L\'evidenza del mondo. Cinema contemporaneo e angoscia geografica

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Giorgio Avezzù

CINEMA

Cinema contemporaneo e angoscia geografica

Giorgio Avezzù

L’evidenza del mondo Cinema contemporaneo e angoscia geografica

In che modo un medium con un’antica propensione geografica oggi interpreta, commenta ed elabora la «crisi della (propria) ragione cartografica»?

L’evidenza del mondo

Giorgio Avezzù insegna Linguaggi e forme espressive dello spettacolo all’università Cattolica di Milano. Suoi articoli sono apparsi in riviste e pubblicazioni nazionali e internazionali, e ha recentemente curato con Giuseppe Fidotta un numero monografico di «Cinergie» intitolato Il mondo in forma disciplinata. Cinema, geografia e cultura visuale. È redattore delle riviste «Cinéma & Cie» e «L’avventura».

Giorgio Avezzù L’evidenza del mondo Qualcosa accomuna, dall’origine, geografia e cinema: l’intento di descrivere, di dare un senso al mondo rappresentandolo per immagini, di dargli forma, di archiviarlo, di renderlo visibile nella sua interezza, appropriabile in termini intellettuali, se non proprio materiali. Il cinema contemporaneo mostra di considerare in modo più problematico questa propria “geograficità”. Sembra talvolta essersi accorto (o essersi convinto) che il proprio ruolo è cambiato, che non può più – forse non deve – guardare “in un certo modo”, e che come dispositivo ha dei limiti fondamentali: i limiti della propria logica, del proprio modo di pensare il mondo.

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Direzione di Michele Guerra Comitato di direzione Roberto Campari, Hannah Chapelle Wojciehowski, Nicola Dusi, Michele Fadda, Vittorio Gallese, Leonardo Gandini, Sara Martin

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La pubblicazione di questo volume ha ricevuto il contributo finanziario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sulla base di una valutazione dei risultati della ricerca in esso espressa

Coordinamento editoriale Leandro del Giudice Redazione Giovanni Cascavilla Muriel Benassi Grafica Anna Bartoli In copertina Zero Dark Thirty, Kathryn Bigelow, 2012 ISBN 978888103826-872-5 © 2017 Diaroads srl - Edizioni Diabasis vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: [email protected] www.diabasis.it

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Indice

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Nota dell’autore

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1. Introduzione La geograficità del cinema nell’epoca della crisi della ragione cartografica Un problema e una domanda

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2. Piani e luoghi della manifestazione della geografia nel cinema Piani della geografia nel cinema. Una topografia terrestre inventata Luoghi della geograficità del cinema. Interrogare le forme cartografiche

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3. La sovversione del disegno Queste pareti che significavano il mondo. Il panorama difettoso L’esatta forma del mondo. World cinema Le retoriche globaliste La lezione di geografia. L’estetica dell’evidenza Mappe che non funzionano Ground truth. I turbamenti del cartografo Film cospirativo e mappatura cognitiva Il punto

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4. L’umiliazione dello sguardo Riordinare il caos. Le qualità tradizionali dell’immagine aerea La traslazione retorica dell’immagine aerea nel cinema bellico Un fallimento dell’immaginazione Pervasività e novità della crisi Incertezza e interpretazione Il paradosso cartografico irrisolto. La retorica della tattica La diserzione dello sguardo Il punto

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5. La resistenza del mondo Gli imbarazzi dell’atlante cinematografico contemporaneo L’angoscia della tracciabilità La tavola e il puzzle. La crisi della presentabilità Posti che mostrino il mondo. La crisi dell’indicabilità Il vero mistero è il visibile Un progetto che si fa beffe degli sforzi umani. Tre umoristi Un atlante del cinema mondiale. Retorica ed estetica cartografica nei film studies Il punto

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6. Conclusioni. L’angoscia geografica e l’onore del cinema Geografizzazione. Geografia ed enunciazione cinematografica L’angoscia geografica del cinema contemporaneo Il quadrato dell’onore del cinema

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Bibliografia Indice dei nomi

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NOTA DELL’AUTORE

Questo libro nasce dalla ricerca svolta nell’ambito della Scuola di Dottorato in Studi Umanistici. Tradizione e Contemporaneità dell’Università Cattolica di Milano (indirizzo Culture della comunicazione, media e arti dello spettacolo). Desidero ringraziare il mio supervisore Ruggero Eugeni, e tra i docenti dell’ateneo almeno Mariagrazia Fanchi, Massimo Locatelli, Alice Cati e Adriano D’Aloia. Come quella ricerca, il libro elabora riflessioni inaugurate in precedenza presso l’Università di Bologna, e nutre perciò parecchi debiti nei confronti di chi mi seguì all’epoca, soprattutto Guglielmo Pescatore e Michele Fadda. A Michele Fadda va un ringraziamento particolare, così come a tutti gli altri membri del comitato scientifico della collana in cui questo libro è pubblicato, e specialmente al direttore Michele Guerra. Una prima discussione dei temi trattati in questo lavoro è stata tentata in occasione di diversi convegni di studi, in diverse sedi, e anche sulle pagine di alcune riviste accademiche, di alcuni volumi e atti di convegni. Quelle riflessioni, rielaborate, confluiscono qui in misura diversa, perché sono state concepite dall’inizio all’interno del medesimo quadro teorico e in vista di un’articolazione più sistematica, come questa. In particolare ho cominciato ad abbozzare una riflessione su un’estetica cinematografica della globalità e un’estetica della resistenza per il convegno Corto circuito. Il cinema contemporaneo nella rete (Università di Bologna, 25-26 maggio 2009), poi nell’articolo Poter vedere tutto. La rappresentabilità cinematografica di tutta la Terra, in Michele Fadda (a cura di), Corto circuito. Il cinema nell’era della convergenza, Archetipo, Bologna 2011, pp. 213222. Ho invece appuntato qualche nota sull’immaginario geografico dei film ambientati nel mondo antico in «E i mondi ancora si volgono sotto i suoi piedi bianchi». Ipazia e Agora di Alejandro Amenábar, «Dionysus ex Machina», 1 (1), 2010, pp. 334-346. Una prima indagine sull’uso critico delle mappe nei film è in Sulla crisi della ragione cartografica del cinema, «Fata Morgana», 7 (19), 2013, pp. 159-168. Ho proposto delle riflessioni su cinema e “paradosso cartografico” in occasione della XI MAGIS – Gorizia International Film Studies

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Spring School (15-21 marzo 2013) e ho discusso di “retorica della tattica” ed estetica cinematografica della “violazione” in L’ideologia del disincanto e della violazione. La rinegoziazione di una geometria spettacolare, «Fata Morgana», 8 (24), 2014, pp. 141-153. Ho affrontato la questione dell’immagine aerea nel film contemporaneo in occasione del convegno Le immagini e le guerre contemporanee. Stereotipi, rimozioni, chance (Università degli Studi di Milano, 13-15 maggio 2015), e prima con Michele Fadda al convegno American Memory/ American Space. Bologna Conference 2012 (Yale University, 8-11 giugno 2012) e all’ASCA Workshop: Extremely Close & Incredibly Slow (University of Amsterdam, 28-30 marzo 2012). Una prima pubblicazione sull’immagine aerea è La diserzione dello sguardo. Appunti sulla sorte dell’immagine aerea nel cinema contemporaneo, «Annali Online Lettere – Ferrara», 6 (1-2), 2011, pp. 262-295. Lo “sguardo da lontano” della storiografia del cinema e degli approcci “world cinema” è già stato l’argomento di un intervento per Filmforum XXI (Udine, 2-4 aprile 2014), poi in volume come Film History and “Cartographic Anxiety”, in Alberto Beltrame, Giuseppe Fidotta, Andrea Mariani (eds.), At the Borders of (Film) History: Temporality, Archaeology, Theories, Forum, Udine 2015, pp. 323-330. Su temi simili avevo prima scritto The Rhetoric and Aesthetics of World Cinema. Film Studies as a Place for the “Persistence of Geography” in Contemporary Cinema, «Cinéma & Cie», 13 (20), 2013, pp. 97-108. Ho già tentato la lettura metariflessiva della narrativa di diserzione per Filmforum XXII (Udine, 18-20 marzo 2015), poi pubblicata come The Desertion Plot: A Moral of the Story and a Moral of the Dispositif, in Diego Cavallotti, Federico Giordano, Leonardo Quaresima (eds.), A History of Cinema Without Names: A Research Project, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 191-198. Ho tracciato qualche prima riflessione su Jameson, mappatura cognitiva e film contemporaneo per NECS 2013: Media Politics, Political Media (Charles University, 20-22 giugno, 2013). Ho invece impostato una discussione sul sublime come stile culturale del cinema contemporaneo a NECS 2014: Creative Energies, Creative Industries (Università Cattolica di Milano, 19-21 giugno 2014). Alcuni punti che tratto più approfonditamente nel quinto capitolo li ho affrontati con Giuseppe Fidotta al convegno World Cinema and the Essay Film (University of Reading, 30 aprile-2 maggio 2015). Ho poi cercato di riorganizzare i punti fondamentali in occasione del convegno Geomedia 2015: Spaces and Mobilities in Mediatized Worlds (Karlstad University, 5-8 maggio 2015) e del simposio Media’s Mapping Impulse (Johannes Gutenberg Universität, 16-19 giugno 2016).

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Ringrazio tutti gli organizzatori dei convegni che hanno accolto le mie proposte, e i curatori e i revisori delle riviste e dei volumi in cui i miei saggi sono stati pubblicati. Desidero inoltre ringraziare per l’aiuto, i consigli e il sostegno, tra gli altri: Teresa Castro, Diego Cavallotti, Pasquale Cicchetti, Tom Conley, Federico di Chio, Giuseppe Fidotta, Giancarlo Grossi, Maurizio Guerri, Chris Lukinbeal, Andrea Mariani, Carmelo Marabello, Elena Nepoti, Paolo Noto, Andrea Pinotti. Il libro è dedicato ai miei.

Avvertenza: dove non è indicata un’edizione italiana le traduzioni sono a cura dell’autore.

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Attenti, signori, che dò principio. – Per la prima veduta comparisce la Gabbia dei poveri pazzerelli. A queste parole dell’abile Piemontese che mostra la Lanterna curiosa, sorge un sordo mormorio tra gli astanti. Uno di essi, dopo aver detto sottovoce: «bisogna che costui sia ubbriaco», aggiunge sonoramente: «oh! amico: dove avete la testa? sbagliaste il vetro: quella non è la Gabbia che pretendete di far vedere, ma il Globo terrestre». Anonimo, La lanterna magica che fa vedere il mondo e qualche cosa di più, 1825

Poi mostrai loro un quadro del Rinascimento italiano, interessante perché, in qualche modo, rappresentava il mondo intero: un porto, una città, il mercato del pesce al porto e poi c’era un paesaggio sullo sfondo e grandi navi da carico attraccate. Glielo feci vedere per dieci secondi e poi domandai che cosa avessero visto. Immediatamente, cinque o sei di loro gridarono: «Un cavallo, un cavallo!» Werner Herzog, 2008

And what do they know of the world, these schoolboys? Alexander, Oliver Stone, 2004

C’è tutta l’enorme distesa del diverso, del brutale, del violento, contrario alla geometria del tuo pensiero che devi veramente intendere. Mario Luzi, Libro di Ipazia, 1980

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1. INTRODUZIONE

La geograficità del cinema nell’epoca della crisi della ragione cartografica In questo libro mi propongo di approfondire la questione dei rapporti tra la geografia e il cinema, in particolare il cinema contemporaneo. La letteratura sull’argomento, che è andata ampliandosi considerevolmente nell’ultimo decennio, fornisce indicazioni molto utili a proposito delle forme nelle quali questi rapporti si manifestano, però generalmente manca di soffermarsi su una loro eventuale – e probabile – evoluzione, o un loro mutamento. Perché certamente il ruolo culturale del cinema è cambiato nel corso degli anni, e così anche la sua primitiva «propensione geografica» può essere diventata oggetto di commenti e di critiche, o di preoccupazioni e di angosce particolari. Come d’altra parte ha subìto una radicale riconsiderazione la stessa geografia, intesa come scienza, sapere e progetto della modernità. Non voglio seguire un percorso multidisciplinare che guardi meccanicamente e scolasticamente al cinema “dal punto di vista” della geografia, come se questa fosse stata casualmente sorteggiata tra le branche del sapere, e come se queste branche del sapere fossero convocabili in modo intercambiabile. Né cerco di rincorrere la moda dello spatial turn1, cioè dell’«irresistibile (e fino a qualche anno fa del tutto imprevedibile) successo della geografia» e della critica spaziale in rapporto alle scienze umane e sociali (Gabriele Pedullà, cit. in Ceserani, 2010, p. 103). Sono semmai la forma e la sostanza del discorso geografico, le sue ragioni e i suoi limiti oggi, che voglio indagare in rapporto al cinema. È il bagaglio di connotazioni del quale è carico tale discorso che mi interessa, perché considero il cinema come un medium costitutivamente geografico e perciò tali qualificazioni nel cinema riverberano secondo me in modo particolarmente distinto. Proprio questa non-neutralità dello sguardo geografico non sempre viene riconosciuta, soprattutto nei casi in cui

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tale sguardo viene adottato come particolare prospettiva metodologica, in chiave appunto multidisciplinare. La convinzione che la geografia sia una scienza “muta” semplicemente descrittiva sembra talvolta viziare, ad esempio, anche la geocritica letteraria di Franco Moretti, e la sua fiducia nei modelli astratti (grafici, mappe) per l’analisi di testi letterari2. È necessario innanzitutto chiarire cosa si intende per “geografia”. Qui per geografia s’intende, secondo la definizione tolemaica, la rappresentazione della Terra nella sua totalità, «tutta in uno e continua», e non di singole parti di essa, la cui descrizione, a rigore, spetta alla corografia (Ptol. Geog. I, 1). La geografia non consiste nella descrizione fedele di uno spazio oggettivo naturale, ma in qualcosa di ben diverso. Parafrasando Edward Said, la Terra stessa, non diversamente dall’Oriente, non è «un’entità naturale data, qualcosa che semplicemente c’è», piuttosto è «un’idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini che [le] hanno dato realtà e presenza […]» (Said, 1999, pp. 14-15). Pur affermando la propria innocente neutralità, la propria indiscutibile evidenza – ed è questo, com’è stato osservato, un notevole elemento di «ambiguità» (Dematteis, 1985, in particolare il capitolo “Ambiguità della geografia”, pp. 11ss.) – la geografia si preoccupa in realtà di produrre il mondo, a certe condizioni e secondo certe regole. La Terra assume una consistenza, un senso, presenta delle coordinate e permette l’orientamento quando grazie alla geografia viene descritta e raccontata. La geografia è dunque linguaggio, rappresentazione e discorso: Strabone può descrivere solo la Terra «per la quale possiede un linguaggio» (Farinelli, 2003, p. 6); la geografia verrà rifondata nel Rinascimento (Edgerton, 1975) sulle regole della proiezione planare e della nuova prospettiva lineare ricavate dal testo tolemaico – per il quale la geografia è mimesis – che definiranno la rappresentazione (e il pensiero) occidentale3; il sapere geografico assume nella storia i tratti di un discorso filosofico, strategico, politico, scientifico, attribuendosi al contempo connotati di neutra oggettività (Livingstone, 1992). Questo linguaggio, questa rappresentazione e questo discorso funzionano fintanto che sono percepiti come adeguati alla descrizione, alla conoscenza e al controllo del mondo, cioè del «complesso delle relazioni (sociali, economiche, politiche, culturali) al cui interno si svolge la vita umana» (Farinelli, 2003, p. 6). Deve cioè esserci – o bisogna credere che ci sia –

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un rapporto di conformità, d’isomorfismo tra la descrizione geografica e alcuni oggetti e alcuni comportamenti sociali (anzi, tutti questi). È bene chiarire anche cosa s’intende con l’altro termine del rapporto che voglio indagare, cioè, in un certo senso, a cosa ci riferiamo col termine “cinema”. L’ipotesi di partenza è che proprio la geografia rappresenti una dimensione fondamentale del cinema, e che il medium abbia contribuito alla fabbricazione di quella che Mary Louise Pratt chiama una «coscienza planetaria» (1992, pp. 15-37). Con il progetto geografico di visibilità completa, di immaginabilità del mondo, il cinema è stato solidale sin dalla sua nascita – anzi soprattutto allora. In ultima analisi qui si considera il cinema, con Jacques Aumont, come quell’apparato che avrebbe reso lo spettatore del film – finalmente – «uomo vedente, “onniveggente”»: la macchina da presa sarebbe stata capace «di portare uno sguardo mobile e organizzato sul mondo», e il mondo da parte sua non avrebbe smesso di «farsi vedere» dal suo occhio. Si tratta però di un’onniveggenza «tutt’altro che tecnica o “neutra”: al contrario essa si porta dietro tutta un’accumulazione più o meno distinta di valori e di sensi, legati all’occhio variabile, mobile e sovrano sin dall’antivigilia della modernità» (Aumont, 1991, p. 36; “onniveggenza” è un termine mutuato da Christian Metz). L’invenzione del cinema va collocata nel quadro della cosiddetta «compressione spazio-temporale» della modernità, cioè all’interno di una serie di traguardi tecnici nella conquista dello spazio mondiale che hanno concorso alla creazione di un’immagine del globo come «totalità conoscibile», perché esplorabile e percorribile: dall’espansione della rete ferroviaria alla costruzione del canale di Suez, dall’avvento del telegrafo alla comunicazione radio, dall’affermazione su larga scala della navigazione a vapore al viaggio terrestre a motore, dalla fotografia aerea in mongolfiera all’invenzione dell’aeroplano, dalle Esposizioni Universali e Coloniali alla stessa architettura in ferro e vetro degli edifici nei quali venivano tenute (Harvey, 2010, pp. 302 e 319ss.)4. Un’archeologia dello sguardo cinematografico riporta in effetti la nascita del medium in un contesto culturale di «febbrilità della visione» (Aumont, 1991, p. 27) o di «frenesia del visibile» di natura proprio geografica: La seconda metà del XIX secolo visse in una sorta di frenesia del visibile. È certamente l’effetto della moltiplicazione sociale delle immagini: diffu-

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sione sempre più vasta dei giornali illustrati, dilagare di stampe, caricature, ecc. Ma è anche l’effetto di una estensione in qualche modo geografica del campo del visibile e del rappresentabile: con i viaggi, le esplorazioni, le colonizzazioni, il mondo intero diventa visibile nel momento in cui lo si può possedere. (Comolli, 1982, p. 13)

Similmente, Tom Gunning nota che il cinema si afferma «in un contesto di febbrile produzione di vedute del mondo, un’ossessiva opera di conversione del mondo in una serie di immagini» (2006, p. 32). La frase The Whole World Within Reach, osserva Gunning, diventa allo stesso tempo il motto della nascente industria turistica così come della nuova industria cinematografica (è lo slogan della Star Film Company), e in particolare del fortunato travel genre delle origini. Perché, come sostiene Giuliana Bruno (2006), il cinema incorpora «l’inconscio spaziale della cultura del viaggio», e mostra perciò una «propensione geografica», interpreta «un impulso mappatorio», un furor geographicus. L’ossessione cartografica non si lega però soltanto alla moderna cultura del viaggio, ma anche al progetto colonialista della modernità, che informa alcune tra le prime e più diffuse pratiche del cinema primitivo. Nel periodo delle origini, le nazioni produttrici di film più prolifiche sono, e non è un caso secondo Ella Shohat e Robert Stam, il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti e la Germania, cioè alcune tra le maggiori potenze coloniali dell’epoca. Il cinema, tentando di rimediare all’horror vacui cartografico della modernità, talvolta proprio grazie ai finanziamenti delle società geografiche, si preoccupò di riempire gli spazi bianchi del mappamondo, e «riuscì a trasformare l’oscuro planisfero in un mondo familiare, conoscibile» (Shohat-Stam, 1994, p. 106): Estendendo come una protesi la percezione umana, l’apparato accorda allo spettatore l’illusoria ubiquità del “soggetto che percepisce tutto”, che può godere di un esilarante senso di potere visivo. […] In un contesto imperialista l’apparato serviva tendenzialmente a lusingare il soggetto imperiale in quanto osservatore superiore e invulnerabile, come quello che Mary Louise Pratt chiama il “monarca di tutto ciò che si vede”. La capacità del cinema di “far volare” gli spettatori attorno al globo assegnava loro, come soggetti, una posizione di dominio audio-visivo. (p. 104)

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Scrive Samuel Rohdie: «Il cinema primitivo apparteneva tanto alla geografia quanto al “cinema”, che come istituzione ancora non esisteva», e infatti «la categoria cinematografica predominante fino al 1914 era quella “geografica”» (2001, pp. 32 e 10; cfr. anche 1997). Antonio Costa (2006) insiste, ad esempio, sul successo del modello narrativo del viaggio intorno al mondo nel cinema delle origini, citando casi paradigmatici: i film di Luca Comerio girati nei primi due decenni del Novecento e poi raccolti in Dal polo all’equatore da Gianikian e Ricci Lucchi (1986), Il giro del mondo in due ore (Pasquali, 1912), e prima ancora ovviamente, per importanza, gli Archives de la Planète di Albert Kahn (1912-30, centosettantamila metri di pellicola, settantaduemila autochrome) e lo stesso catalogo Lumière (1895-1905). Nei discorsi sul cinema delle origini l’analogia cartografica ritorna in modo insistito e in termini sempre piuttosto simili: esiste, sostiene Teresa Castro, «una forte connessione visiva e retorica tra cinema e cartografia» (2009, p. 10) perché, come la cartografia, il cinema rappresenta una risposta a un desiderio tipicamente moderno di appropriazione del mondo attraverso le immagini, ben esemplificato dall’ambiziosa impresa archivistica planetaria di Albert Kahn, con l’importanza che veniva attribuita al «concetto di totalità» (Costa, 1999, p. 98). Per la Castro lo slogan della società cinematografica di Charles Urban, We Put the World Before You, costituirebbe un altro buon esempio. È un motto che per la verità affascinò anche Hermann Häfker, vero pioniere dell’esplorazione dell’argomento della geograficità del cinema, autore – nel 1914 – di un volume intitolato Kino und Erdkunde, nel quale peraltro fa esplicitamente propria l’idea tolemaica di geografia come rappresentazione di tutto il mondo («Geografia non è la conoscenza di una parte della Terra in quanto tale, bensì della sua totalità», p. 10). È forse proprio il libro di Häfker, Kinoreformer ed esperantista morto a Mauthausen, a inaugurare in modo piuttosto organico e anche molto pratico la riflessione sul cinema e la geografia.

Un problema e una domanda Non mi addentrerò troppo oltre nella questione della primitiva geograficità del cinema: la postulo dandola già per dimostrata, e per una

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sua analisi approfondita rimando al volume di Teresa Castro (2011), che al momento è, appunto, il contributo che più estesamente e in modo più sistematico tenta di descrivere l’intima vocazione geografica del medium. Mi interessa di più soffermarmi sul fatto che in quel volume – già dal titolo: La Pensée cartographique des images – è centrale il riferimento alla nozione di ragione cartografica, un concetto proposto dal geografo Franco Farinelli (1992, 2003, 2009) e discusso anche dallo svedese Gunnar Olsson (1998, 2007). Il concetto di ragione cartografica deve evidentemente molto a quello di «ragione grafica» trattato da Jack Goody (1987, sebbene Goody non usi quell’espressione, che si deve probabilmente a chi ne approntò la traduzione francese, intitolata La Raison graphique). In breve, nell’argomentazione farinelliana, la carta geografica sarebbe il dispositivo fondatore del pensiero occidentale, la condizione preliminare a ogni discorso (su questo anche Jacob, 1992, pp. 29ss.). La geografia non sarebbe affatto una disciplina minore o ancillare: starebbe invece al centro dell’idea del moderno e alla base del pensiero scientifico, che avrebbe perfino contribuito a inaugurare in virtù dell’inedita qualità sperimentale che le è propria (Livingstone, 1992, pp. 63ss.)5. L’episteme moderna ha costruito il rapporto tra il soggetto e il mondo sulle regole spaziali della prospettiva fiorentina, a loro volta debitrici proprio delle antiche istruzioni tolemaiche per la proiezione del globo terrestre sulla tavola, riscoperte appunto nel Rinascimento. Riducendo il mondo alla tavola, l’uomo occidentale ha per secoli proiettato sul mondo stesso l’ordine mentale che governa la proiezione cartografica. L’ordine del mondo è stato perciò continuamente anticipato e riprodotto a partire dalla carta, e a sua volta la carta è servita a sanzionare l’esistenza di quell’ordine, in un processo circolare di morfogenesi mimetica che è stato descritto da Giuseppe Dematteis (1985, pp. 99ss.), e che ben riassume il funzionamento della ragione cartografica. Il cinema, declinazione particolare del moderno «regime scopico prospettico» e di quello «descrittivo» (o mappatorio)6, non solo interpreta e alimenta l’immaginario geografico della modernità, ma già a monte è informato dai paradigmi visivi ed epistemici che la fondano, e perciò non può che essere un dispositivo profondamente intriso dalla logica cartografica. È infatti già iscritta nell’apparato: «il cinema, mezzo della mo-

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dernità per eccellenza, nasce a partire da un profondo radicamento nella logica della mappa e della tavola» (Eugeni-Bellavita, 2010, p. 93). Ora, c’è però un problema cruciale, che sta proprio alla base di questo libro. Vale a dire il fatto che, sebbene Teresa Castro non ne parli, ciò che preme a Farinelli quando racconta la fortuna del modello cartografico come formidabile paradigma epistemico della modernità è dimostrare che adesso tale modello non sarebbe più utile per capire il funzionamento del mondo, dal punto di vista socio-politico, economico, informazionale. La globalizzazione sovverte, questa in sintesi è la tesi del geografo, i concetti di misura, di distanza e di limite, e quindi la necessità della corrispondenza – l’isomorfismo – tra il «mondo» e ciò che è visibile, esteso nello spazio e cartografabile. Ovvero, inceppando il meccanismo di «morfogenesi mimetica», contraddice la certezza della rappresentazione geografica, provoca una «crisi della ragione cartografica». Avrò occasione di tornare spesso sulle parole di Farinelli, la cui tesi coincide con quella di Gunnar Olsson quando quest’ultimo nota la nuova importanza dell’invisibile, cioè di quello che è impossibile da rappresentare, da addomesticare secondo la ragione cartografica: Il prezzo per adeguare il mondo al modo geometrico ha raggiunto un punto critico. Per esempio, non c’è bisogno di essere né capitalisti né marxisti per rendersi conto che molta parte del mondo odierno è tenuta insieme da promesse fatte nel linguaggio del denaro, un linguaggio di opzioni e derivati che da tempo ha perso la più tenue connessione con qualsivoglia materialità. Ogni tentativo di mappare l’attuale mondo fatto di cose immateriali grazie alla ragione pura risulta perciò non solo obsoleto, ma anche seriamente fuorviante. (Olsson, 1998, p. 149)

È una tesi che con accenti talvolta molto diversi sembra riecheggiare anche altrove, se non altro nella sua insistenza su un fattore di discontinuità. Appunto, c’è chi fa notare che lo sganciamento del sistema finanziario dalla produzione e la fine della convertibilità del dollaro in oro hanno comportato la smaterializzazione e un’inedita invisibilità, cioè immappabilità, della circolazione di ciò che ha valore. Così anche la cibernetica e la digitalizzazione dell’informazione avrebbero introdotto una logica nuova, reticolare e non più tabulare, delle infrastrutture e del flusso in-

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formazionale (Castells, 2008; Farinelli, 2009, pp. 168ss.). Una logica che avrebbe trovato anche un equivalente economico e politico, o forse ne discenderebbe. Fine del comunismo, deregolamentazione dei mercati e delocalizzazione della produzione hanno prodotto infatti una netta cesura nella «rappresentazione implicita dello spazio» mondiale nel pensiero politico, e hanno «deformato» le «geometrie» consuete, creando uno scenario complesso «inafferrabile» secondo le logiche della spazialità moderna, ormai «sfondata» nei suoi confini (Galli, 2001; Accarino, 2007). Nel pensiero economico, da parte ultraliberista riscuote successo una certa letteratura apologetica della globalizzazione che annuncia la «morte della distanza» e la «fine della geografia», cioè la sua irrilevanza rispetto al mercato globale e ai suoi costi in un mondo in cui l’efficienza della comunicazione e dei trasporti rende più facile il movimento di persone, cose e idee (Cairncross, 1997; Ohmae, 1996). È in fondo un argomento della retorica ottimistica del «sublime digitale» (Mosco, 2005), che ripropone sul piano spaziale l’entusiasmo per la «fine della storia». Da parte marxista viene posto invece il problema (uguale e contrario) della cartografabilità – impossibile, nondimeno necessaria – della totalità del complesso sistema socio-economico mondiale della terza fase del capitalismo (Jameson, 2007, 1995). Queste teorie, sebbene siano talvolta in contraddizione tra loro, e assumano in certi casi il carattere di ragionamenti apodittici e perfino i contorni del mito, hanno certamente contribuito a diffondere la percezione di una radicale trasformazione del rapporto tra il mondo contemporaneo e la geografia, rispetto al passato prossimo della modernità. Al contempo è il discorso geografico ad aver subìto un ripensamento e una delegittimazione, o piuttosto, a essere stato finalmente considerato proprio come un discorso, per quanto subdolamente «silenzioso» (Dematteis, 1985, pp. 54ss.). La stessa geografia intesa come disciplina scientifica, non diversamente dall’antropologia culturale ad esempio, nell’ultimo quarto del secolo scorso ha attraversato una «crisi della rappresentazione» e dell’«autorità» che ha minato alla base la presunta oggettività della scrittura geografica e ne ha smascherato il carattere soggettivo, politico, strategico, storicamente e culturalmente determinato. In altre parole, una riflessione critica ed epistemologica inaugurata da studiosi come Yves Lacoste, Giuseppe Dematteis e Brian Harley ha smascherato i «sensi

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ulteriori» della geografia, il suo livello discorsivo, il suo carattere «metaforico»7 o «allegorico» – come Clifford (2005b) dice dell’etnografia – cioè la sua tendenza a parlare d’altro rispetto a quello che dichiara, e che talvolta crede. Il compito critico non è stato e non è, si badi, quello di individuare questi «sensi ulteriori» per liquidarli semplicemente come vizi dell’obiettività delle descrizioni (culturali, geografiche), ma piuttosto quello di portare in primo piano tali sensi come condizioni fondamentali della significatività, avendone riconosciuto l’artificiosità, da un lato, ma dall’altro anche la loro utilità, o eventualmente perfino il loro carattere necessario8. Pure l’atto di «riduzione del mondo a immagine», che costituirebbe le fondamenta del moderno progetto di ordinamento razionale e di sottomissione dello spazio – «uno dei grandi luoghi comuni del nostro tempo» (Fadda, 2009, p. 12), frequentemente convocato in riferimento al cinema (da Gunning, Castro, ecc.) – è spesso considerato nella contemporaneità come un atto in qualche misura inadeguato e obsoleto. Perché il mondo si dia e venga padroneggiato come immagine è necessario un soggetto nella posizione di poter contemplare (cioè in realtà in grado di produrre) un simile panorama, vale a dire il soggetto moderno. Ma forse l’epoca dell’immagine del mondo è finita: lo stesso Heidegger presagiva in effetti la sua fine e il prossimo manifestarsi del «gigantesco» e dell’«incalcolabile», che avrebbero presto costretto il mondo in uno spazio «sottratto alla rappresentazione» (1968, pp. 100-101). Se il linguaggio, la rappresentazione e il discorso della geografia non sono più (considerati) adeguati a descrivere, a comprendere e a controllare il mondo, questo pone inevitabilmente un problema radicale, quando riportato in ambito cinematografico, alla luce dell’affinità cui si è accennato tra il progetto geografico e la primitiva missione planetaria del cinema. Che ne è della geograficità del cinema (cioè del cinema stesso)? Avvertiva già Aumont: «Il soggetto “onniveggente” che da tempo abbiamo riconosciuto come soggetto del cinema, è un soggetto datato, storicamente datato dalla modernità, e quindi […] in via di sparizione» (1991, p. 38). Bisogna allora porsi una domanda fondamentale: in che modo un medium con un’antica propensione geografica oggi interpreta, commenta, elabora la «crisi della (propria) ragione cartografica»? Affronterò la questione individuando e analizzando alcuni luoghi testuali in cui il cinema riflette sulla propria geograficità. Cioè, pur sospettando dall’inizio che il cinema

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risenta della “crisi”, cercheremo (per quanto è possibile) di non proiettarla noi sui testi, ma di vederla confessata dai film stessi. Dev’essere chiaro sin dal principio che per i miei scopi poco importa che la crisi della ragione cartografica esista davvero, o meglio, che dipenda davvero dalle qualità di particolari oggetti (l’informazione, l’economia, la società post-industriale ecc.), dalle quali discenderebbe la loro stessa incartografabilità. Non mi sembra che questa sia una condizione necessaria perché una simile crisi sia effettivamente in atto, cioè perché i suoi effetti si facciano sentire. D’altra parte può anche darsi che i «fatti sociali», ad esempio, non siano mai stati cartografabili nel loro dettaglio, e che la possibilità di inferirli con particolari rappresentazioni fosse solo il frutto di un’autosuggestione e di una fantasia razionalista di controllo e di dominio del mondo. In fondo la ragione cartografica funziona proprio in questo modo, producendo un orizzonte immaginario, culturale, simulacrale. Nondimeno, a valle di ogni considerazione su ciò che le cose effettivamente sono nella loro sostanza, ci interessa la circolazione di discorsi sull’irrappresentabilità del mondo con le relative conseguenze in campo cinematografico: il fatto che la ragione cartografica possa essere in crisi e il fatto che il cinema non sembri – né possa – restare indifferente. Anche quello sulla crisi della ragione cartografica è in fondo un discorso sociale, culturale, ed esiste (è osservabile) e funziona (produce degli effetti) già in quanto tale. Non ho dunque intenzione di dimostrare, un’altra volta, la crisi della ragione cartografica, magari “a partire” dal cinema. Per intenderci, ma è solo un esempio che verrà trattato più in dettaglio, la crisi delle immagini aeree nel cinema contemporaneo si può far derivare da una crisi del discorso tecno-culturale che costruiva l’efficacia di quelle immagini, perché in conflitto con discorsi concorrenti (sulla loro inefficacia ecc.). È dunque indipendente dal fatto che quelle immagini possano non essere efficaci data la “natura” sfuggente di quello che vorrebbero rappresentare, ed è perfino indipendente dal fatto che quelle immagini siano “davvero” inefficaci. Non ci interessa il mondo, bensì l’idea che ne ha il cinema. Ritornando al punto, credo sia possibile individuare delle tendenze e degli atteggiamenti opposti e complementari. La tesi di questo libro è che il cinema contemporaneo mostra di ricordarsi della propria primitiva vocazione geografica, ma la rappresenta come un problema, e che talora con-

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tinua ad assecondarla, altre volte la critica e la rielabora. Oltre a rilevare la persistenza di un cinema epicamente globalista, che tenta di riassegnare al medium, seppure in forme molto diverse tra loro, qualcosa della sua antica missione geografica, è particolarmente interessante soffermarsi su alcuni film che, eventualmente riconoscendo e sfruttando lo stile, l’estetica, l’iconografia o la retorica geografica, decidono di problematizzare, di criticare, di parodiare e di rienunciare la geograficità del cinema – un cinema che allora si può forse chiamare post-geografico. Per arrivare a comprendere e a definire meglio, come farò nelle conclusioni, l’angoscia geografica del cinema contemporaneo – che è anche la ragione della sua contemporaneità – è necessario cercare innanzitutto i luoghi nei quali la geograficità del cinema si manifesta. Luoghi di manifestazione della geograficità del cinema, luoghi di manifestazione del cinema: la questione, lo si vedrà più chiaramente, ha naturalmente a che fare col discorso filmico, con l’enunciazione cinematografica.

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Note 1. Cfr. Warf-Arias, 2009. Per un’introduzione a un approccio “spaziale” allo studio del cinema cfr. Minuz, 2011. 2. Cfr. anche la distinzione tra “geografia” e “geometria” (la quale «“significa” di più della geografia», in corsivo nel testo), insostenibile a voler sposare, come si tenta di fare qui, l’idea che della geografia hanno Franco Farinelli e Gunnar Olsson. Cfr. Moretti, 2005, p. 73. 3. Bisogna tuttavia osservare che Svetlana Alpers, che rappresenta uno dei riferimenti tipici di chi sostiene la tesi della geograficità del cinema, contesta l’argomento di Edgerton, che invece è generalmente accettato, perché sarebbe in contraddizione con la sua nota tesi sulla vocazione geografica della (sola) pittura olandese, in opposizione a quella italiana. Cfr. Alpers, 2011, p. 249. 4. Per inciso, il volume di Harvey è tra i pochi testi di geografia contemporanei che hanno avuto circolazione anche all’interno dei film studies, sebbene più come un saggio sulla postmodernità che come un volume di geografia (che parla, in effetti, anche di cinema). 5. Al contrario, però, c’è chi, come Giorgio Mangani (2006), contesta l’equivalenza tra geografia e scienza baconiana: la geografia sarebbe sempre stata più mentale (e morale) che empirica. 6. La distinzione tra i due modi di vedere è introdotta, com’è noto, da Alpers, 2011, ed è poi ripresa in Jay, 1988. Ritornerò sull’accezione della formula «regime scopico» che più m’interessa. 7. Sulla «geografia come metafora» cfr. Dematteis, 1985, in particolare pp. 122ss. 8. In questo senso l’“allegoria” di cui parla Clifford (così come la “metafora” di Dematteis) non è poi tanto diversa dall’allegoria per come è intesa da Jameson, cioè come (imperfetta) necessità poetica e politica al contempo. Ne riparlerò più avanti.

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