La formula di guarentigia veniva così incontro alle esigenze di sicurezza del commercio ed è considerata uno dei fattori principali del suo sviluppo nel XIII secolo. Anche la seconda caratteristica individuata, quella che vuole gli aretini del tempo particolarmente impegnati a prestarsi denaro, trova puntuale riscontro nelle carte notarili. Non può sfuggire l’importanza di un fatto simile: il credito facilmente ottenuto è volano dello sviluppo economico, in ogni epoca storica. Pure in momenti di oggettiva difficoltà come gli anni ’40 del Trecento il livello della pratica creditizia si mantiene buono, appannandosi semmai nella seconda metà del seco-

lo, quando agli ufficiali della Gabella dei contratti vengono presentate essenzialmente scritture relative a compravendite immobiliari (Franceschi 2009; Carbone 2002). Ma l’area economica cittadina non si limitava al territorio immediatamente soggetto e neanche a quello compreso entro la sua orbita politica, al pari di ogni realtà urbana dell’Italia centro-settentrionale Arezzo aveva contatti con mercati e realtà produttive molto distanti. Si tratta com’è noto di un punto controverso, anche perché oggettivamente difficile da trattare a causa delle carenze documentarie: ricerche sono ancora in corso, come già detto altre volte, ma al posto di indicare questo o quel caso e poi discuterne il valore più o meno esemplare proviamo a ripartire dai fattori produttivi individuati all’inizio e a collocare in tale cornice i dati sparsi che abbiamo, cercando per questa via di tracciare un quadro coerente. Abbiamo detto in principio della posizione equidistante della città fra le due linee costiere della Penisola e della relativa facilità di transito attraverso la viabilità appenninica: effettivamente l’impressione è che il commercio cittadino a lunga distanza respirasse – per così dire – con due “polmoni”, uno tirrenico, l’altro adriatico. L’interscambio di merci in queste due direzioni assumeva caratteristiche diverse: meglio conosciuto è quello verso occidente e quindi da questo inizieremo. Esso appare impostato sulle materie prime e sulle risorse primarie ricavate sfruttando le opportunità offerte dalla particolare conformazione del territorio: quindi il grano della Valdichiana, il vino casentinese e valdambrino, la carne, insieme a lana e pelli, che si otteneva dall’allevamento di animali praticato sulle giogaie appenniniche, infine il guado (Pinto 1999). La grande metropoli di Firenze, perennemente intenta ad incettare frumento per sfamare la sua popolazione, rappresentava lo sbocco naturale delle eccedenze granarie della Valdichiana, così come della carne e un po’ di tutto il resto. Essendo questa la base su cui si fondavano le esportazioni aretine verso le altre città toscane, non meraviglia che si sia potuto in passato parlare di una precoce ruralizzazione della vita economica cittadina. Un discorso a parte merita il guado, perché la grande disponibilità che gli aretini avevano di questa importante e costosa essenza era non soltanto fonte immediata di guadagni, ma costituiva la chiave per aprire la porta del commercio internazionale e affacciarsi su quel vasto mondo. La lunga serie di contratti avente per oggetto il guado reperita nella documentazione genovese duecentesca mostra che il centro direzionale del suo traffico era la grande città portuale ligure, dove è attestata la presenza aretina almeno dalla fine del XII secolo (Cherubini 2003, pp. 287-295). L’ordinarietà del commercio del guado dai nostri effettuato su questa piazza è testimonianza di una solida organizzazione ormai ben strutturata alla metà del Duecento.

151

A partire da questa constatazione, conseguono due riflessioni: innanzitutto, Arezzo sorge in un’area dove questa pianta cresce rigogliosa, ma gli aretini non aspettano che siano i mercanti forestieri a venire ad acquistarne il prodotto in loco, sono essi stessi ad affacciarsi sui grandi mercati internazionali come Genova mettendo in piedi una struttura commerciale adatta alla bisogna. Ciò attesta il fatto che la nostra città non difettava di capacità imprenditoriali e del capitale necessario. Secondariamente, per impiantare una corrente di traffico continua con lo scalo ligure bisognava necessariamente passare per Pisa o per qualche altro porto minore della costa toscana, ed effettivamente dalla documentazione inedita conservata nell’Archivio di Stato di Firenze sta emergendo proprio questa prassi. Alla luce di tutto ciò, trova un senso anche il rapporto politico privilegiato che lega la città portuale sull’Arno con Arezzo all’epoca dei Tarlati. In altre parole, i grandi mercanti come Simo d’Ubertino o Lazzaro Bracci che verso la fine del Trecento aprono sedi delle loro aziende a Pisa non sono i pionieri di una nuova frontiera (come in Melis 1965-1967), ma vanno considerati piuttosto gli eredi di una tradizione plurisecolare còlti nel tentativo di riallacciare contatti e legami interrotti in modo traumatico (Cherubini 1974). Si è comunque troppo enfatizzato il regime guerresco delle relazioni intercorrenti fra le città toscane, finendo per dare l’impressione che questa fosse la norma: se certamente Arezzo ha patito cocenti sconfitte sul campo di battaglia come la giornata di Campaldino e distruzioni e saccheggi atroci, si è però trattato di episodi momentanei; c’è una ordinarietà, una quotidianità di rapporti reciproci sul piano economico che va riconsiderata nella sua giusta misura. Gli anni ’50 del Duecento, quando al potere un po’ in tutte le città toscane sono i regimi di Popolo, rappresentano un momento forte di organizzazione e razionalizzazione dei traffici regionali grazie soprattutto ad un generale accordo monetario; hanno luogo inoltre patti bilaterali importanti come quello stipulato fra la nostra città e Firenze nel 1256 per la libera circolazione di uomini e merci nei reciproci territori che è durato fino a poco prima di Campaldino, poi interrotto e ripristinato solennemente più volte (Arias 1901, pp. 340-341 e 385386). Questa ordinarietà di rapporti commerciali spiega certe presenze anche precoci di operatori economici fiorentini ad Arezzo, come quei banchieri che nel 1216 prestarono denaro alla Badia di Santa Fiora (Cherubini 1963, p. 7), e viceversa. Ma si tratta di un settore, quello degli scambi regionali, che paradossalmente risulta meno conosciuto rispetto al grande commercio internazionale, soprattutto per carenza di studi mirati (Pinto 2008b, p. 118). Tornando al tema del “polmone” tirrenico, resta da dire che lo smercio del guado (vero “oro blu” per i guadagni che

152

consentiva) effettuato sulla piazza genovese metteva i mercanti della città di san Donato in connessione con i circuiti dello scambio a lunga distanza: ad esempio uno dei contratti di assicurazione commerciale più antichi in assoluto vede per protagonisti proprio dei mercanti aretini residenti a Genova i quali nel 1214 assicurano presso una compagnia fiorentina un trasporto di cotone per via marittima e terrestre fino alla città del giglio (Davidsohn 1960-1973, VI, pp. 429-430). Ma da quanto è dato sapere, la mancanza di grosse compagnie impediva ai nostri aretini di porsi seriamente in concorrenza con i colleghi delle altre città toscane e più in generale italiane. Così un certo flusso di merci soprattutto del comparto laniero di lusso prendeva la via del ritorno, ma il rapporto con i grandi centri produttivi e commerciali del nord Europa, Fiandre e Champagne, fu sempre un rapporto mediato da altri, nonostante qualche sporadica iniziativa individuale (Galoppini 2009, pp. 285-286). Non siamo però qui a fare il processo alla storia e agli uomini del passato, quindi ci limitiamo a constatare il dato di fatto. L’assicurazione sul carico di cotone del 1214 ci introduce al tema del “polmone adriatico” dal momento che per questa strada entrava in Italia e da qui in Europa gran parte di quella fibra speciale. Ma prima di scendere nello specifico, bisogna avvertire che procedere in questo secondo ambito diventa veramente scivoloso perché alla scarsezza di fonti aretine si somma l’insufficienza delle fonti umbro-marchigiane. La trattazione quindi da ora in avanti assumerà necessariamente una forma problematica e accentuerà il suo carattere congetturale. Un primo elemento da cui partire, che differenzia la situazione sul versante adriatico da quella del Tirreno, è la moneta in uso: se dirigendosi verso occidente i mercanti aretini erano indotti ad impiegare divise di altre città, incamminandosi verso oriente potevano continuare a usare la propria. Come ormai è assodato, l’area di diffusione della moneta con l’effigie di san Donato appare tutta sbilanciata verso la regione romagnola e umbro-marchigiana: in particolare è stato ritrovato dagli archeologi in questa zona il “grosso” d’argento, la valuta indispensabile nei traffici a distanza, coniato precocemente ad Arezzo già nella prima metà del Duecento (Vanni, in questo stesso volume). Si tratta di una prova eloquente dell’espansione degli interessi economici aretini in tale ambito geografico. Se poi a quella del “grosso” potessimo sommare l’area di diffusione del “cortonese”, moneta d’argento che secondo una parte dei numismatici sarebbe stata coniata dai vescovi aretini, otterremmo un perimetro ancor più vasto entro il quale inscrivere l’attività dei nostri mercanti. In attesa di una parola decisiva, al momento non possiamo che segnalare la questione aperta: certo dà da pensare il tentativo effettuato nel 1314 da Guido Tarlati di bloccare la coniazio-

ne della moneta piccola perugina, forse per proteggere la propria (Finetti 1997, pp. 57-62). Comunque è un dato di fatto la consistente presenza aretina ad Ancona, seconda solo a quella fiorentina, tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento, quando comincia la documentazione locale (Cherubini 1996, p. 167). Detto questo, più difficile appare delineare la fisionomia degli interessi aretini espressi in questa area geografica: allo stadio attuale della ricerca, i documenti restituiscono notizie di società e compagnie miste, formate da operatori della città di san Donato e operatori dei grossi centri abitati e castelli dell’area umbro-marchigiana (Città di Castello, Gubbio, Foligno, Spoleto, Pesaro, Jesi, Fano, ecc.), non dissimili – se non forse per le dimensioni, un po’ più consistenti – da quelle che i nostri contraevano nel territorio metropolitano. Lana, tessuti e pellami sembrano l’oggetto dei traffici, ma è ancora troppo presto per esprimersi con precisione. Accanto a questo, i mercanti aretini devono aver praticato il commercio del denaro, sia nella forma del credito al consumo che del mutuo puro e semplice. Il fortunato reperimento di un eccezionale fondo documentario perugino ci apre una luce impressionate su tale attività: fra il settembre 1280 e il dicembre 1287 il Comune di Perugia si finanziò mediante 103 operazioni di mutuo contratte presso prestatori aretini per una cifra complessiva valutata intorno ai 40.000 fiorini d’oro (Scharf 2012, ringrazio l’autore per avermi fatto visionare il testo in corso di stampa). I contorni, soprattutto politici, di tali operazioni sono ancora da chiarire, tuttavia alla luce di un caso simile sembra di poter dire che i mercanti-banchieri aretini attivi nell’area umbro-marchigiana non difettassero affatto di contanti, tecniche e credibilità per ricoprire in questa zona il ruolo dei prestatori alla pari dei colleghi delle più note città toscane, fiorentini in testa (Pinto 2003b, p. 258). In tale contesto va inserito il traffico del cotone, che come abbiamo già detto proveniva dall’Oriente ed era scaricato nei porti adriatici, soprattutto ad Ancona. Si trattava di una fibra estremamente versatile che trovava gli impieghi più svariati, dai vestiti all’arredamento alle forniture della casa, per cui era molto richiesta, oggetto di un commercio a lunga distanza. Anche a tale riguardo c’è molto da indagare, tuttavia sembra di poter dire che Arezzo fosse il terminale nell’Italia centrale di questo traffico, come mostra – oltre all’episodio del carico di cotone assicurato a Genova – l’alto numero di bambacarii attivi in città almeno fin dagli anni ’20 del Duecento (Cherubini 1963, p. 22).

Ad Ancona e negli altri porti più piccoli del litorale adriatico i nostri mercanti si imbarcavano per l’Italia meridionale, da dove importavano lana appuliese: ciò emerge, per ora, da documenti trecenteschi di una compagnia mercantile formata da aretini e operatori di Sansepolcro, reperiti da chi scrive, che aveva corrispondenti a Bari, Taranto e Matera oltre che in diversi centri minori del regno. Un po’ più a sud gli operatori economici aretini trovavano le coste greche, ed in effetti merita menzione la notizia della società contratta a Fermo per iniziativa di alcuni personaggi della famiglia Sassoli e sciolta a Chiarenza nel Peloponneso nel 1299, con capitale di 1.250 fiorini d’oro, soprattutto perché Chiarenza era uno degli approdi mediterranei del commercio della seta grezza (Scharf 2012). Qui però dobbiamo fermarci: come nel settore tirrenico i nostri si imbattevano nei più agguerriti colleghi delle altre città italiane, così avveniva nel Mediterraneo orientale, e la presenza aretina non è mai stata consistente nei regni crociati e più in generale in questa area geografica. Mettendo insieme tutti i dati fin qui esposti, possiamo così sintetizzare il traffico a lunga distanza svolto dai nostri operatori economici: esso si fondava sull’esportazione di grandi quantità di guado, i profitti della quale venivano reinvestiti nell’acquisto di panni e tessuti di qualità provenienti dall’Europa settentrionale che erano rivenduti nel territorio metropolitano, nell’area economica umbro-marchigiana e in certe zone del Meridione; da qui si importava cotone e lana grezza da lavorare in patria per il mercato interno e – relativamente al cotone – più in generale per quello centro-italico. Pur con tutte le cautele del caso, sembra di poter dire che il quadro così delineato sia valido per tutto il Duecento. Verso la fine di quel secolo e soprattutto con l’inizio del successivo una serie di fattori concomitanti cominciò a perturbare il sistema: la crescita nei centri dell’area umbro-marchigiana di una borghesia locale non più disposta a concedere spazio agli operatori forestieri, la coniazione dell’agontano, moneta grossa d’argento molto apprezzata e concorrenziale che in breve spazzò via da quell’area le altre divise (Travaini 2003), infine l’acuirsi della lotta politica, per non dire della sempre più agguerrita concorrenza fiorentina. Ma si tratta di argomenti che da soli richiederebbero una specifica trattazione: basterà aver delineato quelli che, allo stato attuale della ricerca, ci appaiono i capisaldi dell’economia aretina nei secoli di maggior sviluppo medievale.

153

Bibliografia

essenziale

AA.VV. 2006: AA.VV., Petrarca politico (Atti del Convegno, Roma-Arezzo 19-20 marzo 2004), Roma. Arias 1901: G. Arias, I trattati commerciali della Repubblica fiorentina, Firenze. Barlucchi 2007: A. Barlucchi, La lavorazione del ferro nell’economia casen­ tinese alla fine del Medioevo ( fra Campaldino e la battaglia di Anghia­ ri), in «Annali Aretini» XIV, pp. 169-200. Barlucchi 2010: A. Barlucchi, Il patrimonio fondiario della badia di Santa Trinita in Alpe, dalle origini al XV secolo, in «Annali Aretini», XVIII, pp. 153-173. Barlucchi 2011: A. Barlucchi, Note sul sistema economico della Valdambra fra Due e Trecento, in L. Tanzini (a cura di), La Valdambra nel Me­ dioevo. Territorio, poteri, società, Firenze, pp. 149-173. Benedetti 1997: A. Benedetti, Uomini e terra tra il Tevere e la Sovara nel XIII secolo, in «Pagine Altotiberine» I, pp. 43-60. Bicchierai 2005: M. Bicchierai, Ai confini della Repubblica di Firenze. Pop­ pi dalla signoria dei conti Guidi al vicariato del Casentino (1360-1480), Firenze. Bizzarri 1932: D. Bizzarri, Il documento notarile guarentigiato: genesi stori­ ca e natura giuridica, Torino. Calzolai 2007-2008: L. Calzolai, Pratomagno e Maremma. Allevamento e transumanza, in «Annali Aretini» XV-XVI, pp. 297-312. Canaccini 2002: F. Canaccini, Città e Contado ad Arezzo al tempo di Gui­ do Tarlati negli atti notarili di Ser Feo di Rodolfo, in «Annali Aretini» X, pp. 155-170. Canaccini 2008: F. Canaccini, Arezzo basso medievale: urbanistica e territo­ rio, in «Ricerche Storiche» XXXVIII, pp. 85-97. Carbone 2002: L. Carbone, Arezzo 1366: aspetti della società e dell’econo­ mia urbana, in «Annali Aretini» X, pp. 109-154. Cataldi 2007: G. Cataldi, La pianificazione antica del territorio, in I. Biagianti (a cura di), La Valdichiana, dai primordi al terzo millennio. Sto­ ria ragionata di un territorio, Cortona, pp. 99-123. Cherubini 1963: G. Cherubini, Aspetti della proprietà fondiaria nell’areti­ no durante il XIII secolo, in «Archivio Storico Italiano» CXXI, pp. 3-40. Cherubini 1974: G. Cherubini, La proprietà fondiaria di un mercante to­ scano del Trecento (Simo d’Ubertino di Arezzo), in Id., Signori, conta­ dini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del Basso Medioevo, Firenze, pp. 313-392 [già in «Rivista di Storia dell’Agricoltura» V, 1965, pp. 49-94 e 143-169]. Cherubini 1991: G. Cherubini, Scritti toscani. L’urbanesimo medievale e la mezzadria, Firenze. Cherubini 1991a: G. Cherubini, Schede per uno studio della società aretina alla fine del Trecento, in Cherubini 1991, pp. 117-140 [già in «Bollettino del Rotary Club di Arezzo» (1 maggio 1977), pp. 3-27]. Cherubini 1991b: G. Cherubini, Le campagne aretine alla fine del Medioe­ vo, in Cherubini 1991, pp. 209-217 [già in «Bollettino del Rotary Club di Arezzo» (17 febbraio 1975), pp. 3-12]. Cherubini 1992: G. Cherubini, Fra Tevere, Arno e Appennino. Valli, comu­ nità, signori, Firenze. Cherubini 1992a: G. Cherubini, Il Casentino ai tempi della battaglia di Campaldino, in Cherubini 1992, pp. 15-37 [= in AA.VV., La batta­ glia di Campaldino e la società toscana del ‘200 (Atti del Convegno di studi storici, Firenze-Poppi-Arezzo 27-29 settembre 1989, Arezzo 1994, pp. 65-96]. Cherubini 1992b: G. Cherubini, Paesaggio agrario, insediamenti e attività silvo-pastorali sulla montagna tosco-romagnola alla fine del Medioevo,

154

in Cherubini 1992, pp. 39-69 [già in S. Anselmi (a cura di), La mon­ tagna tra Toscana e Marche. Ambiente, territorio, cultura, economia, so­ cietà dal Medioevo al XIX secolo, Milano 1984, pp. 58-92]. Cherubini 1992c: G. Cherubini, Notizie su forniture di guado dell’alta val­ le del Foglia alle manifatture di Firenze e Prato (1449-1450), in Cherubini 1992, pp. 97-103 [già in «Rivista di Storia dell’Agricoltura» XV, 1975, pp. 85-94]. Cherubini 1996: G. Cherubini, I Toscani ad Ancona nel basso Medioevo, in AA.VV., Stranieri e forestieri nella Marca dei secc. XIV-XVI (Atti del XXX Convegno di studi maceratesi, Macerata 19-20 novembre 1994), Macerata, pp. 163-174. Cherubini 2003: G. Cherubini, Le attività economiche degli aretini tra XIII e XIV secolo, in Id., Città comunali di Toscana, Bologna 2003, pp. 251295 [già in «Quaderni Medievali» LII, 2001, pp. 19-63]. Cherubini 2009: G. Cherubini, Paesaggi, genti, poteri, economia del Casen­ tino, in «Rivista di Storia dell’Agricoltura» XLIX, pp. 35-57. Ciccaglioni 2008: G. Ciccaglioni, Tra unificazione e pluralismo. Alcune os­ servazioni sull’esperienza pastorale e di dominio politico di Guido Tar­ lati, vescovo e signore di Arezzo (1312-1327), in «Cristianesimo nella Storia» XXIX, pp. 345-375. Czortek 2000: A. Czortek, Prodotti dell’allevamento sul mercato di Sanse­ polcro secondo lo statuto della gabella del 1358, in L. Calzolai - M. Kovacevich (a cura di), Allevamento mercato transumanza sull’Appennino (Atti del Convegno, Ponte Presale, AR, 9 settembre 1999), SestinoBadia Tedalda (AR), pp. 79-88. Davidsohn 1960-1973: R. Davidsohn, Storia di Firenze I-VIII, edizione italiana, Firenze. Dini 1984: B. Dini, Arezzo intorno al 1400. Produzioni e mercato, Arezzo. Fanfani 1935: A. Fanfani, Un mercante del Trecento, Milano. Fanfani 1936: A. Fanfani, Le Arti di Sansepolcro dal XIV al XVI secolo, in Id., Saggi di storia economica italiana, Milano, pp. 83-107 [già in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali» XLI, 1933, pp. 3-20]. Finetti 1997: A. Finetti, La zecca e le monete di Perugia nel Medioevo e nel Rinascimento, Perugia. Franceschi 2002: F. Franceschi, Arezzo, il destino di una città. Riscontri fra economia, politica e cultura, in AA.VV., La bellezza del sacro. Sculture medievali policrome (Catalogo della Mostra, Arezzo settembre 2002 -  febbraio 2003), Arezzo, pp. 169-189. Franceschi 2006: F. Franceschi, Arezzo all’apogeo dello sviluppo medievale, in AA.VV. 2006, pp. 159-182. Franceschi 2009: F. Franceschi, Spunti per una storia dei rapporti economi­ ci tra città e campagna in alcuni notai aretini del Trecento, in R. Mucciarelli - G. Piccinni - G. Pinto (a cura di), La costruzione del dominio cittadino sulle campagne. Italia centro-settentrionale, secoli XII-XIV, Siena, pp. 651-667. Franceschi 2010: F. Franceschi, Economia e società nel tardo Medioevo, in A. Czortek (a cura di), La nostra storia. Lezioni sulla storia di Sanse­ polcro. I. Antichità e Medioevo, Sansepolcro, pp. 355-382. Franchetti Pardo 1986: V. Franchetti Pardo, Arezzo, Roma-Bari. Francovich - Gelichi 1983: R. Francovich - S. Gelichi, La ceramica medievale nelle raccolte del museo medievale e moderno di Arezzo, Firenze. Galoppini 2009: L. Galoppini, Mercanti toscani e Bruges nel tardo Medioe­ vo, Pisa. Goldthwaite 2009: R. A. Goldthwaite, The economy of Renaissance Flo­ rence, Baltimore. Hoshino 1980: H. Hoshino, L’Arte della Lana in Firenze nel basso Medioe­

vo. Il commercio della lana e il mercato dei panni fiorentini nei seco­ li XIII-XV, Firenze. Malvolti - Pinto 2003: A. Malvolti - G. Pinto (a cura di), Incolti, fiumi, pa­ ludi. Utilizzazione delle risorse naturali nella Toscana medievale e mo­ derna, Firenze. Marri Camerani 1946: G. Marri Camerani (a cura di), Statuto di Arezzo (1327), Firenze. Marrocchi 2003: M. Marrocchi, L’impaludamento della Val di Chiana in epoca medievale, in Malvolti - Pinto 2003, pp. 73-93. Mazzaoui 1981: M. F. Mazzaoui, The Italian cotton industry in the later Middle Ages, 1100-1600, Cambridge. Melis 1965-1967: F. Melis, Lazzaro Bracci (La funzione di Arezzo nell’eco­ nomia dei secoli XIV-XV), in «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Arezzo» XXXVIII, pp. 1-18 [= in Id., Industria e commercio nella Toscana medievale, Firenze 1989, pp. 175-191]. Melis 1967: F. Melis, Momenti dell’economia del Casentino nei secoli XIV e XV, in M. Terenzi (a cura di), Mostra di armi antiche (secc. XIV-XV) (Poppi, Castello dei Conti Guidi, 16 luglio - 16 agosto 1967), Firenze, pp. 4 [= in Id., Industria e commercio nella Toscana medievale, a cura di B. Dini, Firenze 1989, pp. 192-197]. Pérol 2004: C. Pérol, Cortona: pouvoirs et sociétés aux confins de la Tosca­ ne (XV e-XVI e siècle), Rome. Pinto 1982: G. Pinto, La Toscana nel tardo Medioevo. Ambiente, economia rurale, società, Firenze. Pinto 1996: G. Pinto, Borgo Sansepolcro: un centro minore della Toscana tra Medioevo e prima età moderna, in Id., Città e spazi economici nell’Ita­ lia comunale, Bologna, 1996, pp. 223-236 [già in G. Renzi (a cura di), La Valtiberina, Lorenzo e i Medici, pp. 151-161]. Pinto 1997: G. Pinto, Giovacchino Pinciardi da Borgo Sansepolcro, mercan­ te e tintore di guado nella Firenze del Trecento, in «Pagine Altotiberine» I, f. 3, pp. 1-28. Pinto 1999: G. Pinto, Produzioni e traffici nell’aretino nei secoli XIII e XIV. Aspetti e problemi, in «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Arezzo» LXI, pp. 223-236. Pinto 2003a: G. Pinto, Incolti, fiumi, paludi. Alcune considerazioni sulle

risorse naturali nella Toscana medievale e moderna, in Malvolti - Pinto 2003, pp. 1-16. Pinto 2003b: G. Pinto, Le città umbro-marchigiane, in AA.VV., Le città del Mediterraneo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economi­ ci e sociali (Atti del XVIII Convegno internazionale del Centro Italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia 18-21 maggio 2001), Pi­stoia, pp. 245-272. Pinto 2008a: G. Pinto, La “borghesia di castello” nell’Italia centro-settentrio­ nale (secoli XII-XV). Alcune considerazioni, in G. Pinto - G. Petti Balbi - G. Vitolo (a cura di), Città e territori nell’Italia del Medioevo. Stu­ di in onore di Gabriella Rossetti, Napoli, pp. 155-170. Pinto 2008b: G. Pinto, Produzioni e reti mercantili nelle campagne toscane dei secoli XIII e XIV, in «Rivista di Storia dell’Agricoltura» XLVIII, pp. 101-119. Pinto 2010: G. Pinto, L’economia del basso Medioevo, in L. Berti - P. Licciardello (a cura di), Storia di Arezzo: stato degli studi e prospettive (Atti del Convegno, Arezzo 21-23 febbraio 2006), Firenze, pp. 625-637. Scharf 2006: G. P. Scharf, Fra signori e politica regionale. Arezzo da Cam­ paldino a Guido Tarlati (1289-1327), in AA.VV. 2006, pp. 147-157. Scharf 2012: G. P. Scharf, Potere e società ad Arezzo nel XIII secolo, in corso di stampa. Stella 2006: F. Stella (a cura di), 750 anni degli statuti universitari aretini (Atti del Convegno internazionale su origini, maestri, discipline e influenza culturale dello «Studium» di Arezzo, Arezzo 16-18 feb­braio 2005), Firenze. Taddei 2009: G. Taddei, Castiglion Fiorentino fra XIII e XV secolo. Politi­ ca, economia e società di un centro minore toscano, Firenze. Travaini 2003: L. Travaini (a cura di), L’agontano. Una moneta d’argen­ to per l’Italia medievale, Convegno in ricordo di Angelo Finetti (Trevi 2001), Perugia. Wickham 1997: C. J. Wickham, La montagna e la città. L’Appennino to­ scano nell’alto Medioevo, Torino (traduzione italiana di The mountains and the city. The Tuscan Appennines in the early Middle Ages, Oxford U.P. 1988).

Referenze Illustrazioni Fig. 1. Elaborazione grafica dell’Autore; Fig. 2 a-b. Internet; Fig. 3 a-b. F. M. Vanni, Il segno dei mercanti. Tessere mercantili medievali del Museo Statale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo, Firenze 1995, p. 19 nr. 2.

155

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.