Natura e libero arbitrio: il dibattito contemporaneo tra scienza ed etica

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F. Laudisa, Naturalismo, filosofia, scienza, mitologia, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 9-11.
Cfr. Ivi pp. 30-31.
R. Carnap, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, in Erkenntnis, 2. Bd., 1931, trad. it. Il superamento della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio, in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, UTET, Torino, pp. 504–532. Va ricordato che Carnap subì l'influenza del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, una delle prime opere a caratterizzare la filosofia come analisi del linguaggio.
Detto altrimenti, un enunciato ha significato se vi è, in linea di principio, almeno un'esperienza che possa comprovarlo o falsificarlo.
Ivi, p. 510.
Ivi, p. 507.
Un enunciato come "tutti gli scapoli sono uomini adulti non sposati" era analitico perché riducibile alla verità logica "ogni F è F". Le verità logiche sono verificate indipendentemente da qualunque contesto empirico.
Cfr. Laudisa, Naturalismo, filosofia, scienza, mitologia, pp. 13-14.
W.V.O. Quine, Two dogmas of empiricism, in The Philosophical Review, 60 (1951), pp.20-43, trad. it. di P. Valore, Due dogmi dell'empirismo, in A. Iacona e E. Paganini (a cura di), Filosofia del linguaggio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003, pp. 107-135.
Per la strategia argomentativa, si veda ivi, pp. 107-111.
Ivi, p. 116.
W.V.O. Quine, The nature of natural knowledge, in S. Guttenplan, ed., Mind and language: Wolfson College lectures, Oxford University Press, Oxford, 1975, pp. 67-81, trad. it. La teoria e l'osservazione, in M. Leonelli (a cura di), Saggi filosofici 1970-1981, Armando Editore, Roma, 1982, pp. 121-122. Ritengo sufficiente riportare l'esempio di Quine circa il salto dai termini osservativi "cane" e "animale" alla costruzione categoriale universale. Supponiamo di avere un bambino che, posto di fronte a dei cani, impara a rispondere affermativamente a queste due domande: "Questo è un cane?" e "Questo è un animale?". Se il bambino non verrà ripreso o corretto da qualcun altro, imparerà a rispondere affermativamente anche a "Il cane è animale?". Giunto a questo punto il bambino può compiere un'astrazione notando che "Un S è un P" è simile a "Il cane è un animale". Tale somiglianza è acquisita e dipendente dal linguaggio, non più dal contesto osservativo.
Ivi, pp. 124-125. Il bambino si ritrova con un'eredità culturale che non ha scelto e spesso non è conscio dei salti d'analogia compiuti nell'apprendere il linguaggio. Tali salti risentono perciò della contingenza storica e possono variare da persona a persona a seconda del contesto sociale.
Quine, Due dogmi dell'empirismo, p. 131.
Laudisa, Naturalismo, filosofia, scienza, mitologia, p. 38.
W.V.O. Quine, Epistemology Naturalized, in Ontological relativity and other essays, 1968, trad. it. a cura di M. Leonelli, L'epistemologia naturalizzata, in La relatività ontologica e altri saggi, Armando Editore, Roma, 1986, p. 106.
Ivi, p. 107.
Leggendo i saggi raccolti in La mente e la natura (M. De Caro, D. Macarthur, (a cura di), Naturalism in Question, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2004, trad. it. La mente e la natura, Fazi, Roma, 2005), sembra sia dato abbastanza per scontato che le entità da rifiutare siano quelle religiose, la res cogitans cartesiana, il mondo noumenico e il cielo platonico; tuttavia questo rifiuto non pare una conquista della filosofia recente, quanto un dato ormai acquisito (Cfr. De Caro, Macarthur, La mente e la natura, p. XXIV). Il vero problema è quello di collocare cose come le idee morali, le norme epistemiche e in genere tutto ciò che, pur essendo immateriale, influisce sulla nostra vita e non può essere oggetto di studio di fisica, chimica e biologia.
Cfr. M. De Caro, Naturalismo e normatività: prospettiva scientifica e prospettiva agentiva, in S. Bacin (a cura di), Etiche antiche, etiche moderne, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 101-118. Si veda inoltre M. De Caro, Il naturalismo scientifico contemporaneo, consultabile al link:
http://www.rescogitans.it/main.php?articleid=144.
Secondo filosofie come il neopositivismo lo scopo della filosofia era l'analisi logica del linguaggio e per questo la si poneva alla base di ogni scienza. Nonostante non potesse dire alcunché sul mondo, la filosofia godeva di una propria autonomia e di un metodo che la caratterizzava rispetto alla scienza. Con l'avvento del naturalismo la filosofia sembra perdere tale autonomia e caratterizzazione diventando piuttosto «la scienza nelle sue estensioni più generali e astratte» (De Caro, Macarthur, La mente e la natura, p. XXVIII).
Si veda per esempio P.S. Churchland, Braintrust, What Neuroscience tells us about morality, Princeton University Press 2011, trad. it. a cura di Silvano Zipoli, Neurobiologia della Morale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012.
Cfr. De Caro, Naturalismo e normatività, p. 115.
Studiosi come Dupré fanno però notare che decidere quali scienze inserire in questa gerarchia piramidale, se si fa eccezione per le scienze dure che formano i primi gradini, non è questione priva di problemi. Per esempio, secondo i naturalisti ortodossi le scienze del linguaggio, dell'educazione e politiche, alcuni rami della psicologia e della sociologia si limiterebbero a un livello di studio che non può fornire una conoscenza universalmente valida, e quindi non possono dirsi propriamente scientifiche. Cfr. J. Dupré, Il miracolo del monismo, in De Caro, Macarthur (a cura di), La mente e la natura, pp. 26-27.
Enciclopedia Traccani, voce Natura: http://www.treccani.it/enciclopedia/natura/#filosofia-1.
Cfr. ivi, voce Scienza: http://www.treccani.it/enciclopedia/scienza/.
Ivi, voce Soprannaturale: http://www.treccani.it/vocabolario/soprannaturale/.
Vedi infra.
L'idea è che una mente capace di agire causalmente sul fisico immetterebbe nell'universo più energia rispetto all'inizio, violando il principio di conservazione. Questa critica è comunque oggetto di dibattito.
S. Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente, Quodlibet, Macerata, 2007, p.88.
A. Calisi, Sul naturalismo liberalizzato, in Rescogitans, 04/07/2008, consultabile al link:
http://www.rescogitans.it/main.php?articleid=301.
B. Stroud, Il fascino del naturalismo, in De Caro, Macarthur, (a cura di) La mente e la natura, pp. 5-20.
Ivi, pp. 11-12, 17.
Dupré, Il miracolo del monismo, p. 21.
Ivi, p. 24. Un esempio di questi poteri sarebbero quelli dei neuroni, che dallo scaricare energia arriverebbero a pensare, decidere, percepire ecc.
Cfr. ivi, p. 33.
Ivi, p. 41.
Più che di dualismo, per Dupré si tratta proprio di pluralismo.
W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, 1956, trad. it. a cura di E. Sacchi, Empirismo e filosofia della mente, Torino, Einaudi, 2004, p. 54.
Una fallacia naturalistica consiste nel trarre proposizioni prescrittive, cioè attinenti al dover essere, da proposizioni descrittive, relative a ciò che è (cfr. Enciclopedia Treccani, voce Dover essere, consultabile al link: http://www.treccani.it/enciclopedia/dover-essere_%28Dizionario-di-filosofia%29/).
J. McDowell, Il naturalismo in filosofia della mente, in De Caro, Macarthur, La mente e la natura, p. 82.
Ivi, p. 85.
Stroud, Il fascino del naturalismo, pp. 19-20.
Nannini, Naturalismo cognitivo, p. 90.
Si veda S. Pollo, La morale della natura, Editore Laterza, Bari, 2008.
Vedi Aristotele, Etica Nicomachea, Bompiani, Milano, 2011. Il Bene in riferimento alla natura umana era la felicità, la quale poteva essere raggiunta coltivando in modo appropriato certe disposizioni dell'anima, e la vita etica era la vita virtuosa, cioè la realizzazione del nostro essere animali razionali e sociali rivolti a quel fine.
Pollo, La morale della natura, pp. 32-40.
D. Hume, A Treatise on Human Nature, 1739-1740; trad. it. a cura di E. Lecaldano, Trattato sulla natura umana, in Id., Opere filosofiche, vol. 1, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 496-497.
A. Da Re, Filosofia morale. Storia, teorie, argomenti, Mondadori, Milano, 2008, p. 220.
Ivi, p. 148. Si possono pensare numerosi esempi per cui da un fatto naturale non possono derivarsi prescrizioni morali. Si pensi alla differenza di genere: da essa non è lecito dedurre che le relazioni moralmente accettabili siano solo quelle eterosessuali, né che la maggior prestanza fisica dell'uomo lo legittimi a imporsi sulla donna.
Pollo, La morale della natura, p. 103.
M.D. Hauser, Moral Minds. How Nature Designed Our Universal sense of Right and Wrong, 2006, trad. it. di Andrea Pedeferri, Menti Morali. Le origini naturali del bene e del male, Il Saggiatore, Milano, 2010.
La neurospicologia studia l'impatto delle lesioni cerebrali sulle funzioni cognitive.
Vedi Hauser, Menti morali, p. 225-235.
A. Damasio, L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1995.
M. Marraffa, Emozioni e razionalità: oltre il modello «antagonistico», in Sistemi Intelligenti, no. 1, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 156.
Questa non è l'unica critica mossa al modello di Greene. Uno studio condotto da Koenings e Tranel infatti mostra come i pazienti con lesioni alla vmPFC abbiano forti reazioni emotive nel test dell'Ultimatum Game. In questo gioco infatti i pazienti tendono a rifiutare le offerte troppo basse (si sentono 'offesi') ancor più che i soggetti di controllo; rifiutano cioè un seppur minimo guadagno per punire l'offerente disonesto, il che è irrazionale da un punto di vista utilitaristico. Vedi M. Koenings, D. Tranel, Irrational economic decision-making after ventromedia prefrontal damage: evidence from the ultimatum game, in The Journal of Neuroscience, 27, 2007, pp. 951-956.
Churchland, Neurobiologia della Morale, op. cit.
Ivi, p.22.
Il recente saggio di Ben Ford studioso della Salem State University, ben descrive la nascita e l'accoglienza che questa disciplina ebbe prima nell'Europa continentale, poi in Gran Bretagna e infine negli U.S.A. Vedi B. Ford, From Science to Pseudoscience, Salem State University, Massachusetts, consultabile al link:
https://www.academia.edu/15656328/From_Science_to_Pseudoscience_The_Evolution_of_Phrenology_the_First_Science_of_the_Mind
Paradigma dominante all'epoca.
Imagine recuperata al link: http://industriacriativa.espm.br/ic/wp-content/uploads/2013/08/phren-588x479.jpg.

G. Combe, The Constitution of Man, Edimburgo, 1828, consultabile gratuitamente nelle varie edizioni al link: http://www.historyofphrenology.org.uk/constindex.html.
O. Fowler, L. Fowler, The Illustrated Self-instructor in Phrenology and Physiology : With One Hundred Engravings, and a Chart of the Character, New York, Fowler & Well, 1859.
W. Penfield & T. Rasmussen, The Cerebral Cortex of Man (1950), Redrawn by M.H. Schieber, J. Neurophysiol., 2001.
C.N. Woolsey, Organization of Somatic Sensory and Motor Areas of the Cerebral Cortex, in Biological and Biochemical Bases of Behavior, H.F. Harlow and C.N. Woolsey eds., University of Wisconsin Press, Madison, 1958.
Cfr. E. Musumeci, Cesare Lombroso e le Neuroscienze: un Parricidio Mancato, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 12. Prima dell'istituto dell'imputabilità, il soggetto era ritenuto responsabile solo per il fatto di aver compiuto materialmente un atto dalle cattive conseguenze.
Vedi C. Lombroso, L'uomo delinquente (rist. anast. quinta edizione, Torino, 1897), Bompiani, Milano, 2013, volume I, parte II - volume II, parte IV-V.
Musumeci, Cesare Lombroso e le neuroscienze, p. 63.
Ivi, p. 81.
Musolino era un taglialegna calabrese condannato per tentato omicidio nel 1897. Evaso due anni dopo, si macchiò di svariati delitti prima di essere di nuovo arrestato e condannato all'ergastolo. Il caso suscitò scalpore e Lombroso ebbe modo di studiarlo, notando sia la straordinaria agilità di Musolino (riflessi esagerati) che la sua gestualità anomala, e concludendo che l'imputato soffrisse di epilessia e meritasse uno sconto di pena.
Ivi, p. 86.
Sul tema si veda anche I.M. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012.
Vedi Musumeci, Cesare Lombroso e le neuroscienze, p. 158.
Ferri tentò di sganciare il diritto penale dalla nozione di libero arbitrio. Questa posizione venne poi sviluppata da Alimena, membro della cosiddetta Terza Scuola che intendeva essere «positivista nel metodo e critica nel contenuto». Il pensiero di Alimena assomiglia molto alle moderne teorie compatibiliste. Ivi p. 164-169.
Vedi G.A. Mashour, E.E. Walker, R.L. Martuza, Psychosurgery: past, present, and future, in Brain Research Review, 48, 2005, pp. 409-419, consultabile al link:
http://med.stanford.edu/dura/Articles/Psychosurgery.pdf.
Ivi, p. 411.
Sul tema della stimolazione intracranica e i suoi risvolti etici si veda V.A. Sironi, M. Porta (a cura di), Il controllo della mente. Scienza ed etica della neuromodulazione cerebrale, Laterza, Bari, 2011, e in particolare i saggi ivi contenuti di A. Oliviero, Neurotecnologia tra mito e realtà, pp. 11-20; V.A. Sironi, La neuromodulazione e l'origine della stimolazione elettrica cerebrale profonda, pp. 22-34; E. Colombetti, Etica delle neuroscienze, pp. 209-222.
Vedi, Mashour et al., Psychosurgery: past, present, and future, pp. 412-413.
La pellicola, ambientata nel 1954, vede Di Caprio nei panni di uno psicotico delirante che, dopo aver ucciso la moglie, rimuove l'evento inventando una storia di fantasia. Laeddis (Di Caprio) è da due anni sotto la cura del dottor Cawley (Ben Kingsley) il quale cerca di curarlo con un metodo innovativo: assecondare la sua fantasia, per poi portarlo alla consapevolezza dell'accaduto e alla sua accettazione. Tuttavia dopo ogni sessione Laeddis arriva a ricordare, ma quando sembra sul punto di guarire, regredisce di nuovo nei suoi deliri. Di fronte alla recidività del paziente, Cawley approva suo malgrado la lobotomia, e nelle ultime scene del film si vedono chiaramente un rompighiaccio e un martelletto.
Dall'articolo di G. Giacomini, Psicoterapia e psichiatria, due discipline in crisi, consultabile al link: http://www.ordinemedicifc.it/index.php?view=article&catid=70:news&id=99:psicoterapia-e-psichiatria-due-discipline-in-crisi&format=pdf.
Musumeci, Cesare Lombroso e le neuroscienze, p. 15.
Va precisato che contrariamente a frenologia e antropologia criminale, la psicochirurgia non è una pseudoscienza. Essa è nata come pratica rozza, poco efficace e del tutto priva di regolamentazione, ma col migliorare delle conoscenze si è rivelata uno strumento indispensabile per curare le patologie farmacoresistenti. Oggi si tiene in altissima considerazione la salute del paziente e per questo l'applicazione di tecniche sperimentali deve seguire un rigido protocollo. Vedi Mashour et al., Psychosurgery: past, present, and future, pp. 413-418.
Gli articoli sono tratti da L. Alibradi, P. Corso (a cura di), Codice penale e di procedura penale e leggi complementari, La Tribuna, Piacenza, 2015, LIBRO PRIMO - Dei reati in generale Titolo IV - Del reo e della persona offesa dal reato (artt. 85-131) Capo I - Della imputabilità.
La risonanza magnetica ha una pessima risoluzione temporale, cioè rileva l'attivazione delle aree cerebrali con 1 secondo di latenza. L'elettroencefalogramma invece ha una buona risoluzione temporale, ma una cattiva risoluzione spaziale, ovvero può monitorare l'attività solo di grandi aree. Vedi L. Boella, Neuroetica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, Cap. 3.
M. Gazzaniga, The Law and Neuroscience, in Neuron, 60, 2008, pp. 412-413.
S. Morse, Brain overclaim syndrome and criminal responsibility: a diagnostic note, in Ohio State Journal of Criminal Law, vol. 3:397, 2006, pp. 397-412.
B. Libet, E.W.W. Wright, B. Feinstein Jr, D.K. Pearl, Subjective referral of the timing for a conscious sensory experience: a functional role for the somatosensory specific projection system in man, in Brain 102, 1979, pp. 193–224.


C.S. Soon, M. Brass, H. Heinze, J. Haynes, Unconscious determinants of free decisions in human brain, in Nature Neuroscience, 11, 2008, 543-545.

M. De Caro, Libero arbitrio e neuroscienze, in Sartori G., Lavazza, A. (a cura di), Neuroetica, il Mulino, Bologna, 2011, pp. 69-83.
Ivi, p. 77. Per una critica ai metodi di temporizzazione dei movimenti volontari, si veda F. Tempia, Decisioni libere e giudizi morali: la mente conta, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi?, Codice Edizioni, Torino, 2010, pp. 88-108.
M. Di Francesco, Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali, in Etica & Politica/Ethics & Politics, IX, 2, 2007, pp. 135-141.
Cfr. De Caro, Libero arbitrio e neuroscienze, pp. 80-81. Rimando al prossimo capitolo la presentazione delle varie teorie sul libero arbitrio.
Cfr. Tempia, Decisioni libere e giudizi morali, pp. 91-92.
Gazzaniga, The Law and Neuroscience, p. 414.
Di Francesco, Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali, pp. 134-135.
Sartori e Gnoato riportano una tabella che esplicita la correlazione tra danni neurologici, fattori di rischio e comportamento in G. Sartori, F. Gnoato, Come quantificare il libero arbitrio, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi?, p. 176.
Cfr. Gazzaniga, p. 414. Un'analisi dettagliata di come le condizioni dello sviluppo influenzino i processi cerebrali la si può trovare in F. Cirulli, Neurobiologia dello sviluppo, 2010, consultabile al link: http://www.treccani.it/enciclopedia/neurobiologia-dello-sviluppo-emotivo_%28XXI_Secolo%29/.
O almeno così pensa Morse. Vedi Morse, Brain overclaim syndrome and criminal responsibility, pp. 404-405.
Ivi, pp. 406-410.
Morse, per esempio, contesta i neuroscienziati che sostengono di poter distinguere con precisione le differenze cerebrali una volta dato il sesso e la lateralizzazione: tra i sedici e i diciotto anni il cervello è ancora in una fase di sviluppo tale per cui non è possibile riscontrare le differenze che presumibilmente si troverebbero tra un tredicenne e un venticinquenne. Questo significa che far combaciare la soglia dei diciott'anni con la maturità psicologica sulla base di immagini della mielinizzazione è un azzardo.
Cfr. A. Lavazza, L. Sammicheli, Se non siamo liberi, possiamo essere puniti?, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi?, pp. 156-157. Per altre analisi del caso di veda Musumeci, Cesare Lombroso e le neuroscienze, pp. 102-109, e Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce?, pp. 163-165.
Cfr. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce?, p. 164.
Cfr. A. Lavazza, L. Sammicheli, Il nuovo rapporto tra diritto e neuroscienze: il caso dello psicopatico, in F. Caruana (a cura di), Sistemi Intelligenti, no. 2, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 244.
Nel mentre, psicologi e psichiatri si sono divisi sull'eziologia del disturbo, tanto da assimilarlo al disturbo antisociale di personalità nel DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, creato dall'American Psychiatric Association, presenta nelle sue varie edizioni una classificazione dei disturbi mentali e rappresenta lo standard per gli esperti del settore). Caretti e Craparo specificano che questa assimilazione non è del tutto corretta. A differenza della psicopatia, il disturbo antisociale della personalità rappresenta una reazione istintiva e aggressiva all'ambiente esterno, spesso percepito come ostile. Il sociopatico mantiene un senso di responsabilità verso i famigliari, utilizza il crimine come mezzo di sopravvivenza e non ha le tendenze manipolatorie tipiche del narcisista. Lo psicopatico invece è un predatore privo di qualunque senso di responsabilità e incapace di provare empatia, un soggetto che utilizza la propria razionalità per scopi egoistici e per sottrarsi alla presa della legge. Cfr. V. Caretti, G. Craparo, La personalità psicopatica, in F. Caruana (a cura di), Sistemi Intelligenti, 2/2010, p. 237.
Cfr. Lavazza, Sammicheli, Il nuovo rapporto tra diritto e neuroscienze, p. 246.
Cfr. R.M. Sapolsky, The frontal cortex and the criminal justice system, in Phil. Trans. R. Soc. Lond., B, 359, 2004, pp. 1787-1796.
Lo psicopatico non è in grado di capire l'impatto del danno che provoca agli altri, e per questo è portato a vedere tutte le trasgressioni come violazioni di semplici norme convenzionali. Blair, R.J.R., Mitchell, D., Blair, K., The Psychopath: Emotion and the Brain, Blackwell, Malden (MA)-Oxford, 2005.
Sapolsky distingue tra i danni alla PFC dovuti a ictus, con diversi effetti a seconda dell'età d'incidenza, e le anomalie funzionali del cervello dei sociopatici, limitandosi per questi ultimi a sottolineare la correlazione tra un minor volume della PFC e i comportamenti antisociali (cfr. Sapolsky, The frontal cortex and criminal justice, pp. 1793-1794). Per la correlazione tra psicopatia e traumi in età precoce, con una spiegazione prevalentemente psicologica, si veda Caretti, Craparo, La personalità psicopatica, pp. 229-235.
Cfr. Caretti, Craparo, La personalità psicopatica, p. 236.
Gazzaniga è ambiguo su questo punto, perché sostiene l'emergentismo degli stati mentali e nello stesso tempo l'impossibilità degli stessi di retroagire sul cervello, il quale invece funziona in maniera deterministica. Vedi M. Gazzaniga, Who's in Charge?, 2012, trad. it. a cura di S. Inglese, Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio, Codice Edizioni, Torino, 2013, cap. 6.
Di Francesco, Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali, p. 140.
Morse, Brain overclaim syndrome and criminal responsibility, p. 409.
Vedi E. Spinelli, F. Verde, Alle radici del libero arbitrio, in M. De Caro, M. Mori ed E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio, storia di una controversia filosofica, Carrocci Editore, Roma, 2014, pp. 61-71.
Cfr. P. Porro, Trasformazioni medievali della libertà/2. Libertà e determinismo nei dibattiti scolastici, in M. De Caro, M. Mori ed E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio, storia di una controversia filosofica, pp. 195-202.
In merito agli scarsi progressi della ricerca sul libero arbitrio, De Caro scrive «A mio giudizio […] è ragionevole ritenere che il paradigma libertario e quello compatibilistico, così come sono stati sino ad oggi sviluppati, abbiano ormai perduto la loro vitalità teorica e siano, per così dire, chiusi irrimediabilmente in sé stessi. La prova di una tale involuzione è che oggi, in molti casi, i contributi al dibattito sulla libertà si presentano come mere esercitazioni scolastiche incentrate su microproblemi, interni all'uno o all'altro dei paradigmi in competizione, ma ignorano le formidabili difficoltà, aporie e contraddizioni che minano alla base la credibilità generale di quei paradigmi». M. De Caro, Il libero arbitrio, un'introduzione, Editori Laterza, Bari, 2004, p.89.
Ivi, pp. 20-21.
Questa posizione non è sottoscritta all'unanimità dai cosiddetti naturalisti liberali. Per Stroud, per esempio, pensare che si possa ottenere un equilibrio riflessivo di questo genere è un errore categoriale: la varietà del reale presuppone quadri concettuali e linguistici completamente diversi, se non del tutto incommensurabili. Questo non implica contraddizione tra scienza e filosofia, ma solo che discipline con diverse modalità parlano di diversi oggetti. Cfr. De Caro, Naturalismo e normatività: prospettiva scientifica e prospettiva agentiva, pp. 110-111.
Ringrazio il prof. Mario De Caro per avermi suggerito la lettura di questo autore e per avermi gentilmente offerto delle delucidazioni in merito.
Per un'analisi più dettagliata, rimando alle ottime introduzioni sul tema di De Caro, Libero arbitrio; Nannini, Naturalismo cognitivo, cap. III; e S. Magni, Teorie della libertà. La discussione contemporanea, Carocci, Roma, 2005.
Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, pp. 9-10.
Si vedano i saggi di F. Trabattoni, Libertà, libero arbitrio e destino in Platone, e Libertà e destino da Platone al neoplatonismo, in M. De Caro, M. Mori ed E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio, storia di una controversia filosofica, pp. 15-38; 99-114.
Cfr. Magni, Teorie della libertà, pp. 43-44.
Vedi Porro, Trasformazioni medievali della libertà/2, pp. 195-202.
Anche in questo caso, per un'analisi più dettagliata, rimando a De Caro, Il libero arbitrio, pp. 38-55 e Magni, Teorie della libertà, pp. 55-62.
Questa è la posizione di Nozick in R. Nozick, Philosophical Explanations, 1981, trad. it. a cura di G. Rigamonti, Spiegazioni flosofiche, Il Saggiatore, Milano, 1988, pp. 291-362.
Vedi R. Kane, The Significance of Free Will, Oxford University Press, Oxford, 1996.
Si tratta di una risposta alla critica di Hume al concetto metafisico di "causalità". Vedi R. Chisholm, Human freedom and the self: The Lindley Lecture, 1964, trad. it. a cura di A. Perri, La libertà umana e il sé, in M. De Caro (a cura di), La logica della libertà, Maltemi Editore, Roma, 2002, pp. 55-76.
Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, pp. 54-55.
Vedi per esempio A. Ayer, Freedom and Necessity, 1954; trad. it. a cura di A. Perri, Libertà e necessità, in M. De Caro (a cura di), La logica della libertà, pp. 41-54.
Cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Id., Opere filosofiche, p. 428 sgg.
Cfr. G.E. Moore, Ethics, Oxford University Press, Oxford, 1912, trad. it. a cura di Predeval Magrini M.V., Etica, Franco Angeli, Milano, 1986, cap. 6.
Magni, Teorie della libertà, p. 74.
Ivi, p. 76.
Il che, per Hume, sarebbe stato più che sufficiente.
Cfr. J.P. Sartre, L'Être et le Néant. Essai d'ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943, trad. it. L'essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1997, pp. 514 ss.
La domanda rispecchia quello che in gergo si chiama Consequence argument, il cui autore è P. van Inwagen. Molto sinteticamente, se il determinismo fisico è esplicato dall'enunciato 'Nec (P0 + L) P1', affinché l'agente avesse potuto fare altrimenti all'istante t1, bisogna che egli sia in grado di modificare il passato (P0) o le leggi di natura (L). Poiché l'uomo non può fare né l'uno né l'altro, egli sottomesso alla ferrea legge della necessità. Per vedere lo sviluppo dell'argomentazione sul piano logico, si veda P. van Inwagen, The Incompatibility of Free Will and Determinism, 1975, trad. it. a cura di A. Perri, L'incompatibilità fra libero arbitrio e determinismo, in M. De Caro (a cura di), La logica della libertà, pp. 135-156. Dubbi sono stati sollevati anche sulla correttezza della parafrasi dell'enunciato a, nel senso che le condizioni di verità di a, b e c non paiono esattamente le stesse. Vedi De Caro, Libero arbitrio, pp. 72-74.
Magni, Teorie della libertà, p. 71.
Non so quanto si possa parlare di 'controllo' anche nel caso in cui una persona abbia capacità e opportunità. In un universo deterministico, una persona reattiva agli stimoli sociali e ambientali è determinata anche nella propria reattività, nel cambiare il proprio comportamento e le proprie abitudini. La reazione, insomma, non sarebbe una questione di scelta razionale libera, ma di determinazione, come tutto il resto.
A tal proposito si vedano D.M. Wegner, Précis of The Illusion of Conscious Will, in Behavioral and Brain Sciences, 27, 2004, pp. 649-659, trad. it. a cura di A. Lavazza, L'illusione della volontà cosciente, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi?, pp. 21-50, e S. Smilansky, Free Will, Fundamental Dualism, and the Centrality of Illusion, in R. Kane (edited by), The Oxford Handbook of Free Will, 2nd edition, Oxford University Press, Oxford-New York, 2011, pp. 425-441.
Cfr. D. Pereboom, Living Without Free Will, Cambridge University Press, Cambridge, 2001.
Questa è l'idea per esempio di Nannini, cfr. Nannini, Naturalismo cognitivo, pp. 141-143.
Questo argomento è offerto da De Caro che lo nomina 'argomento dell'abduzione' (De Caro, Il libero arbitrio, pp. 128-142).
D. Pereboom, Free Will, Agency, and Meaning in Life, Oxford University Press, Oxford, 2014.
Lo sforzo di volontà è un evento che, una volta occorso, ha per effetto l'azione. Tuttavia, siccome il momento indeterministico si inserisce prima, o forse nel momento stesso (la localizzazione è una questione controversa) dello sforzo, esso non è determinato dai suoi antecedenti, ma solo inclinato in modo probabilistico.
Cfr. Pereboom, Living Without Free Will, pp. 41-50. Non essendo postulato un potere causale dell'agente come motore immobile, il momento di pesatura dovrebbe essere influenzato solo dagli eventi antecedenti.
Pereboom, Free Will, Agency, and Meaning in Life, p. 32.
Cfr. ivi, p. 36.
Cfr. ivi, pp. 39-41.
Cfr. ivi, pp. 42-43.
Vedi infra, paragrafo 7.2.
Vedi Pereboom, Living Without Free Will, cap. 1, e Pereboom, Free Will, Agency, and Meaning in Life, cap. 1.
Questa condizione è stata stabilita da Frankfurt nel tentativo di spiegare come l'agente sia in grado di determinare anche il proprio volere. Vi sarebbero dunque desideri di primo ordine, eterodiretti e determinati, e desideri di secondo ordine, che hanno per oggetto altri desideri. Anche fosse vero il determinismo, dice Frankfurt, il desiderio di second'ordine è autodeterminato, esprime ciò che l'individuo vuole veramente e offre la possibilità di agire contro il desiderio di primo ordine. Il cleptomane, per esempio, ha, al primo ordine, l'impulso irrefrenabile di rubare, mentre, al secondo ordine, il desiderio di non farlo. Siccome il meta-desiderio non riesce mai a imporsi sull'impulso patologico, si spiega come mai il cleptomane non può essere ritenuto responsabile per le proprie azioni. Questo argomento tuttavia incorre in serie difficoltà, la più insidiosa delle quali è rappresentata dalla domanda: cosa fa sì che i desideri di secondo ordine siano autodeterminati? In un universo deterministico, infatti, non può esserci una tale differenza tra primo e secondo ordine, ma tutto sarebbe eterodiretto e fuori dal controllo dell'agente. Vedi De Caro, Il libero arbitrio, pp. 65-66.
Le condizioni 2 e 4 altro non sono che una precisazione dell'analisi condizionale del verbo "potere". Senza un impulso irresistibile una persona mantiene la capacità di cambiare idea, ovvero è sensibile a ragioni.
Pereboom ha riformulato negli anni i quattro casi in risposta alle critiche ricevute di volta in volta. Io riporto l'argomento nella sua formulazione più recente, che si trova in D. Pereboom, Optimistic Skepticism about Free Will, 2013, trad. it. parziale a cura di A. Lavazza, Lo scetticismo ottimistico su libertà e responsabilità, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società, Codice Edizioni, Torino, 2013, pp. 132-136. Per semplicità non riporto la quinta condizione richiesta dai compatibilisti, cioè che l'agente sia sensibile a ragioni morali e che tale capacità gli consenta di rivedere il suo carattere morale, ma la accorpo alla più generale 'reason-responsiveness'.
Nella forma ipotetica "nel caso le cose fossero state in un altro modo, Plum avrebbe scelto di fare diversamente". Per meglio comprendere come la manipolazione possa soddisfare i requisiti del compatibilista, basta pensare che il suo effetto non è una costrizione cieca e irrazionale. Così fosse, Plum ucciderebbe White indipendentemente da ogni contesto e ragione, anche nel caso in cui l'omicidio comportasse la sua stessa dipartita.
Pereboom, Living Without Free Will, p. 126. Bisogna precisare che la condizione 5 non contempla le possibilità alternative perché Pereboom accetta la validità dell'esperimento mentale di Frankfurt.
Cfr. Pereboom, Free Will, Agency, and Meaning in Life, pp. 52-53.
Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, pp. 36-37.
Cfr. Perebom, Living Without Free Will, pp. 58-59.
Cfr. Pereboom, Free Will, Agency, and Meaning in Life, pp. 61-63.
Si consideri un esempio molto in voga tra Ottocento e inizio Novecento: gli atomi che compongono l'acqua. Questi atomi non hanno di per sé uno stato liquido o gassoso, ma quando si legano in molecole di H2O, ottengono tali nuove proprietà a seconda della temperatura. L'acqua dunque è composta interamente da atomi, ma la composizione porta a qualcosa di nuovo e irriducibile.
Si tratta di una violazione del principio di chiusura causale dell'universo. La capacità di retroazione volontaria del mentale sul fisico, per quanto la si faccia emergere dalle particelle elementari, finisce per rappresentare un misterioso potere che produce qualcosa di nuovo, qualcosa che la sola causalità non avrebbe contemplato, e che a quest'ultima viene aggiunto.
Pereboom, Living Without Free Will, p. 78.
Ivi, p. 85.
Bisogna precisare che le tesi di Pereboom sono tutt'ora dibattute e hanno attirato numerose obiezioni. L'argomento della manipolazione, per esempio, è attaccato dai compatibilisti i quali sostengono che tra i Casi 3 e 4 vi sia un'importante differenza. L'errore sarebbe nella strategia di generalizzazione, la quale non può passare le implicazioni dei Casi 1,2 e 3 al 4, perché nei primi vi è una manipolazione, e nell'ultimo no. Pereboom risponde chiedendo di immaginare che nel quarto caso il ragionamento di Plum sia manipolato da una macchina generatasi spontaneamente (l'attuale universo non considerato come 'disegno intelligente') e di domandarsi se ancora vi sarebbe responsabilità per l'omicidio di White. L'esempio è tanto inverosimile che non ha prodotto un particolare avanzamento nel dibattito. Tuttavia, per quanto l'argomentazione possa apparire dubbia, l'assunto per cui una volontà (completamente) determinata non è nel controllo dell'agente mantiene un forte mordente. Per quello che riguarda l'agent-causation e la sua conciliazione con la fisica, in particolare con l'universo probabilistico della meccanica quantistica, alcuni filosofi non pluralisti hanno offerto una diversa analisi della probabilità dell'occorrenza degli eventi. La questione è molto delicata, perché richiede di entrare in un dominio che nemmeno la fisica comprende appieno. Qui posso solo limitarmi a segnalare un articolo che contesta l'argomento di Pereboom facendo uso delle regole della statistica: B. Lundgren, Undermining Derk Pereboom's Hard Incompatibilist Position Against Agent-causation: A Metatheoretical Work on the Topic of Metaphysics and Metaethics, Linköping Universitet Institutionen för kommunikation och kultur, 2013, integralmente consultabile all'indirizzo: http://www.diva-portal.org/smash/get/diva2:605212/FULLTEXT02.pdf. Per vedere nel dettaglio il dibattito in ambito analitico e il dialogo tra alcuni autori, consiglio J.M. Fisher, R. Kane, D. Pereboom, M. Vargas, Four Views on Free Will, Blackwell Publishing, 2007.

Pereboom, Living Without Free Will, p. 137.
Ivi, p. 138.
Questa è la versione che Wegner offre in Wegner, L'illusione della volontà cosciente, pp. 46-48.
Pereboom, Living Without Free Will, p. 138.
Vedi infra, paragrafo 7.2.
Pereboom, Living Without Free Will, p. 95.
Cfr. ivi, pp. 124-126.
Pereboom, Lo scetticismo ottimistico su libertà e responsabilità, pp. 152-153.
Pereboom, Living Without Free Will, pp. 203-204.
Pereboom, Lo scetticismo ottimistico su libertà e responsabilità, p. 148.
Pereboom, Living Without Free Will, p. 154.
Ivi, p. 153.
Pereboom, Free Will, Agency, and Meaning in Life, pp. 141-143.
Ivi, p. 134.
Ivi, pp. 157-160.
Cfr. ivi, pp. 161-174. Innanzitutto, mancando prove robuste a favore del fatto che infliggere danno al criminale possa correggerne il comportamento, sarebbe ingiusto imporre dolore senza la sicurezza dell'effetto. Inoltre, anche fossero date prove di questo tipo, sarebbe sempre meglio preferire metodi non afflittivi per conseguire la rieducazione. Secondariamente, nemmeno la teoria utilitaristica della deterrenza sarebbe giustificabile, perché permette di punire gli innocenti o di infliggere condanne oltremodo severe per massimizzare l'utile (come per il motto cinese, poi utilizzato da Mao, «colpirne uno per educarne cento».), ma ciò non sarebbe accettato dalla società. Infine, anche le teorie che fondano la punizione sul diritto di autodifesa hanno valenza fintanto che il criminale non viene reso inoffensivo. Pereboom lo spiega chiedendo di immaginare che un uomo ostile ci aggredisca e che noi, dopo una breve colluttazione, riusciamo a immobilizzarlo fino all'arrivo della polizia. Nel mentre lo teniamo fermo, sarebbe ingiusto sfogare la nostra rabbia colpendolo alla testa, perché l'aggressore non è più in grado di nuocerci. Allo stesso modo, sarebbe ingiusto far soffrire dei carcerati già in custodia della legge.
Pereboom, Lo scetticismo ottimistico su libertà e responsabilità, p. 151.
Ivi, pp. 154-155.
Pereboom, Free Will, Agency, and Meaning in Life, p. 175.
S. Smilansky, Free Will and Illusion, Clarendon Press, Oxford, 2000 (per la presente ricerca ho consultato la versione e-book del testo).
Smilansky parla principalmente di hard determinism, ma siccome è convinto che nemmeno l'indeterminismo possa offrire un fondamento per il libero arbitrio, le sue considerazioni si avvicinano alla visione di Pereboom. Cfr. S. Smilansky, Free Will, Fundamental Dualism, and the Centrality of Illusion, 2011, in R. Kane (edited by), The Oxford Handbook of Free Will, pp. 426-427.
S. Smilansky, Compatibilism: The Argument from Shallowness, in Philosophical Studies 115, Kluwer Academic Publishers, 2003, pp. 257-282, consultabile al link:
https://www.academia.edu/1426789/Compatibilism_The_argument_from_shallowness.
Prima di procedere oltre, si deve notare che questo è il problema che Pereboom cerca di risolvere nei suoi testi. Il filosofo americano infatti rifiuta l'utilitarismo radicale, da molti considerato come l'unica teoria etica compatibile col determinismo, e cerca di mantenere un senso alle nozioni di deliberazione, giustizia, realizzazione personale, punizione, etc. sfruttando alcuni assunti del compatibilismo. Il punto di rottura sta nel rifiuto di un senso di responsabilità fondato sul merito, cosa che Smilansky ritiene fondamentale per preservare le nozioni appena elencate. Il prezzo pagato da Pereboom, tuttavia, è alto: il senso della vita si riduce alla gratitudine per quanto di buono ci capita e questo 'buono', insieme ai valori morali, si avvicina molto a una proprietà pseudo-estetica. Smilansky accenna a questa proprietà pseudo-estetica della morale in S. Smilansky, The Ethical Advantages of Hard Determinism, in Philosophy and Phenomenological Research, Vol. LIV, No. 2, Giugno, 1994, pp. 360-361, consultabile interamente al link: http://www.jstor.org/stable/2108494?seq=1#page_scan_tab_contents.
Smilansky, Free Will, Fundamental Dualism and Centrality of Illusion, p. 438. La 'common form of life' è l'essere umano con le sue intuizioni morali e di agency che gli permettono di creare un ordine morale stabile.
Cfr. Smilansky, Free Will and Illusion.
Ciò, a mio avviso, comporta un grande problema per il sistema di Pereboom, nel quale le persone dovrebbero accettare di essere responsabili per il futuro senza provare un genuino sentimento di responsabilità. Per il filosofo americano, un futuro epistemologicamente aperto e una non meglio precisata capacità di distinguere il bene dal male consentono il mantenimento dell'ordine sociale e della vita morale. Smilansky invece sostiene che senza l'illusione dell'autodeterminazione, nulla di tutto questo sarebbe sufficiente per vincere la deriva eliminativista.
Smilansky, Compatibilism, The Argument from Shallowness, p. 277.
Per Smilansky l'illusione della libertà non è immune dalla consapevolezza del determinismo, per questo serve uno sforzo attivo affinché i suoi effetti positivi siano mantenuti. Il rischio è che la tendenza deresponsabilizzante soverchi completamente il senso di agentività: interiorizzare il determinismo ci porterebbe a dare scarsa importanza al nostro sentimento di libertà. Ciò rende paradossale il ruolo del filosofo, che da una lato cerca la verità, ma dall'altro si rende conto che non può vivere aderendo completamente ad essa. (Cfr. Smilansky, Free Will and Illusion). Nannini, che si dice eliminativista moderato, è invece convinto che la credenza che non siamo liberi e l'evidenza fenomenologica dell'agency possano convivere tranquillamente. Così come noi percepiamo le linee di Müller-Layer come due segmenti di diversa lunghezza, anche se sappiamo che sono uguali, allo stesso modo continueremmo a sentirci liberi nonostante sapessimo che non esiste il libero arbitrio: l'illusione è sempre operativa. Per Nannini, «il neo-eliminativista si comporta come se il libertarismo fosse vero, ma con il grande vantaggio che la sua teoria, mentre preserva ai fini pratici il nesso tra l'agire sentendosi liberi e l'essere responsabili di ciò che si fa, non entra tuttavia in conflitto con una concezione scientifica del mondo» (Nannini, Naturalismo cognitivo, pp. 157).
Vedi infra, Capitolo 7.
Cfr. T. Sommers, Experimental Philosophy and Free Will, in Philosophy Compass, 5/2, 2010, pp. 199-212.
Cfr. R.F. Baumeister, E.J. Masicampo, C.N. DeWall, Prosocial Benefits of Feeling Free: Disbelief in Free Will Increases Aggression and Reduce Helpfulness, in Personality and Social Psychology Bulletin, Vol. 35 No. 2, Febbraio 2009, pp. 260-268.
Cfr. Baumeister R.F., Brewer L. E., Believing versus disbelieving in free will: Correlates and consequences. Social and Personality Psychology Compass, 6, 2012, pp. 736–745. Si veda inoltre D.L. Paulhus, J.M. Carey, The FAD-Plus: Measuring Lay Beliefs Regarding Free Will and Related Constructs, in Journal of Personality Assessment, 93: 1, 2011, pp. 96-104.


E. Nahamias, S.G. Morris, T. Nadelhoffer, J. Turner, Is Incompatibilism Intuitive?, in Philosophy and Phenomenological Research, Vol. LXXIII, No. 1, Giugno 2006, pp. 28-53.
Cfr. ivi, p. 39.
S. Nichols, J. Knobe, Moral Responsibility and Determinism: the Cognitive Science of Folk Intuitions, in Noûs, 41:4, 2007, pp. 663-685.
E. Nahamias, D. Coates, T. Kavran, Free Will, Moral responsibility, and Mechanism: Experiments on Folk Intuitions, in Midwest Studies in Philosophy, 31, 2007, pp. 214-242.
A. Feltz, E.T. Cokely, Do Judgments about Freedom and Responsibility Depend on Who You Are?: Personality Differences in Intuitions about Compatibilism and Incompatibilism, in Consciousness and Cognition, 18, 2008, pp. 342-350.
Cfr. A. Roskies, S. Nichols, Bringing Moral Responsibility Down to Earth, in Journal of Philosophy, 105, 2008, pp. 371-388. Lo scenario attuale è descritto in questo modo: "Molti eminenti scienziati sono convinti che ogni decisione che prendiamo sia completamente causata da ciò che è accaduto prima della decisione stessa – dato il passato, ogni decisione deve accadere come accade. Questi scienziati pensano che la decisione di una persona sia sempre l'inevitabile risultato del suo corredo genetico in combinazione alle influenze ambientali." (Ivi, p. 3, traduzione mia).
A. Roskies, Freedom, Neural Mechanism, and Consciousness, in R.F. Baumeister, A. Mele e K.D. Vohs (a cura di), Free Will and Consciousness: How They Could Work, Oxford University Press, Oxford, 2010, trad. it. a cura di A. Lavazza, Esiste la libertà se decidono i nostri neuroni?, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi?, pp. 55.
C.J. Clarke, J.B. Liguri, P. H. Ditto, J. Knobe, A. F. Shariff, R.F. Baumeister, Free to Punish: A Motivated Account of Free Will Belief, in Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 106, No. 4, 2014, pp. 501-513.
F. Nietzsche, Götzen-Dämmerung, 1889, trad. it. a cura di P. Gori e C. Piazzesi, Il crepuscolo degli idoli, Carrocci Editore, Roma, 2012.
Una quinta fase, infine, ha raccolto dati su larga scala evidenziando come nei paesi ad alto tasso di criminalità sia maggiore la tendenza ad attribuire il libero arbitrio.
C. Figdor, M. Phelan, Is Free Will Necessary for Moral Responsibility?: A Case for Rethinking their Relationship and the Design of Experimental Studies in Moral Psychology, in Mind & Language, Vol. 30, No. 5, Novembre 2015, pp. 603-627.
Cfr. ivi, pp. 623-625.
Ivi, p. 625.
Cfr. Sommers, Experimental Phylosophy and Free Will, pp. 204-206.
K.D. Vohs, J.W. Schooler, The Value of Believing in Free Will. Encouraging a Belief in Determinism Increases Cheating, in Psychological Science, 19, 2008, pp. 49-54.
F. Crick, The Astonishing Hypothesis, Scribner's, New York, 1994.
Esempi delle frasi lette nei vari scenari. Libertario: "Io posso superare i fattori genetici e ambientali che ogni tanto influenzano il mio comportamento". Anti-libertario: "Credere nel libero arbitrio contraddice il noto fatto che l'universo è governato dalle leggi della scienza". Neutro: "La canna da zucchero e le barbabietole da zucchero sono coltivate in 112 paesi".
Ivi, p. 52.
Cfr. Sommers, Experimental Philosophy and Free Will, p. 207.
Cfr. Baumeister et. al., Prosocial Benefits of Feeling Free, p. 262-263.
Altri questionari specifici hanno mostrato che questa risposta non è dovuta all'impatto emotivo dello scenario. Cfr. ivi, p. 265.
Se avesse voluto fare un favore all'altro dandogli più cibo in totale, il soggetto avrebbe dovuto caricare il cracker di formaggio tanto quanto la tortilla con la salsa piccante. Ciò non è avvenuto.
Ivi, p. 267.
M. De Caro, M. Marraffa, Libertà, responsabilità e retributivismo, in F. Caruana (a cura di), Sistemi Intelligenti, 2/2010, p. 364. Gli autori riportano l'esempio in seno a un'analisi critica dell'affidabilità dei dati sperimentali. Infatti De Caro e Marraffa propendono per una visione tradizionale secondo cui non può esservi responsabilità senza libero arbitrio, arricchita dall'ipotesi che la punizione retributiva sia un incentivo alla cooperazione più forte di qualunque punizione utilitaristica.
Cfr. Sommers, Experimental Philosophy and Free Will, p. 207.
Cfr. M. Vergani, Responsabilità. Rispondere di sé, rispondere all'altro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015.
Come mostrerò più avanti, gli argomenti a favore dell'indipendenza della responsabilità dal libero arbitrio fanno soprattutto affidamento sul primo elemento, perché il secondo impone un agente che sia causa, nel senso libertario, delle proprie azioni.
La responsabilità causale sussiste nel caso, per esempio, in cui l'abbassamento di temperatura causi il ghiacciarsi dell'acqua. In questo senso si dice che il gelo è causa del congelamento. Si nota bene però la differenza con la responsabilità morale. Causare il congelamento infatti non ha elementi normativi e riguarda eventi, mentre la responsabilità morale riguarda l'agente. Quando si dice che l'agente può essere responsabile solo di ciò che effettivamente causa, si sta allora parlando di una causalità di tipo diverso.
Vedi De Caro, Il libero arbitrio, p. 105.
Possibilità a sua volta fondata sull'apertura epistemica del futuro, e non su un'effettiva libertà di scelta. Qui, mi si permetta una digressione, è interessante notare come Pereboom aderisca a quella che De Caro chiama 'tesi della regolazione sociale', di fatto associata all'utilitarismo (Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, p. 108.), e nel contempo critichi l'utilitarismo per le ingiustizie potenziali dell'equazione "bene = utile". Per l'autore statunitense infatti esistono altri valori rispetto all'utile sociale, valori legati alla persona, e l'innocenza è uno di questi. Tuttavia, se l'analisi di Smilansky è corretta, solo un'idea di responsabilità fondata sul merito è in grado di fare dell'innocenza un valore in sé, ma il merito è proprio ciò che Pereboom s'impegna di negare! De Caro e Marraffa rafforzano l'obiezione di Smilansky mostrando come anche la concezione utilitaristica della punizione secondo Hart contempli un principio di retribuzione negativa, ossia un principio che impedisce di punire il criminale che non è moralmente responsabile (che non se lo merita), anche nel caso che la punizione fosse utile per la società. Il che, detto in breve, significa giustificare la pena solo per coloro che agiscono in virtù del libero arbitrio (Cfr. De Caro, Marraffa, Libero arbitrio, responsabilità e retributivismo, p. 369).
H. Frankfurt, Alternate Possibilities and Moral Responsibility, in Journal of Philosophy, 66, 1969, pp. 828-839, trad. it. a cura di A. Perri, Possibilità alternative e libertà morale, in M. De Caro (a cura di), La logica della libertà, pp. 117-132.
P.F. Strawson, Freedom and Resentment, in Proceedings of the British Academy, 48, 1962, pp. 1-25, trad. it. a cura di A. Perri, Libertà e risentimento, in M. De Caro (a cura di), La logica della libertà, pp. 77-116.
Cfr. Frankfurt, Possibilità alternative e libertà morale, pp. 126-131.
Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, p. 123.
Cfr. M. Reichlin, Responsabilità morale e persona, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Quanto siamo responsabili?, pp. 188-189.
L'argomento è simile a quello di Reichlin, poiché entrambi gli autori si focalizzano sulla differenza tra possibilità di fare altrimenti e di scegliere di fare altrimenti. Pereboom e i compatibilisti hanno risposto a questa obiezione sostenendo che i segnali che Jones potrebbe dare nel caso scegliesse diversamente (p.e. un aumento della sudorazione, un picco nell'attività cerebrale) non sono sufficienti per affermare che abbia una robusta possibilità alternativa. A tal proposito si veda D. Pereboom, Living Without Free Will, pp. 1-37, e J.M. Fisher, Frankfurt-Type Examples and Semicompatibilism: New York, in R. Kane (edited by), The Oxford Handbook of Free Will, pp. 243-265.
Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, pp. 125-126.
Limitatamente al periodo in cui lo stato di coscienza è alterato, nel caso di drogati o sonnambuli. Nel caso dei malati psichici incurabili, la sospensione degli atteggiamenti reattivi è permanente. Il bambino è una via di mezzo, poiché crescendo acquista delle capacità e il nostro atteggiamento obiettivo di educazione tende progressivamente a lasciare il posto ai normali atteggiamenti reattivi.
Strawson, Libertà e risentimento, pp. 95-102.
Ivi, p. 103, corsivo mio.
Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, p. 115.
Vedi supra, paragrafo 5.5.
De Caro, Il libero arbitrio, p. 114.
Reichlin, Responsabilità morale e persona, pp. 190-192. Pereboom sostiene esattamente la stessa cosa, e la sua critica a Strawson mira proprio a dimostrare come la questione metafisica sia in realtà interna alle dinamiche sociali.
Cfr. ivi, pp. 189-190. Si pensi inoltre a come la radicalizzazione e distorsione del messaggio darwiniano abbia fomentato ideali di 'superiorità della razza', dai quali è poi tristemente seguito un impegno nella colonizzazione e nello sfruttamento. In questi contesti l'altro, un essere umano razionale, viene considerato come un sub-umano che non merita diritti, rispetto e valore. La morale del mondo progredito si sospende per chi è sottomesso, la pratica sociale si trasforma e limita il principio di equità a una sola parte dell'umanità: quella che, per una contingenza, si è trovata in una posizione di vantaggio.
C. Bagnoli, Responsabilità come relazione pratica, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Quanto siamo responsabili?, p. 203.
Ivi, pp. 216-217.
Cfr. ivi, p. 220.
F. Santoni de Sio, Persone, libero arbitrio e responsabilità, in A. Allegra (a cura di), Confronti con la filosofia analitica, Padova, CLEUP, 2010, pp. 164.
F. Santoni de Sio, I progressi delle scienze e il concetto di responsabilità, in Rassegna italiana di criminologia, anno VI, n. 1, 2013, p. 65.
Santoni de Sio per esempio chiarisce come ci sia una grande differenza tra le spiegazioni intenzionali del comportamento e quelle fisiche. Infatti, è logicamente impossibile che una persona intenzionata a prendere un libro non lo faccia in assenza di freni inibitori. Stessa cosa non vale per le spiegazioni neurologiche: dati uno stato neurale e l'assenza di ostacoli, non è logicamente necessario che io mi comporti come gli scienziati prevedono. La previsione basata sul mio stato neurale potrebbe essere sbagliata, oppure la legge scientifica potrebbe necessitare di una revisione. La distinzione, insomma, è tra una connessione di significato nel caso dell'intenzionalità, e una connessione empirica contingente nel caso delle spiegazioni neurologiche. Cfr. Santoni de Sio, Persone, libero arbitrio e responsabilità, p. 163.
Bagnoli, Responsabilità come relazione pratica, p. 221.
Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, pp. 117-118.
Reichlin, Responsabilità morale e persona, pp. 192.
Cfr. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, 1911, trad. it. a cura di C. Sinigaglia , La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Bari, 2000.
Cfr. Sartre, L'essere e il nulla, pp. 19-20.
Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception,1945, trad. it. a cura di A. Bonomi, Fenomenologia della Percezione Bompiani, Milano, 2003, p. 17. Qui si introduce l'idea della scienza naturale come 'espressione seconda' di una coscienza incarnata.
Vedi R. De Monticelli, La novità di ognuno, Garzanti, Milano, 2012.
Ivi, p. 149.
Cfr. ivi, p. 150.
R. De Monticelli, Cos'è una scelta? Fenomenologia e neurobiologia, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi?, p. 123.
De Monticelli, La novità di ognuno, p. 222.
Cfr. ivi, pp. 227-229.
Per arrivare a questo punto è necessario lo sviluppo di altre capacità dell'agire intenzionale, come quella di linguaggio, di azione sociale e di apprendimento di sapere teorico e pratico. Cfr. ivi, p. 231.
Ivi, p. 354. Qui si sta dicendo che la persona agisce come un'unità. Nell'atto libero convogliano le componenti fisiche, la storia, le credenze, i desideri, le influenze del proprio ambiente e così via. Tuttavia la persona non è il semplice insieme di tutto questo, ma è qualcosa di più, proprio perché con la sua libertà può iniziare qualcosa di nuovo.
Ivi, pp. 234-235.
Che la libertà, e in particolare la condizione delle possibilità alternative, sia necessaria per lo sviluppo della razionalità in generale, è una tesi che anche McDowell condivide. (Vedi John McDowell, Two Sorts of Naturalism,1995, ristampato in Mind, Language,and Reality, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1998, p. 170). Prima di passare alle battute finali, segnalo una possibile problematica nell'analisi di De Monticelli, ovvero quella inerente al termine "emerge", presente sia nella teoria degli atti, sia nella teoria della persona. Il salto netto che avviene tra la posizionalità di secondo livello e quella di terzo può essere una questione controversa, poiché si tratta di acquisire una capacità che manipola le proprie basi fisiche. Penso allora che la critica di Pereboom all'emergentismo possa avere qui una particolare pregnanza. Vedi supra, paragrafo 5.5.
Vedi P. Määttänen, Mind in Action, Experience and Embodied Cognition in Pragmatism, Springer, 2015, pp. 1-14.
W.V.O. Quine, On What There Is, in Review of Metaphysic, 1948, pp. 21-38, trad. it. Su ciò che vi è, in Il problema del significato, Ubaldini, Roma, 1966, pp. 3-19.
L'iper-realismo scientifico arriva persino a negare l'esistenza dei corpi (p.e. tavoli, sedie, ecc.) conferendo dignità ontologica solo al mondo subatomico.
Questo tipo di argomento credo abbia grande validità per quello che riguarda l'incompatibilità di libertà e determinismo. Quella dell'indeterminismo è invece una questione controversa, perché i meccanismi del mondo quantistico non sono completamente chiari nemmeno alla fisica. L'ingegnoso argomento con cui Pereboom rende incompatibile la scelta libera e la probabilità degli antecedenti causali dell'azione non può ritenersi conclusivo.
In questo secondo caso, la filosofia si pone in una posizione privilegiata, perché bandisce a priori l'eliminativismo e assume in modo assiomatico l'esperienza dell'agentività come caposaldo incrollabile.
J. Dewey, Experience and Nature, 1925, trad. it. a cura di P. Bairati, Esperienza e natura, Mursia, Milano, 1990, p. 19.
Ivi. p. 42.
Ivi. pp. 294-295.
Ivi. p. 24.
Tali posso essere le entità che la fisica postula senza poterle manipolare, oppure le entità soprannaturali di vario genere come angeli, spiriti, divinità, eccetera. Tali entità non possono essere oggetto di conoscenza e si distinguono dai cosiddetti 'unoservable interactionables', ovvero gli oggetti invisibili con cui riusciamo a interagire solo con la mediazione di strumenti sofisticati (per esempio gli atomi). Punto fondamentale è che non è possibile stabilire a priori ciò con cui potremo o non potremo interagire. Nel momento in cui l'uomo è in grado di relazionarsi con quello che era ritenuto un uninteractionable, esso diventa subito un interactionable che allarga i confini del mondo conosciuto. La terminologia è presa da Määttänen, Mind in Action, p. 85.
Dewey, Esperienza e natura, p. 111.
Ivi. p. 114.
Dupré, Il miracolo del monismo, p. 33.
Con questo paradosso è forse più semplice comprendere come la differenza tra oggetti e tra i rispettivi strumenti d'indagine, p.e. il bosone di Higgs e la mente del bambino, siano incommensurabilmente diversi. La connessione fondamentale però si mantiene nella strumentalità di entrambe le discipline, e nulla vieta che, con la mediazione di nuovi strumenti, esse possano avere una reciproca influenza.
Dewey, Esperienza e natura, p. 15.
Ivi. p. 283. I valori morali, in particolare, sono fatti sociali.
Si veda per esempio l'analisi di R. Frega, "Morality is social": John Dewey e le fonti sociali della normatività, in P. Vincieri (ed.), Sul fondamento della morale, Bologna, D.U. Press, 2012, p. 71-90.
Cfr. J. Kuelartz, M. Schermer, M. Korthals, T. Swierstra, Ethics in Technological Culture: A Programmatic Proposal for a Pragmatist Approach, in Science, Technology, & Human Values, Vol. 29 No. 1, Winter 2004, pp. 3-29.
Cfr. anche R. Frega, Evoluzionismo naturalista ed epistemologia pragmatista, in Brigati R. e Frega. R. (a cura di), Epistemologie pragmatiste, XIX/2, Quodlibet, Macerata, 2009.
Cfr. De Caro, Il libero arbitrio, cap. V.
È De Caro stesso a mettere in luce pregi e limiti dell'abduzione.
Alcuni autori del neuropragmatismo contemporaneo ritengono che il problema della libertà vada riformulato. La domanda non sarebbe più "gli uomini sono davvero liberi?" ma "come funziona la libertà umana?". Questi autori si confrontano con i fenomeni e cercano di offrirne una spiegazione che non sconfini nei territori impervi della metafisica. Vedi per esempio T. Solymosi, A Recontruction of Freedom in the Age of Neuroscience: A View from Neuropragmatism, in Contemporary Pragmatism, Vol. 8, No. 1, Editions Rodopi, June 2011, pp. 153-171. Si veda inoltre J. R. Shook, Freedom Is as Freedom Does: Neuropragmatism, Neuroethics, and Free Will, in AJOB Neuroscience, Volume 6, No. 2, April-June 2015, pp. 28-30.
Ricordo tuttavia che nel pensiero deweyano le capacità di razionalità pratica non possono essere studiate come un dominio a sé stante, ma sempre come capacità di una forma di vita incarnata.
La 'shallowness' del compatibilismo. Vedi supra, paragrafo 5.8.
Una precisazione è d'obbligo. Secondo Pereboom l'eliminativismo porterebbe alcuni cambiamenti, tutti positivi, mentre per Nannini, che si dice eliminativista moderato, non cambierebbe proprio nulla. Ciò che mi preme sottolineare è che queste teorie prevedono che una persona possa ancora considerarsi come agente, che gli si possano attribuire delle ragioni, una volontà e un'efficacia causale sufficienti a offrire una spiegazione dell'azione nei termini del senso comune. Il compatibilismo classico, che elimina la libertà di volere e preserva una libertà di fare, si situa sulla stessa lunghezza d'onda. Io penso che non si possa mantenere un modello di agency di questo tipo se gli si premette una metafisica eliminativista.
Secondo De Monticelli, per esempio, l'assenza di libertà impedisce che si dia una razionalità pratica e, addirittura, un linguaggio. Ma forse è ancora più facile pensare a come cambierebbe il vocabolario utilizzato per descrivere e spiegare l'azione, un vocabolario dove determinanti o indeterminanti di vario tipo prenderebbero il posto delle nozioni di "carattere", "motivazione", "scelta".
Magni, Teorie della libertà, p. 71.
Faccio presente che la mia è una lettura del compatibilismo sulla base della citazione di Magni circa il suo impegno ontologico, e che pertanto trovo i suoi assunti coerenti col pragmatismo solo se interpretati nell'ottica del funzionamento dell'agente. L'obiettivo di Magni però resta sempre quello di trovare un senso di libertà immune dalla minaccia del determinismo. Detto in altri termini, cerca di preservare pratica e concetti correnti nonostante uno sfondo metafisico problematico. Se il determinismo non fa paura al pragmatismo, invece, è perché non gli si concede valenza metafisica.

Mi sto riferendo qui alle teorie prese in esame in questa ricerca. Non ho preso in considerazione la speculazione di un possibile eliminativismo radicale tale da prospettare scenari di anarchia globale, immoralità generalizzata o gestione del crimine alla Minority Report. Anche se la libertà non esistesse, dubito che questi scenari sarebbero desiderabili anche dai pensatori più estremisti.
Per Dewey, il testo di riferimento è J. Dewey, Human nature and conduct, Henry Holt & Co., New York, 1922, trad. it. a cura di G. Preti e A. Visalberghi, Natura e condotta dell'uomo, La Nuova Italia, Firenze, 1977. Per una presentazione agevole del paradigma dell'embodied cognition, si può vedere V. Gallese, Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività, in M. Cappuccio (a cura di), Neurofenomenologia, Le scienze della mente e la sfida dell'esperienza cosciente, Mondadori, Milano, 2009, pp. 293-396.
Dewey, Natura e condotta dell'uomo, p. 49.
Vedi per esempio A. Godino, Plasticità cerebrale e funzioni cognitive, in Psychofenia, vol. IV, no. 9, 2003, pp. 3-11. Godino è ordinario di Psicologia Generale all'Università del Salento.
Shook, studioso di primo piano del pragmatismo, si dice cinico nei confronti di questo tipo di enhancement e mostra numerose preoccupazioni in merito. Innanzitutto bisogna prendere sul serio le profonde differenze nei modelli morali delle varie culture, per cui potenziare una certa dote (p.e. la tolleranza religiosa) potrebbe essere percepito come bene in un contesto e come male in un altro. Inoltre quale dovrebbe essere il background etico su cui configurare il potenziamento? Etica deontologica, emotivismo, utilitarismo, etica della virtù? E a chi dovrebbe essere rivolto il potenziamento: alle autorità politiche, ai bambini o al popolo intero? Per non parlare dei possibili effetti collaterali di un potenziamento indiscriminato di alcune facoltà. Shook fa l'esempio paradossale dell'empatia che, nel caso fosse troppo rafforzata, porterebbe i giudici a distorcere gli esiti delle sentenze perché profondamente immedesimati negli interessi dell'imputato. Allo stesso modo, la virtù della generosità non deve tramutarsi in una disposizione cieca e automatica, poiché non sarebbe saggio, per esempio, essere altruisti nei confronti di un pericoloso ricercato. Scrive Shook: "Generic empathetic, altruistic, or trusting enhancement sounds lovely in theory, but those using too much will eventually strike the rest of us as errant spirits, dangerous fools, or worse. Depictions of entire societies or a whole planet undergoing empathetic moral enhancement will remain utopian fantasies". J.R. Shook, Neuroethics and the Possible Types of Moral Enhancement, in AJOB Neuroscience. 3(4), 2012, p. 11. Per avere un'idea delle preoccupazioni inerenti il potenziamento biologico e morale, si veda anche J. Specker, F. Focquaert, K. Raus, S. Sterckx, and M. Schermer, The Ethical Desirability of Moral Bioenhancement: a Review of Reasons, in BMC Medical Ethics, 15:67, 2014, consultabile al link: http://www.biomedcentral.com/1472-6939/15/67.
Il termine ormai è talmente d'uso comune da apparire persino sui quotidiani. Vedi, M.P. Palmarini, Siamo pronti alla pillola della moralità? Se si cancella il libero arbitrio, Corriere della Sera, 31/01/2012, consultabile al link:
http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_31/pillola-moralita-libero%20-arbitrio-palmarini_85885fce-4bd6-11e1-8f5b-8c8dfe2e8330.shtml.
Cfr. D. Narvaez, Moral Neuroeducation from Early Life Through the Lifespan, in Neuroethics, vol. 5, 2012, pp. 145-157.
Ivi, p. 146.
Ivi, p. 149.
Si tratta di una disciplina ispirata alla meditazione zen, in cui la persona effettua respiri profondi e si fa ricettiva agli stimoli sensoriali. Uno studio recente mostra che la pratica di mindfulness nelle scuole ha portato un significativo calo dei livelli di depressione e di stress negli adolescenti, con un conseguente aumento del benessere percepito. Si veda l'articolo della ricerca Mindfulness in School Project al link:
http://www.stateofmind.it/2013/09/mindfulness-scuola/
Non si deve comunque dimenticare il carattere pionieristico di questi studi. Lasciarsi prendere dall'entusiasmo sarebbe infatti una mossa prematura, in quanto molte delle ipotesi riportate sono ancora al vaglio: nel terzo capitolo ho riportato gli esempi controversi della mielinizzazione nei minorenni, delle anomalie funzionali non ancora del tutto chiare negli psicopatici e delle anomalie funzionali nei cervelli dei bambini cresciuti in ambienti disagiati. Quali sono i criteri per stabilire se un organo è sviluppato al pieno delle sue potenzialità? E quali sono i criteri per stabilire se le nostre facoltà morali sono sviluppate al pieno delle loro potenzialità? È realmente possibile caratterizzare un 'funzionamento normale'? Inoltre l'instaurazione di quel circolo virtuoso tra individuo, società e mondo tanto auspicato da Dewey deve tenere conto delle difficoltà oggettive nella gestione della cosa pubblica: la società, purtroppo, non è composta di individui ideali né si situa in un contesto ideale.

Università degli Studi di Parma
Dipartimento di Antichistica, Lingue, Educazione, Filosofia – A.L.E.F.
Corso di Laurea Magistrale in Filosofia
Classe LM-78

NATURA E LIBERO ARBITRIO
Il dibattito contemporaneo tra scienza ed etica



Relatore:
Chiar.ma Prof.ssa MARA MELETTI

Correlatori:
Chiar.mo Prof. ITALO TESTA
Chiar.mo Prof. FAUSTO CARUANA
Laureando:
GIUSEPPE TURCHI
N. Mat. 253711

Anno Accademico 2014 / 2015























Indice


Introduzione 5
Capitolo 1. Naturalismo scientifico: nascita e questioni 11
1.1 Il portato della rivoluzione scientifica 11
1.2 L'empirismo logico e la filosofia fondazionale 12
1.3 Quine: l'attacco al neopositivismo 14
1.4 Il naturalismo scientifico contemporaneo 17
Capitolo 2. Il concetto di "natura" 21
2.1 Dupré e Stroud: le contraddizioni del fisicalismo. 23
2.2 Atteggiamenti di larghe vedute 25
2.3 Etica naturalizzata e normatività 28
Capitolo 3. Atteggiamenti lombrosiani e crisi disciplinari 35
3.1 La frenologia tra scienza e pseudoscienza 36
3.2 Il criminale nato 40
3.3 La crisi della psichiatria e l'autorità delle neuroscienze 43
3.4 Brain Overclaim Syndrome 47
3.5 Libet e Soon: esperimenti e conclusioni affrettate 49
3.6 L'influenza delle scoperte neuroscientifiche sulla deliberazione giuridica 53
3.7 Il caso dello psicopatico: un dilemma scientifico e giuridico 56
3.8 Alcune conclusioni 59
Capitolo 4. Teorie contemporanee del libero arbitrio 61
4.1 Quale libertà? Quale determinismo? 63
4.2 Forme di incompatibilismo libertario 67
4.3 Il compatibilismo 71
4.4 Incompatibilismo e scetticismo 76
Capitolo 5. Incompatibilismo duro: un prodotto del naturalismo scientifico 79
5.1 L'incoerenza dell'indeterminismo causale (o event-causation) 80
5.2 L'incoerenza del libertarismo non causale 82
5.3 L'incoerenza del compatibilismo 84
5.4 La coerenza dell'agent-causation 88
5.5 L'agente come causa e la scienza: un divario insanabile? 90
5.6 Vivere senza libero arbitrio 93
5.7 Etica e crimine: un approccio revisionista 98
5.8 Smilansky: la necessità dell'illusione 103
Capitolo 6. La filosofia sperimentale e l'intuizione della libertà 109
6.1 La dialettica tra intuizioni compatibiliste e incompatibiliste 111
6.2 Io non sono libero, quindi posso essere egoista 120
Capitolo 7. Responsabilità e libero arbitrio: una correlazione necessaria? 125
7.1 Quale responsabilità? 125
7.2 P. Strawson e H. Frankfurt: argomenti a favore del compatibilismo e critiche 127
7.3 La responsabilità morale secondo il costruttivismo contemporaneo 133
7.4 L'approccio fenomenologico contro le forme di compatibilismo 137
Conclusioni 143
Il rapporto tra filosofia e scienza: le problematiche in conflitto 143
Evoluzionismo, pragmatismo, strumentalismo 146
Il problema della libertà in chiave pragmatista 151
La scienza e il moral enhancement: una possibile linea di ricerca 157
Bibliografia 163









Introduzione




Questo elaborato chiude un percorso di studi che da sempre ha avuto come oggetti privilegiati il naturalismo e l'etica. La passione per queste tematiche è nata dall'urgenza, da tempo percepita nel mondo filosofico, di ridefinire i contorni del rapporto tra filosofia e scienza, cioè tra discipline che concepiscono i fenomeni dell'umano in modi radicalmente differenti. Dimentiche del tempo in cui l'indagine del reale era condotta dalla figura del filosofo, che si distingueva più dall'artigiano che dallo scienziato, oggi due ontologie esclusive si fronteggiano per la supremazia epistemica e persino metafisica: da un lato una visione pluralistica che conferisce pari dignità a leggi naturali, stati intenzionali, valori morali, esperienza estetica; dall'altro una visione riduzionistica che concepisce ogni fenomeno sulla base della triade fisica-chimica-biologia.
Complice un progresso tecnologico senza precedenti, la filosofia pare costretta in una posizione di difesa. Nella società postmoderna dove tutto ciò che conta sono i risultati in tempi brevi, le metodiche filosofiche risultano ai più come qualcosa di astruso e disconnesso dalla realtà quotidiana. Non che certe argomentazioni non abbiano dato adito a concezioni del genere: per troppo tempo la filosofia è rimasta isolata nella sua famosa torre d'avorio, tutta impegnata a catalogare differenti livelli di realtà senza poi riuscire a riconnetterli in modo soddisfacente. Ma abbattere questa torre d'avorio non equivale a eliminare la disciplina, o almeno non dovrebbe. Vi è una categoria di filosofi invece, i cosiddetti naturalisti scientifici, che mirano alla dissoluzione della filosofia nella scienza. Eredi del positivismo ottocentesco, questi studiosi professano un realismo scientifico secondo cui persona, mente, volontà e moralità o si mostrano traducibili in un linguaggio scientificamente accettabile, o scompaiono dall'orizzonte dell'esistenza. I naturalisti scientifici rigettano qualunque tipo di entità o spiegazione soprannaturale, diffidano di tutto ciò che è trascendentale, professano il monismo ontologico e si rimettono fedelmente al principio di chiusura causale dell'universo. In risposta, alcuni pensatori hanno ricomposto i cocci della torre d'avorio trovandovi nuovamente riparo (gli antinaturalisti), altri hanno deciso di prendere sul serio la sfida della scienza e adottare prospettive di più larghe vedute (naturalisti liberali, naturalisti pluralisti). Ne è seguito un acceso dibattito in merito all'etichetta "naturalismo", la quale ha assunto una grande quantità di significati a seconda della risposta offerta alla domanda "che cos'è la natura?".
In questo libro, la riflessione teoretica è condotta al servizio della teoria etica. Il mio intento è quello di mostrare le ricadute dello scientismo in etica, cioè di come un'immagine naturalizzata dell'uomo possa influire sulla condotta e sulla riflessione morale. Molti studiosi dell'età contemporanea hanno utilizzato le scienze naturali per giustificare, ad esempio, l'utilitarismo radicale, le teorie del contenimento preventivo e l'abbandono del retributivismo. D'altronde, se l'uomo non è che il prodotto delle particelle che lo compongono, o del suo cervello, come può dirsi libero? E senza libero arbitrio, come può essere ritenuto responsabile delle sue azioni? E se la responsabilità morale non esiste, quali provvedimenti dovrebbero adottare le istituzioni? Cercherò di affrontare queste domande da più punti di vista, sviluppando il discorso nel seguente modo.
Nel primo capitolo offrirò una ricostruzione del contesto storico in cui ha preso piede il naturalismo scientifico, partendo dalla Rivoluzione Scientifica, passando per il Neopositivismo e la critica di Quine, fino ad arrivare al riduzionismo contemporaneo. Il mio obiettivo qui sarà mostrare come la scienza abbia assunto, nel corso del tempo, un ruolo privilegiato nel determinare l'unica ontologia legittima, e di come la filosofia abbia perso il suo antico carattere fondazionale.
Nel secondo capitolo prenderò in considerazione la critica allo scientismo dei cosiddetti 'naturalisti liberali', capeggiati da De Caro e Macarthur. Un argomento in particolare, ovvero quello della normatività insita nella scienza, si rivelerà una delle armi migliori contro il riduzionismo. Solleverò tuttavia alcuni dubbi in merito alle modalità con cui questo movimento estende il concetto di "natura". Inoltre, introdurrò il problema etico del naturalismo – ricordando l'argomento di Moore contro la fallacia naturalistica – e alcuni studi di neuroetica per mostrare, da un lato, le complessità che accompagnano il tentativo di definire il bene attraverso categorie naturali e, dall'altro, la stretta connessione tra le nostre facoltà morali e i loro prerequisiti cerebrali.
Nel terzo capitolo parlerò del dibattito sulle implicazioni delle neuroscienze in etica e nel diritto, partendo dalla riflessione della frenologia per poi passare a quelle di Lombroso e della neuropsicologia contemporanea. L'ideale di una riduzione completa della mente al cervello, nata alla fine del Settecento e sviluppatasi fino a oggi, si trova spesso associata a concezioni deterministiche che mettono in questione la libertà di scelta degli individui. Le figure di Gall, Lombroso, Alimena e Delgado sono state le prime a concepire il discorso della criminalità a prescindere dalla responsabilità morale, pensando il reato come uno sfortunato fenomeno naturale da affrontare, piuttosto che col biasimo e la semplice punizione retributiva, con controllo, cure mediche e interventi sul cervello. Il dibattito in merito a un possibile neurodiritto è tuttora in corso, fomentato da esperimenti pionieristici come quelli di Libet e Haynes che si propongono di dimostrare l'inesistenza del libero arbitrio. Sosterrò tuttavia che tali esperimenti non possono dire alcunché in merito a cosa sia una scelta libera e che, come dimostra il caso della psicopatia, è molto difficile individuare delle basi biologiche del crimine.
L'analisi del quarto capitolo prende avvio dalla sezione precedente e tematizza il problema della libertà per come è affrontato oggi nella tradizione anglosassone. Esporrò dunque le teorie compatibiliste e incompatibiliste nei loro nodi essenziali, fornendo un background concettuale funzionale al successivo studio, nel quinto capitolo, dell'eliminativismo. Qui prenderò in considerazione le riflessioni di Derk Pereboom, filosofo statunitense che vede nel libero arbitrio qualcosa di incompatibile sia col determinismo che con l'indeterminismo. A mio avviso l'analisi di Pereboom si rivela convincente nel mostrare come una concezione scientifico-naturalistica del mondo non possa conciliarsi con la metafisica del libero arbitrio. Meno convincente è la speculazione sugli effetti che una tale consapevolezza potrebbe avere sull'uomo comune. Secondo Pereboom, infatti, abbandonare l'idea della libertà avrebbe effetti terapeutici sulle nostre vite e non cambierebbe il nostro modo di rapportarci con le sfide, il valore personale e la dignità umana. A tale visione il filosofo israeliano Saul Smilansky obietta che l'illusione del libero arbitrio è necessaria per mantenere un senso morale e che senza di essa sarebbe impossibile educare i bambini del futuro.
Nel sesto capitolo le intuizioni di Pereboom e Smilansky saranno messe alla prova in numerosi esperimenti di psicologia morale appositamente configurati per comprendere se l'idea di libertà giochi o meno un ruolo di primo piano nella pratica morale. I suddetti esperimenti, tuttavia, mostreranno grandi discordanze nei risultati tali da rendere dubbia la loro effettiva utilità nell'indagine filosofica. In particolare, non si riesce a capire se l'uomo comune sia per natura compatibilista o incompatibilista, giacché i suoi giudizi sulla responsabilità morale fluttuano in modo imprevedibile rispetto alla credenza nel libero arbitrio. Alcuni ritengono che la pratica di attribuzione della responsabilità sia radicata nel desiderio di punizione e non nella credenza nella libertà. Altri pensano che i soggetti sperimentali non comprendano appieno le implicazioni del determinismo e per questo ritengano le persone libere, quindi responsabili, anche in contesti antilibertari.
Il settimo e ultimo capitolo sarà la sintesi dei precedenti poiché affronterà la questione fondamentale del free-will problem non su base sperimentale, ma concettuale: può darsi responsabilità morale senza libertà? De Caro e i libertari offrono una risposta negativa a questa domanda, mentre eliminativisti e compatibilisti tendono a preservare una pratica di attribuzione della responsabilità nonostante l'inesistenza del libero arbitrio. Particolarmente innovativi sono gli argomenti di P.F. Strawson e Carla Bagnoli, che mettono in primo piano il fatto che l'uomo associato, per natura, si trova in un contesto governato da norme: per loro la responsabilità è una relazione che si instaura tra individui e non una proprietà metafisica. Entrambi gli autori sono convinti che la razionalità pratica sia tutto ciò che serve per mantenere un ordine morale e sociale, e che il funzionamento di tale razionalità non dipenda dal libero arbitrio. Questa, che può essere vista come una forma di compatibilismo, trova una interessante obiezione nell'analisi fenomenologica di Roberta De Monticelli, la quale cerca di mostrare come una qualche forma di libertà sia necessaria tanto per avere un linguaggio quanto per possedere un grado di razionalità pratica.
Nelle Conclusioni, infine, sosterrò che le concettualizzazioni del rapporto tra filosofia e scienza sono viziate da un problema di fondo nelle strategie di argomentazione metafisica. Come il problema della libertà dimostra, se si assume che la fisica abbia valenza metafisica, diventa impossibile preservare l'idea di un agente libero: quando i concetti di "determinismo" e "indeterminismo" arrivano a descrivere la struttura ultima della realtà, nessun individuo può essere ritenuto moralmente responsabile per le proprie azioni. Almeno per lo stato attuale della conoscenza. Il naturalista scientifico dunque dovrebbe sempre essere un incompatibilista radicale. Invece naturalisti si dicono pure i compatibilisti – che formulano le loro teorie proprio perché siano in accordo con le scienze – e persino certi libertari (p.e. i naturalisti liberali). Alla fine, la nozione di "naturalismo" risulta comprendere sotto di sé le teorie più disparate, ma al prezzo di numerose incongruenze: il compatibilismo infatti risulta artificioso, mentre il naturalismo liberalizzato adotta un pluralismo ontologico con esiti tendenzialmente antiscientifici. Per questa serie di motivi io richiamo una diversa forma di naturalismo pluralistico, cioè un naturalismo che conferisce pari dignità ontologica ai molteplici oggetti dell'esperienza senza ricadere nel riduzionismo e nel soprannaturalismo: il pragmatismo di John Dewey. Credo infatti che il grande pregio di Dewey sia stato quello di ricordare che la scienza è uno strumento evolutosi per far fronte alle esigenze dell'ambiente, così come lo sono la mente umana, il linguaggio e la morale. Assumere come dato fondamentale l'atomo, l'elettrone o il quark non sarebbe pertanto una mossa legittima: il dato fondamentale è l'orizzonte dell'esperienza, ovvero lo sfondo delle cose 'interagibili' che comprende sia gli oggetti della fisica che quelli della cultura. Questo sfondo né fisso né immutabile, ma sempre in divenire, esaurisce ciò che è reale e naturale. Adottare una prospettiva pragmatista significa dunque abbandonare i problemi morali del determinismo e dell'indeterminismo, evitare di cercare una proprietà essenziale come il libero arbitrio e focalizzarsi piuttosto sul funzionamento dell'uomo che valuta, ragiona e sceglie. In etica, significa sperimentare modalità d'intervento che tengano conto dell'uomo come corpo, come ragione e come membro di una società.


Nella presente ricerca ho cercato di fare tesoro dei vari corsi seguiti nel quinquennio 2010/2015 all'Università degli Studi di Parma. Posso dire quindi che ogni insegnamento, in misura più o meno marcata, è stato fonte d'ispirazione e trova qui un piccolo spazio. Ringrazio pertanto la prof.ssa Mara Meletti che, oltre a darmi la possibilità di presentare questo lavoro, è riuscita a stemperare il mio ingenuo scientismo permettendomi di acquisire più larghe vedute. Ringrazio i correlatori prof. Fausto Caruana e prof. Italo Testa che mi hanno introdotto, guidato e appassionato rispettivamente alle neuroscienze e al pragmatismo di John Dewey. Ringrazio i prof. Wolfgang Huemer e Andrea Bianchi, che molto pazientemente hanno discusso con me di naturalismo e libertà offrendomi di volta in volta preziosi suggerimenti. Se le mie tesi di laurea trattano di naturalismo, è in buona parte merito loro. Un grazie anche alla prof.ssa Beatrice Centi per le indicazioni riguardo la fenomenologia e il concetto di "persona", e alla prof.ssa Rita Messori, che per prima mi ha presentato le nozioni di "natura organica" e "conoscenza preriflessiva". Un ringraziamento poi ad Alessandro Bosi, i cui corsi mi hanno portato a comprendere l'urgenza di certe problematiche sociali, fomentando il mio interesse per l'educazione del cittadino e la riforma sociale. Ringrazio inoltre il prof. Mario De Caro per avermi consigliato la lettura dei saggi di Pereboom e per avermi aiutato a sciogliere alcune perplessità circa il rapporto tra libertà e responsabilità, e il prof. Roberto Frega, che con grande gentilezza mi ha fornito ulteriori articoli su Dewey e il pragmatismo contemporaneo.
























Capitolo 1. Naturalismo scientifico: nascita e questioni



Il portato della rivoluzione scientifica

La forte opposizione che oggi contrappone filosofi e scienziati non ebbe precedenti nell'antica Grecia. Che si parlasse dei quattro elementi, di semi o dell'apeiron, la problematica dell'archè fu la madre del pensiero filosofico e coinvolse indistintamente tutti i presocratici. Di fatto, la filosofia nacque nel tentativo di spiegare la struttura del mondo e per molto tempo nessuno le avrebbe assegnato un compito diverso. Filosofi erano i Pitagorici, che sul numero e la matematica fondarono la loro scuola; i medici, che per secoli esercitarono con l'obiettivo di ristabilire l'equilibrio degli elementi o degli umori; i redattori delle prime classificazioni zoologiche e botaniche (Aristotele e Teofrasto). Insomma, tra fare scienza e fare filosofia non v'era una distinzione netta, complice la carenza di mezzi e metodi che rallentava la specializzazione delle varie discipline.
La grande svolta avvenne tra il XVI e XVII secolo, quando alcuni grandi pensatori si opposero alla Scolastica. Copernico diede per primo una dimostrazione matematica della teoria eliocentrica (1534), mentre Galileo e Cartesio elaborarono, nella prima metà del Seicento, il metodo fondato sull'esperimento e l'analisi matematica. Il loro desiderio di svincolarsi dall'oscurantismo clericale permise alla scienza di farsi indipendente dalla teologia ma, per un verso, anche dalla filosofia. Il mondo, infatti, veniva ora studiato attraverso modelli astratti, strutture ideali dei fenomeni su cui la matematica poteva esercitare tutta la propria potenza formale, e il processo sperimentale si configurava in modo tale che suoi i risultati fossero comparabili e valutabili rispetto a tali modelli. Da quel momento, il nuovo metodo venne progressivamente applicato a una sempre più ampia gamma di fenomeni e rubò terreno alla filosofia. In virtù dei suoi successi, la scienza arrogò a sé il diritto di decretare i confini dell'ontologia e si contrappose alle altre discipline, dando vita a dialettiche del tipo natura vs cultura o scienze naturali vs scienze umane.
Il progresso scientifico degli ultimi anni ha esasperato questa tendenza. Il naturalismo odierno – o almeno quello che domina nel pensiero anglosassone – non ha più il tratto pluralistico dell'antichità, ma è diventato un vero e proprio scientismo che affida la spiegazione del mondo unicamente alle 'scienze dure' quali sono fisica, chimica e biologia. Tuttavia il suo attacco non si è ancora rivelato decisivo, poiché persistono domande alle quali le scienze naturali devono ancora una risposta soddisfacente, del tipo: come si caratterizza il concetto di "natura"? Esso è interamente esaurito dalle spiegazioni scientifiche, oppure vi sono fenomeni che si sottraggono al loro dominio? Date le conoscenze attuali, naturalizzare la sfera dell'umano (mente, libero arbitrio, morale) è un'operazione legittima? Se sì, offre dei vantaggi evidenti? In mezzo a tali questioni la filosofia ha cercato e cerca una propria specificità.



L'empirismo logico e la filosofia fondazionale

L'epistemologia novecentesca si sviluppò in un clima culturale dove la contrapposizione tra filosofia e scienza influì pesantemente sul dibattito concernente il problema della conoscenza. In particolare, i progressi della psicologia empirica e sperimentale tra il XVII e XX secolo indussero molti studiosi a pensare che i contenuti di pensiero dipendessero dalla struttura psicologica umana; tuttavia alcuni filosofi si opposero con forza allo psicologismo e, partendo da ciò, arrivarono a caratterizzare la filosofia come analisi concettuale. Tale caratterizzazione aveva l'obiettivo di preservare un campo di indagine indipendente dagli aspetti empirici della conoscenza, un campo in cui si potesse indagare, mediante la sola analisi concettuale, la struttura 'pura' del pensiero.
Fu questo lo spirito col quale Carnap tentò la fondazione logico-concettuale della conoscenza naturale, distinguendo le due componenti degli enunciati, quella logico-linguistica e quella fattuale, in modo da demarcare i domini di studio rispettivamente di filosofia e scienza. La netta separazione che si venne a creare fu promossa in articoli come Il superamento della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio, nel quale si ribadiva la tesi caratteristica dell'empirismo logico: il significato di un enunciato è il metodo della sua verificazione. Sulla base di ciò, Carnap distinse le proposizioni (allora intese come enunciati) in due classi: le proposizioni sensate e le pseudoproposizioni. Facevano parte della prima classe le tautologie, le contraddizioni e le proposizioni empiriche, mentre rientravano nella seconda gli asserti della metafisica. In particolare, la metafisica aveva il difetto di utilizzare parole prive di senso (ad es. "Dio", termine che non ha alcun riferimento empirico) e\o di combinare parole sensate violandone la sintassi logica (ad es. sostantivando "nulla", un quantificatore, per comporre enunciati come "il nulla nullifica"). Quest'ultimo caso rappresentava, secondo Carnap, uno degli errori tipici della filosofia e offriva l'occasione per mostrare l'efficacia dell'attività di analisi: ricorrendo alla logica, la (buona) filosofia era in grado di evidenziare come la sintassi grammaticale consentisse di formulare proposizioni insensate e correggere tale inconveniente.
Carnap spiegò poi come ogni parola avesse una proposizione elementare che ne definisse la sintassi logica (p.e. "x è scapolo" nel caso di "scapolo"). Il significato delle parole dipendeva dalla verificabilità empirica della sua proposizione elementare o dalla possibilità di quest'ultima di essere inferita a partire da proposizioni protocollari. Le proposizioni protocollari, in quanto direttamente connesse a un dato di esperienza, scongiuravano il rischio di circolarità (cioè che un termine, p.e. "pari", potesse essere definito solo come il contrario di "dispari", e viceversa) e fungevano da base per la costruzione delle espressioni sensate. Con ciò si rendeva conto della sinonimia e della possibilità di avere enunciati veri in virtù del solo significato delle parole.
Nel complesso, il progetto neoempirista poneva una netta distinzione tra costrutti teorici e contenuti osservativi e mirava alla riduzione – attraverso gli strumenti della logica matematica – delle espressioni sensate a costrutti logici di dati sensoriali, in modo che fossero sempre stabilite tutte le condizioni di verificazione. La filosofia, ristretta alla sola analisi del linguaggio, stabiliva ciò di cui aveva senso parlare, dopodiché spettava alle scienze naturali decretare la verità\falsità delle proposizioni empiriche (il monopolio sulla conoscenza del mondo). Detto in altri termini, la filosofia neopositivista aveva un ruolo fondazionale e lavorava su un piano normativo indipendente: offriva una struttura logica e metodologica comune a tutte le scienze, ottenendo il duplice effetto di legittimarne la ricerca e unificarle.



Quine: l'attacco al neopositivismo

Quine contestò la prospettiva dei neoempiristi evidenziando come questa inducesse il filosofo a ritirarsi in un 'esilio cosmico' dal quale giustificare il proprio sistema di credenze e metodi. Ma nei fatti il filosofo, prima di essere tale, è una persona che ha acquisito un linguaggio e che ha fatto esperienza, pertanto opera già all'interno di una teoria. Nel saggio Due dogmi dell'empirismo, Quine sferrò così il suo attacco contro le tesi centrali dell'empirismo logico negando 1) che si potesse tracciare una distinzione netta tra "analitico" e "sintetico" e 2) che gli asserti dotati di significato fossero traducibili in asserti sull'esperienza immediata.
Per confutare la distinzione tra "analitico" e "sintetico", Quine partì dall'assunto che un concetto è pienamente intellegibile solo se ammette una definizione esplicita e non circolare. Così non sarebbe per l'analiticità, e per dimostrarlo Quine chiamò in causa la sinonimia, la quale però rimandava al concetto di "necessità", che a sua volta andava spiegata ricorrendo all'analiticità e cadeva dunque in un circolo vizioso.
Il secondo dogma, quello del riduzionismo, fu invece confutato dimostrando l'impossibilità di tradurre gli asserti dotati di significato in asserti (veri o falsi) sull'esperienza immediata. Quine considerava la scienza come «una struttura linguistica poderosa, un tessuto di termini teorici legati da ipotesi, un tessuto connesso qua e là agli eventi osservabili», ma la connessione non poteva sussistere secondo il modello di Carnap. Quando un parlante comprende un enunciato osservativo acquisisce l'abitudine ad assentire se interrogato su tale enunciato in circostanze intersoggettivamente osservabili. Più si procede nell'acquisizione della lingua, più il bambino comincia a collegare gli enunciati osservativi (es. "questo qui è giallo") a quelli la cui verità non dipende dall'occasione di enunciazione (es. "le mele del Trentino sono gialle"). Tale collegamento avviene in modo «tenue e congetturale» e si configura attraverso salti di analogia basati sui comportamenti di assenso. Ma se i salti di analogia sono congetturali, allora manca una regola che ci permetta di partire dal linguaggio corrente per ritornare al livello basilare degli enunciati osservativi: l'apprendimento del linguaggio collega osservazione e teoria attraverso un «legame labirintico» caratterizzato da alcuni tratti arbitrari.
La critica dei due dogmi dell'empirismo ebbe effetti rovinosi per il neopositivismo e portò a un ripensamento dell'epistemologia come disciplina. Innanzitutto, negare la fondatezza della distinzione tra analitico e sintetico rendeva impossibile distinguere negli enunciati la componente logico-linguistica da quella fattuale. Questo, unito all'impossibilità di risalire con precisione al dato sensoriale, faceva sì che non vi fosse alcun fatto che permettesse di stabilire il significato di un qualsiasi enunciato o espressione linguistica presi singolarmente. Secondo Quine, quelle che Carnap chiamava 'proposizioni sensate' dovevano confrontarsi col tribunale dell'esperienza non individualmente, ma collettivamente, perché un qualunque parlante che proferisce un enunciato ne sta già presupponendo molti altri. In breve: «l'unità di significato empirico è la scienza nella sua interezza». Solo un'intera batteria di enunciati può essere confermata empiricamente (olismo della conferma), ed è sempre questa batteria ad avere un contenuto empirico e un significato (olismo semantico).
Per quello che riguarda l'epistemologia, Quine la ripensò a partire dal paradigma evoluzionistico. Secondo il filosofo, la scienza moderna era uno strumento raffinato con cui esercitare un potere predittivo sull'ambiente, quindi la bontà di una teoria (intesa come un insieme coerente delle discipline che descrivono il mondo) andava valutata unicamente in base all'efficacia predittiva. Tutto il sistema era sempre passibile di revisione, qualora si fosse presentata un'esperienza non prevista. Il contraccolpo sull'epistemologia tradizionale fu notevole: data l'impossibilità di ridurre la teoria all'evidenza sensoriale, non v'era più alcun fondamento per la giustificazione della conoscenza. Come fa notare Laudisa, l'epistemologia quineiana «non [poteva] assolvere in linea di principio al proprio compito di giustificazione. Se vale questa conclusione, tanto vale […] abolire del tutto l'epistemologia e sostituirla con l'analisi dei processi psicologici che presiedono alla formazione delle credenze».
L'epistemologia naturalizzata proposta da Quine intendeva occuparsi proprio di questo: del processo che da uno stimolo sensoriale in input porta a una descrizione del mondo in output; il come si produce la conoscenza in un soggetto umano. Venuta meno la validità dell'analisi a priori, l'epistemologo non poteva far altro che ricorrere alla psicologia empirica e porsi in continuità con lo scienziato naturale, evitando con cura domini di verità sovra-naturali e concentrandosi su quelle stimolazioni sensoriali che, per l'uomo, sono l'unico canale d'informazione circa il mondo esterno.
Ora, non è sempre chiaro se le considerazioni di Quine avessero come fine ultimo la totale dissoluzione della filosofia nella scienza. Certo è che la riduzione dell'epistemologia alla psicologia empirica – o a una «branca dell'ingegneria» – e lo scarso interesse per la normatività hanno di fatto portato a concezioni estreme di naturalismo secondo una catena argomentativa particolare: se non dobbiamo occuparci dell'aspetto normativo, possiamo limitarci al descrittivo; se ci limitiamo all'aspetto descrittivo, non serve ricorrere a due discipline come la psicologia e l'epistemologia, ma possiamo accontentarci della prima; lo studio della psicologia deve appoggiarsi sulla neurobiologia, che in ultima istanza si fonda sulla fisica. Conclusione: un completo dominio della neurobiologia e della fisica porterà in linea di principio a risolvere tutti i misteri rispettivamente dell'umano e dell'universo. La 'filosofia prima' cede il posto alla 'scienza prima' e diventa sua ancella.



Il naturalismo scientifico contemporaneo

Secondo De Caro, il naturalismo contemporaneo si distingue per due tesi: una tesi costitutiva per cui la filosofia non può far ricorso a entità, proprietà, eventi o spiegazioni soprannaturali; e una tesi antifondazionale, per cui la filosofia non è prioritaria rispetto alle scienze naturali e non può permettersi di giudicare le loro teorie. Da queste due tesi, i naturalisti radicali derivano altrettanti corollari: 1) le scienze naturali offrono l'unica concezione vera di "natura" e 2) la ricerca filosofica deve porsi in continuità con la scienza. Detto in altri termini, se un filosofo accetta la tesi antifondazionale, accetta l'idea che la filosofia può parlare del mondo, a patto che svolga la sua indagine procedendo a posteriori come la scienza. Ma come opera, nei fatti, un naturalista scientifico?
Bisogna innanzitutto notare che se l'unica concezione vera di "natura" è quella delle scienze naturali, cose come valori e numeri possono mettere in difficoltà il naturalista, in quanto sono entità immateriali esterne al dominio di fisica e biologia. Uno scientista, tuttavia, non può ammettere che vi siano parti del reale che la scienza non è in grado di trattare, poiché la scienza naturale, per definizione, studia la totalità degli esseri viventi e delle cose inanimate. Quando difficoltà di questo tipo si presentano, il naturalista scientifico tende ad adottare un metodo preciso: riduzione, e se la riduzione non riesce, eliminazione. Un certo tipo di filosofia della mente offre esempi di riduzione quando prova a identificare gli stati mentali con l'attivazione delle aree cerebrali osservate in fMRI, o ancora quando prova a spiegare senso morale, emozioni e sentimenti nei termini di una maggiore o minore concentrazione di ormoni. La riduzione però non si ferma alla neurofisiologia e può procedere fino ad arrivare alle unità che compongono la materia stessa: particelle, onde, forze – questa è la versione più estrema di naturalismo e prende il nome di 'fisicalismo'. Infine, se l'entità problematica ha resistito a tutti i tentativi di riduzione, il naturalista la elimina dal vocabolario delle cose realmente esistenti, ritenendola al massimo «un'utile finzione».
Questo metodo d'indagine rivela le concezioni di "natura" e "scienza" che ne stanno alla base: a) l'universo è un insieme di particelle le quali si organizzano secondo leggi e raggiungono gradi di complessità crescenti; b) a ogni grado di complessità corrisponde una scienza che, in linea di principio, è riducibile al livello inferiore; c) le scienze nel loro complesso mirano a dare una descrizione esaustiva di tutti i fenomeni. È data così una netta separazione tra la descrizione dei fenomeni e la loro valutazione: l'attivazione dei neuroni, le reazioni chimiche, il moto dei corpi e quant'altro non sono giusti o sbagliati, veri o falsi, ma accadono semplicemente, e la missione umana è capire come funzionano. Se si accetta questa concezione, è impossibile pensare che in natura esistano norme e valori sui generis, cioè svincolati dalle leggi causali e dotati di caratteristiche peculiari.
Il rapido progresso che le scienze hanno conosciuto negli ultimi anni ha grandemente favorito un atteggiamento di riduzionismo radicale. Grazie alle continue scoperte e a strumenti d'indagine sempre più sofisticati, l'umanità ha ampliato la base di spiegazioni scientifiche a cui pensa di poter ridurre tutto lo scibile. Gli esaltanti sviluppi nei campi di fisica, chimica e biologia hanno dato vita a svariate branche dell'ingegneria, le quali a loro volta hanno prodotto risultati pubblicamente riconosciuti. E proprio l'entusiasmo per questi risultati è, secondo De Caro, il motivo principale per cui lo scientismo si è diffuso oggi in filosofia.









































Capitolo 2. Il concetto di "natura"



Secondo quanto riportato nell'enciclopedia Treccani, per "natura" s'intende il «sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate che presentano un ordine, realizzano dei tipi e si formano secondo leggi». Coerentemente con ciò, la "scienza" viene intesa come l'insieme delle discipline che studiano le leggi del mondo organico e inorganico secondo un metodo matematico-sperimentale. Ad essi si oppone il concetto di "soprannaturale", il quale denota tutto quello «che supera il corso ordinario della natura […]; o che trascende i limiti dell'esperienza e della conoscenza umana». Rientrano in quest'ultima categoria gli asserti di quella metafisica alla quale si opposero tanto i neopositivisti quanto Quine, mentre è forte la tendenza a far coincidere il dominio del naturale con quello delle cosiddette 'scienze dure'. Tuttavia, determinare l'estensione del concetto di natura si è rivelata un'impresa assai difficile e resta una delle questioni filosofiche più pressanti.
La varietà di posizioni in merito rispecchia la complessità di una problematica che di fatto si scompone in due domande: a) quali entità esistono? e b) quali, tra le entità esistenti, sono da considerare naturali? Per esempio, ammessa l'esistenza dei valori, non tutti sono disposti a considerarli naturali quanto piuttosto delle entità sui generis. O ancora, dicotomie come natura vs cultura o naturale vs artificiale ben evidenziano la varietà di domini che possono opporsi a quello del naturale.
A fronte di uno scientismo sempre più diffuso, in tempi recenti ha preso piede una concezione di naturalismo 'liberalizzato' che si propone di 'riportare in natura' quelle entità che paiono sfuggire ai vincoli degli scienziati. Ciò che i naturalisti liberali rifiutano è l'idea che l'unica ontologia ammissibile sia quella delle scienze dure, e per questo offrono una concezione di "natura" più ampia e accettano forme di pluralismo sia metodologico che ontologico. Al di là delle differenze tra le singole posizioni, le critiche mosse contro atteggiamenti riduzionistici ed eliminativisti si sono concentrate nel mostrare rispettivamente che a) molte riduzioni derivano da interpretazioni distorte degli esperimenti scientifici e b) l'eliminazione di certi concetti porta a un eccessivo impoverimento dell'ontologia. Infatti, se la scienza elimina i problemi (es. la normatività) anziché risolverli, dimostra di non avere i mezzi adeguati per analizzarli. Il che, detto in altri termini, significa non saper rendere conto di certi fenomeni.
La soluzione del naturalismo liberalizzato, dicevo, è quella di rendere più inclusivo il concetto di "natura" senza preoccuparsi della discontinuità presupposta al suo interno. Anzi, tale discontinuità sarebbe un'esigenza che ci si impone. Si consideri per esempio la necessità delle scienze umane e delle loro categorie: essa si mostra dal fatto che le scienze naturali non riescono a essere informative in tutti i campi. Abbiamo bisogno della politica e della sociologia, ma non riusciamo a fare politica con la fisica nucleare, come non siamo in gradi di fare sociologia con la neurobiologia. Nella formulazione di De Caro, il naturalismo liberalizzato:

Condivide la tesi antifondazionale
Rifiuta il ricorso a entità soprannaturali
Rifiuta la tesi per cui la filosofia deve adottare il metodo e l'ontologia delle scienze naturali, imponendo però alla filosofia di non contraddire le migliori teorie scientifiche

Alcuni critici hanno fatto notare che il naturalismo liberalizzato non sarebbe un vero e proprio naturalismo e non offrirebbe, di fatto, nuove soluzioni. La sensazione è che questa corrente si rapporti in modo ambiguo con le scienze naturali, proponendo un accordo formale per poi svincolarsi qualora l'accordo richieda un prezzo troppo alto. Per esempio, Nannini fa notare che se il naturalista liberale rifiuta il fisicalismo e ammette una retroazione causale del mentale sul fisico, allora difficilmente accetterà il principio di chiusura causale, e ciò equivarrebbe a rifiutare la termodinamica, cioè una delle teorie scientifiche oggi più consolidate. Inoltre il naturalismo liberalizzato accetta il realismo scientifico (esiste solo ciò che è oggetto di una conoscenza empirica metodologicamente seria) ma in una forma che può portare al relativismo, giacché il pluralismo epistemologico imporrebbe l'esistenza di «tanti 'mondi reali' quanti sono i livelli d'analisi empiricamente fondati». Calisi ritiene invece che includere nella natura i concetti eliminati dagli scientisti non sia che una manipolazione ad hoc, utile solo per «occupare un posto sotto l'ombrello protettivo del naturalismo». Secondo questi autori, dunque, il naturalismo liberalizzato non offrirebbe nuove soluzioni agli antichi problemi poiché presuppone, anziché dimostrare, l'esistenza e il carattere naturale di valori, norme, libertà, etc. Io ritengo che queste critiche siano in buona parte fondate ma, nonostante ciò, resto convinto del fatto che vi siano ottimi argomenti per criticare lo scientismo, e li esporrò nelle pagine seguenti.



Dupré e Stroud: le contraddizioni del fisicalismo.

La Mente e la Natura. Per un naturalismo liberalizzato è una recente curatela che offre un'analisi critica del naturalismo contemporaneo. Sebbene i contributi dei vari autori mostrino posizioni diversificate, l'intenzione dei curatori è proporre una via di mezzo tra lo scientismo e l'antinaturalismo. Uno dei bersagli polemici privilegiati è il naturalismo scientifico, spesso declinato nella versione estrema del fisicalismo e assunto a paradigma del naturalismo in generale. Non è un caso dunque che tra i primi saggi compaiano Stroud e Dupré, due tra i maggiori critici del fisicalismo.
Ne Il fascino del naturalismo Barry Stroud cerca di mostrare come un'ontologia ristretta come quella dei naturalisti scientifici non sia in grado di sostenere le loro stesse teorie. La sua argomentazione poggia su una dimostrazione per assurdo e procede come segue:

Il fisicalismo sostiene che esistono solo fatti fisici nel mondo
Ciò che non è fisico non è naturale
Non possiamo fare appello a entità che esulano dal naturale, siano esse stati psicologici, numeri o valori di verità
Gli scienziati acquisiscono conoscenza dagli esperimenti, formulano teorie in un linguaggio logico-matematico e offrono dimostrazioni

Conclusione: un fisicalista pretende che ciò che dice sia vero nonostante non dovrebbero esistere per lui né gli stati psicologici né uno spazio normativo; inoltre svolge le sue ricerche con l'ausilio di mezzi non naturali come i numeri e le regole logiche. Dunque il fisicalismo non ha i mezzi per giustificare la pratica scientifica.

Il paradosso, qui, è che la prima cosa a non essere naturalizzabile è la scienza stessa, proprio perché fa uso di quello che (almeno in linea di principio) elimina. Da ciò la contraddizione del naturalista il quale, trovandosi stretto in un mondo ridotto ai minimi termini, prova a far rientrare nel suo dominio le entità sfuggenti producendo però, secondo Stroud, una distorsione dei fatti che non risolve il problema.
Come Stroud, John Dupré adotta una posizione molto critica nei confronti del fisicalismo, arrivando persino a bollarlo come mito soprannaturale. Infatti, se il naturalismo contemporaneo si contraddistingue per l'antisoprannaturalismo, cioè per la «negazione dell'esistenza di entità che stanno al di là del corso normale della natura», allora il fisicalismo viola questo impegno. Lo viola in quanto sostiene la tesi del monismo ontologico, cioè ritiene che il mondo sia interamente composto da un'unica sostanza: le particelle che funzionano secondo leggi causali. Poiché le particelle compongono ogni cosa, il monismo fisicalista dà per scontato che le proprietà di tutti i fenomeni possano essere ridotte alle proprietà delle particelle elementari, e quindi che le scienze studino tutte la stessa cosa (unità di contenuto) attraverso un unico metodo (unità di metodo).
Dupré è però convinto che ricercare certe proprietà nella materia equivalga ad attribuirle poteri magici. Innanzitutto i tentativi di riduzione nel campo della filosofia della mente sono falliti, quindi non si è riusciti a spiegare i fenomeni mentali in termini neurofisiologici. Lo stesso vale per matematica, logica, normatività morale, sociologia e alcune patologie psicologiche (p.e. il disturbo dell'apprendimento). Questo significa che ci sono cose immateriali come gli atteggiamenti proposizionali, i valori e i concetti che non sono stati ricondotti nell'ambito delle leggi naturali. Tuttavia, siccome tali entità condizionano a livello pratico tanto la vita di tutti i giorni quanto la ricerca scientifica, l'uomo è costretto ad ammetterle nel suo inventario ontologico. In secondo luogo, l'esperienza dimostra che anche le scienze naturali trattano vari tipi di oggetti e vi si approcciano con metodi differenti. Il pluralismo ontologico e metodologico risulta un percorso obbligato, scrive Dupré, perché il livello organizzativo dell'oggetto di studio determina gli schemi di classificazione per tale oggetto: i modelli scientifici sono strumenti su misura per la porzione di reale in esame. Ciò implica che non è necessario che gli schemi dei livelli organizzativi più alti (es. biologia cellulare) debbano essere correlati a quelli dei livelli più bassi (es. fisica quantistica).
Alla luce di tutto questo, Dupré conclude che il monismo e l'unità della scienza sono ideali privi di base empirica. Mancano infatti prove affidabili per la riduzione dei concetti del vocabolario normativo, come mancano prove dirette dell'applicabilità delle leggi di una teoria di ordine inferiore alle teorie di ordine superiore. Tutti i fallimenti e le problematiche evidenziate suggeriscono che sebbene l'uomo sia un soggetto fisico, ciò non significa che lo studio delle proprietà delle particelle (parte) di cui è composto possa spiegare l'insieme dei suoi atteggiamenti (tutto). Credere una cosa del genere significa attribuire illegittimamente poteri soprannaturali a ciò che è fisico.



Atteggiamenti di larghe vedute

L'argomento forte delle critiche sopra esposte è che una concezione di "natura" ristretta si rivela rovinosa per lo stesso naturalista scientifico. Nell'ottica di Stroud e Dupré, un fisicalista non sarebbe legittimato a ritenere vere le sue affermazioni, non potrebbe utilizzare il linguaggio logico-matematico e non potrebbe portare alcuna prova empirica a favore delle sue tesi. Anzi, le tesi del monismo fisicalista contraddirebbero l'esperienza: le prove empiriche che abbiamo mostrano il fallimento delle riduzioni e il bisogno di quei concetti che, fallita la riduzione, vorrebbero essere eliminati.
A questo punto ci si potrebbe chiedere se con il rifiuto del monismo Dupré non abbia riaperto la strada a una qualche forma di dualismo, un dualismo che si esplicita nella distinzione sellarsiana tra 'spazio logico delle ragioni' e 'spazio logico della natura'. Con il primo concetto Sellars intendeva il piano in cui «si giustifica e si è in grado di giustificare ciò che si dice», mentre con il secondo denotava il regno delle leggi scientifiche. Sellars pensava inoltre che i fatti epistemici non fossero riducibili a fatti fisiologici: sussumere i primi sotto le leggi dei secondi è una fallacia naturalistica.
McDowell, intuendo la problematicità di questa dualità, la riprende per sviluppare alcune considerazioni sul concetto di "natura":

Se concepiamo la natura in maniera tale che delineare il carattere naturale di qualcosa sia in contrapposizione con il collocarlo nello spazio logico delle ragioni, non possiamo più accettare tranquillamente l'idea che le facoltà impiegate nell'acquisizione della conoscenza facciano parte delle nostre dotazioni naturali. Conoscere, in quanto è un caso del trovarsi in una condizione normativa, non si può più concepire come fenomeno naturale.

Secondo McDowell, la formulazione di Sellars consente di interpretare la conoscenza come un fenomeno soprannaturale, quindi uno studioso che volesse ancora dirsi naturalista dovrebbe offrire degli argomenti per non ricadere nell'insanabile contrapposizione tra razionalità e natura. McDowell supera questa aporia tramite uno 'slittamento concettuale' per cui tutto ciò che è studiato dalle scienze naturali è solo una parte della natura, e non la sua totalità: «[…] la moderna rivoluzione scientifica ha fatto chiarezza a proposito del regno della legge, [ma] il risultato di quest'opera non coincide con la chiarezza a proposito della natura». L'apparato culturale, per esempio, è il prodotto acquisito dall'uomo in virtù della sua razionalità: l'espressione di una seconda natura che si muove nello spazio logico delle ragioni senza per questo confliggere con il regno della legge. L'uno non nega l'altro, ma vi coesiste. Ciò che si ricerca è piuttosto una pluralità di mezzi e metodi che permetta di descrivere la grande varietà intrinseca di quell'unico insieme che è la natura: che i pianeti orbitino secondo la legge di gravitazione universale e che l'uomo abbia eventi mentali è l'espressione di questa varietà; che la fisica non riesca a studiare i valori mentre la filosofia sì non è un punto a sfavore della filosofia, ma piuttosto la prova che le due discipline hanno sviluppato strumenti diversi per oggetti diversi.
In generale, il naturalismo liberalizzato desidera contraddistinguersi per un atteggiamento di larghe vedute per cui «dobbiamo accettare come vero tutto ciò che dobbiamo accettare affinché si possa dare un senso a tutto quello che sia parte del mondo». Quello che mi chiedo però è quanto questa mossa possa dirsi 'naturalista' e lo stesso Stroud non sembra preoccuparsi molto di questo termine. Per lui essere naturalisti non è altro che un'etichetta alla moda per ostentare il rifiuto di divinità, anime, fluidi vitali e geni maligni. Nannini, che su questa posizione è molto critico, non esita a dire che il principio citato sia insoddisfacente: «se anche tutto ciò che è oggetto delle scienze umane e sociali, della storia e persino dell'arte è natura, incluso ad esempio il libero arbitrio, le norme e i valori, allora tutto è natura!».
Se da un lato abbiamo un problema concettuale di fondo (tracciare i contorni della "natura"), dall'altro persiste il fatto della molteplicità del reale non ancora ricondotta a unità (e per alcuni mai riconducibile). Da un lato il naturalismo liberalizzato non può limitarsi ad ammettere cose come norme, valori o stati intenzionali, poiché deve dimostrare la verità della loro esistenza e l'impossibilità della loro riduzione. Dall'altro lato il naturalismo scientifico non sarà legittimato fintanto che mancherà di una riduzione completa delle entità problematiche.





Etica naturalizzata e normatività

In virtù della sua tendenza totalizzante, lo scientismo ha avuto modo di infiltrarsi in un altro dei campi ritenuti dominio privilegiato della filosofia, ovvero l'etica. Alla nuova concezione della natura (offerta dalla teoria darwiniana prima, dalla biologia e dalle neuroscienze poi) è seguito un tipo di naturalismo controverso che molto si discosta dalle concezioni antiche e medievali.
Ben lungi dall'essere un'invenzione della modernità, infatti, l'appello alla natura ha da sempre rappresentato uno dei maggiori criteri su cui impostare la riflessione etica e si è presentato sotto svariate forme. Aristotele, per esempio, innestava la sua etica della virtù su una concezione teleologica dell'universo per la quale tutte le cose tendevano al Bene. Ma anche l'edonismo epicureo rientrava nel novero delle etiche naturalistiche, in quanto fondato sul perseguimento dei bisogni naturali e necessari dell'uomo, ovvero quei bisogni limitati la cui completa soddisfazione condurrebbe verso l'assenza di dolore. O ancora, la concezione cattolico-tomista faceva appello alla natura creata per spiegare come l'uomo, parte del progetto divino, fosse in grado di cogliere la legge divina in vista della beatitudine eterna.
In generale, le etiche che si appellano alla natura ricercano in quest'ultima la fonte della normatività. Concepita come principio dato indipendentemente dalla cultura umana, la natura assume infatti un carattere di universalità e oggettività che ben si accorda con le pretese di universalità e oggettività delle teorie morali, o almeno di buona parte di esse. Il primo problema però è quello di comprendere se davvero la natura possa essere fonte di normatività. In altre parole, il dilemma è se da una descrizione del mondo – un fatto – si possa derivare un valore che orienti l'azione dell'agente morale. Prima che Moore tacciasse questa pretesa come una fallacia naturalistica, già Hume aveva notato come il collegare l'essere al dover essere fosse un nuovo tipo di relazione, e non una deduzione. Il XX secolo vide poi nell'open-question argument uno degli scogli più duri per il naturalismo: dato X, e data la proprietà fattuale Y, le domande "X ha Y, ma ha Y?" e "X ha Y, ma è buono?" sono radicalmente differenti. La prima è una tautologia, la seconda una domanda aperta e non banale che impedisce la deduzione di prescrizioni da premesse di carattere descrittivo.
Ora, bisogna precisare che l'obiettivo polemico di Moore era il naturalismo nella forma per cui esistevano fatti morali (realismo) che non godevano di alcuna proprietà particolare rispetto ai fatti naturali (naturalismo). Vi rientravano evoluzionismo, edonismo, egoismo e utilitarismo, i quali commettevano tutti l'errore di equiparare il bene a un oggetto naturale. Per Moore invece il predicato "buono" era una nozione semplice, pertanto indefinibile, e il bene poteva essere colto solo attraverso un'intuizione (realismo anti-naturalistico). Diversa era la posizione di Hume, il quale non intendeva proporre un'etica anti-naturalistica, ma caratterizzare attraverso lo studio della psicologia e del comportamento umano quell'«insieme di passioni, di desideri e di istinti, attraverso i quali si esprimono la conoscenza e l'esperienza morale». Secondo lo Scozzese erano infatti le emozioni a stabilire cosa fosse buono (non-cognitivismo), mentre i sentimenti simpatetici facevano sì che gli uomini s'interessassero emotivamente della sorte altrui.
Ma cosa c'entra questa digressione con lo scientismo a cui accennavo all'inizio? C'entra, perché per quanto le descrizioni del mondo e dell'uomo si siano raffinate, le etiche naturalistiche mantengono tuttora un rapporto assai problematico con la normatività. Infatti, se da un lato le nuove scoperte hanno fornito numerosi spunti a livello di metaetica, dall'altro continuano a faticare nel dare una giustificazione al nostro agire morale. Detto altrimenti, il naturalismo può forse spiegare come funzionano emozioni e ragionamenti morali, come si sono sviluppati, ma non offre una guida per l'azione. Eccone alcuni esempi.

(I) Evoluzionismo. L'avvento della teoria della selezione naturale ha portato a un cambio di paradigma con importanti ripercussioni sulla caratterizzazione della moralità. Il duplice rifiuto della concezione teleologica e della fissità della natura umana condusse Darwin, e molti dei suoi allievi, a ritenere che il fenomeno della moralità fosse stato selezionato nella specie uomo per migliorarne la sopravvivenza. Con ciò era dato anche il 'moralmente buono', in qualche modo già presente nei meccanismi di selezione. La teoria evoluzionistica è oggi un punto saldo per chiunque si approcci allo studio naturalistico dell'uomo, sebbene la scarsità di fonti riguardanti la nostra preistoria impedisca di ricostruire una genealogia della morale a partire dai primi ominidi. Oggi la nuova immagine della natura umana ha reso imprescindibile lo studio dei cosiddetti precursori della morale: l'agente morale non è più visto come partecipe di un progetto divino né di una legge noumenica, quanto piuttosto come un essere che innesta le sue abilità su dotazioni biologiche reattive all'ambiente. Tale fatto può essere interpretato più o meno radicalmente. Il naturalismo estremo ha gioco facile nell'utilizzare la teoria evolutiva per sostenere la riduzione o l'eliminazione dei valori, appiattendo tutto su un comportamento determinato da leggi naturali per cui non esiste un bene in sé da perseguire. Un naturalismo moderato invece accetta che la costituzione biologica sia condizione di possibilità delle nostre capacità morali e ponga loro alcuni vincoli, senza per questo negare dignità alla riflessione filosofica in etica. Infatti, anche se si identificasse il bene con ciò che verrebbe premiato dalla selezione naturale, non si darebbe affatto una risposta alla domanda aperta di Moore. Anzi, stando a Pollo si commetterebbe una fallacia naturalistica dai risvolti inquietanti: tenendo conto solo di ciò che è funzionale alla sopravvivenza, «cadrebbero l'affermazione del valore morale dell'uguaglianza, la proclamazione di diritti umani basilari, la protezione degli esseri umani disabili, e si rivaluterebbero pratiche come la violenza sessuale sulle donne o la guerra».


(II) Grammatiche morali e marcatori somatici. Una volta impostosi il paradigma evoluzionistico, è stato inevitabile che gli studiosi cercassero di localizzare le sedi dei precursori morali. Già il padre della frenologia classica, F.J. Gall (1758-1828), aveva tentato la localizzazione delle funzioni psichiche a seconda della conformazione del cranio, individuando nell'area 24 il ricettacolo di bontà, senso di giustizia, senso morale e coscienza. All'inattendibilità scientifica di tali ricerche è sopravvissuto lo spirito che vorrebbe sancire l'identità tra aree cerebrali e funzioni, nonostante l'attività altamente distribuita del cervello renda ostica una localizzazione precisa. Nel suo Menti Morali, M.D. Hauser parte dalla filosofia e dalla psicologia dello sviluppo per delineare quella che chiama 'grammatica morale universale'. Essa consisterebbe in un set di principi morali selezionati dall'evoluzione che fondano e vincolano i sistemi morali umani. Tali principi sarebbero 1) il principio del doppio effetto, 2) il principio della proibizione del contatto intenzionale, 3) la maggior gravità dell'azione dannosa rispetto all'omissione e 4) il desiderio di punire chi inganna o non aiuta il gruppo. Il cervello applicherebbe queste regole in automatico ogni volta che compiamo un calcolo morale, precedendo tanto il ragionamento quanto le emozioni. Essendo un sistema innato, esso è comune a tutta l'umanità e vincola i fondamenti dell'etica, sebbene presenti dei margini di flessibilità su cui ogni cultura formula poi il proprio modello. Usufruendo delle neuroimmagini e dei dati della neuropsicologia, Hauser ipotizza inoltre che l'organo morale risieda approssimativamente nella connessione tra lobi frontali e amigdala. In relazione a ciò, Greene e Damasio hanno mostrato come pazienti con danni alla corteccia prefrontale ventromediale e al circuito orbitofrontale presentino un'alterazione nella capacità di giudicare e agire moralmente. Un danno alla vmPFC comprometterebbe l'elaborazione emotiva e con essa i giudizi deontologici, inclinando il paziente verso un utilitarismo radicale. L'orbitofrontale in particolare sarebbe la sede del famoso 'marcatore somatico', cioè di quel meccanismo che connette i processi fisiologici scatenati da un'emozione (attivazione del sistema vegetativo) in relazione a un'esperienza. Per esempio, i pazienti orbitofrontali non presentano un aumento della sudorazione alla vista di immagini raccapriccianti; presentano invece una normale capacità di ragionamento morale ma non sono in grado di agire coerentemente con essa. Presi nel complesso, questi studi confermano la stretta interrelazione mente-corpo e offrono rivoluzionarie spiegazioni circa le nostre capacità di giudizio morale. Si rimane sempre però in un ambito descrittivo dal quale pare difficile ricavare qualche indicazione normativa. Greene ci prova sancendo la superiorità del consequenzialismo sulle etiche deontologiche in base a una distinzione di meccanismi: quello governato dalla corteccia prefrontale dorsolaterale – collegato ai giudizi utilitaristici – sarebbe infatti più affidabile di quello della vmPFC – residuo vestigiale obsoleto e viziato dall'instabilità emotiva. Tuttavia, come fa notare Marraffa, questo ragionamento incorre in una grave fallacia naturalistica, senza considerare che gli studi di neuroanatomia sembrano indebolire il modello antagonistico di emozione e cognizione, in favore di una concezione integrazionista.

(III) Ormoni e cura degli altri. A partire dalla critica dei modelli innatisti e geneticamente determinati, Patricia Churchland sviluppa in Neurobiologia della Morale un teoria più dinamica rispetto a Hauser. Secondo Churchland infatti non esiste una grammatica morale indipendente dall'ambiente e dall'educazione, perché le regole morali sono la risposta a certe condizioni ambientali e sociali. Più che i geni, la cui mutazione naturale richiede tempi lunghi, sono invece apprendimento e cultura i veri veicoli della moralità. Precisato ciò, Churchland ritiene che gli studi scientifici possano dire molto circa le condizioni di possibilità della moralità, la quale è fondata su processi cerebrali e può essere schematizzata in quattro punti: 1) cura del sé e della prole estesa oltre i consanguinei, 2) teoria della mente con valenza predittiva, 3) capacità di risolvere problemi sociali e 4) apprendimento delle pratiche tramite imitazione, rinforzo positivo, condizionamento, etc. La tesi, insomma, è che la moralità si fondi sulla neurobiologia della socialità: il cervello umano si sarebbe evoluto in maniera tale da estendere il valore – se così si può chiamare – dell'autoconservazione agli altri. A partire dalla sofferenza per il distacco dalla prole, l'emozione del dolore si sarebbe trasformata affinché comprendessimo e ci interessassimo del dolore altrui. Questo fenomeno sarebbe mediato, a livello neurobiologico, dal rilascio di particolari ormoni neurotrasmettitori (ossitocina e vasopressina), i quali sono in grado di modulare la risposta empatica, il comportamento altruistico e i meccanismi punizione/ricompensa. L'ossitocina, per esempio, inibisce i comportamenti di difesa e rilascia oppiacei endogeni che rendono piacevole la cooperazione. Collaborazione, affabilità, prevedibilità si connettono così a emozioni positive perché funzionali all'autoconservazione; viceversa bellicosità, volubilità ed egoismo generano sentimenti negativi. Sono poi la storia di vita e i condizionamenti dell'ambiente sociale a imporre sistemi di regole che si trasmettono per apprendimento e imitazione. L'impatto che una mutazione genetica può avere non riguarda tanto la presenza o meno di precetti innati, quanto le disfunzioni nel controllo ormonale tali da alterare il comportamento sociale e la personalità. Ad ogni modo, anche nel caso di Churchland non si possono trovare indicazioni utili per l'etica normativa, ma è l'autrice stessa a precisare che la sua analisi si limita allo studio delle condizioni di possibilità della morale.

Il quadro che emerge dai casi riportati rappresenta l'uomo come un animale (più o meno) 'programmato' dalle circostanze, dai geni e dalle reti cerebrali. La domanda da porre è se l'esistenza di una tale programmazione possa essere utilizzata per naturalizzare l'etica e la normatività. L'obiezione di Moore sembra avere qui ancora molta forza, poiché dal fatto che abbiamo certe inclinazioni non segue che queste siano necessariamente buone, né avrebbero l'autorità per indirizzare le nostre azioni. In una parola, la normatività che vige nel mondo naturale (le leggi causali) ha uno statuto ben diverso dalla normatività morale e non pare contenerla al suo interno. D'altronde, come si potrebbero applicare i concetti di "corretto" e "scorretto" a qualcosa come la legge di gravitazione universale? E come potremmo derivare valori morali dalla struttura nomologica della natura, se questa non fa alcun riferimento a giusto e sbagliato? Anche in questo caso il naturalismo può offrire due soluzioni: dimostrare l'esistenza di una normatività morale naturale o eliminare in toto i concetti normativi. La seconda via è percorsa da coloro i quali ritengono che cose come mente, libero arbitrio e coscienza non siano altro che illusioni, e la normatività non farebbe eccezione. Una visione di questo tipo però, oltre a essere controintuitiva, presta il fianco alle precedenti obiezioni di Dupré e Stroud.
























Capitolo 3. Atteggiamenti lombrosiani e crisi disciplinari



Ridurre la mente al cervello è la grande sfida della scienza contemporanea, una sfida che mette in questione tutte le nostre credenze sulla natura umana. Come si è visto nelle pagine precedenti, incastonare la struttura poliedrica dell'umano nelle rigide leggi delle scienze naturali porta a problemi concettuali di difficile soluzione. Tuttavia, ben lungi dall'essere relegati alla disputa filosofica, questi problemi hanno importanti ripercussioni anche nel mondo scientifico e in quello giuridico-politico, perché l'ideologia scientista pare si stia rivelando un ostacolo per la ricerca stessa. Il problema di fondo resta quello evidenziato da Stroud e Dupré: un'ontologia povera porta a una eccessiva semplificazione dei fenomeni, e la semplificazione dei fenomeni complica la gestione dei fenomeni stessi. Lo scontro che fino a pochi anni fa opponeva psicologia e psichiatria sulle modalità di cura delle patologie mentali ne è un esempio. Ancora oggi v'è forte disaccordo sul come definire stati patologici come il disturbo dell'apprendimento, la schizofrenia o la psicopatia, se considerarle o meno malattie dovute al malfunzionamento degli organi e curarle di conseguenza. Attualmente, nemmeno i dati delle neuroscienze si sono rilevati determinanti per chiudere questo tipo di questioni e numerose ipotesi sono al vaglio nei laboratori sperimentali. Al problema medico si associa poi quello giuridico, poiché il diritto contempla l'infermità mentale (parziale o totale) nello stabilire la condannabilità dell'imputato e l'entità della pena. Qui il problema è quello di una definizione, il "vizio di mente", che pur nella sua semplice formulazione risente delle continue e contrastanti interpretazioni della natura delle facoltà cognitive. È chiaro allora che una disputa non risolta a monte (es. se la psicopatia sia determinata da anomalie fisiologiche) rischia di ripercuotersi sulla giustizia delle sentenze e, in ultima istanza, sulla vita del cittadino.
Il recente ingresso delle neuroscienze nelle aule dei tribunali ha suscitato una grande preoccupazione: quella che si moltiplichino i casi di assoluzione invocando alterazioni anatomiche e funzionali del cervello. Si teme cioè un uso deresponsabilizzante delle neuroscienze, il quale rimanda a una concezione deterministica dell'agire umano. Come mostrerò più avanti, è di fondamentale importanza distinguere i dati acquisiti dalla neuropsicologia dagli studi ancora a uno stadio congetturale. Nelle pagine che seguono focalizzerò l'attenzione sul modo in cui il pensiero naturalistico ha influenzato la ricerca scientifica e sul dibattito attuale circa l'utilizzo giuridico delle neuroscienze. D'ora in avanti la mia analisi del naturalismo sarà sempre più concentrata sulle sue implicazioni in etica: ripercorrere i tentativi di riduzione della mente al cervello mi sarà utile per introdurre il concetto di responsabilità e la successiva analisi del libero arbitrio, due nozioni che il naturalismo scientifico tende a bandire dal proprio vocabolario.



3.1 La frenologia tra scienza e pseudoscienza

L'abiura di Galileo e la mancata pubblicazione del Le Monde di Cartesio sono alcuni esempi che dimostrano come la Rivoluzione Scientifica sia avvenuta in un ambiente dominato dall'autorità religiosa. Strette nelle maglie della Scolastica, tanto la ricerca sperimentale quanto la speculazione filosofica furono ostacolate nel loro sviluppo e nessuno avrebbe mai pensato, almeno non pubblicamente, di materializzare qualcosa come l'anima. Ma agli inizi dell'800 molto era cambiato: la Rivoluzione Industriale aveva dimostrato la potenza della tecnica e la metafisica aveva subito la critica degli illuministi. Qui il Positivismo trovò il suo humus e si cominciò a diffondere l'idea che la scienza fosse l'unica fonte di certezza assoluta – l'ideale del naturalismo scientifico.
La nascita della frenologia (dal greco "phren" = "mente") inaugurò lo studio empirico di ciò che fino a pochi decenni prima era considerato il dominio indiscusso di religione e filosofia. Il suo fondatore, F.J. Gall, nacque a Vienna nel 1758 e si laureò in medicina nel 1785, ma dedicò la maggior parte del tempo alla ricerca. A condizionare il suo interesse per la neuroanatomia furono soprattutto due fattori: l'intuizione giovanile di una possibile correlazione tra occhi sporgenti e capacità mnemoniche, e la lettura dei testi di von Herder. Sin da bambino Gall aveva infatti notato che le persone con una migliore memoria presentavano una caratteristica fisionomica particolare, pertanto pensò che vi fosse una correlazione materiale tra organo e facoltà. Un'idea di questo tipo però si scontrava con il pensiero tradizionale e non avrebbe trovato seguito se non fosse stato per von Herder che, nei suoi testi, già paventava la possibilità di una scienza empirica dell'anima a partire dalle sue manifestazioni materiali. Una volta conclusi gli studi, Gall ebbe modo di frequentare prigioni e manicomi, fece dissezioni post mortem e cominciò a collezionare teschi. Egli fondò una nuova disciplina, l'organologia, e la strutturò secondo questi criteri: 1) la scienza naturale gode di autorità epistemologica su religione e tradizione; 2) ogni facoltà ha un organo dedicato, il cervello non lavora in maniera olistica; 3) la forza dell'organo dipende dalla sua dimensione, quindi il cranio viene modellato a seconda della forza delle aree cerebrali; 4) lo studio della neuroanatomia si integra con quello scientifico di psicologia e dimostra che il criminale è in realtà un malato.
Ripreso dall'imperatore con l'accusa di compiere studi a favore dell'ateismo e del materialismo, nel 1801 Gall dovette espatriare e proseguire le sue ricerche in Francia. Qui, assieme al suo allievo Spurzheim pubblicò nel 1810 Anatomie et physiologie du système nerveux en general, et du cerveau en particulier, avec des observations sur la possibilite de reconnautre plusieurs dispositions intellectuelles et morales de l'homme el des animaux par la configuration de leurs têtes, nel quale individuava le 27 aree sede delle relative funzioni innate (fig.1):

Figura 1

Per quanto questa localizzazione si sarebbe rivelata scorretta, essa rappresentava un primo tentativo di rendere conto delle funzioni del cervello, individuando in esso il medium materiale dell'anima. Inoltre la ricerca, anziché conformarsi ai dettami della Bibbia o della tradizione filosofica, era stata condotta su base empirica (dissezioni, collezioni di teschi, analisi del comportamento) e per questo si presentava come autorevole. Le conclusioni ampiamente congetturali e la mancanza di strumenti adeguati avrebbero portato alla decadenza di questo modello solo alla fine del secolo.
Nel mentre la disciplina prese piede in tutto il mondo occidentale per opera di Spurzheim il quale, animato dal desiderio di fama e denaro, riadattò il sistema del maestro e lo presentò in numerose conferenze sia in Gran Bretagna che in America. Al contrario di Gall, Spurzheim riteneva che ogni organo avesse più funzioni e che non esistessero funzioni intrinsecamente cattive (es. l'omicidio): ogni funzione era utile per qualcosa e il male rappresentava solo una devianza. Inoltre, mentre Gall pensava che le attitudini individuali fossero rigidamente determinate, l'allievo tendeva ancora a subordinare gli organi alla volontà, negando dunque la necessitazione biologica del comportamento. Divergenze a parte, la frenologia si fece largo nelle comunità scientifiche e furono fondate numerose società frenologiche. Nel contempo però la disciplina stava caratterizzandosi sempre più come una pseudoscienza, poiché molti dei suoi promulgatori non avevano il retroterra medico di Gall. Per esempio George Combe, fondatore nel 1820 della Phrenological Society a Edimburgo, era un giurista che pensava la frenologia come disciplina atta a eliminare la sofferenza umana. Ma non erano medici nemmeno i fratelli Fowler, grandi promulgatori della frenologia negli USA ed editori di un manuale grazie a cui il lettore poteva studiare la propria mente per scoprirne talenti e difetti.
Stando a Ford, il successo della frenologia negli ambienti anglosassoni rispecchiò alcuni cambiamenti politici e culturali dell'epoca. Innanzitutto l'espansione degli istituti penitenziari poneva l'urgenza di stabilire cosa fosse il crimine e quali punizioni infliggere: se il crimine era una malattia biologica, il reo non poteva essere ritenuto responsabile e quindi non avrebbe avuto senso punirlo. Nell'ambiente americano, invece, l'individualismo liberale accolse di buon grado l'idea che tramite la frenologia l'uomo potesse perfezionare se stesso e raggiungere la felicità. Inoltre gli studi frenologici, indipendentemente dalla loro validità, rappresentavano un utile strumento per conferire ulteriore 'scientificità' alle teorie della razza superiore, già molto in voga nell'800.
Va detto comunque che la frenologia non ebbe solo effetti negativi. Essa infatti fu il preludio alla moderna neuropsicologia, cioè quella disciplina che, grazie alle nuove tecnologie, ha permesso realmente di localizzare alcune funzioni cerebrali. Nella seconda metà dell'800 Broca e Wernicke scoprirono delle lesioni che portavano afasia, mentre tramite stimolazione elettrica corticale Ferrier fu in grado di tracciare le prime mappe corticali (1873-1875). Negli anni '50 del '900, Penfield e Woosley scoprirono i famosi homuncoli, cioè le rappresentazioni sensorimotorie del corpo nelle aree motoria primaria, somatica primaria e motoria supplementare. Questo per dire che, una volta diventata scientifica, la frenologia ha davvero visto la conferma di alcuni dei suoi assunti. Quello che ancora manca, ammesso che sia possibile farlo, è una localizzazione completa ed esaustiva delle facoltà umane, complicata dal fatto che più la funzione è di ordine superiore, più è distribuita e non circoscrivibile a una sola area.



3.2 Il criminale nato

Nonostante le feroci opposizioni della Chiesa, a partire dalla metà dell'800 lo spirito naturalistico si consolidò nel movimento del Positivismo. Le scienze naturali godevano ormai di una forte autorità e promettevano un completo dominio della natura umana. La seconda metà dell'800 fu inoltre l'epoca in cui emerse il problema dell'imputabilità come istituzione del diritto, cioè della responsabilità personale di un atto criminoso in aggiunta alla valutazione della sua materialità. In Italia, il Codice Zanardelli del 1889 istituì le due nozioni cardine del diritto moderno, ovvero quelle di "libertà dei propri atti" e "infermità mentale". Col primo si dava il criterio della responsabilità penale secondo cui l'individuo rispondeva solo dei crimini commessi volontariamente; col secondo si segnava l'ingresso della psichiatria nel diritto e si definiva la figura del perito come strumento garante di oggettività scientifica. All'interno di questo clima, Lombroso fondò l'antropologia criminale e, sebbene non fosse un giurista, diede vita alla Scuola Positiva del diritto penale. In questo paragrafo riassumerò brevemente lo sviluppo delle sue ricerche e l'acceso dibattito attorno al tema del libero arbitrio.
Una prima cosa da precisare è che Lombroso non fu un frenologo, sebbene avesse letto Gall, ma un medico criminologo. I suoi studi si proposero come un'analisi sperimentale del crimine che non considerava solo la conformazione del cranio del delinquente, ma anche le caratteristiche del gergo, dei manufatti e delle abitudini (p.e. il tatuarsi). L'obiettivo era quello di classificare la devianza in tutte le sue forme, affinché da un quadro completo dell'anormale si potesse approssimare un concetto di "norma". Lombroso arrivò così a una spiegazione multifattoriale del crimine che, nella sua forma finale, includeva tre elementi: atavismo, follia morale ed epilessia.
Il modello lombrosiano conobbe numerose modifiche e integrazioni nel corso della carriera, dovute anche alla singolarità dei casi che di volta in volta si presentavano. Il primo fu quello del Villella, contadino calabrese sospettato di brigantaggio, nel quale Lombroso scoprì la famosa fossetta occipitale, cioè la 'prova' scientifica che alle aberrazioni del senso morale e della psiche corrispondevano anomalie del corpo e del cranio. Tale malformazione era dovuta, secondo Lombroso, a un processo involutivo che si poteva riscontrare anche in altri tratti del corpo (es. prognatismo, zigomi pronunciati, microcefalia, naso torto, sproporzioni nella lunghezza degli arti etc.) e spiegava l'incapacità dell'individuo di adattarsi alla società. L'atavismo non era altro che questo: la provata correlazione tra i crimini più efferati e le sembianze primitive dei colpevoli.
Tuttavia il caso Verzeni, contadino bergamasco che tra il 1870 e il 1871 violentò e squartò il corpo di due donne, rappresentò un controfattuale importante. Verzeni infatti non presentava anomalie fisiche che potessero giustificare la ferocia dei suoi omicidi e l'insania delle sue pulsioni. In quel frangente Lombroso si vide costretto a integrare l'atavismo con la follia morale, cioè con un supposto malfunzionamento nella conduzione nervosa che si esprimeva in istinti animaleschi. Questa nuova 'scoperta' fu ulteriormente sviluppata a partire dal caso Misdea del 1884, nel quale la causa della follia venne fatta coincidere con un tipo particolare di epilessia priva dei tratti che comunemente le si associano (es. convulsioni). Il criminale epilettico poteva presentare semplici mal di testa, vertigini, prontezza di riflessi, fugaci perdite di memoria e coscienza, poteva cioè passare inosservato anche per lungo tempo prima che la patologia si manifestasse in un reato. Tuttavia la comunità scientifica dell'epoca contestò aspramente questa tesi la quale, in realtà, minava l'atavismo anziché confermarlo. Già di per sé il caso Verzeni dimostrava che la correlazione tra crimine e anomalie anatomiche non era necessaria; ma nemmeno la correlazione tra follia morale ed epilessia pareva scientificamente fondata. Lombroso riscontrò somiglianze nei crani degli epilettici, più alcune somiglianze della loro corteccia con quella di vertebrati inferiori, ma al Congresso Internazionale di Antropologia Criminale del 1889 ricevette critiche pressoché unanimi.
Sul versante giuridico invece, nel 1902 i periti Morselli e De Sanctis sostennero, in merito al caso Musolino, che «l'essere epilettico non comporta automaticamente l'impossibilità di rispondere dei propri reati di fronte alla legge poiché non ogni atto abnorme contrario alle leggi sociali è necessariamente un "prodotto della nevrosi"». Ciò andava contro il determinismo della Scuola Positiva secondo cui il crimine e il criminale erano una sventurata produzione naturale. Stando a Lombroso, non aveva senso infliggere punizioni severe ai condannati, perché sarebbero state nel contempo inutili e ingiuste: ripensare il diritto su base empirica implicava piuttosto una mitigazione delle pene e il miglioramento delle condizioni carcerarie, riservando la pena di morte ai criminali più pericolosi e irrecuperabili. Detto in sintesi, l'antropologia criminale voleva imporsi sul diritto e dimostrare che siccome a) l'uomo non può decidere della propria dotazione biologica, b) la quale predetermina il comportamento, c) i soggetti vittima di anomalie (i criminali nati) non possono essere ritenuti responsabili: vendetta e retributivismo dovevano cedere il posto a «cura e sequestro».
La questione divise il panorama accademico, e le critiche furono sempre aspre. Alla Scuola Positiva si oppose la cosiddetta Scuola Classica del diritto penale, che definì il suo bersaglio come una «"scuola d'immoralità", la quale grazie alla dicotomia normale/anormale annulla ogni valore e rende impossibile una concezione etica della pena […]». Le obiezioni si concentrarono soprattutto su quell'empirismo semplicista che, privo di prove incontrovertibili, mirava a creare una nuova metafisica sotto l'insegna del Positivismo. Per uscire da questa impasse nacque, a inizio '900, la Terza Scuola di Bernardino Alimena, il quale si sforzò di conciliare determinismo e imputabilità distinguendo tra libertà di fare (assenza di ostacoli all'azione) e libertà di volere. Da determinista qual era, Alimena pensava che l'uomo non avesse libertà di volere ma esercitasse comunque un controllo sulle proprie azioni (la libertà di fare) per il quale poteva essere imputabile. In un quadro del genere lo scopo principale della punizione non poteva essere che quello di modificare il comportamento degli individui, cioè di avere un potere deterrente efficace sulla libertà di fare. Nei casi in cui tale potere risultava inefficace (p.e. per colpa di malattie che inducevano comportamenti stereotipati e irrefrenabili) la punizione non aveva diritto di essere applicata se non nella forma del contenimento cautelativo. La parte critica di questo naturalismo stava quindi nel rifiuto dei tipi criminali antropologici, che veniva invece sostituito dall'indagine sociopsicologica dell'efficacia della pena.
Ciò comunque non risparmiò numerose obiezioni alla Terza Scuola, la quale dovette fronteggiare un panorama dominato dal neoidealismo e fu pertanto incapace d'imporsi. Negli anni seguenti, tuttavia, con l'introduzione delle le nozioni di "infermità mentale", prima, e "vizio di mente", poi, avrebbe preso piede la convinzione che l'istituto dell'imputabilità non potesse prescindere dallo studio delle sue condizioni materiali, come dimostrava la sempre più frequente convocazione dei periti in sede giudiziaria.



3.3 La crisi della psichiatria e l'autorità delle neuroscienze

Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo l'interesse per la correlazione comportamento/cervello segnò un primo scisma tra neurologia e psichiatria. Con la nascita della psicoanalisi, infatti, mutò il tipo di approccio alle patologie mentali e, almeno fino alla metà degli anni '50, gli psichiatri dettero scarsa rilevanza ai determinanti biologici dei disturbi psichici. Sull'altro versante, invece, neurologi e neurochirurghi non avevano abbandonato l'idea di localizzare le funzioni cerebrali e stavano sperimentando tecniche sempre più invasive per curare i disturbi mentali.
Nel 1888 lo svizzero Burckhardt eseguì il primo intervento di psicochirurgia sottoponendo a topectomia (l'escissione di una limitata porzione di corteccia) sei pazienti affetti da schizofrenia. Il decorso postoperatorio contò tre successi e un decesso, ma tanto la pratica quanto la valutazione dei suoi effetti fu assai approssimativa. Nonostante ciò, la tecnica parve promettente e la sperimentazione continuò. Nel 1935 i portoghesi E. Moniz e A. Lima misero a punto la leucotomia prefrontale, che consisteva nel trapanare il cranio in vari punti per poi distruggere le fibre nervose con iniezioni di etanolo, precisamente tra talamo e lobi frontali. A ispirarli era stato uno studio di Jacobsen e Fulton che mostrava come l'ablazione dei lobi frontali negli scimpanzé rendesse l'animale molto docile, ma anche in questo caso i risultati furono più propagandati che reali, con pazienti che spesso manifestavano modificazioni abnormi della personalità e alti livelli di recidiva. Nel 1949, questa tecnica fu ritenuta talmente rivoluzionaria da conferire a Moniz il premio Nobel per la Medicina.
Nel mentre, gli americani Freeman e Watts avevano trasformato la leucotomia in lobotomia nel tentativo di ottenere migliori risultati (e commercializzare la pratica). La nuova tecnica non si limitava a recidere le connessioni nella materia bianca, ma andava a distruggere anche una piccola porzione di cellule nei lobi frontali. La vera rivoluzione avvenne però nel 1946, quando i due studiosi capirono come arrivare ai lobi frontali senza perforare il cranio: il paziente veniva anestetizzato con un trattamento elettroconvulsivante, dopodiché il chirurgo distruggeva le fibre nervose con il cosiddetto rompighiaccio (tecnicamente orbitoclasto), un punteruolo che passava per la zona dei dotti lacrimali. Questa era la lobotomia transorbitale: una tecnica 'semplice', veloce, economica, che poteva essere eseguita ambulatorialmente, tanto che ben presto si cominciò ad abusarne. Persino Freeman, che non era un chirurgo, l'applicò svariate volte, incurante dei protocolli igienico-sanitari.
I motivi per cui tecniche così rozze riscossero grande successo sono sostanzialmente due: un fattore economico, per cui il costo dei manicomi era esorbitante e la lobotomia permetteva di abbatterlo; e un fattore tecnico, per cui mancavano gli psicofarmaci e si guardava con sospetto alla psicoanalisi. Non a caso con l'ingresso della clorpromazina nel 1954, la lobotomia cominciò a essere considerata una pratica barbarica e cadde progressivamente in disuso. Nel mentre però, in particolare negli anni '60-'70, alcune personalità entusiaste paventarono la possibilità di 'psicocivilizzare la società' intervenendo sul cervello. Questa era per esempio la concezione di Delgado, il famoso neuroscienziato che nel 1963 innestò un elettrodo in un toro e ne manipolò i movimenti tramite un radiocomando. Su questa scia, nel 1970 Mark e Ervin pubblicarono un articolo in cui proponevano di intervenire chirurgicamente sul sistema limbico per eliminare la violenza dalla società. In entrambi i casi, la speranza era quella di utilizzare le metodiche per la cura delle patologie anche sugli individui sani, così da eliminare i mali della vita associata. L'idea però si scontrava con enormi problemi tecnici, tanto che nessun comitato di bioetica avrebbe mai accettato una psicochirurgia di massa sulla semplice base di benefici più presunti che reali.
Per quanto riguarda l'altro versante disciplinare, ovvero quello psichiatrico a indirizzo psicanalitico, va detto che le tecniche di supporto al paziente erano anch'esse primitive e richiedevano tempi di cura estremamente lunghi. Inoltre vi era il problema di stabilire quali disturbi fossero gestibili dalla psicoterapia e quali richiedessero un intervento farmacologico o chirurgico. L'entusiasmo naturalistico dei neurologi infatti pretendeva che ogni malattia mentale potesse essere curata intervenendo sul cervello, senza il bisogno di un'analisi del vissuto individuale. Ma se questo poteva essere vero per casi come l'epilessia o le lesioni acquisite, più difficile era caratterizzare patologie come la depressione, la psicopatia, i disturbi ossessivo-compulsivi, etc. Si venne così a creare una certa ostilità tra le neuroscienze e la psichiatria, cioè tra un paradigma totalmente riduzionistico e uno che pensava di poter trattare la sfera psicologica a livello cognitivo-comportamentale. A partire dagli anni '50 la psichiatria stessa adottò un approccio materialistico e il bersaglio polemico divennero la psicologia e le discipline psicoterapeutiche. Il recente film di Martin Scorsese, Shutter Island (2010), rappresenta in modo esemplare questo scontro.
Sebbene oggi la situazione sia molto diversa, lo scontro tra paradigmi vede ancora opposti gli studiosi delle varie discipline. Da un lato neurologi e neuropsichiatri che hanno perfezionato le tecniche d'intervento e fornito numerosi farmaci mirati, dall'altro gli psicoterapeuti che condannano l'abuso di psicofarmaci e il disinteresse per l'individualità del paziente. Come scrive Giacomo Giacomini, presidente della Società Italiana dei Medici Psicopatologici e Psicoterapeuti, ancora oggi:

[…] nelle nostre facoltà di medicina la psicopatologia personologica non ha mai trovato (né tuttora trova, grazie alla dominanza della manualistica operazionistica DSM e ICD) un qualsiasi riconoscimento didattico, così che la psicoterapia non ha mai potuto acquisire una sua dignità come disciplina autonoma. Ai giorni nostri non è possibile ignorare che questo inammissibile "buco nero" didattico è stato deleterio tanto per la psicoterapia, quanto per la psichiatria, dal momento che non solo ha portato ad una rovinosa riduzione del profilo culturale e professionale del medico […] ma è anche ora responsabile del declassamento dei servizi di assistenza psichiatrica, oltre che del degrado dell'assistenza psicoterapeutica, dove la latitanza culturale e professionale del medico in materia di diagnostica psicopatologica differenziale ha favorito l'intrusione di figure pseudoprofessionali ambigue, prive di qualsiasi competenza clinica e diagnostica ( si pensi che incarichi apicali, nell'assistenza psicoterapeutica, pubblica e privata, possono attualmente essere assegnati anche a persone non laureate in medicina).

La critica di Giacomini è rivolta sostanzialmente a due obiettivi: le pratiche parapsicologiche (counseling, coaching) per cui chiunque abbia seguito i relativi corsi o master può esercitare (la laurea in medicina o psicologia non è ancora obbligatoria); e la divisione degli studiosi per scuole di pensiero, quando invece lo stato della ricerca suggerisce un approccio integrazionista. Musumeci aggiunge un altro effetto deleterio di questa crisi disciplinare che si ripercuote in ambito giuridico: «[…] di fronte alla disgregazione del potere degli psichiatri e alle loro perizie, ritenute ormai sempre meno oggettive e meno certe, nei tribunali i giudici scelgono sempre più di affidarsi a tecniche che appaiono invece "certe" e "infallibili"». Queste tecniche sono quelle delle moderne neuroscienze, le quali mirano a illuminare le ampie zone d'ombra lasciate dalla psichiatria e dalla psicologia.
La questione oggi è se le neuroscienze siano davvero in grado di offrire una spiegazione completa del mentale e se non ci sia il rischio che un eccessivo entusiasmo possa portare al ripetersi dei vecchi errori. Sebbene la comunità scientifica abbia fatto ammenda degli sbagli commessi da frenologia, antropologia criminale e psicochirurgia, il radicalizzarsi del suo spirito naturalistico ha rimodellato (ed esasperato) lo scontro che divideva Positivisti e Scuola Classica.



3.4 Brain Overclaim Syndrome

I tre articoli fondamentali del codice penale che definiscono i concetti di "imputabilità" e "vizio di mente" sono i seguenti:

Art. 85: Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere.

Art. 88: Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d'intendere o di volere.

Art. 89: Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita.

La nozione di "infermità" richiamata negli articoli caratterizza una condizione deviante rispetto alla norma secondo cui ogni individuo maturo si ritiene dotato di libero arbitrio (declinato nei termini della capacità d'intendere e di volere). Il codice inoltre contempla i diversi gradi con cui questa capacità può venire meno istituendo la possibilità di ridurre la pena in proporzione. Ancora, dagli articoli emerge chiaramente come l'eventuale destituzione del libero arbitrio, anche solo inteso come autodeterminazione del proprio volere, porterebbe a una generalizzata depenalizzazione dei reati, e questo è il motivo per cui la Scuola Positiva trovò tante resistenze.
Oggi come allora lo spettro del determinismo è temuto per le sue possibili ripercussioni in ambito giudiziario e, sebbene gli argomenti non siano molto cambiati rispetto a Lombroso o ai frenologi (si parla ancora di contenimento preventivo, mitigazione delle pene, abbandono del retributivismo, etc.), pare aver acquisito maggior forza. La differenza rispetto a centocinquant'anni fa sta nel progresso esplosivo delle neuroscienze, le quali si sono inserite nel vuoto lasciato dalla crisi della psichiatria offrendo nuovi strumenti per la verifica dell'imputabilità. Fino a pochissimo tempo fa infatti erano solo le perizie di psichiatri e criminologi a fornire indizi sulla capacità d'intendere di volere, mentre oggi anche le neuroimmagini e i test di predisposizione genetica vengono addotti come prove. La sensazione che sta cominciando a diffondersi è che le scienze comportamentali non siano sufficientemente oggettive e lascino troppo spazio alla valutazione soggettiva.
Una questione molto importante però è se le neuroscienze siano effettivamente in grado di offrire certezze superiori rispetto alle altre discipline, cioè se siano davvero in grado di dominare la complessità della mente umana. Nessuno nega che rilevare lesioni cerebrali, disfunzioni o stati alterati di coscienza possa dimostrare come un imputato apparentemente responsabile abbia in realtà agito in condizioni di scarsa, se non nulla, lucidità. Il punto critico sta nel fatto che anche i dati sperimentali devono essere interpretati. Per esempio, la risonanza magnetica funzionale e l'elettroencefalogramma misurano rispettivamente l'ossigenazione del sangue e le variazioni di potenziale, cioè eventi fisici la cui correlazione con eventi mentali specifici non è automatica né diretta. Ciò impedisce di stabilire con esattezza se l'attivazione di una certa area cerebrale sia la causa, l'effetto o la concausa delle nostre scelte, credenze o emozioni; siamo cioè di fronte a un limite tecnico che anche il riduzionista più convinto non può ignorare.
Nonostante ciò, molti studiosi hanno usufruito delle recenti scoperte per dimostrare la verità del determinismo e riproporre il revisionismo della Scuola Positiva. Gazzaniga, uno dei neuroscienziati più attivi sul fronte della neuroetica, scrive a chiare lettere qualcosa che ricorda molto Lombroso e Alimena: «Some legal scholars hold that determinism undermines legal responsibility and that the law cannot ignore the threat of determinism. Other scholars directly assert that human beings are not responsible for any of our actions. […] If determinism is correct, retributive punishment is not only nonsensical, it is immoral». Ma davvero le neuroscienze hanno offerto prove a favore del determinismo? E soprattutto: è lecito che queste prove siano utilizzate nelle aule di tribunale?
S. Morse chiama Brain overclaim syndrome (BOS) la tendenza a inferire dagli esperimenti di neuroscienze più di quanto sia logicamente concesso. Un problema, questo, che pare sempre più diffuso e per il quale si temono ripercussioni negative sul versante sociopolitico. Il pubblico inesperto infatti si mostra incline ad accogliere con spirito acritico le nuove scoperte e a prendere come verità assolute le conclusioni dei loro autori. La posta in gioco è se considerare i criminali come persone o se pensarli piuttosto come cervelli difettosi da ricondurre alla normalità attraverso l'opportuna terapia.



3.5 Libet e Soon: esperimenti e conclusioni affrettate

La possibilità di offrire una prova scientifica a favore del determinismo si concretizzò tra gli anni '70 e '80, quando Libet e il suo team progettarono un esperimento per studiare i processi decisionali. Il setting sperimentale prevedeva che i soggetti, una volta collegati a un elettroencefalografo e a un elettromiografo, premessero un pulsante con l'indice ogni volta che ne avessero sentito l'impulso ('urge to'). L'elettromiografo forniva un riferimento temporale per la contrazione muscolare, mentre per l'impulso cosciente i soggetti dovevano guardare un orologio e comunicare il momento della decisione. Dai dati ottenuti emerse un incremento di potenziale nell'area motoria supplementare (SMA) 350 millisecondi prima che i soggetti diventassero coscienti della propria scelta, mentre altri 200 ms intercorrevano dalla presa di coscienza all'esecuzione materiale dell'azione. Il potenziale registrato in SMA fu rinominato 'potenziale di prontezza' e dimostrò come la preparazione di un movimento volontario avvenisse in realtà a livello inconscio. Tuttavia, Libet concesse che nei 200 millisecondi prima del compimento della flessione vi fosse una libertà di veto, cioè la possibilità d'impedire l'esecuzione. Ecco un semplice diagramma che esplicita i risultati:


Figura 2

Circa vent'anni dopo, il team condotto da Soon e Haynes affinò i test di Libet sottoponendo i soggetti a fMRI e chiedendo loro non di compiere una semplice flessione del dito, ma di operare una scelta premendo a propria discrezione il pulsante destro o sinistro. Nel mentre, delle lettere scorrevano su di uno schermo e il soggetto doveva ricordare la lettera presente al momento dell'impulso. Soon e colleghi individuarono così nella corteccia frontopolare e in alcune zone della parietale (precuneo e cingolo posteriore) i luoghi nei quali la decisione veniva in essere con 10 secondi d'anticipo sulla scelta cosciente. Ciò permise loro di predire con un accuratezza del 60% quale bottone avrebbe premuto il soggetto e di precisare che i primissimi precursori della decisione motoria non si collocano, come sosteneva Libet, nella SMA. La figura 3, tratta dall'articolo in questione, riporta un'immagine della risonanza e il diagramma dell'affidabilità predittiva:


Figura 3
Sottoposti a un pubblico inesperto, questi esperimenti sembrano comprovare un quadro piuttosto chiaro: le decisioni sono determinate a livello inconscio, quindi la libertà di scelta è un'illusione. Tuttavia, De Caro in Libero arbitrio e neuroscienze enumera svariate critiche a dimostrazione del fatto che l'interpretazione deterministica di questi esperimenti non è affatto pacifica. Anzitutto, bisogna fare chiarezza su cosa sia una decisione libera: una decisione libera è quella che ha un senso e un valore per noi, che si connota emotivamente e si basa su delle preferenze; altrimenti si tratta di un automatismo insignificante. Nel caso degli esperimenti citati, è plausibile pensare che l'adesione all'esperimento, più che l'esecuzione del movimento, sia la decisione genuina. Decisione che non è mai sottoposta a monitoraggio. Si può inoltre obiettare che la libertà di un'azione non implichi sempre la coscienza della stessa o un impulso. Per esempio, un oratore che non si accorge di aver bevuto un bicchiere d'acqua perché concentrato sul rispondere a una contestazione ha comunque compiuto un'azione libera. Come libera è la scelta di iscriversi a una facoltà universitaria, anche se questa si distende nel tempo e non è possibile ricondurla a un ipotetico impulso o momento "zero" – il che rimanda al problema più generale di come mettere in relazione causale degli eventi puntiformi (le variazioni di potenziale) con eventi che hanno una durata come le scelte ponderate. Ancora, ulteriori dubbi si possono porre per quanto riguarda la tempistica, perché non è detto che «la decisione di premere uno dei due pulsanti, la consapevolezza di tale decisione e la percezione di quale sia la specifica immagine che appare sullo schermo del computer siano veramente simultanee […]». A tutto ciò va aggiunto infine che la comunità scientifica non è concorde sul definire cosa sia il potenziale di prontezza, così come non è chiaro per quale motivo la libertà di veto non dovrebbe essere vincolata a sua volta a determinanti inconsci.
Sul versante più strettamente filosofico, la critica principale degli antiriduzionisti è quella contro la teoria dell'identità nella formula per cui determinati eventi cerebrali causerebbero e corrisponderebbero a determinati stati mentali. In termini tecnici, la teoria dell'identità prevede che le occorrenze dei fenomeni neurobiologici siano condizioni necessarie e sufficienti per l'occorrere di fenomeni mentali. Ora, per quanto sia plausibile e largamente accettato che un evento fisico debba accadere affinché vi sia un evento mentale, non è altrettanto scontato che il secondo sia esaurito dal primo senza scarto. I limiti tecnici richiamati in precedenza non ci permettono di asserire che "X decide Y" perché nel cervello si sono attivate le aree corrispondenti a "decidere-Y", in quanto l'attivazione di suddette aree suggerisce solo il loro coinvolgimento in "decidere-Y", non la descrizione completa del fenomeno.
Nel caso degli esperimenti di Libet e Soon, i dati non proverebbero dunque l'assenza del libero arbitrio, ma semmai l'operatività, nei processi decisionali, di una componente inconscia che coinvolge le aree del sistema motorio e la corteccia frontopolare – sempre ammesso che premere un bottone senza uno scopo possa essere considerato il frutto di un processo decisionale 'genuino'. Inoltre, fa sapere De Caro, i risultati dei due esperimenti sono di fatto conciliabili con le teorie del compatibilismo e del libertarismo. Infatti, chi crede che la libertà s'innesti su un universo deterministico non avrà problemi ad accettare il ruolo di certi eventi neurobiologici nei processi decisionali: se non vi fosse qualcosa che funziona in modo determinato, il mondo sarebbe caos, e la libertà non può sussistere nel caos. I libertari invece troveranno nel 40% di predizioni fallite l'occasione per ipotizzare momenti indeterministici non prevedibili dalle leggi di natura.



3.6 L'influenza delle scoperte neuroscientifiche sulla deliberazione giuridica

Appurato che la terza antinomia kantiana resta irrisolta, le scoperte neuroscientifiche lasciano comunque aperti importanti interrogativi sul versante giuridico. Una vasta letteratura dimostra che lesioni nei lobi frontali possono compromettere tanto la capacità di azione quanto la capacità di giudizio. Per esempio un'inibizione delle aree prefrontali dorsolaterali rende inclini ad accettare offerte disoneste, mentre i pazienti con danni alla corteccia prefrontale ventromediale non riescono a gestire le proprie emozioni sociali (es. rabbia, frustrazione, compassione) e rispondono ai dilemmi morali secondo un utilitarismo radicale. Ancora, alterazioni alle strutture limbiche (corteccia cingolata, amigdala e ippocampo), della corteccia temporale (giro superiore e giro superiore posteriore) e parietale (giro angolare) costituiscono fattori di rischio per un comportamento antisociale. Tuttavia, la correlazione tra deficit cerebrali e comportamenti anomali non sempre si basa su prove solide e spesso assume il carattere di ipotesi. Ad esempio, vi è un dibattito molto acceso circa una possibile anomalia nel cervello degli psicopatici e dei bambini cresciuti in ambienti disagiati. I primi presenterebbero una disfunzione nelle aree connesse alle capacità empatiche, mentre i secondi un'attività cerebrale simile a chi ha subito danni ai lobi frontali.
Le divisioni che queste ipotesi hanno creato all'interno della comunità scientifica dimostrano la necessità di verificare l'attendibilità del sapere neuroscientifico in rapporto alle altre fonti da sempre utilizzate nei tribunali. Un conto infatti sono le prove che può offrire uno psichiatra o un criminologo, un conto sono quelle che può offrire un ricercatore che si approccia agli psicopatici con spirito lombrosiano: per quanto si ricerchi nelle neuroscienze un grado di certezza superiore alle discipline tradizionali, le prove comportamentali appaiono attualmente più esplicative delle interpretazioni del neuroimaging.
Vien da sé che giudici e avvocati affetti da BOS siano esposti al rischio di condannare o scagionare gli imputati sulla base di dati dalla scarsa validità scientifica. I killer psicopatici potrebbero essere considerati unicamente come malati anziché criminali, così come i giovani delinquenti sarebbero scusabili per via del loro cervello instabile. Quest'ultimo esempio rappresenta un caso controverso per il quale può essere utile richiamare la sentenza Roper v. Simmons del 2005, nella quale la Corte Suprema degli U.S.A. ha dichiarato l'incostituzionalità della pena di morte per i minorenni. Qui gli avvocati a favore dell'abolizione fecero appello alle neuroscienze per confermare ciò che le scienze del comportamento – e il senso comune – già sapevano da tempo, cioè che gli adolescenti sono impulsivi, suscettibili allo stress, con una scarsa capacità di valutare i rischi ed emotivamente instabili. Il fondamento neurobiologico di ciò starebbe nella mancanza di una completa mielinizzazione dei neuroni corticali, la quale equivarrebbe alla mancanza di un completo sviluppo delle capacità razionali rispetto agli adulti. Ne seguirebbe che i giovani assassini non meritano di morire perché non del tutto responsabili dei loro atti. La cosa curiosa, fa notare Morse, è che tale scoperta non è stata menzionata nella sentenza di incostituzionalità, che invece cita solo studi comportamentali. Infatti, per quanto i dati neuroscientifici abbiano avuto un peso nella sentenza, quella delle differenze di mielinizzazione tra il cervello dei sedicenni e quello degli adulti è ancora una speculazione. E comunque, fosse dato un assassino sedicenne con un cervello mielinizzato come un diciottenne, il primo dovrebbe essere condannabile alla pena di morte al pari dei maggiorenni? E se, viceversa, il cervello di un maggiorenne fosse indistinguibile da quello di un sedicenne, la sentenza dovrebbe escluderlo dalla sua giurisdizione? A questo punto, anziché una legge che stabilisce i diciott'anni come soglia, non sarebbe più giusto sottoporre a risonanza tutti i giovani imputati per verificarne la condizione individuale? Dilemmi di questo tipo rendono bene l'idea di quanto possa essere controverso l'uso delle neuroscienze in ambito giuridico. E se l'applicabilità della pena di morte ai minori può apparire un caso estremo, le situazioni limite sono comunque all'ordine del giorno. Dato un uomo adulto apparentemente razionale, egli è da ritenere responsabile per i delitti che il suo cervello gli impedisce di respingere per via di una lesione comprovata ai lobi frontali, magari dovuta a un trauma cranico? Se no, come considerare la razionalità in relazione al libero arbitrio?
In Italia, il primo caso che ha suscitato scalpore è stata una sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Trieste del 2009, la quale ha accordato uno sconto di pena sulla base di una perizia neurologica e genetica. La vicenda riguarda AB, algerino da anni residente in Italia, che nel 2007 era stato schernito per via delle sue usanze religiose. Per vendicarsi degli insulti e delle percosse ricevute, AB aveva comprato un coltello ed era tornato sul luogo dello scontro per uccidere chi l'aveva offeso, pugnalando tuttavia una persona diversa. Condannato in primo grado, i periti Sartori e Petrini furono chiamati in appello per verificare la capacità di intendere e di volere dell'imputato. I due studiosi sottoposero AB a una batteria di test neuropsicologici, a un test genetico e a risonanza magnetica funzionale, rilevando una capacità d'intendere grandemente scemata e l'incapacità di trattenersi dal compiere azioni impulsive: una disfunzione frontale e la presenza dell'allele MAOA-L motivavano scientificamente la riduzione del libero arbitrio. Rispetto alla sentenza di primo grado, che si era 'limitata' al colloquio clinico tradizionale e aveva già riscontrato una semi-infermità, la pena venne ridotta di alcuni mesi.
L'uso massiccio delle neuroscienze e della genetica del comportamento ha fatto sì che il caso AB acquisisse rilevanza a livello mondiale. Nonostante i periti avessero da subito frenato gli entusiasmi sostenendo che i loro studi offrivano solo una conferma più precisa della perizia degli psicologi, i media rinominarono il gene MAO-A 'gene del male' e diffusero una ricostruzione deterministica del crimine. Petrini rilasciò allora un'intervista nella quale spiegò come non vi fosse alcuna variazione genica che determinasse in modo assoluto il comportamento antisociale: lo studio combinato del cervello e dei geni indicava solo che a certe varianti geniche si associa un rischio statisticamente maggiore di manifestare un comportamento aggressivo. Tuttavia, per quanto siano stati cauti giudici e periti, non si può certo dire che ciò non abbia avuto ripercussioni sulla nostra concezione del libero arbitrio. Il rischio statistico infatti rappresenta pur sempre una spada di Damocle che pende sulla nostra capacità di scelta e azione. Ma soprattutto, il rischio statistico è la base su cui poggiano le teorie del contenimento preventivo. Diventa allora di fondamentale importanza verificare cosa sia effettivamente un fattore di rischio biologico-comportamentale, stabilirne con precisione l'incidenza e la rilevanza in sede giudiziaria. La preoccupazione, come sempre, è che un'analisi riduttiva e semplicistica del comportamento umano possa portare a grandi ingiustizie. Nonostante gli anni, sembra che il problema sia rimasto lo stesso di Lombroso: la sua eredità è ciò di cui le attuali neuroscienze si sono fatte carico.



3.7 Il caso dello psicopatico: un dilemma scientifico e giuridico

Ho accennato precedentemente alla psicopatia come a una di quelle questioni che infiamma il dibattito giuridico e scientifico odierno. Il motivo di tanta attenzione è dovuto sostanzialmente alla difficoltà nell'inquadrare la patologia e i suoi effetti sulla libera volontà. Per molto tempo si è ritenuto che le anomalie comportamentali dello psicopatico non fossero da considerare come sintomi di una malattia mentale, quanto piuttosto come espressioni di una personalità maligna. Lo psicopatico infatti non è semplicemente un soggetto anti-sociale e anaffettivo, ma un criminale che mantiene sempre una chiara consapevolezza razionale delle proprie azioni, che manipola gli altri, mente, e premedita i suoi delitti con cinica lucidità. Questo ha fatto sì che i sistemi giuridici vedessero in questa condizione un'aggravante e che l'istituto dell'imputabilità si applicasse come di consueto. Solo negli ultimi anni le neuroscienze hanno permesso di sostanziare l'ipotesi (sebbene ancora in fase di verifica) che la psicopatia sia correlata a una disfunzione cerebrale.
La ricerca in questo senso procede tra non poche fatiche poiché disfunzioni di questo tipo sono più difficili da studiare rispetto a quelle derivate da una lesione (p.e. afasia, aprassia, neglect, comportamenti antisociali conseguenti a traumi della corteccia prefrontale). Lo strumento attualmente utilizzato per la diagnosi della psicopatia è stato elaborato da R. Hare nel 1991 e si chiama Psychopaty Cheklist-Revised: un test che analizza i caratteri affettivi e comportamentali del soggetto e che, su una scala da 0 a 40, definisce un punteggio di 30 come soglia della patologia. La diagnosi del test di Hare è quindi diretta ("se rispondi in un certo modo sei psicopatico"), cosa che le neuroscienze non sono in grado di offrire ("se hai queste disfunzioni sei psicopatico"). Le neuroscienze cercano piuttosto di dare un maggiore supporto empirico all'indagine psicologica, ed è così facendo che sono arrivate a circoscrivere un'area d'interesse nella corteccia, o meglio un circuito composto da corteccia prefrontale mediale (mPFC), cingolo posteriore, giro angolare e amigdala. Tale circuito è implicato nelle seguenti disfunzioni: reazioni aggressive, difficoltà nel distinguere regole morali da regole convenzionali, mancanza di empatia e di rimorso. Sapolsky, per esempio, fa notare che nei soggetti normali la PFC è molto attiva nelle condizioni che richiedono autocontrollo – cioè in quei casi in cui è utile inibire una risposta automatica e istintiva – e che i comandi inibitori vengono proiettati soprattutto nel sistema limbico, una regione sottocorticale fortemente coinvolta nel comportamento aggressivo. Il dato interessante è che un danno in questo circuito può compromettere la capacità di comportarsi in modo morale e nel contempo permettere di operare la distinzione tra giusto o sbagliato. Uno dei fattori alla base di questa discordanza sarebbe l'incapacità di dare la giusta connotazione emotiva alla conoscenza razionale/morale e, in generale, al contesto. In accordo con ciò, Lavazza e Sammicheli informano che studi condotti direttamente sugli psicopatici hanno mostrato una riduzione dell'attività della PFC durante la presa di decisioni morali e un funzionamento alterato dell'amigdala. Detto in altri termini, la bassa attivazione di PFC e amigdala non permette di inibire la risposta istintivo-egoistica in favore di un comportamento prosociale. Stessa cosa accade per la capacità di distinguere le trasgressioni morali (p.e. "non uccidere") dalle trasgressioni convenzionali (p.e. "non mangiare coi gomiti sul tavolo"), come evidenzia p.e. lo studio di Blair e colleghi, stando ai quali la disfunzione dell'amigdala sarebbe il fulcro dell'incapacità di interpretare gli stati emotivi altrui (empatia) e di comprendere l'entità del danno arrecato (rimorso).
Guardando a tutti questi indizi, verrebbe da chiedersi come mai il sistema giuridico opponga resistenza alla deresponsabilizzazione di quello che, per le neuroscienze, è da considerarsi un malato. Un primo motivo è che i dati sono ancora troppo grezzi e non sappiamo se la disfunzione dell'amigdala spieghi in modo esaustivo il fenomeno. Un secondo motivo è che non si conoscono le cause dell'insorgenza del disturbo: senza la presenza di una lesione verificabile, la disfunzione è dovuta principalmente ai geni, a problemi nello sviluppo fisiologico, oppure all'impatto violento di un trauma emotivo? Terzo motivo è la capacità razionale non solo intatta, ma spesso sopra la media, dei soggetti. Contrariamente al resoconto delle disfunzioni della PFC di Sapolsky, lo psicopatico è infatti in grado di scegliere "la strada più difficile", cioè di esercitare un autocontrollo che gli permette di dissimularsi con la vittima e con le forze dell'ordine. Questo spiega perché il criminale psicopatico appaia spesso ai giudici come una persona pienamente responsabile delle sue azioni, un sadico capace di trattenersi e quindi consapevole di poter fare altrimenti. Questa tendenza giudiziaria potrà forse cambiare una volta che le neuroscienze avranno capito nel dettaglio cos'è a non funzionare e perché. Nel frattempo, sembra che i dati scientifici possano fungere da utile integrazione all'indagine tradizionale, ma non da elementi probatori.



3.8 Alcune conclusioni

Per quello che riguarda il mind-body problem, l'attuale stato della conoscenza neuroscientifica vige nell'incertezza. Lo statuto ontologico del libero arbitrio non è stato specificato e non sono state date prove che si siano dimostrate risolutive in questo senso. Sul versante giuridico e morale, quello di fondare la nozione di responsabilità su processi neurobiologici pare un errore categoriale. La responsabilità giuridica, dice Gazzaniga, non si localizza nel cervello, ma emerge solo quando uno o più agenti interagiscono in un contesto sociale e producono delle regole. Di Francesco specifica inoltre che «presupporre la convergenza (riduttiva o eliminativa) tra i livelli [biologico e sociopsicologico] è un'ipotesi che non fotografa certamente lo stato attuale della ricerca, e che può essere avanzata solo assumendo la prospettiva metafisica riduzionistica che si vuole dimostrare». Ciò che si sta dicendo, insomma, è che la responsabilità si potrebbe ricercare nei processi cerebrali solo se fosse compiuta una completa riduzione del livello fenomenologico (e sociologico) al livello biologico, il che è ben lungi dall'essere realizzato. Ne segue che attribuire alle neuroscienze un – indiscriminato – ruolo deresponsabilizzante è un'operazione quantomeno prematura ed estrema. Le prove sperimentali suggeriscono forse che non si può incolpare uno psicopatico per i suoi delitti, tuttavia questo non vuol dire che vada lasciato libero di nuocere agli altri; oppure che lesioni cerebrali e difetti genetici favoriscono condotte antisociali, ma questo non significa che l'individuo sia irrecuperabile a priori, né che debba essere contenuto preventivamente; o ancora, che le nostre azioni sono da inquadrare in un contesto deterministico, il che però non implica che violenza e crudeltà vadano descritte nei termini di malattia e devianza.
Chi è affetto da BOS non prende in considerazione questi fatti e si lascia ammaliare dalle teorie, magari un po' naïve, che si presentano con l'abito della scientificità. Va precisato però che la denuncia di questo problema non equivale a una demonizzazione delle ricerche sul cervello, perché solo mettendo alla prova le varie ipotesi può esserci un incremento di conoscenza. Oggi è chiaro come le neuroscienze abbiano aperto una via senza ritorno: se vogliamo capire meglio la natura umana, dobbiamo integrare le scienze del comportamento con gli studi sui meccanismi cerebrali. La vera sfida è prendere consapevolezza dello stato della ricerca e non commettere errori logici. Troppi "forse" e troppe poche certezze sono il motivo, secondo Morse, per cui attualmente «the neuroscientific evidence provides a partial causal explanation of why the observed behavioral differences exist and thus some further evidence of the validity of the behavioral differences», e ciò non può avere che una rilevanza limitata e indiretta nell'accertare la responsabilità dell'imputato.
Se una parte della critica accademica si è fatta agguerrita nei confronti del naturalismo estremo non è pertanto per una petizione di principio, quanto per evitare che ideologie fuorvianti compromettano il già complesso universo giuridico. Quando si deve decidere della vita di una persona e, più in generale, della gestione della società, è preferibile affidarsi al grado di evidenza massimo disponibile, pena il rischio di moltiplicare le ingiustizie: dallo stato attuale del dibattito, emerge che l'indagine forense non può sostituire le spiegazioni storiche e soggettive con le neuroscienze, perché la complessità della vita mentale non si ritrova nelle immagini di risonanza o nei tracciati degli elettrodi. O almeno, non ancora.
Capitolo 4. Teorie contemporanee del libero arbitrio



Finora ho cercato di ricostruire la questione del naturalismo partendo dalla Rivoluzione Scientifica per arrivare agli studi che, in età contemporanea, hanno messo in discussione i paradigmi delle discipline etiche e giuridiche. Nel capitolo precedente il tema del libero arbitrio si è gradualmente rivelato una delle tematiche più importanti da affrontare per un naturalista, e gli esiti di alcune teorie si sono mostrati controversi. Contenimento preventivo, deresponsabilizzazione dei reati, illusione della volontà cosciente: tutti elementi in grado di minare nel profondo l'immagine propria dell'uomo comune.
Poiché a essere messi in questione sono la nostra vita sociale e la dimensione esistenziale del singolo, e poiché il problema è stato percepito sin dall'antichità, non sorprende che lo sforzo degli studiosi di ogni tempo si sia concentrato nell'integrare, rifiutare o modellare la nozione di libero arbitrio in coerenza con il proprio sistema di teorie. In poche parole, l'obiettivo è e fu quello di costruire un'argomentazione logicamente valida a partire da certe premesse, alcune delle quali assunte in modo assiomatico, affinché certi fenomeni potessero essere giustificati. Si pensi per esempio alla dottrina del clinamen con cui Epicuro si oppose al determinismo democriteo: essa non era che la postulazione di un movimento non determinato degli atomi (la declinazione) in aggiunta agli altri due moti che procedevano secondo necessità (caduta in linea retta e urto). Ma perché postulare un movimento indeterministico? Per spiegare lo sviluppo morale dell'essere umano e legittimare i suoi sforzi per ottenere l'imperturbabilità, elementi inconciliabili col determinismo democriteo. O ancora, si pensi alla distinzione tra necessità condizionale e necessità assoluta con cui i medievali libertari tentarono di salvaguardare il libero arbitrio dall'onniscienza divina: essi teorizzarono che Dio, in quanto entità atemporale, assistesse contemporaneamente a passato, presente e futuro del mondo, senza però determinare le scelte degli uomini, così come il mio sguardo non costringe una persona a camminare se la vedo passeggiare.
Oggi come allora l'analisi concettuale svolge un ruolo di primo piano nel definire il problema della libertà e le sue categorie, sebbene i progressi non siano stato molti. Le critiche mosse da De Caro agli esperimenti di Libet e il dibattito sul tema dell'imputabilità evidenziano il bisogno di stabilire cosa sia un'azione libera; quale correlazione sussista tra i dati del neuroimaging e termini come "coscienza", "desiderio", "impulso", "scelta", "causa"; quanto e quali concezioni di responsabilità siano compatibili con il determinismo; quali tipi di causalità vadano presi in esame, e via dicendo. Analisi di questo tipo sono, per l'appunto, concettuali e qualunque ricerca, sia filosofica che empirica, deve in qualche modo presupporle, anche solo per sapere cosa si sta cercando. Secondo alcuni, ciò è possibile senza dover attribuire alla filosofia un carattere fondazionale di stampo neopositivista:

Così, ad esempio, se l'analisi concettuale provasse che la libertà è impossibile sia in un ambiente deterministico sia in uno indeterministico, nessun risultato empirico potrebbe mutare questa diagnosi. Oppure, se l'indagine scientifica dimostrasse che tutti i nostri comportamenti sono determinati, questo risultato in sé non proverebbe nulla rispetto alla libertà, se non fosse già stato preliminarmente chiarito – a livello di indagine concettuale – quale relazione la libertà abbia col determinismo. D'altra parte, è vero anche che non si può condurre l'analisi filosofica in completa indipendenza dai risultati della ricerca scientifica. […] Una concezione della libertà che, al fine di spiegare il nesso tra gli agenti e il mondo fisico, contraddicesse le migliori teorie scientifiche di cui disponiamo, si dimostrerebbe ipso facto inadeguata.

De Caro, coerentemente con i principi del suo naturalismo liberalizzato, opta per la compatibilità della filosofia con la scienza, nel senso di un equilibrio riflessivo tra l'analisi concettuale e la conoscenza empirica del mondo.
In questo capitolo proporrò le varie teorie del libero arbitrio nei loro nodi essenziali, ma tratterò solo marginalmente le critiche a esse rivolte. Rimando tali critiche al prossimo capitolo, nel quale presenterò l'attacco di Derk Pereboom contro la nozione di libero arbitrio in tutte le sue declinazioni. Il mio concentrarmi su questo autore è direttamente connesso con la precedente citazione di De Caro, poiché Pereboom, attraverso gli strumenti dell'analisi concettuale e della fisica, vorrebbe dimostrare come il libero arbitrio non possa esistere tanto in un contesto deterministico quanto in uno indeterministico. Il mio obiettivo finale è quello di analizzare non solo la solidità teoretica delle teorie naturalistiche, ma anche le loro conseguenze a livello pratico.



4.1 Quale libertà? Quale determinismo?

Prima di esporre le tesi di libertari e compatibilisti è bene definire quale tipo di libertà è in esame e cosa può minacciarla. Solitamente si distinguono tre sensi di libertà:

Libertà sociale – è una relazione triadica tra due agenti e un'azione compiuta. R [un agente] è libero rispetto a P [detentore di potere] di fare X, se P non può punire R per il suo compiere o non compiere X. Detto in altro modo, se R è sanzionabile per un'azione o per l'omissione della stessa, allora non è libero rispetto a P. Se P è lo Stato, la libertà sociale corrisponde alla libertà politica.

Libertà di agire – è una relazione diadica tra un agente e un'azione potenziale. P è libero di fare X se niente ne ostacola la realizzazione. Gli ostacoli consistono sostanzialmente nell'incapacità di fare qualcosa (p.e. camminare per un paralitico) e nella mancanza di opportunità (p.e. evadere da una cella perfettamente sorvegliata). L'incapacità rispecchia un ostacolo interno all'agente, quali possono essere le malattie, mentre la mancanza di opportunità è un ostacolo posto dall'esterno. La libertà di agire si distingue dalla libertà sociale, perché un agente che ne abbia la capacità e l'opportunità può comunque compiere un'azione socialmente sanzionabile.


Libertà di volere – questo tipo di libertà riguarda la capacità del soggetto di autodeterminare la propria volontà e le proprie scelte. È il tipo di libertà che manca agli agenti completamente determinati, i quali possono ancora godere della libertà di fare (p.e. anche i robot sono progettati con certe capacità espletabili in certe condizioni) e della libertà sociale (le azioni di un agente determinato possono essere libere nel senso di non sanzionabili), ma non hanno potere sulla propria volontà.


Il terzo tipo di libertà è quello che Gall, Lombroso e Alimena negavano. Come si ricorderà, l'assenza di libero arbitrio incide sull'imputabilità dei criminali, nel senso che può portare a una mitigazione della pena, ma non sulla libertà sociale. Un agente determinato infatti non sarà mai libero di uccidere secondo un sistema giuridico che lo vieta. Egli sarà comunque libero di farlo, a patto che ne sia fisicamente in grado e ne abbia l'opportunità, ma non potrà liberamente decidere di non volerlo.
In generale, il tema del libero arbitrio si connette a quello della responsabilità per tutti gli atti, non solo i crimini. La socialità umana si modella su concetti come quelli di merito, lode, biasimo, indignazione, i quali sembrano perdere di significato in un universo deterministico. Questo è il motivo per cui il dibattito sulla libertà è tanto pressante: esso coinvolge non soltanto i reati, ma le azioni di tutti i giorni, dal prendere un bel voto a scuola al non mantenere una promessa, dall'agire egoistico a quello altruistico.
De Caro ci insegna che affinché si dia la libertà richiesta per la responsabilità morale, devono darsi due condizioni:

Possibilità di fare altrimenti – il futuro deve essere aperto e offrire la possibilità di corsi d'azione alternativi. Se le cose sono destinate ad andare in un unico modo, la mia volontà e le mie scelte sono ininfluenti.
Autodeterminazione o controllo delle azioni – le azioni di un agente devono discendere dai suoi desideri, credenze e intenzioni. L'agente non deve essere determinato nella sua volontà, ma è egli stesso a determinarsi, così da avere il controllo sulle proprie azioni.

Come mostrerò tra poco, le teorie del libero arbitrio cercano di dare conto di entrambe le condizioni le quali, almeno a prima vista, non possono darsi in un contesto deterministico. Si tratta di condizioni ontologiche, insieme necessarie e sufficienti, che assorbono al loro interno la condizione necessaria, ma non sufficiente, del sentimento di libertà che accompagna le nostre azioni. Infatti è impossibile non sentirsi padroni delle proprie azioni volontarie, tuttavia questo non ci garantisce che vi siano possibilità alternative né che la nostra facoltà di autodeterminarci non sia totalmente illusoria.
Siccome il determinismo minaccia entrambe le condizioni della libertà, ne riporto qui alcune versioni, tutte fortemente influenzate dalla concezione del mondo nelle rispettive epoche:

Fatalismo – forma di determinismo non causale, fa la sua prima apparizione nella tragedia greca, dove il fato è spesso visto come un potere che sottomette persino gli dei. Non vengono prese qui in considerazione le catene causali di eventi, perché gli eventi fatidici accadono indipendentemente da ciò che li precede. Il futuro è pertanto necessitato, sebbene possa essere preceduto da qualunque cosa, persino da momenti indeterministici. Questa versione prende il nome di inevitabilismo. Magni indica inoltre il determinismo logico come variante del fatalismo. Infatti, poiché le proposizioni sul futuro possono essere vere o false, se oggi è vero che "domani accadrà una battaglia navale", allora non ha senso deliberare su futuri corsi d'azione, perché la battaglia avverrà comunque.

Determinismo teologico – concezione tipica dell'antichità e soprattutto del Medioevo. Ci si chiede come il libero arbitrio possa sussistere date la prescienza e la provvidenza divine. Nel primo caso, infatti, le nostre scelte sono previste con largo anticipo e dunque siamo necessitati a compierle. Nel secondo caso, il disegno divino mira a una sua realizzazione in chiave escatologica, pertanto vi è un fine predeterminato. Poiché ciò che Dio dispone non può non verificarsi, è chiaro che le scelte degli uomini devono accordarsi con il progetto originario e sono, pertanto, vincolate. Alcune versioni del determinismo teologico, come l'occasionalismo, rientrano nella più grande famiglia del determinismo causale.

Determinismo causale – un evento e è causalmente determinato se è l'effetto di eventi antecedenti a che lo necessitano in quanto cause sufficienti. Gli antecedenti non sono cause necessarie per il fatto che un evento può essere esito di cause diverse, quindi sarebbe scorretto imporre una relazione biunivoca tra l'evento-effetto e l'evento-antecedente (per esempio una casa può crollare a causa di un terremoto, ma non ogni volta che una casa crolla è per colpa di un terremoto). Questa è la concezione a cui fanno di solito riferimento i pensatori contemporanei.

Determinismo fisico o scientifico universale – variante del determinismo causale. Secondo la formulazione di Laplace, se fosse possibile descrivere lo stato del mondo (P) in un certo istante (t0), tale descrizione (P0) più le leggi di natura (L) permetterebbero di descrivere il mondo in ogni istante successivo (t1). Nella formulazione logica: "Nec (P0 + L) P1". Il determinismo fisico presuppone che i nessi causali tra eventi esemplifichino delle leggi universali e che non esistano cause finali (cioè che nessun evento possa essere causa di un evento precedente). Il futuro pertanto procede solo in un verso senza la possibilità di corsi d'azione alternativi.

Dato il clima ostile al soprannaturalismo, le ultime due concezioni sono quelle oggi maggiormente dibattute. Il determinismo fisico, però, è la concezione più radicale e riduzionistica e fa parte dei cosiddetti 'determinismi causali universali'. Il determinismo fisico infatti ritiene che la nozione di causalità abbia carattere prioritariamente fisico, per cui bandisce dal suo terreno non solo le cause soprannaturali, ma tutte quelle che non fanno riferimento al modello fisicalista. Assumendo il 'principio di chiusura causale' – secondo cui l'universo è un sistema causale chiuso che non ammette l'esistenza di cause esterne non fisiche (p.e. l'intervento divino) –, questo tipo di determinismo uniforma sotto la stessa legge la materia inorganica e l'agente umano, opponendosi così a ogni forma di pluralismo ontologico. Differentemente da ciò, il determinismo causale nelle sue forme 'locali' contempla la possibilità di applicarsi solo a una determinata categoria di fenomeni senza dire nulla sugli altri (p.e. il determinismo genetico predetermina alcuni tratti fenotipici, ma non le attitudini comportamentali, né offre alcuna informazione circa il libero arbitrio).
Nell'ultimo secolo, il determinismo causale e il determinismo fisico sono stati messi in questione a partire dal concetto di "causa". Per esempio, un tema molto dibattuto è quello della cosiddetta causalità indeterministica, ovvero di una causa che, nel produrre l'effetto, non è necessitata dagli eventi antecedenti. L'indeterminismo ha inoltre trovato una veste scientifica nella meccanica quantistica, i cui modelli evidenziano come in certe condizioni il comportamento delle particelle subatomiche risulti imprevedibile. Ritornerò su questi argomenti nell'esporre le teorie della libertà e le relative critiche.



4.2 Forme di incompatibilismo libertario

Dati i concetti di "libertà" e "determinismo", le teorie filosofiche del libero arbitrio si dividono in due grandi famiglie: il compatibilismo e l'incompatibilismo. I compatibilisti ritengono che la libertà sia compatibile col determinismo, mentre gli incompatibilisti lo negano. Questi ultimi raccolgono al loro interno posizioni molto eterogenee: una soluzione infatti è negare la compatibilità di libertà e determinismo mostrando l'illusorietà della prima (incompatibilismo antilibertario); un'altra è quella di preservare il libero arbitrio svincolandolo dalle leggi della fisica, o negando direttamente la verità del determinismo (incompatibilismo libertario). Coloro che non si ritengono soddisfatti da nessuna delle soluzioni proposte sono infine gli scettici, i quali vedono negli scarsi progressi della discussione il sintomo di una problematica insolubile e misteriosa.
In questo paragrafo descriverò le tesi del libertarismo, le quali si dividono anch'esse in tre tipologie:

Libertarismo radicale – anche detto 'indeterminismo non-causale', questa teoria prevede che le azioni siano eventi senza cause. L'assunto di base è che le spiegazioni razionali delle azioni sono di tipo diverso rispetto alle spiegazioni causali. L'uomo infatti inferisce nessi causali per induzione, cioè verificando la costante associazione di fenomeni indipendenti tra loro, mentre quando spiega un'azione fa riferimento a stati intenzionali, configurando la connessione ragione-azione come logico-concettuale. Posto che una ragione non è causata e non può essere causa di alcunché, le azioni sono allora svincolate dai meccanismi causali naturali e nulla le necessita. Ogni azione compiuta, non essendo necessitata, avrebbe potuto non essere compiuta. I fautori di questa teoria integrano la non-causalità dell'azione con l'indeterminismo, in quanto deve esserci un'interruzione nella catena causale naturale che permetta l'agire umano. Il libertarismo non-causale riesce a rendere conto del primo requisito della libertà, ovvero delle possibilità alternative, poiché l'agente indeterminato ha sempre un futuro aperto di fronte a sé. Più problematica è la questione del controllo, perché non si capisce come un evento indeterminato possa essere controllato da qualcosa. Una possibile risposta è che la relazione intenzionale sia sufficiente a mettere in rapporto l'azione e il suo agente, il quale la compie (e chi compie ne controlla per definizione l'esecuzione) ma non la causa. Questa tesi appare tuttavia astrusa, perché un evento completamente indeterminato scaturisce dal nulla ed è indipendente dall'agente, persino dai suoi stati intenzionali. In generale, la rinuncia al principio di causalità pare essere un requisito metafisicamente troppo impegnativo.

Indeterminismo causale o dottrine della event-causation – a differenza della teoria precedente, questa posizione non rompe il nesso causale tra azione e agente, ma considera le ragioni (eventi mentali) come cause delle azioni. Il punto cruciale sta nel concetto di "causazione indeterministica", per cui la decisione dell'agente ha come effetto l'azione, pur restando indeterminata. Il momento indeterministico si situerebbe nel processo deliberativo, in cui l'agente prima valuta le ragioni, poi attribuisce loro un peso e infine realizza una delle opzioni alternative disponibili. Nel fare ciò l'agente non è determinato perché non lo è il processo di pesatura: anche ritornando nella stessa identica situazione, egli può dare ogni volta un peso diverso alle varie ragioni. Poiché tuttavia non sembra che tutte le scelte dipendano da un processo di questo tipo (le decisioni istintive sono forse involontarie?), alcuni autori si limitano a dire che le ragioni inclinano a favore di certe scelte senza necessitarle, collocando il momento indeterministico al tempo stesso della scelta, e non prima. Detto in una parola, eventi del tipo "A ha attualmente certe ragioni, credenze e desideri" causano eventi del tipo "A decide di fare B" senza che il nesso sia deterministico. Come per la teoria precedente, il fatto che si contempli un momento indeterministico permette di rendere conto delle possibilità alternative. A differenza del libertarismo radicale, però, le azioni non si sconnettono completamente dall'agente, ma discendono realmente dai suoi stati intenzionali. Tuttavia, anche in questo caso, l'obiezione della mancanza di controllo si ripropone con particolare forza: il processo di pesatura terrà pur conto degli stati intenzionali dell'agente, ma se l'attribuzione di peso alle ragioni è indeterminata, allora nulla la controlla. Detto in altro modo, gli stati interni che precedono la scelta dell'agente non fanno la differenza nello scegliere un corso d'azione piuttosto che un altro. Per esempio, ipotizziamo che io debba decidere se mangiare la torta di mele, e che debba valutare due ragioni esprimibili con gli enunciati "desidero mangiare la torta di mele perché è il mio dolce preferito" e "la dieta m'impone di limitare di dolci". Poniamo anche il caso dell'inclinazione non necessitante, e perciò che il primo desiderio abbia un peso iniziale di 0.7 e il secondo 0.3. Queste due ragioni sono gli eventi mentali antecedenti. Segue quindi un altro evento, la pesatura indeterministica, dove queste preferenze iniziali diventano ininfluenti e possono essere completamente sovvertite. Dunque, la mia inclinazione iniziale a mangiare la torta il 70% delle volte non avrà più alcun valore, e l'esito della deliberazione sarà ancora in mano al caso.

Teorie dell'agent-causation – poiché nelle forme finora presentate l'indeterminismo pare compromettere il controllo dell'agente sulle proprie azioni, una possibile soluzione consiste nell'attribuire un particolare potere causale agli agenti, cioè trovare il posto per una causalità irriducibile a quella che intercorre tra eventi. Nella causalità indeterministica infatti l'agente è coinvolto nell'evento, ma non è chiaro se questo basti per garantirne il controllo. La teoria dell'agent-causation, solitamente associata a filosofi come Aristotele e Kant, prevede che il soggetto sia in grado di determinare la propria volontà diventando iniziatore di nuove catene causali, le quali poi si integrano nel corso deterministico degli eventi. Affinché ciò sia possibile, è necessario considerare gli agenti come sostanze che, al pari dei motori immobili, sono cause prime. Anche in questo contesto l'agente si ritiene inclinato ma non necessitato nelle sue scelte, con la capitale differenza, rispetto alla event-causation, che il processo deliberativo è pienamente sotto il suo controllo. Secondo Chisholm, che è stato il continuatore contemporaneo di questa linea, l'azione libera deriva dal potere creativo della volontà dell'agente, e sarebbe proprio la nostra esperienza di produttori di effetti a fornirci il concetto di causalità che poi applichiamo ai fenomeni che regolarmente si presentano congiunti. Tuttavia, il principale problema della dottrina dell'agent-causation è quello di essere metafisicamente oscura. Infatti, a livello teorico, il potere che i libertari postulano può sembrare una formulazione ad hoc per aggirare il problema connesso all'indeterminismo. A livello empirico, invece, rappresenta un'anomalia nell'ordine naturale per come oggi ce lo descrivono le scienze. Il problema allora, come spiega De Caro, è far sì che questa teoria possa essere antiriduzionistica, ma non antiscientifica. Il principale pregio però resta la buona integrazione delle due condizioni della libertà che qui, differentemente dal libertarismo radicale e dall'indeterminismo causale, non sembrano finire in cortocircuito.

A livello di analisi concettuale, l'indeterminismo pare dimostrarsi uno scoglio importante per il libertarismo: per quanto necessario affinché sia data la reale possibilità di corsi alternativi, il sostantivo stesso si oppone a ogni determinazione, quindi anche all'auto-determinazione. Un elemento di casualità, anche se inserito nella catena deterministica naturale, impedisce non tanto l'attribuzione dell'azione a un agente (come esecutore), ma che l'agente abbia un qualche tipo di controllo sulla sua volontà e sulle sue decisioni (come autore).
Il secondo grande scoglio concettuale è comprendere se un'interruzione della catena causale naturale sia davvero possibile. L'agent-causation tenta di fornire un senso per cui "indeterminato" non significa "casuale" ponendo a monte un potere autodeterminante e libero. Le soluzioni per connettere questo potere alla natura possono essere di due tipi: a) sostenere qualche sorta di dualismo per cui l'agente-sostanza e il mondo interagiscono, il che però ricade nel sovrannaturalismo, o b) offrire una spiegazione compatibile con la struttura nomologica della natura. Un esempio di quest'ultimo tipo di ipotesi è l'emergentismo in filosofia della mente, che rifiuta allo stesso tempo i dualismi e i riduzionismi. L'idea di base è che gli stati mentali 'sorgano' da stati cerebrali, ponendosi però su un livello di complessità superiore nel quale acquisiscono nuove proprietà. Tali proprietà apparirebbero solo a quel livello e sarebbero irriducibili rispetto alla base. In questo modo la mente e i suoi stati avrebbero un fondamento scientificamente ammissibile (neuroni, molecole, atomi) e la libertà si potrebbe configurare come una proprietà emergente del cervello umano. Pereboom, tuttavia, pone forti obiezioni a questa concezione, e rimando al prossimo capitolo per una discussione più approfondita in merito.
Ora, invece, esporrò le teorie del compatibilismo.



4.3 Il compatibilismo

Il problema dell'indeterminismo e la non scientificità di certe teorie libertarie sono i motivi per cui alcuni autori hanno cercato di far convivere libertà e causalità fisica. Nella sua versione 'classica', il compatibilismo trova tra i suoi primi fautori Hobbes e Hume e si struttura su tre tesi:

Le azioni libere discendono dalla volontà non impedita né costretta dell'agente
Il determinismo è condizione necessaria della libertà, perché il suo opposto è il caso, e la libertà non è casualità
Il determinismo è vero

La terza tesi è il motivo per cui il compatibilismo classico viene anche definito 'soft determinism', cioè una forma di determinismo che, pur in assenza del libero arbitrio, rifiuta esiti radicali come la depenalizzazione dei reati, l'anarchia socio-politica, la perdita di senso e valore della vita umana, e così via.
La seconda tesi precisa che l'opposto della libertà non è il determinismo, ma il caos a cui l'indeterminismo conduce. Che poi il determinismo sia anche condizione necessaria della libertà, questo è un requisito che solo le versioni 'supercompatibiliste' richiedono.
La prima tesi è la base fondamentale di ogni tipo di compatibilismo e risale alla distinzione humeana tra 'libertà d'indifferenza' e 'libertà di spontaneità'. Secondo lo Scozzese, infatti, era impossibile per l'uomo scegliere tra due alternative ugualmente attrattive (libertà d'indifferenza), mentre gli era possibile agire in accordo con la propria volontà (libertà di spontaneità). In questa nuova accezione, l'azione libera è il prodotto di una volontà non costretta da fattori esterni: io sono libero se niente m'impedisce di realizzare i miei desideri e le mie inclinazioni. Non importa – e qui sta la peculiarità – che i miei desideri e le mie inclinazioni siano completamente determinati; l'importante è che la catena causale che procederebbe dalla mia volontà all'azione non subisca interferenze esterne. In questo modo si può rendere conto di un senso di libertà che 1) non incorre in oscuri stratagemmi metafisici e 2) garantisce il controllo dell'azione, poiché agente, volontà e azione sono tutti connessi in una catena causale.
Nel corso dei secoli, e in particolare nel '900, questa accezione di libertà è stata affinata in modo che fossero contemplati anche dei requisiti interni all'agente. Un conto infatti è che io non sia libero di fuggire dalla prigione perché la guardia mi ha incatenato; un altro è la mia impossibilità di fuggire perché una rara patologia neurologica mi compromette la corretta percezione dello spazio circostante. La libertà di spontaneità, insomma, non contempla la circostanza, come può essere quella di un animale o di un neonato, per cui non vi è alcun impedimento esterno, pur mancando la libertà.
Il primo passo in questa direzione fu compiuto da Moore, che con la sua analisi condizionale del verbo "potere" cercò di analizzare la libertà di scelta in termini di controfattuali per rendere conto delle possibilità alternative anche in un contesto deterministico. Infatti, se la mia volontà è completamente determinata, come posso scegliere diversamente da come scelgo? Moore ritenne che l'enunciato:

"Avrei potuto agire altrimenti"

andasse parafrasato in:

"Se lo avessi scelto avrei potuto agire diversamente"

Ma a cosa serve parafrasare l'enunciato a in questo modo? Nell'ottica di Moore, l'intento era quello di dimostrare che un controfattuale riguardante un'azione poteva essere vero anche in un contesto deterministico: se la mia azione attuale può essere descritta con l'enunciato "Ho mangiato la pizza", l'enunciato "Avrei potuto mangiare qualcos'altro" risulterebbe vero, a patto che nulla me l'abbia impedito.
Ai giorni nostri, l'analisi condizionale la si specifica in riferimento alle nozioni di "capacità" e "opportunità" e assume questa forma:

"Se lo avessi preferito, avrei potuto scegliere di agire diversamente, e se lo avessi scelto, avrei potuto agire diversamente"

Ora, poiché i tre enunciati hanno le stesse condizioni di verità, a è falso quando lo è c: io non posso fare altrimenti quando qualcosa mi impedisce di seguire le mie preferenze. E quando non sono libero di agire e scegliere secondo preferenza? Quando mi manca l'opportunità, cioè quando dei fattori esterni mi ostacolano nell'agire e nello scegliere (p.e. la coercizione, o la mancanza di mezzi e risorse), e quando non ne ho la capacità, cioè quando l'ostacolo è rappresentato da possibili fattori interni (p.e. disturbi psichici, stati alterati di coscienza, ecc.). Allora capacità e opportunità sono i requisiti categorici per avere possibilità alternative e, notare bene, si danno anche in un universo deterministico. Magni spiega: «anche se le azioni (o le scelte) che faccio fossero causalmente determinate, rimarrebbe vero che, in un determinato momento e in relazione a una determinata azione (o a una determinata scelta), "avrei potuto agire (o scegliere) diversamente", possedendo sia l'opportunità sia la capacità [di farlo…]».
Questa analisi ha due pregi: 1) supera il problema di Moore che, contemplando solo la possibilità di agire, faceva coincidere il libero arbitrio con la libertà di fare. L'enunciato c invece tiene conto del poter volere diversamente, quindi dei requisiti interni all'agente, e dunque offre le condizioni necessarie e sufficienti della libertà; 2) connette la libertà dell'agente al contesto in cui opera e non dà spazio a forme di libertà assoluta come può essere quella esposta ne L'essere e il nulla di Sartre. L'essere umano è pur sempre un organismo materiale, dotato di corpo, quindi è logico che alcune capacità gli siano precluse. Discorso analogo vale per le opportunità, che cambiano a seconda dell'epoca e dell'ambiente, che in alcuni momenti si danno e in altri no. Tutto questo si integra perfettamente con una visione evoluzionistica della libertà, intesa come capacità acquisita per migliorare le chances di sopravvivenza.
Data la sua visione in accordo tanto con l'evoluzionismo quanto col determinismo fisico, il compatibilismo si è mostrato un'alternativa appetibile rispetto i problemi delle teorie libertarie, fino a imporsi come paradigma dominante in ambito anglosassone. Questo primato è andato in crisi a partire dalla seconda metà del '900, quando una serie di argomenti hanno messo in discussione la validità dell'analisi condizionale del verbo "potere". Infatti, per quanto Magni si sforzi nel sostenere che la possibilità di fare altrimenti sia categorica e non ipotetica, l'analisi condizionale lascia trasparire tutto il contrario: la possibilità alternativa dei compatibilisti è relegata a mondi possibili, cioè non si realizzerà mai nel mondo corrente. Ma allora come può una possibilità che non si esplicherà mai nel contesto d'azione rendere conto del libero arbitrio? Se io ho mangiato la torta, perché così era determinata la mia volontà, era davvero aperta la possibilità, per me, di mangiare il budino, solo perché il mio alter-ego su terra gemella ha mangiato il budino? Se è lo stato del mondo a determinare le mie scelte e le mie azioni, e per scegliere altrimenti servirebbe un mondo diverso in alcuni punti, che possibilità alternative può mai avere l'agente nel mondo attuale? Sembra nessuna. Ma ciò si rivela disastroso anche per la seconda condizione della libertà, l'autodeterminazione. Infatti, se si parte dal presupposto che la volontà è determinata, l'agire non ostacolato che discende da essa non può certo dirsi libero: se sono determinato, io non sono causa di nulla, sono solo un tassello di una catena causale nella quale mi trovo immerso e trascinato.
Due ultime osservazioni. Innanzitutto, credo ci sia un senso per cui l'analisi condizionale effettivamente colga la possibilità di fare altrimenti. Magni scrive: «Il determinismo morbido è una forma di determinismo: […] esso si muove quindi su un terreno direttamente ontologico. Il compatibilismo rimane invece agnostico riguardo alle questioni della libertà e della determinazione […] esso si muove quindi su un terreno esclusivamente filosofico-concettuale e non entra in questioni ontologiche». Il compatibilismo dunque avrebbe una certa presa a livello epistemico, dove un agente determinato può ancora avere delle possibilità alternative, nel senso che non può prevedere il futuro né sapere cosa sceglierà: per quanto vincolato, il suo processo deliberativo ha veramente di fronte delle possibilità, anche se poi solo quella determinata verrà percorsa. Questo comunque non aiuta a spiegare la libertà, perché il libero arbitrio di cui si discute richiede uno statuto ontologico e metafisico: non solo che le alternative si conoscano, ma che davvero si diano.
Un secondo punto interessante del compatibilismo è il modo in cui riesce a spiegare, in un eventuale universo deterministico, i diversi gradi di controllo locale che un agente può esercitare sull'azione. Si pensi per esempio a un cleptomane il cui comportamento è stereotipato per via di un istinto irrefrenabile: la patologia fa sì che in tutti i mondi possibili il cleptomane sia portato a rubare qualcosa. Nessuna ragione può farlo desistere. Questo segna una differenza rispetto a una persona sana che, differentemente da un paraplegico, decide di restare a letto pur avendo la capacità di fare una passeggiata. Il compatibilismo, insomma, pare rendere conto di due necessitazioni di tipo diverso, il che può essere utile in sede giuridica per stabilire chi è punibile e chi no: l'agente non ostacolato né incapacitato è in qualche modo reattivo agli incentivi del mondo esterno, il malato no. Rimproverare l'uomo sano per la propria pigrizia può fargli cambiare atteggiamento (almeno in qualche mondo possibile); rimproverare il cleptomane no.
Tuttavia, sono convinto che l'utilizzo della logica e di una nozione di libertà formulata ad hoc non elude il fatto che in un universo determinato non si danno né alternative né autocontrollo. Che questo non abbia conseguenze nella vita di tutti i giorni, così come a livello sociopolitico, è attualmente tema di grande dibattito.



4.4 Incompatibilismo e scetticismo

Rileggendo le teorie esposte finora e le relative critiche, può sembrare che non ci sia alcuna argomentazione capace di rendere conto della libertà in maniera soddisfacente. Non solo il determinismo pare in contraddizione con la libertà, ma anche l'indeterminismo, e i vari tentativi per garantire all'agente la 'signoria' sulle proprie azioni sembrano innestarsi tutti su alterazioni di significato, postulati indimostrabili o stratagemmi logici ad hoc. Per questo motivo, negli ultimi anni, un numero crescente di autori ha aderito a posizioni di carattere scettico. Esse si possono dividere a seconda della prospettiva da cui partono: lo scetticismo epistemico vede nel libero arbitrio un mistero insolubile, un limite che la conoscenza umana non può superare; lo scetticismo ontologico invece ritiene che l'agire libero non sia possibile e, di conseguenza, che il nostro sentimento di libertà sia solo un'illusione.
Il primo tipo di posizioni ricalca in qualche modo la lezione di Sesto Empirico e lascia aperta la questione sul versante ontologico: l'uomo non potrà mai sapere qualcosa circa l'esistenza del libero arbitrio perché non ha, né avrà mai, i mezzi adeguati per ottenere tale conoscenza. A dimostrarlo è l'insieme di oscurità e incongruenze in cui le varie teorie incorrono nel voler risolvere l'antinomia che si pone tra l'evidenza fenomenologica dell'agenzialità e l'incompatibilismo sotteso alle scienze naturali. Due estremi, questi, non solo contraddittori, ma che si pongono addirittura su piani categoriali differenti e intraducibili, stabilendo un limite invalicabile per la razionalità umana. Lo scetticismo epistemico però si distingue nel dare pari dignità ai due estremi della dicotomia: una mossa che permette la sospensione del giudizio senza degenerare nell'eliminativismo.
Non sono di questo parere i fautori dello scetticismo ontologico, il cui assunto scettico sta nel disinteresse (e non nell'epoché!) per la verità o falsità del determinismo: che l'universo sia vincolato o meno alla causalità tra eventi, semplicemente non importa, perché la libertà non può darsi in ogni caso. Non v'è alcun mistero impenetrabile: il nostro senso di libertà è un'illusione – secondo alcuni un'emozione – necessaria per il benessere mentale e sociale dell'essere umano. La radicalità di tale tesi è il motivo per cui essa viene denominata 'incompatibilismo duro' (hard incompatibilism) ed è ritenuta la naturale erede del 'determinismo duro'. Qui l'antinomia non si pone, ma si dissolve con la caduta dell'evidenza fenomenologica di fronte alla visione scientifica del mondo. D'altronde, se la sensazione soggettiva di libertà è condizione solo necessaria, non sufficiente, del libero arbitrio, allora, per un discorso di economia ontologica, è inutile postulare speciali causazioni mentali o sostanze con particolari poteri. Ecco perché gli incompatibilisti duri s'impegnano a sconfessare tanto il libertarismo quanto il compatibilismo, ritenendoli rispettivamente un retaggio della metafisica cristiana (e cartesiana) o un esercizio di logica mal applicato.
Lungi dall'essere una petitio principii, quella dello scetticismo è piuttosto l'espressione della criticità di un problema per cui i vecchi mezzi concettuali non sembrano più avere molto da offrire. Questo lo rende una posizione piuttosto forte, anche per via dei numerosi argomenti a cui può appellarsi. È necessario però fare due precisazioni. La prima è che gli esiti delle varie teorie scettiche non sono uniformi. Ritroviamo infatti autori ottimisti, che pensano che dalla presa di coscienza dell'illusorietà della libertà l'uomo trarrà benefici per la sua vita etica e sociale; mentre altri, più pessimisti, temono che una consapevolezza di questo tipo porterà a scenari di anarchia e violenza. La seconda precisazione è che l'ascesa del compatibilismo prima, e dello scetticismo poi, è stata direttamente proporzionale a quella del naturalismo scientifico: il compatibilismo ha dominato fintanto che i suoi oppositori non hanno fornito un argomento per mostrarne l'incoerenza, mentre l'incompatibilismo duro s'è ancorato ai dettami delle scienze naturali evitando il ricorso a nozioni di libertà formulate ad hoc. Ciò rende lo scetticismo ontologico piuttosto coerente al suo interno, ma nel contempo lo espone alle critiche menzionate nel Capitolo 2. Infatti, se davvero la spiegazione scientifica del mondo non è esaustiva né completa, e se davvero la normatività epistemica sfugge alla categorizzazione scientifica (in quanto suo presupposto), allora è sbagliato eliminare il libero arbitrio solo sulla base del fisicalismo. Le spiegazioni delle scienze umane, necessarie per quella porzione di realtà che è la vita dell'agente razionale, fanno inevitabilmente riferimento ai vocaboli della prospettiva agentiva (scelta, ragione, deliberazione, ecc.), il cui senso è intrinsecamente connesso alla nozione di libertà. Il che non dimostra certo l'esistenza del libero arbitrio, ma ci assicura che è razionale credere in esso, almeno finché il riduzionismo non avrà raggiunto il proprio obiettivo. L'onere della prova, dunque, spetta ai naturalisti scientifici.







Capitolo 5. Incompatibilismo duro: un prodotto del naturalismo scientifico



In questo capitolo approfondirò le critiche che sono state rivolte al compatibilismo e al libertarismo. Nel farlo mi aiuterò con le opere di Derk Pereboom, filosofo statunitense e coniatore dell'etichetta 'incompatibilismo duro'.
Sono sostanzialmente tre i motivi che mi spingono a fare affidamento su questo autore. Il primo è che nelle opere Living Without Free Will e Free Will, Agency, and Meaning in Life è raccolta ed esposta con chiarezza un'enorme mole di argomenti contro il libero arbitrio, con tanto di critiche e controcritiche. Il secondo è che l'attacco alla nozione di libertà si conduce su una direttiva in parte concettuale e in parte empirica: indeterminismo causale e compatibilismo infatti sarebbero incoerenti a livello teorico, mentre l'agent-causation non sarebbe in se stessa incoerente, ma non troverebbe spazio tra le descrizioni scientifiche del mondo. Il terzo motivo è che, oltre alla decostruzione dell'idea di libero arbitrio e, conseguentemente, di responsabilità morale, Pereboom offre una visione ottimistica della vita senza l'illusione della libertà. Stando al filosofo, arrendersi all'impossibilità del libero arbitrio porterebbe seri vantaggi sul lato pratico, poiché le persone diventerebbero meno inclini ad arrabbiarsi per i torti subiti. In più, la destituzione della responsabilità morale consentirebbe di revisionare il concetto giuridico di pena, abolendo l'inutile accanimento punitivo sui criminali.
Contro l'ottimismo di Pereboom, l'analisi di Smilansky, che pure condivide la decostruzione dell'idea di libero arbitrio, mira a mostrare la necessità dell'illusione della libertà. Il filosofo israeliano è infatti convinto che la civiltà stessa si fondi su questa illusione e che una sua caduta comporterebbe effetti devastanti per l'umanità. La sua ricerca può essere considerata una sorta di autocritica dell'eliminativismo, un segnale d'allarme rivolto a quegli autori che non sembrerebbero del tutto consci delle implicazioni delle proprie teorie. Tuttavia anche Smilansky incorre in serie difficoltà, io credo, poiché non tiene conto di quelle necessità pratiche della forma di vita umana che potrebbero resistere alla destituzione del libero arbitrio.
Il confronto tra questi due autori mi sarà utile per mostrare come il vincolo imposto dall'ontologia scientista conduca a teorie estreme che, pur condividendo un assunto di base, arrivano a esiti diametralmente opposti. La mia idea è che buona parte delle correnti eliminativiste abbiano una grossa lacuna al loro interno, perché gli effetti delle eliminazioni si rivelerebbero, all'atto pratico, assai selettivi – per non dire nulli. Detto in una parola, l'eliminazione del libero arbitrio cambierebbe tutto e niente. Più insidioso, invece, è l'impatto delle critiche di Pereboom sull'apparato teorico. A mio avviso, il filosofo statunitense mostra, con argomenti abbastanza solidi, come libertà e scienza naturale siano del tutto incompatibili, e continueranno a esserlo fintanto che la seconda verrà utilizzata come base per l'impostazione del free-will problem.



5.1 L'incoerenza dell'indeterminismo causale (o event-causation)

Le teorie dell'indeterminismo causale contemplano un tipo di causa non determinata dagli eventi antecedenti e che ha per effetto l'azione. Pereboom prende a esempio la versione di Kane, secondo cui la sequenza che produce l'azione comincia con le ragioni dell'agente (eventi-antecedenti), il quale poi compie uno sforzo di volontà (evento-causa indeterminato) per decidere tra le alternative e compiere l'azione (evento-effetto). Siccome il potenziale causale di tale sforzo resta indeterminato fino al momento stesso della scelta, l'agente ha sempre di fronte a sé la possibilità di fare altrimenti, anche nel caso in cui una ragione abbia un peso preponderante sulle altre.
Ora, la critica che di solito si rivolge a questo tipo di libertarismo è che non è in grado di assicurare il controllo dell'agente sulle proprie decisioni. Come aveva intuito per primo Hume, sostenere l'indeterminismo equivale a inserisce nella catena causale un elemento di pura aleatorietà del tutto incompatibile con il libero arbitrio. Kane risponde in due modi a questa obiezione: primo, la decisione libera, per quanto indeterminata, è pur sempre compiuta volontariamente e intenzionalmente, non è il prodotto di un errore o di una costrizione; secondo, l'azione libera s'accompagna sempre con l'esperienza della volontarietà. Viceversa, l'agente non è libero quando la sua scelta non è percepita come volontaria, non deriva da un suo sforzo di volontà o è totalmente sconnessa dal carattere e dalle ragioni.
Uno dei nodi problematici però è proprio il tipo di connessione che intercorre tra l'agente, il carattere, le ragioni e lo sforzo di volontà in un mondo in cui vige unicamente una causalità tra eventi: provare un senso di agency ed essere il soggetto dell'evento-scelta non garantisce un controllo sulla deliberazione. Di fatto anche il compatibilista assume queste due condizioni, ma accettando il determinismo finisce per definire la scelta come un prodotto della causalità naturale (alien-deterministic event), mentre nell'indeterminismo la suddetta scelta si riduce a un prodotto del caso (truly random event). In entrambi i contesti manca una connessione dell'agente con i suoi stati mentali tale per cui si possa dare una forma di controllo libero.
Tra questi estremi – compatibilismo/determinismo e libertarismo radicale – Pereboom inserisce i 'partially random events', ossia eventi i cui antecedenti determinano le probabilità che si realizzino, ma non l'occorrenza. In questo spazio, che sarebbe quello delle scelte libere degli agenti inclinati ma non necessitati, il libertario coglie l'occasione per rispondere alle accuse. Si potrebbe pensare infatti che l'agente contribuisca in parte, attraverso le sue libere scelte, alla formazione del proprio carattere, il quale poi lo inclina a optare per un'azione piuttosto che un'altra. Quindi, se il carattere spiega gli sforzi di volontà dai quali poi discendono le azioni, allora si può dire che l'agente non è in totale balia di fattori oltre il suo controllo: egli ha contribuito a modellare le proprie disposizioni!
Il problema, purtroppo, persiste: se le scelte dell'agente sono casuali, egli non è responsabile per il proprio carattere, esattamente come non lo sarebbe il soggetto determinato. Per dimostrarlo, Pereboom chiede di pensare alla prima scelta compiuta da un agente. Poiché il carattere deve ancora formarsi, questa prima scelta sarà o casuale o determinata. Ora, nel caso che questa prima scelta non sia 'character-forming', l'agente non avrà contribuito in alcun modo al carattere che renderà conto dello sforzo di volontà per la scelta successiva. Nel caso invece che la prima scelta sia character-forming, il carattere prodotto sarà comunque figlio della sorte o della determinazione naturale. Conclusione: i partially random events, quali sono i prodotti delle cause indeterministiche, non garantiscono alcuna autodeterminazione dell'agente.
A questa critica si associa una famiglia di obiezioni che prende il nome di luck objections (obiezioni della sorte) e che Pereboom riformula nulla più generale disappearing agent objection: supponiamo che una persona debba risolvere una grande indecisione, e che, dato il suo carattere, le ragioni in favore dell'una o dell'altra scelta abbiano lo stesso peso (il 50%). Ora, siccome lo sforzo di volontà è equamente influenzato da queste ragioni, e da nient'altro, il suo esito sarà totalmente casuale. In risposta, il libertario specifica che indeterminismo non equivale a casualità, perché gli eventi che causano la scelta hanno un soggetto, e questo soggetto è colui che controlla la scelta. Tuttavia, risponde Pereboom, l'indeterminismo causale prevede solo una causalità tra eventi, non una particolare relazione causale tra l'agente e la decisione. Questa, infatti, è la tesi dell'agent-causation, i cui presupposti ontologici sono ritenuti troppo impegnativi dagli indeterministi causali.



5.2 L'incoerenza del libertarismo non causale

L'obiezione della scomparsa dell'agente coinvolge direttamente i libertari non causali, i quali devono anch'essi sviluppare i propri argomenti affinché l'agente abbia un peso nella produzione delle proprie decisioni: come si è visto nel paragrafo 4.2, gli eventi mentali non sono considerati come cause, e il potere decisionale dell'agente avrebbe esso stesso un carattere non causale. Per rendere conto dell'autodeterminazione, dunque, il libertario radicale sostiene che l'agente ha il controllo sui propri eventi mentali perché, al tempo t, fa in modo che essi occorrano o meno. Detto in una parola, l'agente produce le sue decisioni perché dipende da lui se scegliere o evitare di scegliere. In più, l'azione libera prevede sempre un 'actish phenomenological feel' che, unito alla capacità prima descritta, è sufficiente per rendere conto dell'autodeterminazione senza il bisogno di appellarsi a processi causali.
Pereboom obietta che, messa in questi termini, non vi è reale differenza tra l'indeterminismo non causale e le versioni causali dello stesso. La disputa sarebbe solo verbale. Infatti i maggiori fautori del libertarismo non causale sostengono che il seguente assunto sia falso:

"Per ogni evento e, S ha fatto in modo che e occorresse solo se S ha causato l'occorrenza di e".

Tuttavia, quando il libertario cerca di rendere conto dell'autodeterminazione, si richiama sempre alla nozione di intenzionalità, e a espressioni del tipo "fare in modo che accada", "evitare che accada", "eseguire l'azione" o "l'azione è un'impresa spontanea e creativa". Queste espressioni, secondo Pereboom, rimandano intrinsecamente a un controllo di tipo causale. È possibile infatti che un agente esegua un'azione senza causarla? È possibile creare qualcosa senza esserne la causa? È possibile separare l'intenzionalità dell'agire da un'appropriata catena causale? Sembra di no. Anzi, ricorrere a questo tipo di vocabolario implica ammettere ciò che le teorie non causali rifiutano, e segnala la loro incoerenza di fondo.
All'incoerenza del libertarismo radicale, Pereboom aggiunge poi la caratteristica dell'inconcludenza. Date le leggi che governano gli universi deterministici e probabilistici, il libertarismo non causale cerca di caratterizzare un potere sui generis in grado di svincolarsi dai problemi che tali leggi sollevano per l'autodeterminazione. Il risultato, tuttavia, è particolarmente oscuro e sembra aggiungere solo complicazioni. Complicazioni facilmente aggirabili dall'agent-causation, teoria che già offre un tipo di relazione causale anch'essa potenzialmente svincolata dalle suddette leggi e molto più intuitiva delle controparti a-causali.



5.3 L'incoerenza del compatibilismo

Il maggiore problema del compatibilismo sta nel fatto di non riuscire a rendere conto delle possibilità alternative. In risposta a questa critica, Frankfurt e i suoi seguaci hanno proposto il famoso argomento della manipolazione per dimostrare come la questione della responsabilità sia, in realtà, sganciata dal requisito del poter fare altrimenti e connessa esclusivamente all'autodeterminazione. Ne segue che se la disponibilità di possibilità alternative è irrilevante per il tipo di libero arbitrio richiesto per la responsabilità morale, persino il Consequence Argument può essere aggirato.
Pereboom ritiene che gli esperimenti mentali a là Frankfurt siano convincenti, e che il compatibilismo debba essere combattuto sul requisito del controllo. Per fare questo, il filosofo sviluppa un nuovo argomento in cui si manipola un agente libero secondo gli standard del compatibilismo. Tali standard sono:

L'azione proviene dal carattere dell'agente
Il desiderio che lo spinge ad agire non è dovuto a un impulso irresistibile, quindi niente lo costringe (a differenza, p.e., del cleptomane)
I desideri di secondo ordine sono conformi a quelli di primo ordine
L'agente è in grado di rispondere a ragioni, per cui può modificare i suoi desideri.

L'argomento di Pereboom si compone di quattro casi che vedono protagonista il professor Plum il quale, per interessi egoistici, vuole e riesce a uccidere la signora White. L'atto criminoso discende dalla volontà di Plum (condizione 1) e non è frutto di un istinto irrefrenabile (condizione 2). Inoltre il desiderio omicida di primo ordine è conforme al suo desiderio di secondo ordine (condizione 3), ma Plum può comunque evitare di uccidere nel caso si aspetti di incorrere in conseguenze per lui troppo negative (condizione 4). Gli standard del compatibilismo sono dunque soddisfatti. Tuttavia, sostiene Pereboom, è ancora intuitivamente possibile che Plum non sia responsabile del misfatto.

Caso 1: dei neuroscienziati sono in grado di manipolare in qualsiasi momento gli stati mentali di Plum grazie a un radiocomando. Quando Plum si appresta a ragionare sul da farsi, i manipolatori intervengono e potenziano le sue disposizioni egoistiche, portandole oltre una soglia per cui è sicuro che compirà l'omicidio. Plum è solito ragionare in modo egoistico, ma se le condizioni fossero state troppo sfavorevoli, lo stesso ragionamento lo avrebbe portato a non uccidere. Inoltre i neuroscienziati non intervengono sul desiderio di primo ordine e non lo rendono irresistibile. Nessun desiderio di secondo ordine è contrario al voler uccidere White.

La sottile costruzione di questo caso mira a rendere conto di a) una manipolazione che non comprometta la capacità di agire e nel contempo b) impedisca a Plum di essere responsabile. Ora, i neuroscienziati sanno che potenziando le inclinazioni egoistiche oltre una certa soglia Plum deciderà necessariamente di uccidere a patto che, nel mentre, non intervenga qualcosa che gli faccia cambiare idea. Infatti, siccome la manipolazione non comporta un desiderio irrefrenabile, se Plum sapesse che l'omicidio avrebbe conseguenze terribili per lui, desisterebbe dal compierlo (condizione 4). In questo modo è salvaguardata la capacità di agire altrimenti secondo i canoni dei compatibilisti ma, nel caso l'omicidio avvenisse, non si potrà dire che Plum ne sia responsabile, perché l'intervento dei neuroscienziati è stato determinante. Questo dimostra che le condizioni del compatibilista, anche se prese tutte insieme, non sono sufficienti per la responsabilità morale. Pereboom passa quindi a un caso più vicino alla situazione ordinaria.

Caso 2. Plum è stato programmato alla nascita da alcuni neuroscienziati affinché ragioni spesso, ma non sempre, in modo egoistico. In particolari circostanze, questa programmazione fa sì che Plum sia causalmente determinato a compiere certe scelte, come nel caso dell'omicidio di White. Le condizioni del compatibilismo soddisfatte al Caso 1 sono ancora tutte valide. L'unica differenza è che sono diverse le cause esterne del ragionamento egoistico e, di conseguenza, della decisione presa.

Questo esempio mostra che non c'è differenza tra una manipolazione locale e una manipolazione che, una volta implementata, condiziona i processi decisionali futuri. Che i neuroscienziati ci comandino momento per momento, o che il Dio leibniziano ci programmi all'inizio dei tempi, la differenza nell'intervallo di tempo non può essere addotta come prova a favore della responsabilità di Plum: nel Caso 2, Plum non può impiegare il tempo che intercorre dalla programmazione all'omicidio per cambiare schema di ragionamento. Egli è impotente su questo aspetto, proprio come quando viene manipolato sul momento dai neuroscienziati.

Caso 3. Plum è stato educato dalla sua comunità a ragionare spesso, ma non sempre, in modo egoistico. Tale condizionamento è avvenuto quando Plum era troppo piccolo per potersi opporre, e fa sì che, date certe condizioni, sia determinato causalmente a uccidere White. Le condizioni del compatibilismo sono ancora tutte valide. Il tipo di ragionamento e la sua realizzazione cerebrale sono identici a quelli dei Casi 1 e 2.

Il Caso 3 non porta differenze significative rispetto ai precedenti, se non per il fatto che rende sempre meno diretta la manipolazione intenzionale da parte degli esterni. Questa però non può essere una differenza sufficiente per il compatibilista che voglia ritenere Plum responsabile. Infatti, se Plum non ha colpa nei Casi 1 e 2, allora non l'avrà nemmeno nel 3. Qui Pereboom ha alleggerito il peso dell'intervento esterno, nel senso che un plagio mentale sembra intuitivamente più contrastabile rispetto a una programmazione o a una manipolazione locale.

Caso 4. Il determinismo fisicalistico è vero, dunque si dà "Nec (P0 + L) P1". Plum è un uomo normale che ragiona spesso, ma non sempre, in modo egoistico. La sua decisione di uccidere White è l'effetto dei suoi processi deliberativi che, in determinate circostanze, necessitano l'omicidio. In generale, soddisfa le quattro condizioni dei compatibilisti sulla responsabilità morale.

Con il quarto caso, Pereboom completa la sua strategia. Siccome Plum non sembra responsabile tanto nel Caso 4 quanto nel Caso 3, allora non c'è differenza tra una manipolazione intenzionale e una volontà determinata: la decisione di Plum è sempre causata da fattori oltre il suo controllo. Stando così le cose, il compatibilismo non riesce a soddisfare le seguenti condizioni per la responsabilità morale:

(5) An action is free in the sense required for moral responsibility only if the decision to perform it is not an alien-deterministic event, nor a truly random event, nor a partially random event.

(O) If an agent is morally responsible for her deciding to perform an action, then the production of this decision must be something over which the agent has control, and an agent is not morally responsible for the decision if it is produced by a source over which she has no control

I casi di Pereboom hanno suscitato un grande dibattito e lo stesso autore riporta nei suoi libri critiche e controcritiche. Tuttavia, per quanto i compatibilisti si siano sforzati di spiegare come il determinismo non implichi di per sé l'assenza di libertà e responsabilità, le loro argomentazioni non hanno tuttora risolto le difficoltà emerse nel paragrafo 4.3: una teoria che non riesce a rendere conto di nessuna delle due condizioni della libertà non permette di attribuire colpe, meriti, lodi o biasimi agli agenti.



5.4 La coerenza dell'agent-causation

Pereboom ritiene che tra le varie teorie del libero arbitrio, l'unica che non presenti incoerenze di fondo sia quella dell'agent-causation. Essa, infatti, riesce a rispondere alle maggiori obiezioni contro il libertarismo: la disappearing agent objection, il regresso all'infinito e il 'postulato vuoto'.

- Disappearing agent objection: siccome il potere causale dell'agente è indeterminato, gli stessi antecedenti alla presa di decisione in diverse istanze possono condurre a esiti differenti: se nel mondo attuale io causo la mia decisione di mangiare la torta, in un mondo possibile con gli stessi antecedenti posso causare esattamente il contrario. Quindi, come per l'indeterminismo causale, che io compia l'una o l'altra scelta è questione di sorte (o di probabilità). I teorici dell'agent-causation rispondono mettendo in evidenza la peculiarità dell'agente-sostanza: la differenza nei due mondi possibili non è che gli eventi antecedenti sfocino in scelte diverse senza l'intervento dell'agente, ma che proprio l'agente abbia fatto sì che tali eventi antecedenti si risolvessero in una maniera piuttosto che in un'altra. Detto più semplicemente, il potere dell'agente-sostanza fa sì che la sua scelta non sia un truly random event, né un partially random event. Si immagini questo caso: un amico mi chiede di mantenere un segreto, ma io so che ho il 57% di probabilità di non rivelarlo e il 43% di spifferarlo. Nel contesto dell'indeterminismo causale, io non sono nella posizione di promettere il mio silenzio. Tuttavia, grazie al potere di agente-sostanza, io posso superare le mie inclinazioni e, in ultima istanza, assicurare il mio silenzio. Conclusione: l'agent-causation è in grado di eludere l'obiezione della sorte e garantire il controllo definitivo dell'azione, poiché contempla un tipo di causalità ulteriore rispetto a quella tra eventi.


- Il regresso all'infinito: si tratta di una riformulazione della disappearing agent objection. Quanto l'agente-sostanza A decide, occorre un evento G di questo tipo: "A causa D al tempo t". Ora, sarebbe assurdo pensare che A causi di causare D, quindi se l'agente non può essere causa di eventi di tipo G, allora non può essere responsabile per le sue scelte. I teorici dell'agent-causation rispondono che quando io causo una decisione, per conseguenza logica, occorre un evento G. Questa relazione fa sì che la responsabilità per la propria decisione si applichi anche all'evento per cui causo tale decisione. L'obiezione però continua: concesso che A possa essere causa dell'occorrere di G, questo innesca un regresso all'infinito. Ogni scelta di un agente finito e non determinato implica una metascelta libera precedente, a sua volta da spiegare con un'ulteriore metascelta, e così via. Pereboom risolve la questione mostrando come essa sia meramente logica. L'interazione fondamentale è infatti quella tra l'agente e la propria scelta: io causo la mia decisione, quindi un evento G occorre, e il fatto che io causi G «is just a trivial logical consequence of the more fundamental and explanatorily prior interaction». Insomma, se l'agente è dotato del potere causale di un motore immobile, egli, nel momento della decisione, mette in atto una nuova catena causale la cui origine si esaurisce nell'atto stesso, senza incorrere in regressi all'infinito.


- Il postulato vuoto: se la caratterizzazione della causalità data da Hume è corretta, l'unico tipo di causalità possibile è quella tra eventi (la regolarità con cui due eventi si presentano congiunti). I teorici dell'agent-causation invece postulano un tipo di causalità diversa, irriducibile a quella tra eventi, senza spiegarne i meccanismi né le condizioni di possibilità. Questa causalità dell'agente risulta assai misteriosa, assiomatica, impossibile da caratterizzare: insomma, un concetto vuoto. La replica di Pereboom provvede a fornire uno spazio logico per l'esistenza di tale causalità. Primo, numerosi filosofi hanno contrastato l'analisi di Hume, caratterizzando la relazione di causalità come metafisicamente basilare. Questo è possibile perché l'enunciato "la causalità sussiste solo tra eventi" non è una verità analitica, di conseguenza l'enunciato "le scelte sono causate dagli agenti" non è una contraddizione. Secondo, non è vero che dell'agent-causation non si può dare nessuna caratterizzazione. Alcuni ritengono che il potere causale dell'agente sia costituito da più basilari poteri causali (è il caso degli emergentisti) come per esempio quelli dei processi neurofisiologici. Altri ancora pensano all'agent-causation come a un potere fondamentale e semplice, come lo sono gli invarianti fisici (p.e. la carica dell'elettrone e la velocità della luce). Quindi non implica alcuna contraddizione che l'agente possa avere un potere causale costitutivo e non costituito.

Quello che Pereboom intende qui dimostrare è che la causazione dell'agente non è una nozione intrinsecamente contraddittoria. Il ricorso all'idea di sostanza sopperisce ai difetti delle altre teorie libertarie e, a differenza del compatibilismo, evita di far ricorso a distorsioni linguistiche per rendere conto della libertà. Pertanto, a livello concettuale, il libero arbitrio rappresenta una possibilità effettiva, e non un mito. Il vero problema sarebbe un altro: l'agent-causation si scontra con le attuali teorie scientifiche. Il potere concettualmente legittimo è fisicamente irrealizzabile. L'autore si allinea così ai fautori del naturalismo scientifico e dell'eliminativismo.



5.5 L'agente come causa e la scienza: un divario insanabile?

Pereboom passa dunque sul piano empirico e mostra come le teorie dell'agent-causation siano inconciliabili con la fisica. Nel corso degli anni infatti si è tentato di dare una veste scientificamente accettabile al potere dell'agente, ma tali tentativi, secondo il filosofo, sono incorsi in difficoltà insormontabili. Il bersaglio polemico principale è l'emergentismo nelle sue concezioni materialistiche, secondo cui la libertà è un potere di ordine superiore che scaturisce dall'organizzazione della materia nei suoi vari stadi.
Secondo il materialismo non riduzionistico, il potere causale dell'agente è interamente costituito da componenti microfisiche, le quali sottostanno alle leggi della fisica. La complessa organizzazione della materia genera nuove proprietà che non esistono, e non possono essere spiegate, al livello inferiore. Pereboom chiede ora di immaginare che il mondo microfisico sia governato da leggi deterministiche: se così fosse, gli stati dell'universo microfisico seguirebbero la nota legge "Nec (P0 + L) P1". Ma se ogni stato microfisico fosse determinato, e il potere causale dell'agente fosse interamente costituito da stati microfisici, allora anche le scelte sarebbero determinate. Il fatto che le proprietà emergenti non siano riducibili allo stadio inferiore non le svincola dal determinismo che domina le loro componenti! E le cose non migliorano se le leggi di riferimento sono quelle probabilistiche della meccanica quantistica. Se le componenti microfisiche fossero governate dalla statistica, e i livelli superiori fossero interamente costituiti da quelli inferiori, allora anche i livelli superiori seguirebbero le leggi della statistica. Tuttavia, come si è visto nel paragrafo 5.1, i partially random events non permettono di garantire un controllo dell'agente sulle proprie azioni.
Per risolvere i problemi sopra esposti, la dottrina dell'emergentismo forte sostiene che il potere causale dell'agente sia interamente costituito dall'organizzazione del livello microfisico, ma aggiunge che, una volta emerso, questo potere sia in grado di retroagire sulla propria base. Detto più semplicemente, il mentale nasce dal fisico e, successivamente, regola il fisico. Si pensi per esempio alla mia decisione di fare una passeggiata: dal mio cervello emergono tutti gli stati mentali inerenti la deliberazione, dopodiché, in virtù della mia libertà, la scelta si inserisce nei processi neuronali e li modula affinché io possa compiere l'azione. Così facendo però, il potere emerso svincola i propri costituenti dalle leggi che li governano, e questo segna una divergenza rispetto al mondo della fisica. Nelle parole di Pereboom: «If, as on the strong emergentist proposal, the arrangement of the constituents can give rise to causal powers due to which these constituents are no longer governed by these laws, then it is not clear what sort of possibility for constitutional explanation remains». Quello che l'autore sta dicendo, in sostanza, è che il potere emergente vorrebbe fondarsi nella fisica, ma di fatto la sovverte rendendo misteriosa la propria costituzione.
A questo punto Pereboom lascia spazio anche alle teorie non fisicaliste dell'agent-causation e muove una critica di portata più generale. La questione può essere riassunta in questo modo: può un agente libero, poniamo, sul piano trascendentale, rendere effettive le proprie scelte nel mondo fisico senza violarne le leggi? Si consideri un universo deterministico, e si consideri un agente che prende le sue decisioni in assenza di determinazione. Una scelta indeterminata sarebbe un evento nuovo e senza antecedenti, mentre nell'universo ogni evento ha una o più cause precedenti. Dunque, affinché la scelta libera possa integrarsi col mondo fisico senza violarne la chiusura causale, sarebbe necessario che questo mondo offrisse le componenti per la realizzazione materiale di tale scelta. Queste componenti, supponiamo eventi neurali, possono darsi o non darsi secondo la solita legge "Nec (P0 + L) P1". Supponiamo che si diano. Ora, poiché la mia decisione non può violare la catena causale fisica, io sono costretto a cogliere l'opportunità che l'universo mi offre: non posso far comparire gli eventi neurali necessari a mio piacimento. Questo significa che, in un universo deterministico, ogni scelta libera sarebbe il frutto di una fortunata coincidenza, di un tempismo perfetto tra la mia decisione trascendentale e la componente materiale necessaria per realizzarla.
Le cose non migliorano se si considera il mondo quantistico. Qui la probabilità che le componenti fisiche delle azioni si realizzino copre l'intervallo da 1 a 0. Si supponga che io abbia una tazza di thè e che, per esempio, la probabilità degli antecedenti fisici della scelta "bere il thè" sia 0.32. La statistica impone che, dato un grande numero di casi, è lecito aspettarsi che io beva il thè circa il 32% delle volte. Questo tipo di vincolo, però, non tocca l'agente causale perché egli, in virtù del suo potere trascendentale, può optare per bere il thè quando vuole, o non berlo affatto. Niente lo limita, su 100 volte, di dissetarsi circa 32. Di conseguenza, che io di fatto realizzi la scelta nel mondo fisico il 32% delle volte non sarebbe altro che una grande coincidenza. In tutti gli altri casi, la percentuale non verrebbe rispettata e il mio comportamento divergerebbe da ciò che le leggi probabilistiche prevedono. Pereboom riassume così il nodo centrale del discorso:

Whether such laws are deterministic or statistical, the antecedent probabilities of the physical components of human action would be fixed. If the laws are deterministic, the antecedent probability of any such component is either 1 or 0. If the laws are those of quantum mechanics on the standard interpretation, such probabilities may span the range from 1 to 0. But regardless of which views is true, the agent-causal libertarian's proposal that the frequencies of agent-caused free choices dovetail [combaciano, n.d.t.] with determinate physical probabilities involves coincidences so wild as to make it incredible.

Come emerge dagli argomenti appena esposti, non sarebbe solo il determinismo a minacciare il libero arbitrio, ma anche la sua unica alternativa concettuale, l'indeterminismo, in ogni sua forma. Una dopo l'altra, le teorie della libertà sono così cadute sotto i colpi dell'analisi concettuale ed empirica della realtà, lasciando a galla un'unica teoria: l'incompatibilismo duro. Tuttavia Pereboom non è preoccupato di questa conclusione. Anzi, egli è convinto che sapere come stanno davvero le cose possa essere utile per ripensare la nostra vita, le relazioni, la gestione del crimine. Insomma, senza libero arbitrio si potrebbe vivere meglio e in un mondo più giusto.



5.6 Vivere senza libero arbitrio

Il problema del libero arbitrio è fondamentale per due questioni. La prima è che senza libero arbitrio non sembra che l'uomo possa essere ritenuto responsabile per ciò che fa, quindi non sarebbero giustificate tutta una serie di nozioni morali come quelle di "colpa", "biasimo", "indignazione", "retribuzione", "dovere" eccetera. La seconda, più generale, è che senza libero arbitrio molto del vocabolario delle scienze umane perderebbe di senso, perché non esisterebbero più deliberazioni, scelte, azioni, obiettivi, realizzazioni e via dicendo. Senza il controllo del proprio agire, l'uomo non sarebbe più considerato come persona, ma come uno dei tanti elementi naturali soggiogati all'eterno divenire.
Pereboom ritiene che l'incompatibilismo duro elimini completamente la nozione di "responsabilità morale" fondata sul merito, ma non il senso dell'etica e della vita. Per dimostrarlo, il filosofo analizza le nozioni della prospettiva etico-agenziale e ne testa la tenuta con l'incompatibilismo duro il quale, in fondo, non sarebbe contrario:


alla possibilità epistemica delle opzioni alternative. Tipicamente si ritiene che la nozione di "deliberazione" implichi un futuro metafisicamente aperto, perché senza possibilità alternative non si avrebbe materiale su cui deliberare. L'indeterminismo non ha particolari problemi a giustificare questo requisito, mentre il determinismo sembra impossibilitato a farlo. Pereboom però fa notare che anche in un contesto deterministico l'uomo avrebbe la possibilità di valutare corsi d'azione alternativi, perché non può prevedere il futuro. Detto in altri termini, sapere che il determinismo è vero non avrebbe conseguenze sul versante epistemico, perché l'uomo non può sapere in anticipo com'è determinata la sua esistenza, quali dilemmi gli si presenteranno e come li risolverà. Pereboom quindi può scrivere: «For deliberation does not require that more than one option be causally possible, but rather only that more than one option be epistemically possible […]».


all'efficacia causale di deliberazione e scelte. In risposta a quanto appena detto, si potrebbe obiettare che, senza un futuro metafisicamente aperto, deliberazioni e scelte sarebbero completamente inutili: se il corso degli eventi è stabilito e fisso, a cosa serve che io mi impegni per conseguire degli obiettivi? Pereboom risponde che anche se il futuro fosse fissato, le nostre deliberazioni contribuirebbero alla sua produzione: «[…] the determination of our deliberation, choiches, actions, and their consequences does not undermine their causal efficacy». Pereboom dunque rifiuta l'epifenomenismo, poiché secondo lui la mente non è un'emozione che, al pari di una bussola, si limita a indicare il corso degli eventi, ma qualcosa che produce cambiamenti nel mondo, benché determinati. Faccio un esempio: supponiamo che un affermato pittore abbia il desiderio di dipingere la migliore opera d'arte del mondo, che completi una tela al giorno, ma non sia ancora soddisfatto. Una sera, questo pittore apprende al telegiornale che il determinismo è stato provato nei laboratori del CERN. L'artista subito si deprime, convinto che i suoi sforzi siano inutili, e smette di pitturare, pur avendo ancora il desiderio di creare l'opera più bella. Ora, è chiaro che se il pittore si rassegna e diventa inoperoso, non potrà mai raggiungere il suo obiettivo; ma è anche vero che la sua rassegnazione avrebbe senso solo se sapesse a priori dell'inutilità dei suoi sforzi. La morale quindi è che, data l'ignoranza costitutiva dell'essere umano, il famoso motto "no pain, no gain" varrebbe anche in un mondo deterministico. O almeno, sarebbe razionale perseguirlo.

al nostro essere sensibili a ragioni. Se è vero che deliberazioni e scelte hanno efficacia causale sul mondo, allora è vero anche che le ragioni hanno efficacia causale su deliberazioni e scelte. Scrive Pereboom: «Determinism allows our action to be different had the causes of those actions been different from what they actually were. Given that reason can be causes of action, determinism allows that if the reason had been otherwise, our action could be different as well». Pereboom fa appello all'analisi condizionale del verbo potere per rendere conto di come il nostro comportamento possa variare col variare delle ragioni. Ciò è essenziale dal punto di vista morale, perché è condizione di possibilità della deterrenza e dell'educazione. Infatti se tutti gli uomini non fossero sensibili a ragioni morali, come per esempio il cleptomane, allora non avrebbe senso istituire un sistema di doveri e obblighi. Però, anche in questo caso, non bisogna dimenticare che Pereboom sta lavorando sul piano epistemico. Dato per vero il determinismo, è già stabilito se una persona, poniamo un minorenne delinquente, la smetterà di rubare motorini (comportamento) una volta sgridato dai genitori (ragioni). Ma noi uomini, nella nostra ignoranza del futuro, non possiamo sapere se la ramanzina sarà efficace, e speriamo che regole, rimproveri e discussioni abbiano effetto sul comportamento.


È interessante notare come qui trovino spazio alcuni importanti assunti del compatibilismo. Pereboom, forse non a caso, tende infatti a occuparsi principalmente di un versante dell'incompatibilismo duro, cioè quello dell'ipotesi deterministica. In questo frangente è particolarmente importante rendere conto delle possibilità alternative affinché siano istituiti un senso di "deliberazione" e "sensibilità alle ragioni" compatibili con l'assenza di libertà. La chiave di volta è che noi umani potremmo anche sapere che il libero arbitrio non esiste, ma continueremmo a ignorare il futuro, e ciò darebbe ancora un senso al nostro agire.
A questo punto però, Pereboom necessita ancora di un elemento per poter asserire che la credenza nell'incompatibilismo duro porterà benefici all'esistenza umana: che la consapevolezza dell'inesistenza del libero arbitrio influisca sui nostri atteggiamenti reattivi. In questo l'autore si oppone alla tesi di P.F. Strawson, il quale aveva sganciato la questione della responsabilità da quella del determinismo. Secondo Strawson, infatti, che il determinismo sia vero o no, l'uomo interagente è per sua natura portato ad attribuire la responsabilità morale in un certo modo. Pereboom obietta: «I believe Strawson is wrong to maintain that a theoretical challenge to the reactive attitudes based on the thesis of universal determinism is external to the practice of holding people morally responsible, and therefore illegitimate». I quattro casi di manipolazione di Plum lo dimostrerebbero: se nei Casi 1 e 2 la nostra intuizione è che Plum non sia responsabile, allora mitigheremo il nostro giudizio nei suoi confronti; ma se le implicazioni dei primi casi possono essere generalizzate fino al quarto, allora mitigheremo le nostre reazioni anche in un universo deterministico. Detto in sintesi, credere – o non credere – nel determinismo (e in generale all'assenza del libero arbitrio) non è qualcosa di esterno alla nostra pratica di attribuzione della responsabilità, ma è un suo presupposto. Di conseguenza, quando l'intuizione di libertà si scontra con la conoscenza opposta (la dimostrazione dell'inesistenza del libero arbitrio), le nostre pratiche di attribuzione di responsabilità non possono che uscirne trasformate.
L'agente secondo Pereboom si delinea in questo modo: è un uomo che delibera su un futuro epistemologicamente aperto, i cui stati mentali hanno efficacia causale sul mondo; che è sensibile a ragioni e, in particolare, alla conoscenza di non essere libero. Un uomo che non attribuisce più responsabilità morale a se stesso e agli altri, e che quindi mitiga i suoi atteggiamenti reattivi. Un uomo che non è condannato ai tragici scenari dei fautori di visioni pessimistiche, perché l'incompatibilismo duro non implica per sé l'anarchia sociale, la destrutturazione delle relazioni, l'annichilimento della morale o la svalutazione della vita. Anzi, l'esistenza umana, arricchita dalla consapevolezza di non poter incolpare gli altri per le loro azioni e dai benefici che tale consapevolezza porterebbe in tanti aspetti della vita sociale, procederebbe come sempre, solo con minor rabbia e minor accanimento verso offensori e criminali.
Vorrei soffermarmi brevemente sul significato che questa teoria attribuisce all'esistenza. Il ruolo della sorte infatti pervade l'opera di Pereboom e conduce a un forte ridimensionamento della percezione di noi stessi, forse più forte di quanto lo stesso autore voglia ammettere. Innanzitutto, il fatto che l'atto del deliberare abbia senso solo per via dell'ignoranza del futuro, unito al fatto che noi non avremmo il controllo su tale deliberare, ci lascia in completa balia degli eventi. Come per il compatibilismo, non si può dire che l'agente deliberi solo perché un processo di questo tipo avviene all'interno di un corpo e di una mente. Sono quei 'factors beyond the agent's control', che Pereboom rievoca continuamente, a deliberare per noi, uomini ridotti a meri ricettacoli della forza causale dell'universo, sia essa deterministica o indeterministica. Che una consapevolezza del genere non abbia effetti deleteri sulla psiche umana è questione tutta da dimostrare, e i paventati effetti positivi sarebbero apprezzabili solo da quella popolazione filosofica capace di ridare un senso al concetto di deliberazione.
In secondo luogo, bisognerebbe capire come sia possibile dare significato a un'esistenza determinata in ogni aspetto dalla sorte. Si è già detto di come i nostri sforzi avrebbero senso solo perché vi sarebbe la possibilità di un esito positivo. Ma anche il nostro carattere e le nostre relazioni sentimentali sarebbero una pura questione di fortuna. Pereboom non ne fa un problema, perché ritiene che nella vita di tutti i giorni siamo portati a dare molto peso alla fortuna. Queste citazioni lo esprimono chiaramente:

Si noti come prima cosa che il senso del valore di se stessi […] è legato in misura non trascurabile a caratteristiche che possediamo e che non sono prodotte dalla nostra volontà, e tanto meno dal libero arbitrio. Le persone danno grande valore alla bellezza naturale, alle capacità atletiche innate e all'intelligenza, e nessuna di queste caratteristiche è il frutto dei nostri sforzi di volontà. Diamo valore anche agli sforzi che sono volontari, nel senso che risultano voluti da noi […] Ma quanto importa che questi sforzi volontari siano anche liberamente voluti? […] Le persone di solito non si demoralizzano dopo essersi convinte che il loro buon carattere morale non è una propria creazione e che non meritano particolare apprezzamento o rispetto a motivo di esso. Al contrario, finiscono spesso con il sentirsi fortunate e grate alla sorte.

Leaving aside free will for a moment, in which sort of cases does the will intuitively play a role in generating love for another at all? […] we would typically prefer the situation in which the love was not mediated by a decision. This is true not only for romantic attachments, but also for friendship and for relationships between parents and children. […] If we indeed desire free willed love, then we desire a kind of love whose possibility hard compatibilism denies. Still, the possibilities for love that remain are surely sufficient for good interpersonal relationship. If we can aspire to the sort of love parents typically have toward children, or the kind of romantic lovers ideally have toward one another, or the type shared by friends who are immediately attracted to one another, and whose relationship is deepened by their interactions, then the possibility of fulfillment in interpersonal relationship is far from undermined.

La sorte è onnipervasiva: dal raggiungimento dei nostri scopi, alle nostre abilità, all'impegnarci con chi amiamo, al mantenere bello il nostro corpo e attiva la nostra intelligenza.
Tuttavia, secondo l'incompatibilismo duro, questa condizione ontologica dovrebbe avere solo un effetto deresponsabilizzante, e non minare la prospettiva agentiva che, invece, sarebbe preservata sul piano epistemico. La domanda è: sapere dell'inesistenza del libero arbitrio può davvero avere effetti così selettivi? Oppure, per mantenere un senso della vita in un contesto del genere, il soggetto andrebbe forse educato a credere di poter deliberare e a non abbandonarsi alla rassegnazione? Perché se il soggetto deve compiere uno sforzo cognitivo per riformulare i suoi concetti, e non è in suo potere decidere se sforzarsi in questo senso, allora gli effetti benefici dell'incompatibilismo duro non sarebbero tanto scontati né automatici.



5.7 Etica e crimine: un approccio revisionista

L'analisi di Pereboom giunge così ad affrontare i problemi che abbiamo incontrato nel Capitolo 3: come bisogna trattare il criminale (determi)nato? Il determinismo mina la possibilità stessa di un'etica? Innanzitutto, lo studioso americano sostiene la compatibilità delle intuizioni morali del senso comune e l'incompatibilismo duro:

Anche se arrivassimo a credere che l'autore di un genocidio non sia biasimabile a causa di una malattia degenerativa cerebrale, continueremmo a ritenere che le sue azioni siano state moralmente sbagliate, o almeno che è male che abbia agito in quel modo. Perciò, in generale, negare l'attribuzione di biasimo non sembrerebbe minacciare i giudizi che qualificano qualcuno o qualcosa cattivo o sbagliato e, ugualmente, negare l'attribuzione di lode non sembrerebbe indebolire le valutazioni che qualificano qualcuno o qualcosa come buono o giusto.

Questo estratto sembra in contrasto con quanto Pereboom scrive in Living Without Free Will, dove assimila il comportamento immorale a eventi naturali spiacevoli come terremoti ed epidemie. Infatti, terremoti ed epidemie non sono eventi a cui si possono applicare le categorie di giusto e sbagliato, perché non fanno riferimento alla normatività. Tuttavia, con una nuova definizione del valore morale è forse possibile conciliare le due citazioni. Scrive Pereboom: «Hard incompatibilist moral worth is indeed moral, but is more similar to the value we might assign to an automobile or a work of art».
Secondo questa curiosa caratterizzazione, l'azione immorale avrebbe un valore negativo per via delle conseguenze e delle emozioni che suscita nelle persone. L'omicidio, come il terremoto, provoca danno, dispiacere, orrore. Quindi, anche in un universo deterministico, etica e istituzioni giuridiche manterrebbero un fondamento solido e indipendente dalla libertà: il vero e unico obiettivo è che le persone non si comportino (o la smettano di comportarsi) in modo immorale, e questa speranza è legittima in un universo dove i soggetti sono sensibili a ragioni e ignorano il futuro. L'unico obiettivo è, in poche parole, contenere danni e sofferenze.
Ma, posto che il valore morale sia ancora un valore, che dire della nozione di "dovere morale"? Di solito, un dovere morale implica che una persona sia in grado di adempierlo e che vi aderisca di propria volontà. Che senso avrebbe imporre doveri all'uomo senza libertà? Soprattutto quando è la sorte a stabilire quando e su chi la norma sarà efficace? La risposta a queste domande la si trova nel più recente Free Will, Agency, and Meaning in Life, dove Pereboom ristabilisce un senso di responsabilità e biasimo rivolti al futuro. Tale risposta, però, consiste in una riconcettualizzazione dell'obbligo morale:


[…] the 'ought' of axiological recommendation necessarily concerns agents and actions they might perform. But as for all claims about what ought to be [dover essere, n.d.t.], this use of 'ought' should not be understood as presupposing a route accessible to an agent, via reason for action, to her acting in some relevant way. One might be unsure about whether such a route is accessible, while the use of 'ought' is nevertheless legitimate. […] 'ought' has the sense of axiological recommendation, which in turn requires that it be epistemically open for the respondent that agent will comply [rispetterà n.d.t.] this recommendation.

Ancora una volta, Pereboom si richiama alle possibilità alternative epistemiche per garantire un senso alle prescrizioni morali. Infatti non serve che le alternative siano metafisicamente accessibili, non serve nemmeno la libertà: basta che sia data una gerarchia di valori e che il comportamento possa conformarsi ai migliori di essi. L'obbligo, e il biasimo per non averlo rispettato, diventano quindi una raccomandazione per il futuro:

I propose, in harmony with free will skepticism, to ground this model for blame not in basic desert, but in three non-desert invoking moral desiderata: protection of potential victims, reconciliation to relationships both personal and with the moral community more generally, and moral formation. Immoral actions are often harmful, and we have a right to protect ourselves and others to who are disposed to behave harmfully. Immoral action can also impair relationships, and we have moral interest undoing such impairment through reconciliation. And because we value morally good character and resulting action, we have a stake in the formation of moral character when it is plagued by disposition to misconduct.

L'oggetto immediato di biasimo è spesso un'azione passata, ma la punizione per tale azione deve essere vista come un mezzo per correggere le disposizioni persistenti al comportamento immorale. Nel caso invece il soggetto compia una cattiva azione senza essere un recidivo, il biasimo può ancora giocare un ruolo nella futura riconciliazione tra il colpevole e l'offeso. La prospettiva di Pereboom, insomma, non lascia spazio all'impunità e all'anarchia, ma ricerca ciò che i sistemi di diritto normalmente perseguono: protezione, riparazione e deterrenza. Quello che viene a mancare è solo l'impianto del retributivismo che, secondo il filosofo, si fonda sulla vendetta e opera nell'ottica di riparare ai dolori inflitti infliggendo nuovi dolori.
Pereboom approda così alla tematica della giustificazione della pena e pensa a un nuovo sistema non fondato sull'afflizione del reo. Nella prospettiva scettica, infatti, la punizione afflittiva non può essere giustificata nemmeno dalle teorie tradizionali della deterrenza e dell'educazione morale. Piuttosto, il criminale andrebbe ripensato come un portatore di malattie pericolose, incolpevole della propria patologia e legittimamente isolabile nel caso rappresentasse un pericolo per gli altri: così come nessuno si sognerebbe di infliggere punizioni severe ai poveri malati, allo stesso modo non si dovrebbero rendere più dure del necessario le condizioni dei carcerati. Inoltre, una volta mitigato il desiderio di vendetta, la riabilitazione diventerebbe finalmente l'obiettivo finale delle istituzioni giuridiche, che attualmente sembrano più interessate a infliggere punizioni fini a se stesse. Solo nei casi più estremi, e cioè quelli in cui sussiste una patologia ad alto rischio di comportamenti criminosi, o dove la riabilitazione si dimostra impossibile, il reo deve essere contenuto preventivamente o detenuto a tempo indeterminato, anche se comunque «non vi sarebbe giustificazione per rendere la sua vita più miserevole di quanto è necessario per tenere sotto controllo i pericoli che egli pone».
In ultima analisi, l'obiettivo dello scetticismo ottimistico è quello di mitigare un'emozione direttamente connessa alle nostre intuizioni sulla responsabilità morale: la rabbia morale. Infatti, quando noi riteniamo le persone responsabili, automaticamente siamo portati a crederle meritevoli di subire un danno per i torti arrecati. La rabbia morale lascia spazio e fomenta i desideri di vendetta, rende accettabili punizioni esageratamente severe e ostacola ogni tentativo di riconciliazione. Essere consapevoli dell'inesistenza del libero arbitrio porterebbe alla rinuncia dell'idea di responsabilità morale (retrospettiva) e quindi a quella rabbia che tanto abbruttisce la vita umana:

[…] l'espressione della rabbia morale ha spesso effetti negativi per coloro verso i quali è diretta, e anche per coloro che esprimono la rabbia stessa. Frequentemente, la sua manifestazione è volta a provocare quasi null'altro che dolore fisico ed emotivo. Come conseguenza, la rabbia morale tende a danneggiare le relazioni, a ostacolare il funzionamento delle organizzazioni e a distruggere le società. In casi estremi, può indurre le persone a torturare e a uccidere. […] La richiesta di giustificare moralmente un comportamento dannoso è in generale molto forte, e la manifestazione della rabbia morale spesso risulta dannosa. […] Spesso giustifichiamo la manifestazione della rabbia sostenendo che chi commette illeciti è moralmente responsabile nel senso che implica il puro merito per quello che quella persona ha commesso. Se ci convincessimo che non si ha il tipo di libero arbitrio necessario per la responsabilità morale, considereremmo illegittime tali giustificazioni.

Ciò non equivale a rendere ingiustificata ogni espressione di rabbia, poiché essa ha un valore comunicativo e offre una motivazione per difenderci dagli abusi e dall'oppressione. Quello che Pereboom vuole evitare sono piuttosto l'accanimento e il sadismo. Anche sul lato delle normali relazioni interpersonali, il filosofo vorrebbe sostituire la rabbia morale con espressioni di disappunto e manifestazioni di tristezza, in modo da poter indurre un cambio di comportamento in chi ci offende. In poche parole, la convinzione scettica «can serve to calm attitudes such as anger and dissatisfaction, thereby making one's emotional life less turbulent and more serene».
A mio avviso la proposta di Pereboom è molto interessante, ma rimangono dubbie alcune questioni. In primo luogo, bisogna capire come si possono mantenere dei concetti normativi come "giusto" e "sbagliato" se si equipara l'agire morale a un evento fisico naturale. Secondariamente, andrebbe spiegato come può l'incompatibilismo duro dare tanto rilievo alla dignità della persona la quale, in ultima istanza, si rimette completamente alla sorte. Quello che sembra mancare è un solido fondamento che permetta di giustificare il fatto che gli ergastolani andrebbero trattati con riguardo e non eliminati. L'uomo forse non debella i virus che scatenano le epidemie? Non elimina gli animali che minacciano le sue produzioni? Non cerca di abbattere ogni ostacolo naturale non appena gli si presenta la possibilità? Ebbene, Pereboom rifiuta l'utilitarismo radicale e con esso ogni possibile giustificazione dell'eliminazione dei criminali irrecuperabili, ma su che base?
Un ultimo dubbio, infine, è se smettere di credere nel libero arbitrio produrrà davvero dei benefici nelle relazioni interpersonali.



5.8 Smilansky: la necessità dell'illusione

La pars construens di Living Without Free Will è in buona parte una risposta allo scetticismo pessimistico presentato un anno prima da Smilansky in Free Will and Illusion. In questo testo il filosofo israeliano contesta duramente l'idea che un ordine morale e sociale sia possibile senza le nozioni di responsabilità e merito. Egli ritiene piuttosto che l'illusione della libertà giochi un ruolo fondamentale nel preservarci dai disastrosi effetti che produrrebbe l'adesione al determinismo duro e, in genere, a tutte quelle visioni che rifiutano il libero arbitrio. A mio avviso le preoccupazioni di Smilansky non sono del tutto infondate e l'opzione di Pereboom non offre una risposta soddisfacente ai tragici scenari prospettati.
Smilansky inizia la sua trattazione sottolineando come il nodo centrale del problema del libero arbitrio sia la questione del controllo – cioè se e quanto le nostre azioni e scelte dipendano da noi (up to usness) – perché è alla nostra capacità di autodeterminazione che rimandano i sistemi morali, gli atteggiamenti reattivi e la concezione di sé. Delle varie teorie che si approcciano al problema, il libertarismo si è dimostrato incoerente o empiricamente infondato, quindi le uniche prospettive analizzabili restano quelle del compatibilismo e del determinismo duro. Il primo contempla la possibilità di un controllo locale dell'azione, esercitabile dalla persona sana ma non, per esempio, dal cleptomane. Il secondo spiega che questo controllo non è in potere dell'agente, ma si riduce a una produzione naturale non diversa da un tornado, un terremoto, o un'epidemia.
Premesso questo, Smilansky adotta una posizione che lui stesso chiama 'Fundamental Dualism', ovvero riconosce che entrambe le visioni hanno parzialmente ragione e che quindi andrebbero tenute assieme. Da un lato, il compatibilismo ha ragione nel parlare di libertà di fare, perché anche in un universo deterministico possono darsi desideri, deliberazioni, azioni che discendono da tali desideri e deliberazioni, e tutto ciò è sufficiente per rendere conto della responsabilità degli agenti e delle intuizioni in materia di giustizia. Dall'altro lato, il determinismo duro dice il vero quando nega ogni possibilità di autodeterminazione: la libertà di volere non esiste.
La prima cosa che emerge è che la verità del determinismo mina in profondità la posizione concorrente, e Smilansky lo sa bene. Infatti, dice il filosofo, se l'agente non ha controllo su nulla, allora ogni cosa che facciamo o ci accade è dovuta alla sorte. E se tutto si riduce alla sorte, allora punire quelli che i compatibilisti ritengono responsabili non è altro che una tremenda ingiustizia (ultimate injustice): «Matters of luck, by their very character, are the opposite of the moral […]». Ma come è possibile tenere assieme due posizioni così agli antipodi e le relative intuizioni?
Smilansky ritiene che sia l'illusione dell'agency a impedire che il lato deterministico prevalga: «Illusion is crucial in pragmatically safeguarding the compatibilistically defensible elements of the "common form of life". […] Illusion is, by and large, a condition for the actual creation and maintenance of adequate moral reality». L'illusione sarebbe una necessità pragmatica che crea una realtà mentale dove l'uomo è padrone delle sue azioni, una realtà da cui discende tutto ciò che è funzionale al vivere associato. Senza di essa, la verità del determinismo tenderebbe a dominare e i danni, con buona pace di Pereboom, sarebbero gravissimi. Il motivo di tanto pessimismo risiede in quella che Smilansky chiama 'superficialità' (shallowness) del compatibilismo, una debolezza che si manifesta sui versanti etico, personale-esistenziale e pragmatico.
Sul piano etico, si può pensare al caso di un criminale che sia stato punito secondo la 'Compatibilist Justice': egli viene punito perché niente l'ha costretto ad agire secondo la sua volontà immorale o, detto in altro modo, perché aveva la capacità e l'opportunità di non commettere il reato. Il determinismo ci dice però che il criminale non ha avuto la possibilità di decidere cosa diventare e cosa scegliere, e che punirlo sarebbe ingiusto: l'esistenza di differenti gradi di controllo perde completamente di rilevanza una volta che si sia considerata l'assenza di autodeterminazione.
Sul versante personale-esistenziale, invece, senza la convinzione che le azioni siano in nostro potere verrebbe meno il rispetto per se stessi e per gli altri. Dove il compatibilismo permette di lodare una persona per essere riuscita in una grande impresa e non, per esempio, per un fattore casuale come il semplice colore della pelle, il determinismo livella entrambe le cose riducendole a prodotti della sorte. Nella prospettiva finale non esisterebbero la realizzazione personale, l'orgoglio per tale realizzazione, un senso del valore, la stima reciproca. Cose come l'impegno del partner, l'empatia di un amico e l'onestà di un fratello sarebbero apprezzate come eventi piacevoli, ma non come azioni lodevoli di buona volontà. Pensieri del tipo "Tu mi ami, ed è bello, ma non sei veramente tu che vuoi amarmi" oppure "La tua generosità mi fa molto piacere, ma siccome non dipende da te, non devo esserti grato", diventerebbero la norma.
Infine, sul versante pragmatico, non potersi appellare all'idea di merito avrebbe importanti conseguenze sulle generazioni future. Oltre a una generalizzata degradazione del sé per cui gli uomini comincerebbero a non vedersi più come agenti, oltre alla caduta di ogni genuino sentimento di rispetto reciproco, sarebbe impossibile educare moralmente i bambini. La prospettiva deterministica fornirebbe infatti la scusante definitiva: nessuno è, in ultima istanza, colpevole, e un bambino a cui fosse accessibile questa scusante non potrebbe sviluppare un senso di responsabilità né provare rimorso (compunction). Non provare rimorso gli impedirebbe di considerare le cattive azioni passate come qualcosa da non ripetere, compromettendo lo sviluppo morale e disincentivando qualunque desiderio di migliorarsi. Insomma, non avere un senso di responsabilità retrospettivo minerebbe la possibilità di averne uno rivolto al futuro.
Quello che Smilansky sta dicendo è che l'intuizione della libertà – e il senso di responsabilità che ne deriva – sono condizioni di possibilità della vita etica e del rispetto di sé. Senza l'illusione del libero arbitrio, noi non riusciremmo a 'funzionare' bene, né psicologicamente né moralmente, perché l'idea basilare di merito è fusa con i concetti dell'agentività e della moralità. Se il primo cade, cadono anche i secondi, e viceversa. Non è un caso allora che i tentativi di formulare sistemi etici compatibili col determinismo non riescano a trovare un sostituto adeguato all'idea basilare di merito. Un esempio diretto lo fornisce la nozione di "innocenza" nell'utilitarismo e nel contrattualismo, cioè in dottrine virtualmente compatibili con l'assenza di libertà metafisica: per l'utilitarista, punire l'innocente sarebbe ingiusto perché contro quelle regole stabilite per massimizzare l'utile, mentre per il contrattualista sarebbe ingiusto punire l'innocente perché contrario a quelle regole costruite da agenti liberi (di fare), informati e interessati alla regolazione delle proprie vite. Nessuna delle due prospettive, però, dà un valore all'innocenza in sé: «Neither, it seems natural to say, is really concerned with true morality or justice, in the free will context. Only the desert-based account is unwilling to accept social arrangements whereby some innocent individual will pay the price of the social good, and makes innocence in itself an inherently superior moral concern».
Riassumendo, Smilansky ritiene che 1) il libero arbitrio non esista e che la questione dell'autodeterminazione sia il problema centrale; 2) che compatibilismo e determinismo duro sono posizioni che rendono conto di una parte della verità, pur offrendo soluzioni opposte al problema del controllo; 3) che la consapevolezza che non vi sia autodeterminazione avrebbe effetti nefasti sulla psicologia e sulla vita sociale dell'individuo e 4) che l'illusione del libero arbitrio sia fondamentale affinché il rispetto di sé e la moralità non perdano di senso. Tale illusione si pone come una barriera contro i pericoli del determinismo duro, sostenendo e potenziando quella porzione di verità in mano al compatibilismo. Se la teoria di Smilansky è corretta, 'living without free will' rischia di essere ben più spiacevole di quanto Pereboom non pensi.
Va segnalato che l'analisi del filosofo israeliano non è comunque immune da critiche, soprattutto per la radicalità con cui connette l'apparato della civiltà al libero arbitrio. Egli non considera l'ipotesi per cui la pratica può includere la libertà tra i suoi oggetti senza ridursi a essa. P.F. Strawson e Bagnoli argomentano persino a favore del fatto che la razionalità pratica svolge la propria funzione a partire da un contesto interattivo e normativo indipendente dalla questione del libero arbitrio. De Monticelli, invece, sostiene che la libertà sia condizione di possibilità della razionalità pratica, e che pertanto è impossibile che sia un'illusione a fondare moralità e civiltà. Testerò questi argomenti nell'ultimo capito ma, prima di ciò, intendo occuparmi degli esperimenti di psicologia morale, i quali hanno cercato di sostanziare le speculazioni di libertari, compatibilisti e scettici.





























Capitolo 6. La filosofia sperimentale e l'intuizione della libertà



L'etichetta 'filosofia sperimentale' si riferisce a un movimento di recente nascita che si approccia ai problemi filosofici impiegando i metodi delle scienze empiriche. Il filosofo sperimentale è convinto che l'indagine filosofica non possa limitarsi alla pura speculazione, ma debba invece sporcarsi le mani in laboratorio. Neuroscienze, psicologia, indagine statistica sono i mezzi a cui viene spesso fatto ricorso per comprendere i meccanismi del nostro pensiero, nella speranza che la migliore conoscenza delle nostre intuizioni possa far luce sui misteri dell'umano. Il più grande mistero, quello del libero arbitrio, ha assorbito gran parte degli sforzi in questo senso.
Come si è visto nelle pagine precedenti, l'analisi concettuale del problema della libertà ha prodotto risultati scarsi e per di più poco condivisi, tanto che un'ondata di scetticismo naturalistico ha cominciato a diffondersi e ad acquisire sempre più seguaci. Il ricorso ai metodi delle scienze empiriche potrebbe allora apparire come un segno di vittoria dell'imperialismo scientifico, il quale avrebbe scosso la filosofia dalla sua torre d'avorio. Una visione più moderata pensa invece che raccogliere nuovi dati con un inedito livello di dettaglio sia utile per instaurare un circolo virtuoso tra filosofia e scienza, un circolo dove le due discipline restano distinte pur inviandosi reciprocamente nuovi stimoli. Nel caso del problema della libertà, oltre agli esperimenti di neuroscienze, negli ultimi anni si è fatto ricorso a numerosi esperimenti di psicologia morale, i quali sono stati condotti col preciso intento di capire innanzitutto quali sono le intuizioni dell'uomo comune (se è incompatibilista o compatibilista) e, in seconda battuta, quali effetti può avere sulla psiche e sul comportamento la consapevolezza che non vi è libertà nelle nostre scelte. A differenza di Libet e Haynes, questi esperimenti non hanno alcuna valenza metafisica, cioè non dicono nulla sulla reale esistenza del libero arbitrio. Piuttosto, offrono indizi 1) sulla tendenza dei giudizi in merito a libero arbitrio e responsabilità morale, e 2) sulla modulazione del comportamento morale in diversi contesti. Detto in una parola, a essere testate sono intuizioni, credenze, e il loro effetto sul comportamento. Ciò si riconnette con le teorie di Pereboom e Smilansky, poiché entrambi speculano sulle possibili ripercussioni di certe credenze sulla condotta.
Purtroppo, i dati raccolti dalla psicologia in merito ai giudizi su libero arbitrio e responsabilità non sembrano, almeno a prima vista, confortanti. Come mostrerò tra breve, essi non fanno che riproporre la dialettica tra compatibilismo e incompatibilismo senza offrire una soluzione netta. Il dato di maggior rilevanza – per alcuni un vero punto di rottura rispetto al dibattito tradizionale – è che il meccanismo connesso all'attribuzione di responsabilità non sembra modulato unicamente dalle credenze nel determinismo o nel libero arbitrio, ma anche e principalmente da altri fattori, come il desiderio di punire o il voler individuare la causa di un evento.
Sul versante pratico, invece, i risultati sono parsi più netti e in generale accordo con le tesi di Smilansky: indebolire la credenza di essere liberi induce a maggior aggressività e riduce i comportamenti pro-sociali. Altri studi hanno rilevato che una minor credenza nel libero arbitrio inclina le persone a infliggere punizioni meno severe (p.e. meno anni di carcere) per reati gravi, ma questo, unitamente ai dati prima riportati, mostra solo che la tendenza a depenalizzare i crimini non andrebbe di pari passo con una miglior pratica sociale, dando ragione ancora una volta a Smilansky. Ciò mi porta a dubitare dell'ottimismo di Pereboom e a pensare che il suo sistema sarebbe assimilabile solo da una popolazione sufficientemente colta per capire e interiorizzare la pars construens di Living Without Free Will. In caso contrario, si renderebbe necessario un programma pedagogico che ne contrasti gli effetti collaterali, promuovendo il buon vivere associato e contrastando la rassegnazione. Questo nel peggior scenario ipotizzabile.
I dati attuali non ci consentono comunque di fare previsioni attendibili su larga scala, e non è detto che il catastrofismo di Smilansky sia la naturale conseguenza del non credere nel libero arbitrio. I dati, piuttosto, suggeriscono cautela di fronte a un pericolo che non possiamo stimare. E il miglior atteggiamento di cautela, a mio avviso, è lo sviluppo di una pedagogia morale ispirata al pensiero di John Dewey, un'educazione che libertari, compatibilisti e scettici potrebbero tutti accettare in egual grado. Accennerò di questo nella conclusione, mentre ora esporrò gli esperimenti più significativi in merito alle intuizioni sul libero arbitrio.



6.1 La dialettica tra intuizioni compatibiliste e incompatibiliste

Numerosissimi filosofi, dai libertari come Kane agli scettici come van Inwagen, hanno dato per scontato che l'essere umano non sia portato ad attribuire responsabilità e libertà in contesti deterministici: il senso di agency che proviamo ogni giorno ci fa sentire padroni del nostro destino e ci impedisce di ritenere responsabili coloro che non hanno il controllo delle proprie azioni. Come sostengono anche Smilansky e Pereboom, la possibile illusorietà di tale controllo non toglie il fatto che la libertà sia necessaria per la responsabilità morale, mentre il determinismo le si oppone. Tra tutti, solo i compatibilisti ritengono che il determinismo non abbia implicazioni così tragiche.
Lo studio di Nahamias e colleghi del 2006 è stato il primo di una serie di esperimenti volti a sconfessare la naturale intuitività dell'incompatibilismo. Gli studiosi hanno sottoposto i partecipanti a tre scenari e hanno chiesto loro se i protagonisti fossero da ritenere liberi e responsabili. Riassumo gli scenari come segue:


Scenario 1: si presenta ai soggetti la concezione deterministica di Laplace, per cui dalla conoscenza dello stato corrente dell'universo e delle leggi di natura è possibile dedurre ogni stato futuro. Si chiede poi di immaginare che venga creato un supercomputer capace di monitorare tutti questi fattori e di prevedere con il 100% di accuratezza gli eventi futuri. Tale computer segnala che un certo Jeremy Hall nascerà nel 2150 e rapinerà una banca il 26 Gennaio 2195, e l'evento accade come previsto. Per verificare se il giudizio dei partecipanti viene influenzato dalla natura negativa del fatto, ad altri soggetti si propone lo stesso scenario, ma una diversa azione: una moralmente buona come salvare un bambino, e una neutra come fare jogging.

Scenario 2: si offre ai partecipanti una visione più semplice, e forse più saliente, di determinismo. Lo scenario è quello dell'eterno ritorno, in cui il mondo viene ricreato infinite volte e in cui le leggi di natura portano sempre agli stessi risultati. La protagonista, Jill, decide di rubare una collana in un certo momento, e lo rifà a ogni ri-creazione nello stesso modo e nello stesso momento.

Scenario 3: si cerca di evidenziare il fatto che ogni azione è deterministicamente causata da fattori oltre il controllo dell'agente. Il contesto è quello del determinismo genetico e ambientale. Due gemelli, Fred e Barney, vengono dati in adozione alla nascita. Essi hanno gli stessi geni, ma il primo cresce in una famiglia avara ed egoista, mentre il secondo cresce in una famiglia dai sani principi morali. Fred è così determinato a essere avaro e disonesto, mentre Barney diventa una bravissima persona. Un giorno entrambi trovano un portafoglio con all'interno mille dollari e devono decidere cosa fare. Fred tiene i soldi, Barney li restituisce. Tuttavia, se Barney fosse cresciuto nella famiglia di Fred, sarebbe diventato lui l'immorale, e viceversa, per via del determinismo genetico e ambientale.

Alla domanda se i protagonisti avessero agito di libera volontà e fossero responsabili dei propri atti, i soggetti sperimentali hanno risposto come segue:

I soggetti giudicano che gli agenti…
Scenario 1
(Jeremy)
Scenario 2
(Jill)
Scenario 3
(Fred & Barney)

… hanno agito di loro volontà
76% (rapinare la banca)
68% (salvare il bambino)
79% (fare jogging)


66%

76% (tenere i soldi)
76% (restituire i soldi)
… sono moralmente responsabili per le loro azioni
83% (rapinare la banca)
88% (salvare il bambino)


77%

60% (tenere i soldi)
64% (restituire)
Tabella 1
Le percentuali riportate indicano che la maggioranza dei soggetti ha offerto una risposta compatibilista in tutti e tre gli scenari, indipendentemente da quanto fosse 'forte' la descrizione deterministica. Contrariamente a quanto pensano libertari e scettici, dunque, l'essere umano non sarebbe un incompatibilista naturale.
In risposta a questo esperimento, lo studio di Nichols e Knobe del 2007 ha rilevato un'asimmetria particolare nei giudizi dei soggetti sperimentali. Dapprima, gli studiosi hanno presentato due universi: nell'universo A, ogni decisione è causata da eventi precedenti e, una volta dato il passato, deve accadere (has to happen) come accade; nell'universo B, le decisioni non sono completamente causate dal passato e non sono vincolate ad accadere in un certo modo. Si è poi chiesto ai partecipanti quale universo fosse più simile al nostro. Il primo risultato è che oltre il 90% dei partecipanti ha risposto che l'universo B è quello più simile al nostro. Dopodiché, gli sperimentatori hanno diviso i partecipanti e somministrato loro due scenari, una condizione astratta e una concreta.

Condizione concreta: si descrive un'azione immorale plausibile, ma nell'universo deterministico A. Viene chiesto di immaginare che Bill voglia vivere con la sua segretaria, ma l'unico modo per farlo sia uccidere la moglie e i tre figli. Siccome Bill sa che è impossibile fuggire di casa in caso d'incendio, prima di partire per un viaggio d'affari lascia un congegno in cantina che provoca l'incendio e la morte dei famigliari.

Condizione astratta: si tratta di un quesito concettuale. Viene chiesto: "nell'universo A, è possibile per una persona avere piena responsabilità morale per le proprie azioni?"


Ora, mentre nella condizione concreta il 72% dei partecipanti ha offerto la risposta compatibilista (Bill è responsabile dell'omicidio), nella condizione astratta ben l'86% ha risposto da incompatibilista (non è possibile attribuire responsabilità in un universo deterministico). Per comprendere il perché di tale asimmetria, Nichols e Knobe hanno quindi rielaborato due nuovi scenari, mantenendo fissa la variabile della concretezza e manipolando l'impatto emotivo dell'azione immorale. In aggiunta, a metà dei soggetti viene detto che l'azione avviene nell'universo A, mentre agli altri nell'universo B:
Condizione ad alto impatto emotivo: come ha fatto molte volte in passato, Bill segue e violenta un'estranea. Egli può essere ritenuto moralmente responsabile dello stupro?

Condizione a basso impatto emotivo: come ha fatto molte volte in passato, Mark si organizza per evadere le tasse. Egli può essere ritenuto moralmente responsabile per l'evasione?

I risultati sono stati i seguenti:


I protagonisti sono responsabili?
Universo indeterministico B
Universo deterministico A
Alto impatto emotivo
95%
64%
Basso impatto emotivo
89%
23%
Tabella 2

Dalla tabella emerge come, anche in casi esclusivamente concreti, la risposta vari a seconda dell'impatto emotivo del contesto. In un contesto deterministico, la maggioranza dei soggetti crede che Mark non sia responsabile per l'evasione delle tasse, mentre attribuisce a Bill la responsabilità dello stupro.
Da ciò, gli psicologi ipotizzano che sia proprio l'impatto emotivo a creare una distorsione nel giudizio: di base saremmo incompatibilisti, ma quando l'azione ci suscita forti emozioni tendiamo a sottovalutare le conseguenze del determinismo e rispondiamo come compatibilisti ('errore di prestazione'). Detto in altri termini, quando siamo soggetti a un forte impatto emotivo, non riusciamo a compiere l'inferenza che invece viene fatta a livello astratto.
Ora, benché lo studio di Nichols e Knobe abbia offerto un'interpretazione del perché le persone ragionino spesso come compatibiliste, non tutti si sono ritenuti concordi con tali dati. Dal 2006 in avanti gli studi si sono moltiplicati in maniera esponenziale per verificare la solidità dell'ipotesi dell'errore di prestazione. Riassumo qui, in ordine cronologico, i maggiori esperimenti e i relativi risultati.

Nahamias, Coates e Kavran (2007). In risposta all'attacco di Nichols e Knobe, Nahamias e colleghi hanno sostenuto che il determinismo descritto in quegli esperimenti può essere scambiato per epifenomenismo o fatalismo. Col verbo "has to happen" Nichols e Knobe avrebbero suggerito ai soggetti sperimentali che la vita mentale non ha alcuna efficacia causale sulla condotta, quando il determinismo non avrebbe implicazioni di questo tipo. Nahamias e colleghi hanno dunque presentato due scenari deterministici, con la differenza che in uno si dava una spiegazione neuro-riduzionistica della vita mentale, mentre nell'altro si optava per una spiegazione psicologica. Il risultato è stato che la maggioranza dei soggetti ha visto nello scenario neuroscientifico un maggior ostacolo per l'attribuzione della responsabilità, con un picco di risposte incompatibiliste. Secondo gli autori, l'errore di prestazione non avviene perché le emozioni mettono in secondo piano le conseguenze del determinismo, ma perché le persone confondono il determinismo con il riduzionismo. Senza questa confusione, il responso sarebbe sempre a favore dei compatibilisti.

Feltz e Cokely (2008). Oltre alle variabili della concretezza e del riduzionismo, i due autori hanno investigato l'influenza delle diverse personalità sull'attribuzione di libertà e responsabilità. Alcuni soggetti sono stati sottoposti allo scenario deterministico, ma non riduzionistico, dell'esperimento di Nahamias, Coates e Kavran, tenendo però sotto controllo il variare delle risposte a seconda del livello di estroversione personale. La predizione degli sperimentatori era che un alto indice di estroversione avrebbe portato a una maggior sensibilità ai risvolti sociali dello scenario, e dunque una maggior tendenza a risposte compatibiliste di fronte ad atti immorali. La previsione è stata confermata, offrendo così un primo indizio a favore del fatto che le differenze nelle intuizioni vadano oltre le categorie del dibattito tradizionale: l'attribuzione di libertà e responsabilità non si riduce alla questione del determinismo.

Roskies e Nichols (2008). Questo studio ha mostrato che il giudizio dei soggetti è sensibile alla natura ipotetica del mondo nello scenario. Infatti, se il quesito coinvolge il nostro mondo, le persone sono propense a rispondere da compatibiliste. Se invece viene presentato un universo alternativo o di fantasia, si tende a non attribuire né libertà né responsabilità morale. Di per sé, tale risultato non aiuta a risolvere la diatriba tra Nahamias e Nichols, ma offre un'importante indicazione: «Benché la prospettiva astratta e non situata dell'uomo della strada sulla natura della libertà possa definirsi incompatibilistica, i nostri risultati indicano che la prospettiva situata sulla responsabilità, e in misura leggermente minore quella sulla libertà, non dipende dalla risposta alla questione del determinismo».

Clarke et. al. (2014). L'esperimento è stato condotto con l'intento di capire il motivo per cui le persone credono nel libero arbitrio. L'ipotesi di riferimento è quella di Nietzsche ne Il crepuscolo degli idoli, secondo la quale l'uomo crede nella libertà per poter giudicare e punire le azioni del prossimo. Diversamente dagli altri esperimenti, qui non si parte dall'evidenza del libero arbitrio per giungere alla conclusione della responsabilità, ma si esamina un processo che va dall'attribuzione di responsabilità alla credenza nella libertà, per verificare se e quanto tale credenza sia manipolabile. Nella prima fase, due gruppi hanno letto rispettivamente un articolo che riportava di un giudice corrotto (contesto immorale) e un annuncio di lavoro (gruppo di controllo). Il risultato è stato che alla lettura dell'azione immorale è seguito un maggior livello di credenza nel libero arbitrio rispetto al gruppo di controllo. Nella seconda fase, sono stati presentati due scenari ipotetici, uno moralmente carico (un ladro disoccupato e con figli a carico ruba nella casa di un insegnante) e uno moralmente neutro (un uomo disoccupato e con figli a carico raccoglie le lattine di alluminio dal cassonetto della differenziata per venderle a una compagnia di riciclaggio). I dati hanno mostrato che nel caso moralmente carico i soggetti avevano maggiori tendenze a credere nel libero arbitrio, attribuivano maggior libertà al ladro e volevano punirlo. Ma il dato davvero interessante è che il desiderio di punire ha modulato sia la credenza soggettiva nel libero arbitrio che l'attribuzione di libertà al prossimo, potenziandole. Nella terza fase questo dato è stato testato fuori dal laboratorio, mandando tre differenti mail a una classe di studenti universitari. Alcuni hanno ricevuto un messaggio che informava di un imbroglio durante un esame, e che il trasgressore era stato punito. Altri hanno ricevuto lo stesso messaggio, ma con la differenza che il trasgressore non era ancora stato individuato. Infine, il gruppo di controllo ha ricevuto un invito a un incontro post-esame. Anche in questo caso, la forza della credenza nel libero arbitrio è stata maggiore nel contesto dell'azione immorale, indipendentemente dal fatto che la punizione fosse stata afflitta o meno: il desiderio di punire il trasgressore ha influenzato tale credenza nel 95% dei partecipanti. Nella quarta fase, sono stati presentati a due gruppi gli scenari della seconda fase. Dopodiché sono stati somministrati dei testi nel quale si offrivano argomentazioni scientifiche di carattere scettico sul libero arbitrio. Nel caso del furto in casa, la maggioranza dei soggetti ha reagito negativamente alle spiegazioni scientifiche, rigettandole. L'insieme di questi dati mostra che il desiderio di attribuire responsabilità morale (per punire) è primario rispetto all'attribuzione di controllo (determinismo). Di fronte a un'azione immorale, le persone potenziano la propria percezione di libertà in modo da avere una giustificazione post hoc del proprio desiderio afflittivo. Questo spiegherebbe i giudizi compatibilistici degli altri esperimenti e, se si guarda la Tabella 1, perché i soggetti sperimentali ritengono Jeremy più libero di rapinare (76%) che di salvare il bambino (68%) sebbene l'assegnazione di responsabilità sia stata praticamente la stessa.

Figdor e Phelan (2015). Gli studi precedenti suggeriscono che il dibattito filosofico tradizionale non esaurisce completamente le intuizioni della gente comune. L'ipotesi di Figdor e Phelan è che i giudizi inerenti responsabilità e libero arbitrio si fondino su meccanismi psicologici diversi e in larga parte indipendenti. Gli autori hanno così creato degli scenari tenendo sotto controllo contemporaneamente numerose variabili di contesto (azione prevedibile/non prevedibile; spiegazione neuro-riduzionistica/spiegazione psicologica; mondo attuale/mondo di fantasia). I dati hanno rilevato un'asimmetria significativa nei giudizi relativi a libero arbitrio e responsabilità, mostrando una certa stabilità dei primi e una variabilità dei secondi. In particolare, nello scenario attuale e neuroscientifico i soggetti tendono a non attribuire libertà ma continuano a ritenere le persone moralmente responsabili. Detto in altri termini, i soggetti rispondono da incompatibilisti per la libertà e da compatibilisti per la responsabilità: le due cose sono sorprendentemente scisse. L'ipotesi degli studiosi è che tale divergenza sia dovuta a due processi psicologici distinti, uno per identificare le cause ('Who/What did it?') e uno per spiegare l'agire ('Why did do it?'), che operano con una certa indipendenza e possono essere manipolati separatamente. Nell'attribuire la responsabilità, i soggetti stanno in realtà identificando le cause, mentre nel valutare il grado di libertà cercano di offrire delle spiegazioni. Di fronte alla violazione di una norma (o anche solo di un'abitudine) il primo meccanismo ad attivarsi è quello dell'identificazione della causa, il quale non ha bisogno di essere accompagnato da una spiegazione. Anzi, sarebbe proprio questo meccanismo a essere condizione di possibilità dell'attribuzione del libero arbitrio, perché: «being identified as the cause is necessary for ascribing free will to an agent as an explanation for his having caused what he did. He may not have done it freely. But he must have done it to be free».

Nel complesso, si può vedere come, a partire dal 2008, si sia rafforzata l'idea che la conoscenza della condizione metafisica del nostro universo non influenzi i giudizi di responsabilità così pesantemente come ci si aspetterebbe. Ciò segnerebbe una clamorosa vittoria per P.F. Strawson, il quale appunto sosteneva che gli atteggiamenti reattivi fossero immuni dalle questioni metafisiche. Lo studio di Clarke e colleghi addirittura mostra che, di fronte a un'azione immorale, le persone sono portate a rigettare le spiegazioni scientifiche del determinismo pur di ritenere il ladro responsabile. Ma nel contempo, lo studio di Clarke mostra anche che la libertà è funzionale alla giustificazione della responsabilità, e che pertanto si tratta di un oggetto contemplato dalla pratica!
Ora, non è facile stabilire quanto questi esperimenti possano influenzare l'indagine filosofica. Oltre a non avere alcuna valenza metafisica, infatti, gli studi presentano una forte discordanza, e ciò non ci permette di stabilire quale siano le intuizioni standard dell'essere umano. Tutte le teorie filosofiche potrebbero appellarsi a una selezione di esperimenti per trovare una conferma empirica. Allo stesso modo, tutte le teorie filosofiche potrebbero essere sconfessate empiricamente facendo ricorso a una diversa selezione di esperimenti. Qui sta il problema.
D'altronde, integrare gli esperimenti di psicologia morale con la teoria filosofica incorre in grosse difficoltà pratiche, e Sommers nel 2010 ne elencava alcune: 1) il bisogno di descrivere il determinismo in modo saliente ma senza incentivare visioni riduzionistiche o fatalistiche, 2) la variabilità con cui i soggetti possono interpretare concetti complessi come "libero arbitrio" e "responsabilità morale", 3) la difficoltà dei soggetti nel comprendere le implicazioni dei vari scenari, 4) la necessità di esaminare le intuizioni alla base degli argomenti filosofici (p.e. le due condizioni della libertà) e non impuntarsi sul problema della compatibilità, che è già a un livello superiore.
Ma allora gli esperimenti di psicologia morale sono completamente inutili? Non è questo quello che voglio sostenere. L'insieme delle ricerche che ho elencato suggerisce che i nostri giudizi su libero arbitrio e responsabilità sono modulati dalle emozioni, dalla personalità, dal desiderio di punire le azioni immorali, e tutto ciò può essere utile per pensare a modalità di riforma educativa, sociale e culturale. Comprendere a cosa la mente (e il cervello) è sensibile permette di ideare esperimenti in cui verificare se sia possibile, per esempio, migliorare la comunicazione e l'empatia tra gli individui. Quello che ci manca sono spiegazioni precise delle correlazioni tra i vari elementi (non dobbiamo comunque dimenticare che si tratta di ricerche pionieristiche).
Personalmente, ritengo che la teoria dell'errore di prestazione di Nichols e Knobe si integri molto bene con la difficoltà evidenziata da Sommers e lo studio di Clarke: le persone comuni fanno fatica a comprendere le implicazioni del determinismo (e di sicuro non hanno confidenza con le raffinate spiegazioni del compatibilismo) e il desiderio di punire ha certamente una componente emotiva. È allora ragionevole pensare che le persone mirino 'al risultato' (la punizione), trasportate un po' dagli istinti, un po' dalle esigenze del contesto, lasciando in secondo piano il ragionamento teorico. In generale, una correlazione tra libertà e responsabilità sembra comunque persistere (gli scenari di fantasia e astratti registrano sempre risposte incompatibiliste) sebbene non così lineare come la tradizione filosofica vorrebbe.




6.2 Io non sono libero, quindi posso essere egoista

Tra speranze e difficoltà, gli studi di filosofia sperimentale hanno, a mio avviso, un obiettivo primariamente pratico. Conoscere e testare i meccanismi psicologici alla base di giudizi e comportamenti è un tentativo, più o meno velato, di comprendere come poter intervenire su di essi e orientarli, si spera, verso il bene sociale. D'altronde l'obiettivo non può essere che questo, data la scarsa validità metafisica gli esperimenti.
Nel 2008, Vohs e Schooler hanno offerto per primi una prova empirica dell'ipotesi pessimistica: l'esposizione alla visione deterministica aumenta la tendenza a compiere azioni immorali. L'esperimento si è condotto in due fasi. Nella prima, i soggetti si sono presentati in laboratorio individualmente ed è stato assegnato loro, in maniera casuale, un passo de The Astonishing Hypothesis di F. Crick. Nella condizione anti-libertaria, il passo descriveva l'illusorietà del libero arbitrio, mentre nella condizione di controllo si leggeva un capitolo che parlava di coscienza, ma non di libertà. Quelli sottoposti alla visione scettica hanno quindi risposto a un questionario e riportato un indebolimento della propria credenza nel libero arbitrio. Dopodiché, ai soggetti sono stati assegnati venti compiti aritmetici su pc, dicendo loro che un difetto nel software faceva apparire sullo schermo la soluzione, ma che tale inconveniente era risolvibile premendo la barra spaziatrice non appena i problemi venivano visualizzati. Lo sperimentatore ha poi consigliato loro di rispondere onestamente, nonostante fosse impossibile per lui verificare la pressione della barra spaziatrice (in realtà i computer non solo registravano le risposte, ma anche il numero di volte in cui si premeva lo spazio). Il risultato è stato che la maggioranza di chi aveva letto il capitolo contro la libertà ha premuto di meno la barra spaziatrice e imbrogliato di più.
Nella seconda fase, gli sperimentatori hanno perfezionato la richiesta, poiché il computer non poteva distinguere tra chi non premeva la barra per barare e chi non la premeva semplicemente per inerzia. Questo limite è stato superato assegnando un compito che richiedesse un comportamento attivo per barare. I partecipanti sono stati dunque ripartiti in cinque condizioni, tre delle quali con l'opportunità di barare e suddivise in uno scenario libertario, uno anti-libertario e uno neutro. I soggetti hanno poi letto individualmente quindici frasi coerenti con lo scenario assegnato. Fatto questo, gli sperimentatori hanno somministrato quindici problemi logico-matematici promettendo un dollaro di ricompensa per ogni risposta esatta. Infine, nelle tre condizioni in cui era possibile barare, lo sperimentatore ha detto di non poter restare per un impegno improvviso e offerto le seguenti istruzioni: eseguire gli esercizi in quindici minuti; segnare le risposte su un foglio; verificare quelle corrette confrontandole con le soluzioni lasciate nella stanza; prendere un dollaro per ogni risposta esatta dal portafoglio anch'esso lasciato nella stanza; eliminare i fogli nel tritacarte. In questo modo non è stato possibile determinare la prestazione individuale, ma dai soldi presi in ricompensa è stato possibile ricostruire la media delle 'risposte esatte'. Nelle due situazioni di controllo (nessuno scenario e scenario deterministico) lo sperimentatore è rimasto invece presente e non ha permesso che si imbrogliasse. I dati sono stati i seguenti:


Figura 4. Nelle prime due condizioni, lo sperimentatore era presente. Le ultime tre invece sono quelle in cui è stato possibile imbrogliare.

L'istogramma mostra come, in media, dopo essere stati sottoposti alla visione deterministica e messi in condizione di barare, i partecipanti si siano dimostrati 'più bravi' rispetto agli altri. O meglio, i partecipanti che hanno letto le affermazioni del determinismo si sono, in media, pagati di più. Vohs e Schooler hanno ipotizzato che un tale comportamento sia dovuto al fatto che interiorizzare il determinismo genera una mentalità del "chi se ne importa?" (Why bother?) e un conseguente disinteresse per gli atteggiamenti immorali.
Sommers ha sollevato dubbi sul fatto che una semplice lettura di argomenti deterministici possa condizionare così tanto il comportamento nel giro di quindici minuti. Quello che lo studioso denuncia in particolare è che Vohs e Schooler non citino ricerche che documentino una correlazione così stretta e repentina. Il secondo esperimento di cui parlerò tenta di superare questo problema analizzando diversi comportamenti immorali e tenendo conto della differenza tra chi è solito non credere nel libero arbitrio, e chi è invece condizionato solo in sede sperimentale.
In Prosocial Benefits of Feeling Free, Baumeister e colleghi hanno verificato l'ipotesi per cui non crederci liberi aumenta l'aggressività e i comportamenti egoistici. Lo studio si è svolto in tre fasi. Nella prima, settanta studenti universitari sono stati assegnati casualmente a tre condizioni, una pro-libero arbitrio, una pro-determinismo e una neutra. I partecipanti hanno poi letto quindici frasi coerenti con lo scenario di assegnazione, dopodiché sono state date loro sei scene ipotetiche in cui si doveva offrire aiuto a qualcuno (p.e. dare l'elemosina a un senzatetto o prestare il cellulare a un compagno di corso). I risultati hanno dimostrato che i partecipanti nella condizione pro-determinismo erano meno inclini a offrire il loro aiuto rispetto ai colleghi nelle altre condizioni. Contrariamente all'ipotesi degli sperimentatori, incentivare la credenza nel libero arbitrio non ha incentivato l'altruismo rispetto alla condizione di controllo, confermando che la gente comune, di norma, pensa di essere libera.
Nella seconda fase, cinquantadue studenti sono stati sottoposti a un questionario per verificare con quanta forza credessero nel libero arbitrio e nel determinismo, ripetendo la prova dopo 6/10 settimane. Il test ha appurato una certa stabilità nelle convinzioni dei soggetti. Dopodiché, a ognuno dei partecipanti è stato detto che avrebbe sentito uno di sei possibili programmi radio (selezionato con un tiro di dado), anche se poi è stata fatta ascoltare sempre e solo una registrazione: quella di una donna di nome Katie Banks, la quale ha perso i genitori e cerca lavoro per poter badare ai suoi fratelli. Infine, dopo la compilazione dell'ennesimo questionario, gli sperimentatori hanno offerto l'opportunità di aiutare veramente Katie dedicandole alcune ore di volontariato (da 0 a 9 o più). I risultati hanno mostrato che una radicata convinzione contro il libero arbitrio si associa non solo a un minor numero di ore messe a disposizione, ma anche a una minore tendenza a offrirsi volontari.
Nella terza e ultima fase si è testata la relazione tra scetticismo e aggressività nei confronti di persone innocenti. Il rifiutarsi di aiutare infatti può essere dovuto anche a una certa passività o pigrizia delle persone, mentre aggredire un innocente rappresenta un comportamento attivo e intrinsecamente immorale. Cinquantasei studenti sono stati quindi convocati in gruppi da 4/6 persone e i membri di ogni gruppo hanno interagito per alcuni minuti. Gli sperimentatori hanno quindi preso individualmente i soggetti e chiesto loro di annotare su un foglio il nome della persona preferita per collaborare nell'esperimento, per poi assegnare casualmente a ogni partecipante la condizione "Mi spiace, nessuno ha scelto di lavorare con te" e "Ho buone notizie, tutti vogliono lavorare con te". La manipolazione delle credenze è avvenuta come nella prima fase, sottoponendo ogni persona a quindici frasi pro o contro il libero arbitrio, senza la condizione di controllo. Infine, a ogni studente è stato chiesto di preparare due campioni di cibo per uno sconosciuto del quale si sapeva che odiava il piccante e che doveva mangiare tutto quello che gli veniva dato. Il primo campione era composto da tre cracker con del formaggio fuso, il secondo da tre tortilla con una forte salsa piccante. I campioni di cibo sono stati pesati prima di essere dati al partner e dopo. I risultati hanno mostrato che chi ha letto le frasi pro-determinismo ha dato più salsa piccante di chi è stato incoraggiato a credere nel libero arbitrio. Opportune misurazioni hanno mostrato che tale comportamento non è dipeso dall'eventuale frustrazione del non essere stati scelti da nessuno, né dal fatto di voler dare più cibo all'altro.
Secondo Baumeister e colleghi, questi risultati sono in accordo con una teoria ben precisa: il sentimento di volontarietà e controllo è un incentivo fondamentale per spendere energie in comportamenti pro-sociali. Credere nel libero arbitrio funzionerebbe da freno inibitore contro quegli impulsi automatici che, nella maggioranza delle persone, perseguono fini egoistici e si disinteressano degli sconosciuti. Incentivare una visione deterministica del mondo avrebbe dunque l'effetto di dare libero sfogo alle reazioni istintive represse e a quella mentalità "Chi se ne importa?" tanto deleteria per le relazioni sociali.
Di fronte a questi dati, si può quindi dire che Smilansky abbia ragione? Risponderei: in parte. Gli esperimenti non legittimano certo le visioni catastrofiste del filosofo israeliano – riempire di salsa piccante una tortilla è ben lontano dall'esaurire uno scenario di anarchia e violenza generali – ma mostrano un'influenza dell'idea di libertà sulla condotta. Precisato questo, i suddetti esperimenti continuano ad avere nei risultati di Figdor e Phelan degli avversari importanti. I team di Vohs e Baumeister danno infatti per scontato che al decadere della libertà decada pure la responsabilità, ma se così non fosse? Se davvero la responsabilità morale superasse i confini del libero arbitrio, e se fosse il senso di responsabilità il vero catalizzatore sociale, perché i soggetti sperimentali si sono comportati in modo anti-sociale? Non si ritengono responsabili, oppure non se ne preoccupano? O forse i giudizi morali cambiano radicalmente se riguardano terze persone anziché se stessi? Vi è inoltre un esempio storico che contrasta gli esiti di Baumeister: il caso dei luterani e dei calvinisti. De Caro e Marraffa ricordano infatti come le due comunità religiose fossero convinte dell'illusorietà del libero arbitrio (servo arbitrio) e come questa convinzione abbia fornito «un formidabile impulso all'agire mondano, in particolare sul piano economico e imprenditoriale: al punto che secondo Weber il risultato di ciò fu la nascita del capitalismo». Sommers fa loro eco notando ironicamente che gli eliminativisti più duri (p.e. Smilansky, Pereboom, Diderot, Spinoza) sono o sono stati individui realizzati e moralmente sani. Nessun esperimento è ancora riuscito a dimostrare se siano l'eccezione che conferma la regola.




Capitolo 7. Responsabilità e libero arbitrio: una correlazione necessaria?



7.1 Quale responsabilità?

Giunti a questo punto, dovrebbe essere emersa la posta in gioco nell'affrontare il problema del libero arbitrio. La preoccupazione più grande, condivisa tanto dai libertari quanto da Smilansky, è che la libertà sia condizione di possibilità della responsabilità, e che senza di questa la vita umana perda di senso e degeneri in un'anarchia di istinti egoistici. Questo esito, tuttavia, non è condiviso da tutta la comunità accademica e sono molte le argomentazioni che tentano di sganciare la nozione di responsabilità dalle questioni metafisiche. Dal canto loro, gli esperimenti di psicologia morale rispecchiano la contrapposizione che agita la discussione teoretica, manifestando un'importante discordanza a livello di raccolta e interpretazione dei dati.
Prima che mi dedichi agli argomenti delle varie fazioni, è bene offrire un minimo di background teorico del concetto di "responsabilità". In questo lavoro infatti ho preso in esame dapprima la responsabilità giuridica del criminale, e solo nel quinto capitolo ho chiamato in causa la responsabilità morale. Questi due concetti, però, non sono equivalenti.
Innanzitutto, il concetto principale per questa discussione è quello di responsabilità morale, il quale si compone di due elementi: un aspetto intersoggettivo, in quanto essere responsabili significa rispondere del proprio comportamento di fronte all'interrogazione dell'altro; e un aspetto che riguarda l'oggetto, nel senso che possiamo essere responsabili solo delle azioni e delle conseguenze previste che dipendono da noi in maniera essenziale. La responsabilità morale è poi una responsabilità personale, che fa riferimento all'entità persona e ha connotati normativi (l'agente ha doveri o obblighi verso qualcosa), e in questo si distingue dalla responsabilità causale (che riguarda sostanzialmente eventi ed è quella a cui fanno riferimento Figdor e Phelan). Infine, è una responsabilità solitamente retrospettiva, dato che si risponde di ciò che si è compiuto, ma può essere anche prospettica, cioè rivolta al futuro (p.e. la responsabilità di un genitore verso i figli).
Non si sta pertanto parlando della responsabilità come ruolo (quella del capitano di una nave o del capo di un governo), né della responsabilità collettiva (che riguarda enti collettivi e non individui). Discorso a parte va invece fatto per la responsabilità giuridica, che spesso si associa a quella morale, ma di cui la responsabilità morale non è condizione né necessaria né sufficiente. Ad esempio, io sono moralmente responsabile se tradisco la fiducia di un amico, ma non per questo sono imputabile secondo la legge. Viceversa, la legge mi impone di rispondere dei danni che i miei dipendenti causano a terzi mentre lavorano, seppure io non ne abbia colpa e non possa essere biasimato.
Data questa tassonomia concettuale, si possono meglio comprendere le posizioni degli autori da me presentati. I libertari si occupano prevalentemente della responsabilità morale retrospettiva e la connettono intrinsecamente al libero arbitrio: senza la libera volontà, nessuno sarebbe padrone delle proprie azioni, quindi nessuno sarebbe mai moralmente responsabile. Secondo Chisholm, van Inwagen, Nichols e Knobe, tale è la naturale intuizione dell'uomo comune. Ma questa posizione è generalmente condivisa anche dagli incompatibilisti duri. Lombroso, Alimena, Cohen e Greene, Pereboom, per esempio, negano che il criminale abbia un qualche tipo di responsabilità morale e si oppongono all'accanimento sanzionatorio: il concetto di responsabilità che si può mantenere nei loro sistemi è quello di una responsabilità utile ai fini della protezione, della riconciliazione e della deterrenza. Pereboom cerca poi di integrare questa base proponendo un concetto di responsabilità prospettica in cui gli obblighi diventano raccomandazioni assiologiche del tipo "in futuro, è meglio fare così". Il filosofo americano concettualizza a tal fine un tipo di biasimo con funzione pedagogica, che non si fonda sul voler far danno al reo perché lo merita, ma sulla possibilità di correggere la sua condotta.
Vi sono infine due approcci che possono dirsi compatibilisti, sebbene abbiano differenze notevoli. Il primo è quello del compatibilismo tradizionale, nel quale i filosofi elaborano particolari nozioni di libertà e controllo e a esse connettono la responsabilità morale. Tuttavia, come ha fatto notare Smilansky, questo approccio collassa non appena ci si rende conto che libertà e controllo non possono esistere in un contesto deterministico. Il secondo è l'approccio costruttivista di Bagnoli, la quale si disinteressa completamente della questione della libertà e vede nella responsabilità un prodotto della ragion pratica, un costrutto dell'animale sociale uomo, autonomo dalla metafisica del libero arbitrio. Tratterò di entrambi gli approcci nelle pagine seguenti.



7.2 P. Strawson e H. Frankfurt: argomenti a favore del compatibilismo e critiche

In questo paragrafo mi limiterò a una rapida esposizione e critica di due testi ormai divenuti classici nel dibattito sul libero arbitrio: Possibilità alternative e libertà morale e Libertà e risentimento.
Nel primo saggio, Frankfurt formula un esperimento mentale nel quale chiede di immaginare che un individuo, Jones, sia monitorato a distanza dal neuroscienziato Black, il quale è in grado, attraverso un congegno radio, di manipolare le azioni e le scelte del malcapitato. Inconsapevole di ciò, Jones si trova di fronte a un dilemma morale e deve decidere se compiere una cattiva azione. Nel mentre, Black vuole che Jones compia la cattiva azione ed è pronto a intervenire qualora il processo deliberativo non portasse al risultato sperato. Alla fine, Jones compie l'azione immorale di sua volontà e Black non ha bisogno di attivare il congegno. L'esperimento mentale raggiungerebbe il seguente obiettivo: mostrare come le persone possano essere responsabili anche se non possono fare altrimenti. Jones infatti non ha un futuro aperto davanti a sé, ma mantiene la capacità di autodeterminazione, pertanto continua a essere responsabile per le sue azioni.
Questo ingegnoso argomento è stato formulato in difesa del compatibilismo e col preciso intento di segnare una differenza tra i casi di coercizione e l'azione naturalmente determinata: quando una persona è costretta (p.e. a uccidere) perché sotto minaccia, essa uccide solo perché non può fare altrimenti, ovvero nella consapevolezza che la sua volontà sarà ininfluente. Jones invece non sa che un manipolatore incombe su di lui, quindi non delibera con la consapevolezza di non poter fare altrimenti, ergo è colpevole e responsabile dell'omicidio. Detto in breve, «la volontà dell'agente è ragion sufficiente della sua (cattiva) azione – e ciò anche se comunque non avrebbe potuto fare altrimenti». Il compatibilismo trova così un punto di forza, poiché domina una condizione della libertà, l'autodeterminazione, e annulla la debolezza sul fronte delle possibilità alternative: per essere responsabili basta che l'azione discenda dalla volontà non ostacolata dell'agente.
Per quanto una schiera di autori si sia ingegnata nella difesa e nel perfezionamento degli esperimenti mentali in 'stile Frankfurt', ritengo che l'argomento non sia soddisfacente. Una prima critica, evidenziata da Reichlin, è che l'esperimento mentale si focalizza sulla possibilità di fare altrimenti, ma non sulla possibilità di scegliere altrimenti. Azioni determinate a parte, Black dovrà pur essere nella condizione di capire quando il suo intervento sarà necessario, ovvero quando Jones starà per scegliere diversamente. Questo, tuttavia, rimanda a una libera volontà per come la caratterizza l'incompatibilismo. Una seconda critica viene mossa invece da De Caro, secondo il quale Frankfurt presuppone la responsabilità di Jones senza dimostrarla. L'esperimento mentale, infatti, dimostra che se Jones è responsabile per la sua azione immorale, lo è anche se vigila su di lui un controllore controfattuale: la semplice presenza di Black non influisce sulla situazione. De Caro allora chiede su che basi Frankfurt può fondare la responsabilità di Jones, a prescindere dal potenziale intervento di Black. Nell'esperimento non è detto se il contesto sia deterministico o indeterministico, se Jones soffra di qualche patologia mentale, se abbia preso degli allucinogeni o addirittura sia monitorato da un secondo controllore occulto. Insomma, Frankfurt toglie la possibilità di fare altrimenti, ma non specifica in quali condizioni versa l'agente e in quale contesto. Se il contesto fosse indeterministico, la decisione di Jones non sarebbe determinata e quindi l'agente avrebbe potuto, per definizione, decidere di fare altrimenti. Questa possibilità, che unita all'autodeterminazione può essere utilizzata per fondare la responsabilità morale, per Frankfurt è irrilevante. Se invece il contesto fosse stato deterministico, 1) Jones non avrebbe potuto fare altrimenti per definizione, quindi 2) la presenza del manipolatore sarebbe stata ridonante e 3) sarebbero mancati elementi per fondare la responsabilità morale, che viene così presupposta.
Un simile tentativo di fondare la responsabilità sulla sola autodeterminazione non è contemplato invece da Peter Strawson il quale, sette anni prima di Frankfurt, espone nel celebre Libertà e risentimento un argomento che esula da questioni metafisiche. Secondo il filosofo britannico, infatti, la responsabilità morale non si fonda sul libero arbitrio, ma scaturisce dai cosiddetti atteggiamenti reattivi che intercorrono nelle relazioni tra uomini. Atteggiamenti reattivi sono per esempio il risentimento, la gratitudine, il perdono, l'amore e in genere tutti quei sentimenti morali che nascono in risposta alle azioni degli altri verso di noi. La caratteristica peculiare di tali atteggiamenti è che modulano la relazione con l'altro, in quanto possono esprimere un'aspettativa tradita, un desiderio di riconciliazione, la voglia di stare insieme o di far valere le proprie ragioni. Un atteggiamento reattivo pertanto ha senso soltanto se si ritiene l'altro capace di intrattenere rapporti interpersonali razionali. Nel caso in cui l'altro manchi di questa capacità, per esempio per colpa di droghe o patologie psichiche, il nostro atteggiamento non può rimanere lo stesso, e di fatto cambia. Strawson spiega questo cambiamento notando che se noi tendiamo a non ritenere responsabili i bambini piccoli, i malati psichici e i sonnambuli, non è perché percepiamo in loro la mancanza del libero arbitrio, ma perché sappiamo di non poter intrattenere con loro una «comune relazione umana fra adulti». Adottiamo insomma un atteggiamento obiettivo che consiste nel considerare l'altro come:

[…] un semplice oggetto di politica sociale, un soggetto che ha bisogno – in molti sensi – di essere curato, un soggetto di cui si deve senza dubbio tener conto, forse anche in via precauzionale […]. Se il vostro atteggiamento nei confronti di qualcuno è completamente obiettivo, allora anche se potete combatterlo non potete litigarci, e anche se potete parlargli e persino prendere accordi con lui, non potete discuterci. […] a essere inibiti sono [quindi] i comuni atteggiamenti interpersonali in generale e il tipo di richieste e aspettative da essi implicati, mentre si tende a incoraggiare l'ottica obiettiva pura che vede nell'agente un individuo in relazione al quale si pongono esclusivamente problemi di comprensione intellettuale, di gestione, di cura e di controllo.

La responsabilità morale, dunque, è data in un contesto dove è razionale manifestare degli atteggiamenti reattivi, e questo contesto è quello normativo delle dinamiche sociali tra individui normodotati.
Ma la paura dei libertari e di Smilansky è che una volta interiorizzata la verità del determinismo, gli uomini comincino a tenere unicamente atteggiamenti obiettivi verso il prossimo. Ciò implicherebbe l'abbandono della pratica di attribuzione della responsabilità non solo agli altri, ma anche verso se stessi, la cui risultante sarebbe l'anarchia sociale. Strawson contesta in due modi questo esito pessimistico. Per prima cosa, il filosofo scrive che se anche il determinismo fosse vero, ciò non sarebbe sufficiente per considerare tutti gli uomini 'anormali' e per estendere loro l'atteggiamento obiettivo e distaccato: ciò renderebbe di fatto impossibile intrattenere quei rapporti interpersonali che, tuttavia, abbiamo sempre tenuto con individui mentalmente sani. Dietro a questa tesi sta uno degli adagi del compatibilismo (adottato anche da Pereboom), ovvero che la razionalità non verrebbe meno in un contesto deterministico:

[…] il fatto che potrebbe essere vero che nessuno sa cosa sta facendo, o che il comportamento di noi tutti è inintelligibile sulla base di propositi coscienti, che tutti viviamo in un mondo di illusione o che nessuno ha un senso morale (vale a dire è capace di atteggiamenti autoreattivi) ecc. – tutte queste non sono conseguenze di una qualsivoglia tesi generale sul determinismo. Per questo in realtà nessuno dei possibili sensi di "determinato" necessari a sostenere una tesi generale sul determinismo è mai pertinente in relazione alla nostra effettiva sospensione degli atteggiamenti reattivi morali.

L'agente determinato è comunque cosciente e può ancora partecipare al gioco delle ragioni, quindi può ancora intrattenere relazioni e attribuire responsabilità. Questo argomento, che bolla come irrazionali le paure dei libertari, sarà uno dei nodi centrali della proposta costruttivista.
Secondo De Caro, tuttavia, la strategia principale di Strawson risiede nella seconda obiezione al pessimismo: l'argomento naturalistico. Per il filosofo inglese, infatti, estendere a tutti l'atteggiamento obiettivo non solo sarebbe irrazionale, ma addirittura impossibile, perché l'uomo è un animale sociale che per costituzione tende a relazionarsi: interazione, coinvolgimento e partecipazione sono tutti nella nostra natura, e con essi la batteria di atteggiamenti reattivi. Ma se di disposizioni naturali si tratta, la speculazione metafisica non può avere alcun potere su di esse, e quindi non può alterare le dinamiche sociali nelle loro basi: anche se accertassimo la verità del determinismo, continueremmo a vivere come abbiamo sempre fatto, senza la catastrofica incombenza dell'anarchia sociale e morale.
De Caro e Reichlin criticano entrambe le strategie di Strawson in modo molto simile a Pereboom. La prima obiezione riguarda il fatto che gli atteggiamenti reattivi abbiano come loro presupposto la nozione di libertà: se noi non odiamo un epilettico, o non proviamo risentimento verso i malati psichici, o non ci indigniamo per le azioni di un infante, non è solo perché pensiamo di non poterci relazionare con loro, ma soprattutto perché intuiamo che non possono esercitare un controllo sulle proprie azioni. Quindi, dice De Caro, se un contesto deterministico non legittima certo a pensare tutti gli agenti al pari di malati psichici, è vero anche che non vi sarebbe nulla di irrazionale nel ritenere tutti gli uomini incapaci di esercitare un controllo sulle proprie azioni, e «la cupa prospettiva dell'incapacità globale è più che sufficiente al libertario per sviluppare il suo argomento». Reichlin conferma questa tesi e aggiunge che, sebbene la verità del determinismo non porterebbe a un cambio di atteggiamento dal giorno alla notte, di sicuro lo farebbe nel lungo periodo, poiché l'uomo non può psicologicamente sostenere una discordanza tra le sue credenze ("il determinismo è vero") e il suo agire ("anche se il determinismo è vero, mi comporto come se nulla fosse").
Strawson invece lascerebbe intendere che la disposizione naturale alla pratica sociale sia di per sé stabile e impermeabile all'evoluzione culturale. In realtà la storia dimostra che, sebbene in un periodo molto lungo, la revisione di certi assunti teorici ha prodotto una parallela revisione del nostro atteggiamento. Reichlin per esempio cita la rivoluzione darwiniana, la quale ha portato gli uomini a porsi in modo diverso nei confronti dell'antropocentrismo etico e degli animali non umani. Inoltre, le obiezioni nei confronti di Strawson trovano un sostegno empirico dagli esperimenti di Nichols e Knobe, Vohs e Schooler e Baumeister, i quali concordano tutti sul fatto che l'intuizione della libertà sia fondamentale per fondare la responsabilità morale e una comunità morale.
Riassumendo, l'argomento di Frankfurt affronta il tema della responsabilità tenendo conto della questione metafisica e mostrando l'irrilevanza della possibilità di fare altrimenti. Le critiche rivoltegli si sono concentrate sulla plausibilità degli assunti del compatibilismo, per cui l'autodeterminazione sarebbe sufficiente per fondare la responsabilità quando, in realtà, il determinismo non consente alcuna autodeterminazione nel senso profondo del termine. L'argomento di Strawson invece punta sulla razionalità e sulle disposizioni umane alla pratica sociale, mostrando come entrambe non siano influenzate dal determinismo. Gli si contesta un'errata descrizione del rapporto tra disposizioni naturali e credenze, e in particolare la tesi secondo cui l'intuizione della libertà non moduli in alcun modo gli atteggiamenti reattivi.
Se da un lato Frankfurt rimane nell'alveo del dibattito tradizionale, per cui si cerca di difendere un senso di "controllo" diverso da quello dell'incompatibilismo libertario, il tentativo di Strawson ha offerto alcune importanti intuizioni per impostare il problema su basi diverse. Di particolare interesse sono l'attenzione posta nei confronti dei sentimenti morali e l'argomento a favore compatibilità di razionalità e determinismo.



7.3 La responsabilità morale secondo il costruttivismo contemporaneo

Sebbene vi siano buone ragioni – e alcuni dati sperimentali – per dubitare della completa indipendenza della nozione di responsabilità dalle questioni metafisiche, l'idea che il concetto di responsabilità nasca unicamente dalla pratica sociale e dalla capacità di offrire/chiedere ragioni vede oggi nella proposta costruttivista un sostegno innovativo.
Contrariamente a De Caro, Bagnoli ritiene che l'argomento forte di Strawson non sia quello naturalistico, poiché dal fatto che per natura abbiamo certi atteggiamenti reattivi non si può dedurre che le pratiche conseguenti siano indispensabili dal punto di vista normativo. Il punto forte invece è la natura personale di tali atteggiamenti, che alla loro base prevedono dei «partecipanti di una comunità, concepita come pratica governata da norme». Tali partecipanti sono esseri umani razionali, reciprocamente interdipendenti, che chiedono conto del comportamento altrui e giustificano il proprio agire, cambiano modo di comportarsi e credenze, o inducono gli altri a farlo. Dunque, la relazione che viene a instaurarsi tra questo tipo di soggetti è intrinsecamente normativa. Essa, però, non può sussistere senza quell'elemento che Bagnoli aggiunge all'analisi di Strawson, ovvero il rispetto tramite cui le persone si riconoscono pari autorità.
Qui la filosofa compie una mossa interessante trasformando l'autonomia di kantiana memoria da proprietà metafisica dell'agente a relazione normativa di autorità:

Riconoscersi e rispettarsi come agenti significa rendersi reciprocamente responsabili. [...] Questa relazione normativa stabilisce che l'altro ha autorità per chiederci ragione di ciò che facciamo, pensiamo o sentiamo, proprio nella misura in cui noi abbiamo l'autorità di chiedere ragione all'altro di ciò che fa, pensa e sente. Il rispetto è un modo costitutivo del riconoscimento di pari autorità, non un atteggiamento o sentimento con cui si reagisce all'autonomia dell'altro. Dire che l'autonomia è una relazione normativa di autorità non significa negare che sia una caratteristica della volontà, intesa come la capacità di decidere sulla base di ragioni. Anzi, la concezione relazionale si propone proprio di spiegare i fenomeni della volontà autonoma in modo che rispetti i criteri di rilevanza epistemica, congruenza e compatibilità con le teorie scientifiche [...]. Riconoscendo l'altro come sorgente di richieste legittime, siamo in grado di costituirci anche come individui autonomi e quindi di stabilire una relazione di autorità con noi stessi, i nostri desideri, le nostre credenze, i nostri piani. [...] Questa concezione dell'autonomia come relazione normativa di autorità su se stessi non implica che si abbia accesso ai propri stati mentali, né implica che si abbia pieno controllo su di essi. Piuttosto esercitiamo autorità su noi stessi quando adottiamo o respingiamo una certa credenza, azione o atteggiamento riflessivamente, e cioè sulla base di ragioni.

Questa lunga citazione contiene elementi di grande rilevanza. Primo, si ribadisce che il rispetto non si fonda su una dignità umana a sua volta radicata nella libertà essenziale dell'agente, ma sulle capacità di razionalità pratica. Tali capacità emergono in un contesto sociale e derivano da un bisogno sociale di base, poiché il singolo individuo di per sé non svilupperebbe la pratica dell'offrire ragioni e, si badi bene, nemmeno la sua identità come agente autoriflessivo. L'autonomia, per come la intende Bagnoli, è infatti la capacità di avere autorità sui propri pensieri e credenze, ma tale autorità serve e nasce per la relazione con l'altro: ci rappresentiamo come agenti e riflettiamo sulle nostre credenze e scelte per rispondere a qualcuno. La moralità non può esistere se non in questo contesto dinamico, ed è sempre il riconoscimento reciproco a permettere l'attribuzione di responsabilità, il biasimo, la punizione, eccetera. Di conseguenza, è legittimo assumere un atteggiamento obiettivo solo nei confronti di chi non possiamo rispettare in questo senso (p.e. per colpa di malattie psichiche), e il determinismo non è di per sé condizione sufficiente per negare tale rispetto.
Il secondo aspetto importante è che la posizione di Bagnoli vuole accordarsi con le migliori teorie scientifiche e intende la volontà come "capacità di decidere sulla base di ragioni". Come fa notare anche Pereboom, la nostra razionalità sarebbe indipendente dal fatto che abbiamo o meno controllo sulle nostre deliberazioni: anche in un contesto deterministico, la relazione tra uomini continuerebbe a configurarsi come scambio di ragioni, le quali manterrebbero la loro efficacia causale, seppure con esiti determinati. E Bagnoli gli si avvicina quando, nel preservare la nozione di responsabilità morale, precisa che la nozione di "biasimo" è subalterna a quella di "rispetto", ovvero non si fonda sulla punizione meritata, ma è l'espressione di un'aspettativa tradita, di una richiesta di spiegazioni, della pretesa che si tenga un comportamento diverso.
Sullo stesso sfondo di Bagnoli, Santoni de Sio evidenzia la peculiarità della ragion pratica distinguendo il computer che gioca a scacchi dalla persona per il fatto che «pur possedendo in un certo senso la capacità di compiere scelte "razionali" (coerentemente indirizzate verso scopi), esso non è in grado di rappresentarsi i motivi e gli scopi delle sue azioni, di riflettere su di essi, di comunicarle e di tentare eventualmente di cambiarli»: il fatto morale della responsabilità riguarda persone, e le persone si distinguono dagli agenti meccanici per la capacità di ragionamento pratico, e non per la proprietà metafisica del libero arbitrio. E cos'è una capacità? È il «possesso da parte di un agente delle risorse per eseguire correttamente un certo tipo di performance date certe condizioni». Quindi, data una comunità di individui razionali e regolata da norme (condizioni), ecco che la responsabilità emerge in relazione alle capacità di risposta (performance) del soggetto al contesto.
I vantaggi della posizione costruttivista sarebbero molteplici. Innanzitutto, una volta bandita l'intricata questione metafisica del libero arbitrio, non ci sarebbe più bisogno di postulare un agente con particolari poteri e capace di manipolare la serie causale degli eventi. Ciò rende il costruttivismo compatibile con le teorie scientifiche, sebbene venga negata con forza ogni deriva riduzionistica. Inoltre, sganciare la nozione di responsabilità da quella di controllo permette anche di spiegare come mai noi spesso riteniamo le persone responsabili anche per ciò che credono o provano, o semplicemente per il carattere. Nella pratica, insomma, ci è chiesto di rispondere anche per fattori che non dipendono da noi e ciò, secondo Bagnoli, accade «non perché li possiamo attivare o sopprimere a nostro piacimento, ma perché siamo capaci di criticarli riflessivamente […], perché sono modificabili tramite educazione e attenzione».
A mio avviso Bagnoli ha il grande merito di mostrare come il campo della moralità e della responsabilità sia più ampio della sola questione metafisica. Ciò che la filosofa e Santoni de Sio affermano è che, anche si desse un agente libero in senso metafisico, egli non sarebbe automaticamente responsabile per il suo agire: la presenza dell'altro è condizione di possibilità dello sviluppo di un linguaggio, delle credenze, della razionalità, delle valutazioni e delle deliberazioni, pertanto non è possibile parlare di responsabilità solo affrontando il tema del libero arbitrio. Inoltre, la responsabilità non sarebbe primariamente un mezzo tramite cui giustificare le pratiche punitive e il biasimo, ma un vettore comunicativo che mette in gioco ogni volta l'interazione dell'agente con l'ambiente (umano).
Ora, per quanto tale caratterizzazione non possa restare in secondo piano, credo tuttavia che non si possa nemmeno eliminare completamente la questione della libertà. Si pensi per esempio al caso della deliberazione. Secondo la proposta costruttivista, un agente è responsabile per la sua deliberazione perché può renderne conto offrendo ragioni, oppure modificare le scelte future sulla base di una nuova credenza acquisita grazie al dialogo e alla riflessione. Tale pratica sarebbe il modo in cui il fenomeno della socialità, cioè un particolare fenomeno della forma di vita uomo, si regola. Ma si pensi ora alla suddetta deliberazione nel caso in cui non fosse libera: io offrirei agli altri i miei motivi, reagirei alle loro ragioni, rifletterei sul mio comportamento, ma nulla di tutto questo dipenderebbe da me. Io sarei solo la sede fisica di una razionalità e di motivazioni in mano a forze a me completamente estranee. Certo, il gioco di queste forze si manifesterebbe come una pratica sociale tra persone, ma da uno sguardo esterno tutto questo apparirebbe solo come una grande pantomima, un copione globale recitato all'insaputa degli attori – e che è già stato scritto nella sua interezza, nel caso del determinismo.
Strawson ritiene che questo sguardo esterno, oltre a non esserci accessibile, non avrebbe influenza sulla pratica manifesta. Io mi accodo alle obiezioni sollevate da Smilansky, il quale specifica che il senso di libertà è qualcosa che forma la nostra identità. La credenza nel determinismo, probabilmente, non potrà nulla contro l'esperienza fenomenologica del libero arbitrio, tuttavia potrebbe avere un impatto significativo sull'immagine dell'uomo, le sue relazioni interindividuali e la costruzione della propria identità narrativa. Come scrive De Caro, se un giorno scoprissi che tutte le persone che ho conosciuto sono in realtà delle macchine deterministiche, io cambierei il mio atteggiamento verso di loro. Non proverei risentimento per ciò che mi hanno fatto di male, ma maledirei chi le manovra dalle retrovie o, semplicemente, la sfortuna. Continuerei a intrattenere rapporti interpersonali, aggiunge Reichlin, ma con nuove modalità: per esempio «le relazioni d'amore sarebbero molto più simili a quelle basate sul semplice desiderio sessuale e i rapporti di amicizia avrebbero la qualità scadente dei rapporti puramente interessati».
Previsioni di questo tipo sono materia empirica e come tali non possono che avere una valenza limitata, almeno finché non vi sarà modo di testarle in maniera adeguata. Credo però che una buona parte del valore di una persona dipenda, oltre che dalle sue capacità di razionalità pratica, anche dalla possibilità di esercitare una forma (seppur limitata) di libero arbitrio. Forse il libero arbitrio è addirittura condizione necessaria affinché una razionalità pratica emerga e si esprima. Il soggetto razionale, in fondo, deve poter fare, credere, rispondere diversamente per ottenere il rispetto necessario all'attribuzione di responsabilità, e queste possibilità, con buona pace dei compatibilisti, non sono contemplate in un universo deterministico, se non come illusioni.



7.4 L'approccio fenomenologico contro le forme di compatibilismo

Pereboom, Strawson, Bagnoli e Santoni de Sio ritengono che l'esprimersi della razionalità pratica non risenta dalla possibile assenza del libero arbitrio: l'uomo determinato può ancora offrire ragioni, relazionarsi con l'altro, formulare una teoria morale e conformarsi ad essa. Può costituirsi come persona all'interno di un contesto normativo e intersoggettivo. Quindi può attribuire responsabilità, sebbene in un senso molto speciale. Questa versione metafisicamente parsimoniosa di compatibilismo ha il duplice pregio di mettere in luce il contesto intersoggettivo dello sviluppo umano e di non incorrere in spiegazioni soprannaturali dell'agire.
Tuttavia, oltre alle critiche elencate al paragrafo 5.3, vi è un'altra tradizione, da me finora tralasciata, che si oppone al compatibilismo: quella fenomenologica. Non a caso la disciplina nacque nei primi del Novecento per dare alla filosofia un metodo rigoroso, a priori, distinto da quello della psicologia e del naturalismo positivista.
Con la messa in primo piano della dimensione del vissuto (erlebnis), ovvero dell'esperienza originaria, pura, dell'essere umano, Husserl volle indagare le condizioni di possibilità della conoscenza stessa, e da lì comprendere la costituzione della coscienza, della persona e dei suoi atti; tutte operazioni di cui le scienze naturali non si preoccupavano, in quanto vincolate a un metodo e un bagaglio di conoscenze già complessi, 'spuri'. Successivamente, autori come Sartre e Merlau-Ponty, influenzati anche dal pensiero di Heidegger, molto approfondirono nozioni come quelle di "coscienza non tetica di sé" e "Leib", accomunati, seppur con esiti assai differenti, nella missione di mostrare come prima di un qualunque atto di coscienza o di percezione vi fosse la dimensione preriflessiva del viver-si come coscienza non riflessiva o come corpo. Così facendo, gli autori citati sferrarono allo scientismo una critica simile a quella di Stroud, riportata al paragrafo 2.1: prima di qualunque teoria scientifica vi è un apparato concettuale già intriso di normatività, e prima di tale apparato concettuale vi è un individuo che esperisce secondo certe modalità, che fonda il patrimonio del suo pensiero su un nucleo di conoscenza antepredicativa.
Per la mia discussione, prenderò a esempio la riflessione di Roberta De Monticelli, attualmente molto attiva nella discussione intorno alla neuroetica e che, rifacendosi ad autori come Husserl e Scheler, si oppone con forza non solo al determinismo, ma anche al compatibilismo e alle forme di libertarismo radicale alla Sartre. Secondo De Monticelli, sono due i fenomeni che si danno all'esperienza fenomenologica e che l'indagine filosofica è chiamata a giustificare: 1) che vi sono degli eventi, o meglio, degli atti, che molto si differenziano dagli eventi naturali e 2) che gli animali umani, unici rispetto a tutte le altre specie viventi conosciute, godono dello 'status' di persone. Entrambi i fenomeni sono intimamente connessi.
Partendo dalla prima questione, l'atto che più di tutti pare discostarsi dalla causalità naturale è quello della decisione che, per come la recepisce la fenomenologia, si configura come «l'atto che riempie l'apparente lacuna causale fra un'azione e il suo motivo». Ci si ricorderà forse che questo punto è già emerso nel paragrafo 4.1, quando nel parlare delle teorie libertarie ho mostrato come uno dei problemi principali fosse connettere le ragioni all'azione compiuta. Ebbene, tale difficoltà sorge poiché le ragioni – o i motivi – non sono condizioni sufficienti per l'azione umana, ovvero non la esauriscono. Ove un impatto della stecca, con una certa forza e una certa angolazione, è condizione sufficiente per imprimere un certo moto a una pallina da biliardo, così non è per i motivi, per esempio, per smettere di fumare e la cessazione di questa abitudine. Quello che manca è un atto di assenso del soggetto, col quale il motivo possibile diventa un motivo efficace: questo è una decisione. Ma una tale caratterizzazione implica un'importante ammissione sul piano ontologico, ovvero che le azioni si distinguano essenzialmente dagli eventi naturali, e che vi sia qualcuno in grado di dare o negare l'assenso ai motivi.
De Monticelli individua così la proprietà invariante della decisione e, nel richiamare in causa l'assenso, mette in luce la capacità dell'agente di prendere posizione. Si vogliono rifiutare in questo modo le forme di determinismo, il libertarismo radicale di Sartre, ma anche la definizione di agent-causation propugnata da Chisholm. Scrive l'autrice:

Senza motivi, niente decisioni: la volontà non è una magica forza che scatta dal nulla. Ma senza avvallo, niente efficacia causale del motivo. Una decisione non è un processo automatico. È un modo della posizionalità: vale a dire di quel potere di prendere posizione – relativamente ai contenuti dell'esperienza e agli stati in cui l'esperienza ci induce – nell'esercizio della quale un essere umano si costituisce soggetto personale.

L'attacco di De Monticelli è rivolto qui tanto alla libertà assoluta della coscienza sartriana, capace di determinarsi in un modo e rivoluzionarsi l'attimo dopo, che all'agente come motore immobile, di cui non è ben chiaro come venga influenzato dalle ragioni e in generale dalla propria costituzione psicofisica.
Per De Monticelli, invece, l'agire libero dell'uomo emerge come ultimo stadio di una serie di atti posti secondo una gerarchia particolare. La volontà libera e cosciente è da intendersi come la punta di un iceberg la cui parte sommersa si costruisce su due fasi. La prima e più fondamentale è la posizionalità di primo livello, non libera, di percezioni ed emozioni. Nella percezione infatti è implicita una presa di posizione esistenziale (c'è/non c'è), mentre nelle emozioni si ha una presa di posizione assiologica (buono/cattivo). Al secondo livello, nella 'zona grigia della spontaneità', si ha invece una presa di posizione libera in senso lato rispetto a quanto ci è offerto da percezioni ed emozioni. Si tratta di «assunzioni e rimozioni di stati e dati come ulteriori motivi d'esperienza», cioè di una prima risposta al reale rivolta a una successiva condotta di vita. Si può immaginare, per esempio, un bambino molto piccolo che prova un grande spavento, magari per colpa del movimento improvviso di una porta che sbatte: egli non può negare l'assenso all'esistenza della porta e al fatto che il rumore sia stato spiacevole, ma può far sì che l'esperienza lo condizioni (sviluppando un'indole paurosa) o lo stimoli (sviluppando un'indole più 'temeraria'). Sebbene queste risposte si diano a un livello non pienamente cosciente, esse sono i tasselli fondanti le differenze proprie dell'identità personale di ognuno, così come possono esserlo una prima reazione a un evento doloroso, a una difficoltà, a un'immagine forte, ma anche a tutto ciò che, al primo livello, ci pare come buono.
Infine, al terzo livello (la punta dell'iceberg), emerge la volontarietà cosciente del soggetto, ovvero gli atti propriamente liberi, nei quali l'agente dà o nega l'assenso alle posizioni precedenti, che diventano veri e propri motivi di azione: a ciò che gli è dato tramite percezioni ed emozioni, e che in un primo momento ha accolto o rimosso, ora la persona dà il suo avvallo cosciente formando la propria identità e la propria vita. Questo avvallo fa sì che il soggetto sia autore delle proprie azioni e che possa prendere impegni, dispiegando la sua identità nel tempo e dando ragione di quel secondo fenomeno di cui avevo accennato all'inizio: l'emergere della persona come qualcosa di irriducibile rispetto agli animali. La possibilità di affermare il sé attuale nell'essere autore, e di affermare un sé futuro prendendo impegni, è infatti ciò che dà senso all'attribuzione di responsabilità e all'efficacia causale dell'agente.
Per meglio evidenziare la critica che può essere rivolta a Bagnoli, riassumo le caratteristiche dell'agente/persona secondo De Monticelli, notando inoltre come il suo tentativo rappresenti una terza via rispetto alla dicotomia naturalismo scientifico/anti-naturalismo. La persona infatti esercita la propria libertà su un campo nel quale non ha facoltà di scelta libera (le posizionalità di base) oppure l'ha in senso lato (posizionalità del secondo livello); essa dunque deve fare i conti con le contingenze nella quale si trova gettata (p.e. ambiente, corporeità) e non possiede nessuna libertà indifferente a ogni cosa. Anzi, la volontà cosciente emerge molto tardi proprio perché deve avere un terreno su cui innestarsi e da lì, con i suoi avvalli, può dare vita a qualcosa di nuovo, qualcosa che non ci sarebbe stato se non avesse detto "sì-no!". Tramite gli atti liberi, infine, la persona si dispiega nel tempo prendendo impegni e ponendosi come un sé nonostante tutti i cambiamenti che possano intercorrere. Essa costruisce la propria identità esercitando la libertà per fare delle «circostanze contingenti dell'esistenza […] i caratteri costitutivi della sua identità essenziale – senza ridursi a questi».
Il motivo per cui una posizione di questo tipo contrasta il costruttivismo di Bagnoli e Santoni de Sio è che se l'essere umano non fosse libero, la razionalità pratica mancherebbe delle condizioni e del materiale (persone, decisioni, ragioni) per esercitarsi. Di conseguenza, una qualche teoria della libertà deve essere presa in considerazione se si vogliono analizzare fenomeni come le promesse, la creazione di istituzioni, l'intuizione dell'esistenza di persone. Basti pensare che il linguaggio stesso è, secondo De Monticelli, condizione strutturante del volere libero:

Un'affermazione è l'asserzione di una proposizione come vera. Ovunque ci sia un'esplicita pretesa (dichiarazione) di verità, c'è un dovere di prova, e una presunzione di sincerità (vale a dire, che il parlante creda a ciò che afferma) sulla quale si basa la possibilità della menzogna. Questo è tipicamente un potere in senso positivo, una libertà che animali incapaci di parola, per esempio, non hanno. […] E quindi da un lato […] implica il potere di agire non in base alle mie proprie tendenze e desideri (stati), ma in obbedienza a forme di obbligazione, cioè agli impegni che assumo parlando. Ma dall'altro lato […] implica anche il potere di trasgredire questi impegni […].

Gli atti linguistici, insomma, sono anch'essi soggetti alla ragion pratica, e nell'esprimerla con un determinato vocabolario, manifestano quanto essa sia intrisa di una libertà situata. Non è possibile allora salvaguardare il concetto di responsabilità guardando unicamente al contesto intersoggettivo della vita umana, perché la capacità stessa di partecipare al gioco delle ragioni richiede una qualche forma di libertà.







Conclusioni



Il rapporto tra filosofia e scienza: le problematiche in conflitto

Il grande numero di argomenti e obiezioni che qui ho presentato rimanda a una serie di dicotomie nate nell'antichità e tutt'ora vive nel panorama filosofico: realtà e apparenza, mondo e mente, oggettivo e soggettivo, cognizione e azione, fatti e valori. L'idea di fondo mantenutasi nel corso dei secoli è che la realtà sia strutturata in livelli, e che alcuni di essi abbiano un grado di realtà superiore agli altri. Si possono ricordare, per esempio, le idee platoniche, le essenze aristoteliche, l'Io assoluto, e in generale tutto ciò che rientra sotto l'indagine della metafisica. Non per niente la metafisica fu concepita come la scienza dell'Essere in quanto Essere, la somma disciplina a cui i veri sapienti non potevano rinunciare, il terreno prediletto del filosofo.
Ma "metafisica" non è sinonimo di "ontologia", almeno secondo la definizione quineiana, e bisogna tenerlo bene a mente: se l'ontologia studia ciò che c'è, la metafisica studia cos'è quello che c'è. Il nucleo programmatico del naturalismo scientifico odierno è quello di riportare tutta l'ontologia sotto il dominio delle scienze naturali, togliendo dignità ontologica p.e. a stati mentali, qualia, agentività. Ma a un certo punto la mossa sconfina nella metafisica: se tutto quello che c'è sono particelle o agglomerati delle stesse, e se le particelle compongono ogni cosa, allora esse rappresentano la realtà ultima ed essenziale dell'universo. Una realtà totalmente indipendente da ogni possibile soggetto di esperienza, il fondamento e vincolo dell'esistente.
Ora, se si tiene ferma questa concezione e la si applica al problema del libero arbitrio, si può capire la forza degli argomenti di Pereboom. Buona parte degli studiosi da me riportati infatti cerca una proprietà metafisica, il libero arbitrio, che tuttavia non è compatibile con una metafisica delle particelle, sia essa il determinismo o l'indeterminismo. Nel caso del libertarismo (radicale ed evento-causale) e del compatibilismo, l'agente come controllore delle proprie azioni ha un potere alquanto ambiguo oppure si perde nella causalità tra eventi. Nell'agent-causation, invece, si delinea un nucleo sostanziale dotato di libero arbitrio, ma le pesanti implicazioni metafisiche rendono incapace tale sostanza di integrarsi con le leggi dell'universo empirico, degenerando nel soprannaturalismo. Pertanto, se si vuole mantenere una visione naturalistica coerente con le scienze naturali e l'assunzione metafisica che sottende loro, bisogna accettare che l'esperienza di agency sia illusoria e che una consapevolezza di ciò potrebbe avere un qualche impatto sulle nostre vite. Che questo impatto sia positivo o negativo, che porti verso una maggiore giustizia sociale o verso la catastrofe, che preservi un senso della vita o lo distrugga, è tema di speculazioni su cui né filosofi né psicologi concordano. Il mio simpatizzare per le tesi di Smilansky è dovuto alla maggior coerenza con cui l'autore delinea la relazione tra la "up to usness" e la psicologia dell'agente, mentre non concordo sulla tendenza a rendere il problema metafisico tanto forte da destrutturare completamente la pratica morale e sociale: se gli esperimenti di psicologia morale possono insegnare qualcosa, è che la credenza nella libertà è uno dei fattori che modula il giudizio di responsabilità, ma non l'unico! Ci sono le esigenze del contesto storico-politico-sociale, le attitudini personali, l'educazione, le emozioni, l'interpretazione della situazione, e via dicendo.
La prima questione fondamentale dunque è la seguente: se si dà valenza metafisica alle scienze naturali, l'incompatibilismo duro sembra l'unica posizione coerente in merito al free-will problem. In questo contesto infatti il filosofo libertario non può appellarsi ad agenti come sostanze né all'emergentismo, perché entrambe le teorie postulano qualcosa di soprannaturale o che compare in modo misterioso. Dall'altro lato, il compatibilista non può pretendere che la sua definizione di agente libero (di fare) possa sostituire quella di un agente dotato della proprietà del libero arbitrio: in un universo deterministico non si danno possibilità alternative né autodeterminazione. Mi preme sottolineare inoltre che anche una posizione mediana come vorrebbe essere quella del naturalismo liberalizzato soffre nel ricercare una compatibilità che nei fatti non può darsi: adottare una metafisica della libertà (con tutte le sue conseguenze, p.e., in filosofia della mente) non permette di sviluppare una filosofia «antiriduzionistica ma non antiscientifica». Infatti, dato il contrasto tra la metafisica del libero arbitrio e quella dell'universo fisico, le uniche soluzioni perseguibili per non rendere antiscientifica la filosofia restano un pluralismo/parallelismo (entrambe le metafisiche sono accettate come naturalistiche ma viaggiano su binari indipendenti) o una conciliazione forzata che punta tutto sul futuro progresso tecnologico. Nel primo caso ci si ritrova di fronte a più mondi dei quali non è chiaro come si connettano; nel secondo si lascia aperto uno spiraglio dal quale attendere la rivoluzionaria scoperta che permetta di rendere conto della libertà in termini scientifici (un sostituto, possibilmente più affidabile, dell'indeterminismo quantistico).
La seconda questione fondamentale è se si possa realmente dare una valenza metafisica alle scienze naturali: gli argomenti di Stroud, Dupré e della fenomenologia sono quanto di più forte si possa rivolgere contro lo scientismo, poiché mettono in luce la dipendenza della scienza nei confronti della normatività e dell'esperienza vissuta. Ciò che Galileo, Cartesio e Newton misero a punto non fu uno strumento puro capace di indagare il reale per come è nella sua essenza: un tale strumento infatti sarebbe utilizzabile solo da un'entità altrettanto pura ed estraniata dal mondo. Fu piuttosto un metodo adatto all'uomo che vive nel mondo i cui prodotti, siano essi tecnici o culturali, portano tutti il segno di una prospettiva situata ('incorporata', per utilizzare un termine in voga). Molecole, neuroni, corpi, persone, valori, giudizi, numeri, relazioni, società: tutto questo c'è e influenza le nostre vite, ed è il motivo per cui si parla spesso di pluralismo ontologico. Ma quando si cerca di tenere unito l'insieme sotto una metafisica onnicomprensiva o pluralistica per convenienza, ecco apparire i contrasti, i riduzionismi, i compatibilismi, i pluralismi forzati, l'antinaturalismo, eccetera. Non si comprende che i nostri mezzi di indagine sono costruiti attorno all'oggetto per come possiamo conoscerlo, non per rispecchiare una realtà essenziale che l'esperienza ci nasconde o distorce. Stroud, Dupré, De Caro e McDowell hanno dunque ottime ragioni per criticare il naturalismo scientifico e promulgare un pluralismo ontologico, ma cosa manca loro per riuscire a delineare una filosofia davvero antiriduzionistica ma non antiscientifica?
A mio modesto parere, quello che manca è una chiara presa di posizione nei confronti della metafisica, una presa di posizione coerente con molte assunzioni che ricordano fin troppo da vicino il pragmatismo americano. Ed è proprio del pragmatismo, e in particolare di quello di John Dewey, che voglio occuparmi in questo capitolo finale, poiché propone forse la migliore forma di naturalismo pluralistico. Ciò mi sarà utile almeno in tre sensi: 1) per rileggere alcuni argomenti dei naturalisti liberali sullo sfondo dell'evoluzionismo, 2) rendere conto delle molte somiglianze che le varie teorie del libero arbitrio mostrano sul lato pratico, 3) abbozzare una linea di ricerca inerente al moral enhancement.



Evoluzionismo, pragmatismo, strumentalismo

Per gli scopi della presente ricerca, che indaga le forme di naturalismo e la loro ricaduta in etica, la riflessione epistemologica di Dewey rappresenta una proposta originale in quanto elabora quello che, in Esperienza e Natura, viene chiamato «umanismo naturalistico», ovvero una posizione che intendeva sopperire alle fallacie che le filosofie dell'epoca – idealismo ed empirismo – commettevano nel delineare il rapporto tra i soggetti di conoscenza e il mondo. Tali fallacie sarebbero nello specifico tre: la netta separazione tra soggetto e oggetto; il conferimento di maggiore dignità ontologica agli oggetti della conoscenza piuttosto che a quelli della pratica; il non riconoscere che il nostro studio del reale opera delle selezioni, cioè si concentra su alcuni tipi di oggetti in relazione a uno scopo pratico anziché mirare alla pura conoscenza contemplativa.
A influenzare il pensiero deweyano, oltre agli studi di Hegel, sono soprattutto la teoria dell'evoluzione e le categorie a cui essa fa riferimento: mutamento, transazione, instabilità, contingenza, adattamento. Il pensiero del filosofo americano si incardina sul fatto empirico che ogni forma di vita deve continuamente rinnovare se stessa per far fronte alle sfide poste dall'ambiente, e che l'uomo ha sviluppato le sue facoltà superiori come strumento per aumentare le proprie possibilità di adattamento. Ne segue il rifiuto di quelle filosofie che pensano alla razionalità come alla facoltà capace di svelare la realtà ultima dietro il fenomeno, o che configurano il soggetto di conoscenza come un mero specchio del mondo esterno: tutto ciò che l'uomo conosce, sente e produce è in funzione dell'interazione ambientale, e di nient'altro. Non meraviglia allora che anche la metafisica tradizionale (quella di stampo aristotelico-tomista e i suoi derivati contemporanei) sia sottoposta a una pesante critica, per cui Dewey scrive:

La metafisica […] come formulazione descrittiva dei tratti generici manifestati dalle esistenze di tutti i generi indipendentemente dalla loro differenziazione in esistenze mentali e fisiche, sembra non aver nulla a che fare con la critica e la scelta […]. Essa comincia e finisce con l'analisi e la descrizione. Quando essa ha rivelato i caratteri e i tratti destinati a comparire in ogni universo di discorso, il suo lavoro è finito. [… Ma] Se i tratti generali della natura esistessero in compartimenti stagni, sarebbe sufficiente discernere tra di essi gli oggetti e gli interessi dell'esperienza. [...] in realtà essi sono così organicamente connessi che tutte le questioni importanti sono interessate al grado e ai rapporti in cui quei tratti si alimentano a vicenda. […] Quanto più si è sicuri che il mondo, teatro della vita umana, ha il tale e tal altro carattere (quale che ne sia la definizione), tanto più si è impegnati a tentare di dirigere la condotta della vita, sia quella degli altri sia la propria, sulla base del carattere attribuito al mondo. E se si scopre che non si riesce a spuntarla, che il tentativo porta alla confusione, all'incoerenza e all'oscurità […] certe percezioni elementari portano ad abbandonare come illusoria la sua sicurezza; e a rivedere le idee sulla natura della natura finché non vengano adeguate al meglio ai fatti concreti in cui la natura si realizza.

Questo estratto mette in risalto ancora una volta le categorie dell'interazione e della precarietà a cui l'esistenza rimanda, e che disegnano un quadro olistico e dinamico. La metafisica tradizionale invece, nel voler individuare a tutti i costi le sostanze, le proprietà essenziali e le cause finali, si sarebbe fatta cieca di fronte alla connessione organica degli oggetti di esperienza, dovendo ricorrere ad artifici concettuali per sottomettere la varietà dei fenomeni sotto le sue rigide catalogazioni. La stessa categorizzazione della natura ne è uscita distorta e incompleta, bisognosa di entità trascendentali come di un porto sicuro contro le insidie delle continue transizioni esperite negli eventi.
Ma "naturale", per Dewey, è proprio ciò che è dato in questo quadro mutevole e instabile, i cui confini sono dettati dall'orizzonte di un'esperienza che comprende sia il livello grezzo della corporeità (il cosiddetto 'pre-riflessivo') che il livello più raffinato della riflessività, il quale sviluppa gli oggetti del primo e ne crea di nuovi. L'esperienza, a entrambi i livelli, è un processo (inter)attivo anziché contemplativo, dove l'uomo compie delle scelte, si addentra nell'ignoto, cerca di continuo una miglior comprensione di ciò che lo circonda per trasformare se stesso e il mondo. Per questo motivo gli oggetti di percezioni, emozioni, esperienza estetica, ricerca scientifica, relazioni sociali sono da considerarsi reali e naturali: tali oggetti sono qualcosa con cui noi abbiamo a che fare e che ci pongono dei problemi. Solo i cosiddetti 'uninteractionables', ovvero gli oggetti che attualmente non possono rientrare in una pratica operativa, non sono da considerare oggetti né della conoscenza, né della natura.
L'originalità dell'epistemologia deweyana sta nel suo carattere prettamente sperimentale che riporta la cognizione nella dimensione attiva della vita e azzera le dicotomie mente/corpo, soggetto/oggetto, essenza/fenomeno, natura/cultura. Per questo Dewey manifesta una chiara concezione fallibilista della scienza naturale e le assegna un ruolo puramente strumentale. Egli è infatti convinto che la «premessa che deve essere abbandonata è che la scienza è comprensione della realtà nella sua forma finale e autosufficiente», e ricorda al fisicalismo che gli oggetti della fisica sussistono «per cambiare dei termini casuali in realizzazioni e conclusioni in una serie ordinata, con lo sviluppo del significato incluso in essi». Detto in altri termini, i risultati delle scienze naturali, anche i più accreditati, non sono immuni da revisione, ma possono essere sempre messi in discussione a favore di un incremento di significato. Il motivo è sempre lo stesso: il processo di conoscenza è un processo in buona parte creativo, dove gli strumenti sono costruiti a partire da inferenze precedenti per consentire nuove inferenze, per dischiudere un ventaglio inedito di possibilità d'azione.
Che dire allora del riduzionismo? E della minaccia del determinismo? Alla prima domanda si può rispondere che il riduzionismo sarebbe un buono strumento qualora portasse a una migliore comprensione dei fenomeni – ma attualmente non sembra essere così. Di sicuro non è uno strumento che l'esperienza ci impone poiché, per riprendere una frase di Dupré, i «tentativi di comprendere certi fenomeni a un particolare livello di organizzazione determina gli schemi di classificazione a quel livello. Non è necessario che tali schemi di classificazione vengano correlati in alcun modo gestibile – e tipicamente non lo saranno – con gli schemi di classificazione dei livelli più bassi». Si tratta cioè di gestire una pluralità di prospettive tale per cui richiedere la riduzione a un unico livello sarebbe come pretendere che gli esperimenti con l'LHC abbiano di per sé una qualche rilevanza nel ridefinire la psicologia dello sviluppo. Per quanto riguarda il determinismo, invece, esso cessa di far paura quando lo si concepisce come uno strumento a servizio dell'inferenza. La ricerca di una stabilità e di previsioni attendibili è infatti ciò che ci permette di aver presa su una natura mutevole, ma non implica l'estensione del vincolo deterministico a tutti i fenomeni. Attualmente, a livello epistemologico, il determinismo non appare un buono strumento da applicare al fenomeno dell'agentività: non ci aiuta a comprenderlo, né a interpretarlo, né a manipolarlo.
Chiarito il ruolo della scienza, mi interessa sottolineare le importanti ripercussioni che l'epistemologia pragmatista ha sulla teoria morale, a cominciare dall'eliminazione della dicotomia tra fatti e valori. Dewey sembra in qualche modo anticipare il discorso di De Monticelli sulla posizionalità di primo livello quando scrive che «il fondamento del valore è un dato della natura, poiché, quando la natura viene considerata come costituita da eventi anziché da sostanze, essa viene ad essere fatta di storie, cioè di rapporti continui di mutamenti che partono da inizi e muovono verso delle conclusioni». Quello che per l'autore americano è un «ovvio fatto empirico» è che gli oggetti vengono qualificati come buoni o cattivi a seconda del contesto in cui emergono e delle conseguenze a cui portano. Le parole "buono" e "cattivo" indicano il tipo di relazione tra un evento e un soggetto (o un gruppo di soggetti), indicano cioè un termine di orientamento per la futura condotta. Ogni fatto è intriso di valore: dal livello più basso delle necessità corporee, fino al livello più alto dell'analisi critica compiuta dall'intelligenza. Di conseguenza, la riflessione etica di Dewey non vede più nella definizione di cosa sia un valore il fine della filosofia morale: i valori «sono valori, cose che hanno immediatamente certe intrinseche qualità. Dei valori in quanto valori, conseguentemente, non c'è nulla da dire: essi sono quello che sono». Lo scopo della teoria morale è quello di portare ordine nelle molteplici istanze normative che, nell'uomo socializzato, giungono inevitabilmente al conflitto. Si tratta di riconoscere le fonti sociali della normatività e, attraverso l'analisi critica, trovare soluzioni che consentano la mediazione e la coordinazione di individuo e collettività. Da qui la stretta connessione che Dewey pone tra psicologia dell'habitus, pedagogia e democrazia.
Ma c'è di più: se l'orizzonte dell'esperienza è un orizzonte di pratica, e se tutte le attività umane hanno funzione adattativa, allora diventa facile individuare il carattere scientifico (sperimentale) dell'etica e il carattere etico delle scienze naturali! Per quanto gli oggetti possano essere diversi e irriducibili, per quanto l'unità della scienza possa rappresentare un mito, tutte le discipline umane sono accumunate all'origine: esse scaturiscono dalla relazione uomo-ambiente, e come tali possono avere ripercussioni l'una sull'altra. Che l'etica abbia carattere sperimentale è cosa già detta, e che Dewey ribadisce nel sottolineare l'instabilità dei valori. Che gli oggetti e i prodotti delle scienze abbiano implicazioni etiche, lo si può facilmente intuire pensando, per esempio, a come le tecniche genetiche, nucleari e anticoncezionali abbiano creato nuovi orizzonti di responsabilità.
Questa visione olistica della vita offre, a mio avviso, la possibilità di pensare un pluralismo ontologico e un naturalismo finalmente liberi da un buon numero di incoerenze. Nel pragmatismo infatti non c'è bisogno di rendere compatibile la metafisica dell'agente con quella della fisica, perché il corno metafisico del problema decade: non è missione imposta (né suggerita) dall'esperienza quella di ricercare la proprietà essenziale del libero arbitrio. Non è missione prescritta dall'esperienza quella di trovare la realtà ultima dietro il fenomeno, né di passare dalle regolarità esperite in natura al determinismo universale. Attraverso il pragmatismo, insomma, è davvero possibile avere una filosofia antiriduzionistica ma non antiscientifica, ed è su questo sfondo che, secondo me, il naturalismo liberalizzato potrebbe conseguire i propri obiettivi mantenendo una maggiore coerenza interna.



Il problema della libertà in chiave pragmatista

La mia idea è la seguente: se il naturalismo liberalizzato presenta delle ambiguità al suo interno – ambiguità che gli negherebbero l'etichetta di "naturalismo" – ciò è dovuto a un'adesione non del tutto completa al programma del pragmatismo. Infatti, per quanto le conclusioni siano molto simili, il naturalismo liberalizzato non sembra premere abbastanza sul carattere pratico-evolutivo delle nostre facoltà cognitive. Tale carattere è forse sottointeso, ma non è mai tematizzato esplicitamente come fonte del pluralismo ontologico in questione. Ma se non si riconosce il carattere pratico insito nella normatività e nei valori, e li si pensa semplicemente come oggetti sui generis, diventa difficile attribuire loro una qualità naturale, se non con l'estensione ad hoc del concetto di natura. O ancora, se si limita il principio di chiusura causale alla sola fisica, si corre il rischio di ammettere causalità soprannaturali nelle altre prospettive ontologiche. Dal pluralismo si giungerebbe così a un parallelismo di livelli di realtà e a forme di interazionismo di stampo cartesiano, ma ciò non è nella missione del naturalismo, nemmeno di quello moderato.
Tornando ora alla questione della libertà, è mia intenzione mostrare come si possa estrapolare un nucleo pragmatista dalle varie teorie; persino di quelle che, sulla carta, stanno su versanti opposti come il compatibilismo e l'incompatibilismo. Comincio allora dalla proposta del padre fondatore del naturalismo liberalizzato: l'argomento dell'abduzione. In sintesi, l'argomento muove da tre premesse:

Tesi di von Wright: i vocaboli della prospettiva agentiva rimandando all'idea di libertà (possibilità di scelte alternative e autodeterminazione del volere).

Tesi di Davidson: le scienze umane incorporano ineliminabilmente i concetti agenziali.

Abduzione: le scienze umane offrono attualmente le migliori spiegazioni per l'agire umano, quindi è razionale accettarle.

Conclusione: è razionale accettare le scienze umane, e quindi l'idea di libero arbitrio.

L'argomento di De Caro poggia su due basi: una metafisica e l'altra strettamente pragmatista. Il versante metafisico è contenuto nella Tesi di von Wright che ci costringe, se l'argomento è valido, ad accettare anche le implicazioni ontologiche dei concetti agenziali, e quindi che vi sia qualche tipo di causazione diverso da quello delle scienze naturali – De Caro inscrive questo argomento nella tradizione dell'agent-causation. Il tipo peculiare di causalità qui richiamata comporta la messa in questione del monismo ontologico, in particolare quello fisicalista, e del principio di chiusura causale del mondo fisico. Quest'ultimo resta il punto più problematico e ambiguo della proposta. L'influenza del pragmatismo è evidente invece nell'Abduzione, ovvero nell'inferenza alla miglior spiegazione il cui risultato non è definitivo. De Caro sottolinea che questa strategia è molto comune nella pratica scientifica – la teoria dell'evoluzione è essa stessa un'inferenza alla miglior spiegazione – perché offre continuamente nuovo materiale da sottoporre a verifica. La conseguenza però è che la credenza nella libertà non può fungere da punto archimedeo, perché l'abduzione lascia aperta la possibilità che i naturalisti scientifici riescano in futuro a ridurre i vocaboli dell'agentività e offrire una spiegazione neurofisica dei fenomeni umani. L'argomento non dimostra quindi l'esistenza della libertà. Dimostra che credere alla libertà è razionale alla luce del fatto che a) le scienze naturali non riescono a offrire le migliori spiegazioni per l'agentività umana e b) alcuni paradigmi della scienza stessa sono dubbi o non del tutto compresi. A mio avviso, Dewey accetterebbe senza problemi la tesi dell'abduzione, mentre sarebbe più restio ad accettare il quadro metafisico dell'agente come causa.
Passando ora alle altre teorie, vorrei mostrare come il pragmatismo sia individuabile anche nell'eliminativismo di Pereboom, nel compatibilismo di Magni, nel costruttivismo di Bagnoli, nello scetticismo epistemico e negli esperimenti di psicologia morale. La tesi che muove questa iniziativa è la seguente: adottare una metafisica eliminativista non porta guadagni apprezzabili sul lato pratico. Il che è un'affermazione piuttosto forte, dato che il problema della libertà ha assorbito così tante energie proprio per la sua relazione con la responsabilità morale e la teoria etica.
Parto innanzitutto dallo scetticismo epistemico e dalla psicologia sperimentale: cosa c'è di pragmatista in loro? Per quello che riguarda la psicologia è facile intuire che il suo nucleo pragmatico stia nello sperimentare l'effetto di certe intuizioni sulla condotta. Quindi, sebbene i risultati in merito alle intuizioni morali siano oggi molto contrastanti, ciò non toglie che questo tipo di ricerche, opportunamente affinate, possa essere molto utile non solo per conoscere il funzionamento della mente umana, ma anche per sviluppare nuove modalità di riforma sociale. Inoltre, non avendo validità metafisica, gli esperimenti di psicologia morale sono coerenti con gli assunti dello scetticismo epistemico, il quale ritiene impossibile conoscere qualcosa sulla proprietà essenziale del libero arbitrio, ma nel contempo riconosce che questa idea gioca un ruolo importante nella vita pratica delle persone. Di conseguenza, psicologia morale e scetticismo epistemico (nel senso di sospensione del giudizio) trovano piena dignità nell'ottica pragmatista, perché non trascendono il dato d'esperienza.
Che dire invece di costruttivismo, compatibilismo ed eliminativismo? Per quello che riguarda la proposta di Bagnoli, penso che il suo grande pregio sia quello di riportare l'agente nel contesto sociale e di radicare nell'interazione individuo-società la pratica di attribuzione della responsabilità, negando così l'assunto che la libertà sola sia sufficiente a fondare la responsabilità morale. Responsabilità che tra l'altro non andrebbe intesa nel senso retributivo di meritare un danno per un danno, ma in senso interattivo, ovvero come una richiesta di spiegazioni, di variazioni nella condotta, di riconciliazione. Ora, per quanto io concordi sul fatto che un ipotetico individuo isolato e libero non sia per definizione responsabile dei suoi atti, sono anche convinto che una qualche intuizione di libertà rientri nella pratica di attribuzione di responsabilità morale. Il livello minimo di libertà richiesto a questo scopo potrebbe essere il modello di agency di Magni e di Pereboom, i quali non descrivono la libertà in quanto tale, ma il funzionamento di ciò che potremmo chiamare libertà. Tale modello è dato dalla sola esperienza e delinea un agente:

che ha a disposizione delle possibilità alternative almeno a livello epistemico, giacché il futuro gli è ignoto e, in quanto forma di vita, necessita di prevedere le conseguenze delle sue azioni.

che ha delle capacità fisiche e riflessive/razionali tali da renderlo reattivo alle pressioni dell'ambiente naturale e sociale (capacità di cambiare i piani).

che ha un carattere, delle inclinazioni e delle ragioni i quali, unitamente alle opportunità del contesto, spiegano il suo agire.

che ha efficacia causale sul mondo, sebbene gli effetti possano essere prevedibili ma mai del tutto certi.

Questa è una possibile descrizione dell'agente, tranquillamente sottoscrivibile dai pragmatisti. Innanzitutto, la condizione di incertezza del futuro è uno dei fondamenti dell'epistemologia deweyana e spiega il carattere sperimentale dell'agire, i cui esiti sono appunto prevedibili a vario grado ma mai certi. Il riferimento a capacità e opportunità invece ben delinea la struttura interattiva e naturale dell'agente, il quale deve avere 1) i prerequisiti adatti per svolgere certe funzioni (p.e. un cervello sano) e 2) una situazione adatta all'esecuzione delle suddette funzioni. Infine carattere, inclinazioni e ragioni possono essere considerati tutti come strumenti concettuali, attualmente i migliori, per spiegare il fenomeno dell'agentività senza pretendere che alle sue spalle aleggi il motore immobile di Chisholm. Dato che il modello funzionale dell'agente non fa riferimento alla proprietà essenziale del libero arbitrio, esso si trova in accordo con l'analisi della responsabilità morale di Bagnoli: se l'agente ha delle anomalie nel suo funzionamento (anomalie nella razionalità pratica) egli non può rientrare nella relazione di reciproco rispetto, e quindi essere ritenuto responsabile per i suoi atti.
A questo punto ho dato una lettura pragmatista e conciliatoria di Bagnoli, Pereboom e Magni, ma non bisogna dimenticare a che prezzo: la rinuncia a qualunque riferimento agli sfondi metafisici del determinismo e dell'indeterminismo. Si ricorderà infatti che quando determinismo e indeterminismo guadagnano una valenza metafisica, il modello dell'agente appena delineato cade sotto la critica di Smilansky. A questo livello, i problemi di compatibilità che sorgono non sono tanto tra determinismo e libertà (che non può darsi), quanto tra la consapevolezza dell'illusione della libertà e una pratica di vita invariata. Mi sembra quindi sospetto che gli autori eliminativisti compiano tanti sforzi per mostrare che le loro eliminazioni avrebbero effetti assai contenuti nella pratica di tutti i giorni. A cosa serve aderire a una metafisica antilibertaria se ciò non ha effetti sul nostro modo di vivere? A cosa serve professare il determinismo se ciò è irrilevante per l'uomo comune? Dalle proposte di Pereboom e Nannini – e del compatibilismo classico – mi sembra serva unicamente a tenere alta la bandiera ideologica del fisicalismo. Ma si potrebbe sostenere, assieme a Pereboom, che in realtà l'eliminativismo avrebbe funzione terapeutica e permetterebbe di abbandonare una volta per tutte il retributivismo. Io sono persuaso dell'idea che non ci sia nulla di terapeutico del rimettere la propria esistenza alla sorte e che non sia necessaria una metafisica antilibertaria per criticare il retributivismo. Così come non serve una metafisica antilibertaria per giustificare il contenimento preventivo dei soggetti pericolosi: uno strumento di questo tipo potrebbe essere ragionevolmente adottato qualora si avessero prove certe della correlazione tra deficit biologico e comportamento antisociale, non per un postulato metafisico. Inoltre, bisogna considerare che assumere una metafisica eliminativista stride con il modello di agency presentato poco prima ai punti b) e c). Insomma, tra la pars construens e la pars destruens dell'opera di Pereboom vi sarebbe una certa incoerenza, la quale scompare se si abbandonano i presupposti metafisici.
Il compatibilismo di Magni, invece, elude queste problematiche, ma solo se si prende sul serio una sua particolare premessa: il compatibilismo rimane «agnostico riguardo alle questioni della libertà e della determinazione […] esso si muove quindi su un terreno esclusivamente filosofico-concettuale e non entra in questioni ontologiche». Una premessa di questo tipo mi consente una lettura in chiave pragmatista del compatibilismo per cui, una volta decaduto il modello metafisico del determinismo, è possibile accettarne il modello di agency nei quattro punti precedentemente elencati. Persino l'analisi condizionale del verbo potere e la distinzione dei desideri di primo e secondo ordine non farebbero più problema, perché possibilità alternative e riflessività sono sempre presenti come oggetti d'esperienza. Né ci sarebbe più bisogno di ricorrere ad artifici concettuali per tenere assieme l'incompatibile, ma ci si limiterebbe a pensare soluzioni per affrontare i problemi della vita.
Riassumo quindi la mia idea. Quasi tutte le teorie pro o contro la libertà condividono un nucleo comune riguardo l'agentività umana. Una volta depurato questo nucleo dalle vesti metafisiche che gli si appongono, è possibile inserirlo nel progetto del pragmatismo e notare che, in realtà, non c'è bisogno del determinismo per argomentare a favore dell'abbandono dell'accanimento sanzionatorio, del miglioramento delle condizioni carcerarie o del monitoraggio dei soggetti ad alto rischio di criminalità. Tutta l'etica, in un certo senso, è consequenzialista e riassorbe al suo interno le nozioni di "virtù", "utile" e "obbligo" quali strumenti da applicare e bilanciare a seconda del contesto. Sta pertanto all'intelligenza, che valuta la condizione umana nei suoi aspetti corporei, emotivi, razionali e sociali, trovare i metodi per regolare la vita sociale e offrirle possibilità di sviluppo. Essere eliminativisti o compatibilisti non aggiunge nulla sul versante pratico: mosse del genere conferiscono dignità metafisica alle scienze naturali ma dimenticano la loro natura strumentale, dando origine a confusioni, incongruenze ed estremismi.



La scienza e il moral enhancement: una possibile linea di ricerca

Aderire al pragmatismo significa dare una diversa chiave di lettura anche agli esperimenti pionieristici di Libet e Haynes. In particolare, ne ridimensiona le pretese epistemologiche spostando l'oggetto di ricerca dal libero arbitrio alla vita inconscia del soggetto. L'insieme delle critiche che ho riportato nel terzo capitolo infatti evidenzia alcune incongruenze tra il setting sperimentale e le conclusioni tratte, tali per cui emerge chiaramente l'intento di verificare le tesi del monismo ontologico e, in ultima istanza, del fisicalismo. Ma questa, oltre a essere una missione assai ardua, non sembrerebbe nemmeno una mossa molto utile, visto che le teorie eliminativiste e compatibiliste tendono a modificare il meno possibile la nostra concezione della vita pratica.
Ma questo significa allora che gli esperimenti di neuropsicologia non possono avere alcuna utilità per l'etica? Non è quello che voglio sostenere. Io credo che sia possibile mettere in correlazione studi sul cervello e comportamento senza bisogno di essere riduzionisti. Sostenere infatti che un'area corticale sia coinvolta nell'espressione dell'empatia non significa esaurire il fenomeno dell'empatia a quell'area, ma permette comunque di formulare strategie d'intervento contestuali. Quello che voglio dire, insomma, è che anziché usare le neuroscienze per cercare di avvallare l'ipotesi fisicalista, forse sarebbe meglio circoscriverle alla ricerca sulle funzioni cognitive, alla cura delle malattie e allo sviluppo di programmi interdisciplinari di moral enhancement. Ciò richiede una certa delicatezza e la consapevolezza, possibilmente scevra da pregiudizi, dello stato attuale della ricerca.
Il programma di studio, che qui abbozzo solamente, si ispira alla psicologia deweyana e al modello dell'embodied cognition (che nel pragmatismo e nella fenomenologia trova validi alleati). Il concetto fondamentale in gioco è quello di "plasticità" a cui fanno riferimento tanto la nozione di habitus quanto la capacità del cervello di riconfigurarsi in relazione al contesto ambientale. Nello specifico, l'abitudine per Dewey è un modello attivo di risposta all'ambiente che implica l'uso coordinato di materiali esterni, organi fisici e facoltà mentali dell'individuo e prefigura «una particolare sensibilità o accessibilità a certe classi di stimoli, delle predilezioni e delle avversioni costanti […]». Si tratta, per dirla senza tecnicismi, di una soluzione che l'unità psicofisica adotta e trova soddisfacente nel fronteggiare un'esigenza. Se l'abitudine non trova ostacoli nell'esplicitarsi, tende a sedimentarsi e a diventare, nel grado più estremo, routine, cioè una ripetizione meccanica che annulla l'attività riflessiva. Nel caso invece che un ostacolo si frapponga, la forza cieca dell'impulso sorge per segnalare l'esigenza di riadattamento e contrasta l'inerzia dell'abitudine.
Tra gli habiti figura anche l'esercizio del pensiero intelligente, ed è importante sottolineare la sua caratteristica unica: essere il mezzo più potente per la pianificazione dei corsi d'azione. L'intelligenza rielabora il materiale dell'esperienza, gli conferisce nuovi significati e anticipa le conseguenze dell'azione, moltiplicando le possibilità di riconfigurazione delle abitudini acquisite. Tutto il programma pedagogico e politico di Dewey si fonda sulla coltivazione del pensiero intelligente proprio perché ha di mira la cura di un individuo 'plastico', comunicativo, capace di creare un ambiente che stimoli la ricerca condivisa di nuove soluzioni. Se a ciò aggiungiamo che le reti neurali hanno esse stesse mostrato un alto grado di plasticità – persino nell'adulto –, e l'abbandono definitivo del dualismo mente/corpo, ecco apparire un ponte tra neuroscienze, etica e società, una nuova possibilità di intervento interdisciplinare sulla condotta dell'uomo: una neuroetica che studia la (cor)relazione tra determinati circuiti neurali e abilità cognitive partendo dal presupposto che il cervello è condizione necessaria ma non sufficiente per l'esprimersi di una funzione. Per dirla con una metafora: una materia conscia del fatto che il cervello non può prendere nessun oggetto senza mani, non può parlare senza una bocca e un interlocutore, non può essere morale senza un contesto normativo.
Il moral enhancement rientra in questo nuovo campo di ricerca. Ma come è possibile ottenere, in concreto, un 'potenziamento morale'? Con questo termine forse non si riduce implicitamente la nostra facoltà morale alle categorie biologiche? Innanzitutto va precisato che il moral enhancement può essere inteso almeno in due modi. Il primo, quello più invasivo, è un vero e proprio potenziamento della risposta biologica attraverso l'utilizzo di sostanze, interventi genetici e innesti cibernetici. L'utilizzo degli spray all'ossitocina per rendere più affabili le persone è un esempio concreto, ma le speculazioni più ardite arrivano a parlare di 'psicocivilizzazione della civiltà' (Delgado, Mark ed Ervin) e 'pillole della moralità'. L'altro tipo di enhancement, quello di cui voglio parlare, è una versione estesa di pedagogia morale volta a creare le condizioni per il pieno sviluppo delle capacità morali, tenendo presente che certe situazioni ambientali hanno effetti deleteri sulle aree cerebrali coinvolte nel giudizio morale e nella deliberazione.
Un progetto interessante è quello di Darcia Narvaez, ricercatrice della University of Notre Dame, che pone molta attenzione alle fasi di vita del bambino. Il punto di partenza del suo studio è un netto rifiuto del determinismo genetico e del dualismo mente/corpo, che viene sostituito da una prospettiva epigenetica per cui l'espressione genica e lo sviluppo delle funzioni sono modulati in buona parte dall'interazione con l'ambiente. Data questa premessa, l'impegno si rivolge soprattutto al contesto in cui il bambino cresce, poiché sono i primi anni di vita a fornire «the foundations fot what is to come in terms of social, intellectual and moral development». Cervello e corpo, letteralmente, si strutturano a partire delle relazioni tenute con i propri famigliari. Alcuni esempi? Già durante la gravidanza, una madre gravemente ansiosa produce scariche di cortisolo che possono influire sul sistema extrapiramidale e sulle aree limbiche inferiori. Tali aree si ritiene siano connesse alla percezione delle minacce, alla risposta allo stress e al meccanismo di risposta del tipo 'combatti o fuggi', e una loro disfunzione avrebbe delle implicazioni sulle capacità di affiliazione e di comportamento prosociale (l'ambiente viene percepito come una perenne minaccia). O ancora, uno scarso livello di cure parentali sembra influire sul sistema limbico superiore e sulle cortecce frontali alterando, di nuovo, la capacità di stringere legami affiliativi (circuito dell'ossitocina), così come le capacità di ragionamento astratto necessarie a un'interazione dinamica (immaginare alternative comportamentali e relative conseguenze).
Le possibilità d'intervento a questo livello primigenio, secondo Narvaez, sono molteplici e non richiedono medicinali o impianti: per favorire lo sviluppo morale del bambino – regolazione del comportamento e affiliazione – è consigliabile l'allattamento al seno, la somministrazione di stimoli tattili positivi da parte della madre, il gioco, la presenza di più figure di supporto, il riposo notturno condiviso. Ma non richiede medicinali o impianti nemmeno il modello di neuroeducazione morale che Narvaez delinea nelle sue basi operative con il duplice obiettivo di 1) favorire la virtù morale in noi stessi e nei giovani e 2) «modify brain malfunctioning through a change in activities which modify neuronal functioning». Tale modello si chiama Integrative Ethical Education (IEE) e propone di intervenire sulla condotta – e le relative basi neurali – attraverso vari tipi di attività. L'idea sarebbe quella di costruire degli scenari dove gli individui, supervisionati da un mentore, mettono alla prova le loro intuizioni morali, le loro abilità e le loro abitudini, confrontandosi sempre con nuovi problemi e discutendo delle possibili soluzioni. Tale pratica, atta a stimolare la plasticità di habitus e cervello, si integra poi con attività ricreative (canto, ballo, scrittura, giochi artistici) e la tecnica della mindfulness, oggi molto usata in psicoterapia: con le prime si cerca di revitalizzare le aree emotive del cervello, mentre con la seconda si focalizza l'attenzione sul momento presente aumentando i livelli di concentrazione e la capacità di analisi della situazione.
Qualora questo modello si dimostrasse efficace, richiederebbe interventi a livello politico e sociale volti alla costruzione di un ambiente favorevole. Data la grande mole di dati interdisciplinari che mettono in relazione scarse cure parentali, disfunzioni cerebrali e problemi comportamentali, Narvaez suggerisce l'istituzione di politiche attente alla genitorialità, per cui si potrebbe pensare a un programma di educazione per i genitori esteso a tutti i membri della società. Si dovrebbe poi contemplare una politica orientata al supporto dei bambini e delle famiglie, una ricostruzione di società e istituzioni che crei un contesto più comunicativo, sicuro, e meno stressante per le donne incinte.
In conclusione, la linea di ricerca di Narvaez molto si discosta dal puro potenziamento biologico perché ha alla sua base un modello pragmatista dell'umano, un modello che non fa riferimento solo alle categorie neuroscientifiche ma le contestualizza per avere una visione d'insieme della forma di vita. Conoscere le aree coinvolte in certe espressioni comportamentali consente di studiare quali attività potrebbero avere le ricadute migliori sulle basi neurologiche del sistema cognitivo-emotivo. Conoscere tali ricadute benefiche significa mettere la persona nelle condizioni di poter usufruire della piena funzionalità dell'organo. Ma la funzione morale non si esercita senza cultura, relazione, educazione: un intervento unidirezionale sull'organo sarebbe cieco. Se teniamo conto di ciò, ecco che le dicotomie cadono. Cervello, mente e mondo si configurano in una connessione olistica su cui abbiamo margine d'intervento grazie ai nostri strumenti tecnici e concettuali. E il bambino educato nella plasticità delle proprie abitudini sarà l'adulto di domani che avrà il potere, più o meno grande, di creare un ambiente favorevole per la società attuale e per le future generazioni.
Sullo sfondo di questo auspicio, i problemi del determinismo e dell'indeterminismo tendono a perdersi, un po' troppo facilmente elusi secondo alcuni, un po' troppo lentamente secondo altri. Ma porsi un obiettivo pratico significa rimettersi all'ordine dell'esperienza e riconoscere i limiti dell'impresa epistemologica umana. Significa aprirsi alla possibilità di un'etica naturalistica che non faccia riferimento a entità eterne e immutabili, siano esse metafisiche o scientifiche. Significa riportare l'uomo nella natura, come sua parte.























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