Nostra Aetate. Rapporto cristianesimo – ebraismo.

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MICHELANGELO TÁBET

COLLECTANEA BIBLICA

A CURA DI

EUSEBIO GONZÁLEZ

Roma 2014 EDUSC

T

DALLA «NOSTRA AETATE» ALLA SOGLIA DEL TERZO MILLENNIO: UNA VISIONE CRISTIANA DEL RAPPORTO CRISTIANESIMO-EBRAISMO* 1

In questo studio, di carattere prevalentemente storico-teologico, non è nostro compito fare delle previsioni su ciò che sarà il futuro dei rapporti fra la Chiesa e l’ebraismo nel terzo millennio; meno ancora quello d’analizzare come questi rapporti potranno influire nell’elaborazione teologica che si intravede possa aprirsi davanti al pensiero cristiano alla fine di questo millennio. La nostra finalità è quella di mettere in rilievo lo sviluppo sempre più positivo che si è verificato in questi ultimi cinquant’anni di storia nei rapporti cristianesimo-ebraismo e segnalare alcune linee di carattere teologico, già avviate all’interno della Chiesa, che spiccano in questo panorama. Certamente, il terreno conquistato fa prevedere un avvicinamento sempre più ricco e circostanziato fra ambedue le fedi religiose che non potrà non avere delle conseguenze all’interno del pensiero teologico cristiano, specialmente nel campo dell’ecclesiologia e della cristologia. In questo senso si può parlare di «fermento» che agisce nel terreno teologico. Il nostro studio, tuttavia, guardando all’indietro, vuole esporre nella cornice di questo simposio, in cui si intrecciano questioni ecumeniche e interreligiose con quelle più propriamente appartenenti all’ambito cattolico, alcuni aspetti di maggior rilievo teologico-teoretico che sono sorti dal moderno dialogo Chiesa-ebraismo e che sono venuti a costituire parte integrante dell’insegnamento della Chiesa, specialmente * In H. Fitte (a cura di), Fermenti nella teologia alle soglie del terzo millennio. Atti del III Simposio internazionale della Facoltà di Teologia del Pontificio Ateneo della Santa Croce (Roma, 12-14 marzo 1997), LEV, Città del Vaticano 1998, 352-368.

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da quando il Concilio Vaticano II pubblicò la Dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (28.X.1965)2.

1. La nuova prospettiva creata dalla dichiarazione «Nostra Aetate» Un grande balzo in avanti si è realizzato. La prospettiva teologico-cattolica odierna sull’ebraismo, con tutta la sua varietà, dista molto da quella esistente prima che incominciasse il Concilio Vaticano II. Allora, parlando in termini generali, il rapporto con gli ebrei seguiva una traccia multisecolare, segnata soprattutto da una certa separazione di interessi e non di rado da incomprensioni reciproche, senza che ci fosse una sostanziale presa in considerazione, a livello teologico, consono alla realtà biblica e adeguato ai nostri tempi. È vero, tuttavia, che lungo la prima parte di questo secolo non mancarono alcuni importanti interventi magisteriali3, soprattutto rivolti alla condanna dell’antisemitismo4, nonché una prassi che raggiunse nell’operato umanitario di Pio XII a favore degli ebrei, durante la seconda guerra mondiale, 2

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Su questo documento, cf G.C. Anawati et al., La Dichiarazione su «Le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane». Genesi storica. Testo latino e traduzione italiana. Esposizione e commento, «Magistero Conciliare» 15, Elle Di Ci, Leumann 1966; G.M.-M. Cottier et al., Les relations de l’Église avec les religions non chrétiennes: déclaration «Nostra Aetate», Cerf, Paris 1966; M. Zago, La Nostra Aetate e il dialogo interreligioso a vent’anni dal Concilio, Piemme, Casale Monferrato 1986; C. Di Sante, A vent’anni dalla «Nostra Aetate»: problemi riguardanti il dialogo ebraico-cristiano, RdT 26 (1985) 211-225. Una bibliografia essenziale in M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica, EDB, Bologna 1994, 144, nt. 1. Si possono menzionare, per esempio, la condanna ufficiale dell’antisemitismo del 1905, firmata da Pio X (1903-1914); la dichiarazione del 25 marzo 1928 del Santo Offizio, ai tempi di Pio XI (19221939), in cui viene qualificato l’antisemitismo come «odio contro il popolo prescelto da Dio» (AAS 20 [1928] 104), oppure gli accenni fatti dallo stesso Pontefice nell’enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937 (cf Enchiridion delle Encicliche V, 1144-1196). Di interesse più spiccatamente teologico nel nostro lavoro è l’allocuzione di Pio XI del 6 settembre 1938, ai partecipanti al pellegrinaggio della Radio cattolica belga, che rimarrà celebre. A proposito delle parole del canone romano «Sacrificio di Abele, sacrificio di Abramo, sacrificio di Melchisedec», commentava il Pontefice: «In tre tratti, in tre righe, in tre passi, tutta la storia religiosa dell’umanità. Sacrificio di Abele: l’epoca di Adamo. Sacrificio di Abramo: l’epoca delle religioni e della storia prodigiosa di Israele. Sacrificio di Melchisedec: annuncio della religione e dell’epoca cristiana. Testo grandioso! Ogni qualvolta lo leggiamo, siamo presi da un’emozione irresistibile. Sacrificium Patriarchae nostri Abrahae. Notate che Abramo è chiamato nostro patriarca, nostro antenato. L’antisemitismo non è compatibile col pensiero e con la realtà sublime che sono espressi in questo testo. L’antisemitismo è un movimento antipatico, al quale noi cristiani, non possiamo avere parte alcuna» («La documentation catholique» 20 [1938] 1460). Tutto sommato, però, i documenti magisteriale riguardo all’ebraismo in questa prima parte del secolo furono scarsi. Come afferma B. Hussar, «gli antefatti della Dichiarazione, specialmente per ciò che riguarda i rapporti tra Chiesa cattolica e popolo ebraico, sono da ricercarsi nella reazione della coscienza cristiana contro l’antisemitismo, un movimento che, nella sua essenza e al di là dei moventi di ordine sociale, economico, politico o semplicemente psicologico, consiste “nell’intaccare, in qualsiasi modo, il mistero soprannaturale che è nascosto in fondo al destino di questo popolo”. Questo antisemitismo è stato più volte condannato dalla Chiesa» (Genesi storica della dichiarazione conciliare «Nostra aetate», in G.C. Anawati et al., La dichiarazione su «Le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», 11-12).

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manifestazioni proprie di un cuore altamente consapevole della sua missione come Vicario di Cristo5, levando la sua voce «per condannare i persecutori e per prendere parte al loro sacrificio»6. Questi interventi però non produssero una riflessione teologica di largo respiro. Dopo gli avvenimenti accaduti durante la seconda guerra mondiale, con la persecuzione hitleriana che pretendeva arrivare alla «soluzione finale della questione ebraica» (la distruzione del popolo d’Israele), incominciò un graduale risveglio da ambedue le parti, ebraica e cattolica, che generò uno svolgersi di iniziative intese ad approfondire la comprensione fra le parti e a un miglioramento dell’amicizia tra cristiani ed ebrei7. Era soltanto l’inizio – sebbene molto importante – di un fenomeno di cui nessuno poteva ancora prevedere lo sviluppo posteriore. All’interno della Chiesa, i pontificati di Giovanni XXIII8, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II accelereranno decisamente questo processo di comprensione e di reciproco rispetto, e avviarono uno sviluppo di lunga portata a livello teologico; processo che trovò alla sua origine, da parte ebraica, eminenti personalità, come lo storico francese Jules Isaac, morto nel 1963, il quale, dopo gli avvenimenti della seconda guerra mondiale, dove perse la moglie e la figlia nel campo di concentramento, prese la decisione di dedicare la sua vita a sradicare le cause dell’antisemitismo e a promuovere un proficuo dialogo ebraico-cristiano9. 5

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Sull’azione di Pio XII, tenendo presente la critica scandalosa che era stata indirizzata contro il Romano Pontefice da Hochhuth nella sua opera Il Vicario, risulta di particolare interesse l’opera di R.F. Esposito, Processo al «Vicario»: Pio XII e gli Ebrei secondo la testimonianza della storia, SAIE, Torino 19642. Nel cap. VI, intitolato La risposta degli ebrei, sono raccolte le testimonianze dell’immediato dopoguerra e altre posteriori di grande personalità del mondo ebraico lodando l’operato di Pio XII, fra le altre, quella di C. Barlas (rappresentante dell’Agenzia ebraica per la Palestina, il 23 gennaio 1943, in un discorso rivolto al delegato apostolico d’Egitto e Palestina, mons. Gustavo Testa), del gran rabbino di Romania, dott. A Saffran, e del rabbino romano I. Zolli (cf Ibidem, 158-180). Parole della sig.ra Golda Meier, allora ministro degli esteri d’Israele, nel 9.X.1958 (dal libro di R.F. Esposito, in copertina). Fra queste iniziative, merita essere menzionato il primo congresso internazionale organizzato dal National Council for Christians and Jews degli Stati Uniti in Seeligsberg (Svizzera 1947), con la partecipazione di 80 membri – cattolici, protestanti ed ebrei – di 18 paesi. Inoltre incominciarono a moltiplicarsi delle associazioni per stimolare l’amicizia tra ebrei e cristiani in paesi come Francia, Germania e Svizzera, come già esistevano in Inghilterra e negli Statiti Uniti, e nacquero parecchie istituzioni cattoliche o ebraiche le quali si prefissarono lo scopo di informare gli aderenti delle rispettive religioni sulla vera natura dell’altro gruppo religioso. L’importanza del suo pontificato su ciò che riguarda il rapporto ebraico-cristiano si riflette nel fatto che durante la sua lunga e dolorosa agonia si pregò ufficialmente per lui nella sinagoga di Roma, e dopo la sua morte, il ministro dei culti, commemorandone la sua scomparsa alla Commissione degli Affari interni della Knesseth (il Parlamento israeliano), attribuì al Papa defunto il titolo eccezionale di Zaddik (Giusto). Sulle prospettive aperte dal Pontificato di Giovanni XXIII sul rapporto tra la Chiesa e il popolo ebraico, cf B. Hussar, Genesi storica della dichiarazione conciliare «Nostra aetate», 22-26. La sua ultima opera intitolata Jésus et Israël (1948) ebbe una profonda risonanza. Purtroppo, come segnala Hussar, J. Isaac considera in quest’opera il cristianesimo come la causa principale, se non unica,

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Tutta questa storia appena accennata sarebbe da scrivere con una migliore ampiezza10. A noi spetta segnalare che la presa di coscienza da parte della Chiesa sul rapporto con l’ebraismo e con le altre religioni non raggiunse, se non con la dichiarazione Nostra Aetate, un chiaro e appropriato punto di riferimento, essendo questa dichiarazione –  nonostante i limiti che oggettivamente possano essere segnalati  – un gigantesco tentativo di riflessione sui problemi interreligiosi nel seno della Chiesa cattolica. Il cammino verso la Nostra Aetate ebbe le sue difficoltà. È conosciuto come all’inizio del Concilio Vaticano II non era previsto nessun documento specifico sulle religioni. Nel 196211, il card. Bea, allora segretario per l’unione dei cristiani, presentò alla Commissione centrale del Concilio un testo di 42 righe, sul quale si stava lavorando dal 1960, sul rapporto della Chiesa con la religione ebraica. Nel 1963, Giovanni XXIIII ordinò che il testo fosse inserito nella dichiarazione sull’ecumenismo, di cui formò il capitolo IV12. Venne allora distribuito ai Padri conciliari per il suo studio. Non fu diversa l’impostazione che ebbe il testo durante la terza sessione conciliare nel settembre 1964, sebbene, frattanto, era stato allargato alle altre religioni: esso era ancora pensato, infatti, come appendice del menzionato decreto De Oecumenismo. Finalmente, e come manifestazione dell’azione costante e provvidente dello Spirito nella Chiesa, grazie alle richieste di diversi Padri conciliari, il testo, profondamente emendato, divenne un documento autonomo sulle religioni, approvato il 28 ottobre 1965. Per la prima volta un Concilio promulgava un documento specifico sulle altre religioni con il carattere di «dichiarazione» e con un contenuto marcatamente ecumenico. Il capitolo più lungo e articolato riguarda la relazione della Chiesa con l’ebraismo: 63 righe sulle complessive 177 righe della dichiarazione. I temi accennati offrono una prospettiva che allarga ciò che umanamente si poteva prevedere all’inizio della grande assemblea conciliare. Un riassunto potrebbe presentare la seguente forma13. Nella prima parte si mettono in rilievo i vincoli spirituali speciali che legano il popolo del Nuovo Testamento con la

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dell’antisemitismo, forse dimenticandosi la complessità del problema – in cui intervengono anche cause politiche, sociali, economiche, razziali e psicologiche –, e che l’antisemitismo è un fenomeno già di epoca precristiana (si veda il libro biblico di Ester) e che è esistito e esiste anche in paesi non cristiani, di matrici culturali molto diverse (cf Genesi storica della dichiarazione conciliare «Nostra aetate», 24-25). Alcuni altri dati d’interesse si possono trovare nello scritto di B. Hussar citato precedentemente. Su questo iter storico, cf M. Zago, La Nostra Aetate e il dialogo interreligioso a vent’anni dal Concilio, 11ss. Sull’Unitatis redintegratio, cf G. Békés/V. Vajta (edd.), Unitatis redintegratio 1964-1974. The Impact of the Decree on Ecumenism, Anselmiana, Roma 1977; A.M. Javierre Ortas, Promozione conciliare del dialogo ecumenico: presentazione del «Decretum de Oecumenismo», Elle Di Ci, Leumann 1966; V. Joannes (a cura di), L’ecumenismo: decreto «Unitatis redintegratio». Testo del decreto, note e commento a cura di un gruppo di laici e di sacerdoti, Queriniana, Brescia 1966. Il documento si può trovare in EV I, 861-868.

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stirpe di Abramo e il patrimonio comune della Chiesa con il popolo ebraico, rivolgendo un invito, in forza di questi principi, alla «mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo». In questa parte si fa anche menzione, senza uno sviluppo però ulteriore, di alcuni concetti di grande densità teologica. Si sostiene, infatti, che: a) gli inizi della fede e dell’elezione della Chiesa si trovano già nei patriarchi, in Mosè e nei profeti; b) i fedeli di Cristo, secondo la fede di Abramo, sono inclusi nella vocazione di questo Patriarca; c) la salvezza della Chiesa è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù; d) la Chiesa ha ricevuto la rivelazione dell’AT per mezzo di quel popolo con cui Dio si è degnato di stringere l’Antica Alleanza; e infine, e) che la Chiesa si nutre dalla radice dell’ulivo buono, su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvaggio che sono i gentili. Si rievocano pure, con parole di Rm 9,4-5, i grandi doni che Dio diede al popolo d’Israele, fra i quali che da esso è nato Cristo secondo la carne, nonché gli apostoli e moltissimi dei primi discepoli di Cristo. La seconda parte chiarisce ciò che riguarda la responsabilità degli ebrei nella morte di Gesù, accennando al fatto che, quanto è accaduto durante la passione di Cristo, «non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo». Quindi, il documento esorta a fare attenzione perché nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non venga insegnato «alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e allo Spirito di Cristo», morto per tutti, la cui croce è «segno dell’amore universale di Dio e fonte di ogni grazia». Se si esamina oggettivamente il documento, dall’angolazione che le è propria, cioè come un testo di carattere risolutamente religioso, esso si presenta come una dichiarazione di grande prospettiva e originalità. Di questo documento è stato detto che costituisce «una pietra miliare delle relazioni cattoliche-ebraiche»14. Il fatto stesso che i consensi aumentassero nella votazione definitiva, del 20 ottobre 1965, nel corso della settima sessione pubblica, quando in favore della dichiarazione si pronunciarono 2.221 Padri contro 88 (i voti nulli furono 3) è, come segnala Hussar «una meravigliosa conferma del modo con cui lo Spirito Santo, in Concilio, opera l’unità delle menti nella verità e unione dei cuori nella carità», e manifesta «la libertà con cui la Chiesa sa prendere le proprie decisioni senza retrocedere di fronte ad opposizioni o difficoltà gravi»15.

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E.I. Cassidy, Quale futuro per il dialogo Ebraico-Cristiano?, conferenza pronunziata nell’incontro dell’«Associazione Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma» in occasione dei 30 anni della Nostra Aetate nel 1995, 3. Genesi storica della dichiarazione conciliare «Nostra aetate», 46.

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2. Lo sviluppo teologico del dialogo ebreo-cristiano Dopo la pubblicazione della Nostra Aetate, i principali atti magisteriali riguardanti il dialogo ebreo-cristiano sono stati due documenti emanati dalla «Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo», uno l’1 dicembre del ‘74, Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della Dichiarazione Nostra Aetate, l’altro il 24 giugno 1985, Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica (Suggerimenti), il più importante dal punto di vista programmatico; ai quali bisogna aggiungere l’ampio spazio dedicato dal Catechismo della Chiesa Cattolica al nostro argomento (CCC 574-600), il cui insegnamento si può considerare il culmine di circa trent’anni di riflessione sulla questione ebraica16. Questi grandi pronunziamenti magisteriali costituiscono tuttavia, di fatto, una piccola parte degli atti magisteriali complessivi sul nostro argomento. Basta pensare che nella raccolta curata dal rabbino L. Klenicki e dal sacerdote cattolico E. Fisher17 si rinvengono più di 90 interventi di Giovanni Paolo II in questo campo, alcuni di essi di grande importanza dal punto di vista teologico. Tuttavia, i tre documenti menzionati, per la loro indole e perché raccolgono armonicamente i temi fondamentali dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, si possono considerare i più significativi. Questi testi ci offrono un’idea abbastanza esatta dei temi centrali in fermento e dei campi che la teologia del terzo millennio è chiamata ad approfondire. a) Il testo di Orientamenti (1.XII.1974) Questo documento18, emanato nove anni dopo la promulgazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate, partendo dal fatto che la suddetta dichiarazione aveva segnato una svolta importante nella storia dei rapporti ebreo-cattolici, segnalava che 16

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Questi documenti si possono trovare riuniti insieme nella raccolta in appendice del libro di M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica, EDB, Bologna 1994. I due primi anche, rispettivamente, nell’EV V, 772-793: IX, 1615-1658. Johannes Paulus II, Papa. Spiritual Pilgrimage: Texts on Jews and Judaism, 1979-1995, con commentari e introduzione di E.J. Fisher/Leon Klenicki (edd.), Crossroad, New York 1995. Per una raccolta dei più importanti documenti cristiani ed ebraici sul nostro argomento, fino al 1982, cf L. Sestieri/G. Cereti (a cura di), Le chiese cristiane e l’ebraismo (1947-1982). Raccolta di documenti, Marietti, Casale Monferrato 1983, 349-383; R. Rendtorff/H.H. Henrix, Die Kirchen und das Judentum. Dokumente von 1945 bis 1985, Paderborn, München 19892. Si può aggiungere A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Morcelliana, Brescia 1966. Riguardo al dialogo ebraico-cristiano in Italia, cf le conferenze pronunciate da S.E. Mons. G. Chiaretti e il Rabbino E. Kopciovsky nella VII Giornata dell’Ebraismo promossa dalla CEI la domenica 14 gennaio 1996 nell’Aula Magna della Facoltà Valdese. Per un commento a questo documento, cf R. Fabris, La prudenza degli «orientamenti» e dei «suggerimenti» vaticani sugli ebrei, Reg.Attualità 20 (1975/6) 130-140. Si veda anche l’editoriale della «Civiltà Cattolica» (direttore della rivista era a quel tempo B. Sorge), Problemi e prospettive del dialogo tra cristiani ed ebrei, CC 136 (1985/II) 2-18.

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si erano create le condizioni perché venissero proposti «suggerimenti concreti, basati sull’esperienza, nella speranza» che attuassero nella vita della Chiesa le intenzioni del Concilio. I suggerimenti erano in definitiva questi quattro: a) la necessità di stabilire un vero dialogo, nel rispetto della propria fede religiosa e della persona e la libertà religiosa altrui, che superando la logica del sospetto fosse portato da un vero desiderio di conoscenza reciproca e servisse a sviluppare e ad approfondire tale conoscenza; b) il bisogno di conoscere gli elementi comuni della vita liturgica (formule, feste, riti, ecc.), nella quale la Bibbia ha un posto essenziale, che aiuti a comprendere i legami esistenti tra la liturgia cristiana e la liturgia ebraica, ambedue portatrici di un concetto di vita rivolta al servizio di Dio e dell’umanità per amore di Dio; c) un’esortazione a continuare il lavoro iniziato da parte della Chiesa e degli esperti con la finalità di raggiungere una migliore comprensione dell’ebraismo in sé e della sua relazione con il cristianesimo; e infine, d) una seconda esortazione a intraprendere alcune azioni sociali comuni, in quanto cristianesimo ed ebraismo, fondati sulla parola di Dio, hanno ambedue coscienza del valore della persona umana in quanto immagine di Dio. Sebbene eminentemente pratico, si possono rinvenire nel documento degli elementi teologicamente fondanti, ai quali si accenna soprattutto nel terzo punto e che costituiscono ancor oggi temi in aspettativa di una più ampia riflessione teologica. Dell’importanza di questi argomenti e della sua complessità nel metterli in pratica erano molto coscienti i redattori degli Orientamenti e suggerimenti quando parlano di «un vasto lavoro da svolgere» e specificano che «il problema dei rapporti tra ebrei e cristiani riguarda la Chiesa come tale, poiché è “scrutando il suo proprio mistero” che essa fronteggia il mistero di Israele». Ci troviamo, quindi, davanti ad una questione fortemente dogmatica e che perciò conserva «tutta la sua importanza anche in quelle regioni dove non esistono comunità ebraiche», come aggiunge il documento. In questo contesto, i temi specifici sui quali la teologica cattolica viene chiamata a riflettere sono, tra gli altri: a) l’unicità del Dio dell’antica e della nuova alleanza; b) l’armonia esistente tra l’Antico e il Nuovo Testamento, parti di una stessa economia divina salvifica, in cui l’AT conserva un valore proprio e perpetuo di rivelazione non obliterato dall’ulteriore interpretazione del NT, e nel seno della quale esiste un rapporto tale che il NT dà all’AT il suo significato più compiuto così che, reciprocamente, il NT riceve dall’Antico luce e spiegazione; d) l’ebraicità di Gesù e degli apostoli e di molti dei primi discepoli; e) l’inserimento dell’insegnamento di Gesù nella dottrina veterotestamentaria e nei metodi di insegnamento del giudaismo a lui contemporaneo, sebbene la sua dottrina avesse un carattere profondamente nuovo, presentata come compimento e perfezionamento della precedente rivelazione; f) la complessità della cornice storico-sociale giudaica in cui si svolse la vita terrena di Gesù e le sue conseguenze per quanto si riferisce al processo e 144

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alla morte di Gesù; g) il perdurare della storia dell’ebraismo, che ha continuato, dopo la distruzione di Gerusalemme, a sviluppare una tradizione religiosa la cui portata resta tuttavia ricca di valori religiosi; e h) la coscienza con cui la Chiesa attende un giorno in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce. b) Il testo dei Sussidi del 24 giugno 1985 Questo secondo documento19, molto più lungo e articolato, nacque con il desiderio di offrire al mondo cattolico un valido aiuto perché ci fosse una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa. È quanto viene indicato nelle sue considerazioni preliminari, con le parole con cui Giovanni Paolo II si rivolse il 6 marzo 1982 ai delegati delle Conferenze episcopali e agli altri esperti riuniti a Roma per studiare le relazioni tra cristianesimo ed ebraismo: «voi vi siete preoccupati, durante la vostra sessione, dell’insegnamento cattolico e della catechesi in rapporto agli ebrei e all’ebraismo […]. Occorrerà far in modo che questo insegnamento, ai diversi livelli di formazione religiosa, nella catechesi fatta ai bambini e agli adolescenti, presenti gli ebrei e l’ebraismo non solo in maniera onesta e obiettiva, senza alcun pregiudizio e senza offendere nessuno, ma ancor più con una viva coscienza del patrimonio comune agli ebrei e ai cristiani». Dal punto di vista teologico, il merito dei Sussidi – a mio avviso – non si trova tanto nell’aver accennato ad argomenti sostanzialmente nuovi riguardo a quelli precedenti contenuti nella Nostra Aetate e in Orientamenti, ma nel modo più sviluppato e approfondito in cui sono stati presentati gli stessi argomenti. Basta leggere i titoli dei sei capitoli che lo costituiscono per farsi un’idea della ricchezza contenutistica del testo: I. Insegnamento religioso ed ebraismo; II. Rapporti tra Antico e Nuovo Testamento; III. Radici ebraiche del cristianesimo; IV. Gli ebrei nel Nuovo Testamento; V. La liturgia: VI. Ebraismo e cristianesimo. Il tutto richiederebbe una trattazione che va molto al di là dello spazio a noi concesso. Si tratta di argomenti di particolare importanza teologica e pratica, la cui esatta comprensione è richiesta come qualcosa di essenziale per un vero dialogo con l’ebraismo, che sempre suppone un desiderio di conoscenza mutua e un impegno di voler approfondire la tradizione propria e altrui. Si affrontano concetti come l’unità della rivelazione biblica e del disegno divino di salvezza, il valore fondamentale dell’Antico Testamento nella visione cristiana, la peculiarità della lettura 19

Cf in particolare M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica, 41-140; R. Fabris, Luci e ombre dei Sussidi vaticani. A vent’anni dalla dichiarazione conciliare sugli Ebrei, Hum 40 (1985/5) 738-752; M. Remaud, Commentaire des Notes pour une correcte présentation des juifs et du judaïsme dans la prédication et la catéchèse de l’Église catholique, SIDIC (ed. franc.) 19 (1986/2) 28-34; e nello stesso numero S. Cavalletti, Typologie et mémorial, 38-39.

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tipologica dell’Antico Testamento e le sue condizioni perché la lettura cristologica non intacchi il senso letterale dell’AT, la problematica sulla continuità e discontinuità tra l’uno e l’altro Testamento, l’ebraicità di Gesù, di Maria e degli apostoli (che furono ebrei pienamente inseriti nel popolo d’Israele, partecipando della loro fede e cultura), il significato dell’incarnazione come apertura all’universalità della salvezza, la questione della lettura contestualizzata del Nuovo Testamento, i problemi riguardanti la nascita del cristianesimo e la complessità del giudaismo dell’epoca intertestamentaria, a cui appartenevano diversi gruppi religiosi (farisei, sadducei, esseni, zeloti, ecc.) non ancora del tutto ben identificati e non tutti responsabili allo stesso modo della morte di Gesù, con grandi differenze di responsabilità pure fra i loro membri, ecc. Alcuni di questi argomenti non pare fossero stati mai prima così chiaramente formulati da altri documenti magisteriali, e in ciò si avverte una crescita del pensiero teologico cristiano. Si legga per esempio tutto ciò che si riferisce alla lettura contestualizzata del Nuovo Testamento oppure sulla radice ebraica del cristianesimo. Se si volesse tuttavia mettere in rilievo uno degli argomenti dei più significativi dei Sussidi, che possa riallacciare gli altri per la sua centralità e radicalità, questo sembra essere il tema più specificamente ecclesiologico di cui si parla nel primo capitolo. Questo capitolo, prendendo e confermando concetti che erano già entrati a formar parte della teologia cattolica negli ultimi 30 anni, da quando cioè furono formulati per primi dalla Nostra Aetate, parla del «vincolo che lega spiritualmente» la Chiesa al popolo ebraico, del «grande patrimonio spirituale comune» – si pensi, infatti, per esempio, alla fede nel Dio unico, alla concezione dell’intervento di Dio nella storia universale, alla tradizione biblica, ecc. –, e del fatto che la Chiesa «riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elevazione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti». In questo contesto, il documento precisa, con parole di Giovanni Paolo II, che, di conseguenza, esistono dei rapporti unici tra il cristianesimo e l’ebraismo, «legati al livello stesso della loro identità» (Sussidi I, 2). L’asserzione, considerata fra le più importanti del documento, implica una teologia in cui il concetto di Chiesa appare strutturato con un vincolo del tutto particolare: esso – si afferma – non può essere definito adeguatamente senza, nello stesso tempo, delineare con precisione il suo rapporto con il popolo ebraico. In altre parole, il problema ebraico non è e non può essere per la teologia cattolica una questione secondaria, di buoni rapporti; neppure un tema da affrontare per le sue dimensioni di carattere umanitario: per la Chiesa si tratta di un nodo centrale, che tocca la sua stessa identità, un elemento teologico fondamentale che entra nella sua stessa definizione. Questo perché i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo costituiscono una realtà religiosa essenziale del mistero della Chiesa; essi infatti – come precisano i Sussidi con parole di Giovanni Paolo II – 146

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sono «fondati sul disegno del Dio dell’alleanza», cioè sui progetti di quell’unico Dio il quale, nel suo amore verso il popolo ebraico, non volle annullare l’alleanza con esso stabilita. L’antica alleanza, infatti, «non è mai stata revocata»20, «perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,29), motivo per cui tutto fa supporre che nella nuova alleanza – «nuova» perché ripara e porta alla pienezza l’«antica» che era stata infranta – il popolo ebraico occupa un ruolo del tutto singolare. Questo argomento, la cui precisazione corrisponde particolarmente all’ecclesiologia, è anche da chiarire in sede di dialogo interreligioso, perché, come segnala Mauro Pesce21, la problematica riguardante le radici ebraiche del cristianesimo, che entrerebbe in una maniera del tutto naturale in un’ecclesiologia cristiana, trova certa riluttanza fra gli studiosi ebrei, dal momento che la formula implica una concezione di Chiesa come compimento e realizzazione dell’ebraismo. Diffidenza che dovrebbe venire superata se il principio dell’origine ebraica del cristianesimo viene accompagnato dall’affermazione della novità della rivelazione di Dio in Cristo, quindi, dalla consapevolezza che il cristianesimo si fonda su una nuova rivelazione e non semplicemente su una più corretta interpretazione della Bibbia ebraica. Il passo verso il cristianesimo richiede, in definitiva, un nuovo principio di fede e d’interpretazione, perché il cristianesimo non è semplicemente una conclusione naturale dei dati biblici veterotestamentari. Se così fosse, probabilmente non ci sarebbero state tante diverse concezioni del messianismo nel mondo ebraico contemporaneo di Cristo. All’interno della teologia cattolica, queste considerazioni si devono armonizzare con un altro elemento: sul fatto che «in virtù della sua missione divina», la Chiesa è mezzo generale di salvezza, quindi, Chiesa ed ebraismo non possono essere presentati come due vie parallele di salvezza e la Chiesa non può venir meno nella sua missione di testimoniare Cristo redentore di tutti. Esiste un unico disegno divino di salvezza, in cui, come afferma san Paolo, Dio continua a servirsi d’Israele con una missione molto specifica: «l’indurimento di una parte d’Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: “Da Sion uscirà il liberatore, egli taglierà le empietà di Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati”» (Rm 11,25-27).

20

21

Giovanni Paolo II, Discorso alla Comunità ebraica di Magonza (Mainz), 17.XI.1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III.2, LEV, Roma 1981, 1274. Il cristianesimo e la sua radice ebraica, 51-52.

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c) Il Catechismo della Chiesa Cattolica Nella questione del rapporto cristianesimo-ebraismo, l’insegnamento del Catechismo della Chiesa Cattolica22 si inserisce con un’autorevolezza massima e con una prospettiva del tutto singolare. Il CCC, infatti, per la sua stessa natura, come riassunto cioè della dottrina della Chiesa proposta a tutti i fedeli con l’autorità di cui gode il Magistero ordinario e universale, fa palese fin dove è arrivata ai nostri tempi la consapevolezza che la Chiesa universale ha della questione ebraica come una questione ecclesiale. Riguardo al nostro tema, si può affermare che è la prima volta nella storia della Chiesa che un catechismo dedica uno spazio così ampio – più di quaranta numeri, dal 574 al 600, e altri numeri sparsi – a trattare le questioni riguardanti i rapporti della religione cristiana con la religione ebraica, e questo in un contesto fortemente dialogico. In questo senso, il CCC si può considerare il culmine di una riflessione teologica e l’avvio di una nuova riflessione di grande portata nonché di una prassi ecclesiale. Certamente, il CCC non contiene tutta la trattativa che appariva nei Sussidi del 1985, che rimane un documento insostituibile per quanto si riferisce alla sua tematica propria, ma la sua formulazione della dottrina cristiana, semplice e essenziale, in tutti i suoi punti fondamentali, conforme alla sua natura, offre un più preciso punto di riferimento. Tanto più se si considera che il CCC si è aggirato tenendo indubbiamente in conto, da una parte, l’obbligo primario di salvaguardare l’identità della fede cristiana e, dall’altra, quello d’incamminare tutti gli uomini alla ricerca della verità attraverso un dialogo fraterno, in cui tutti si sentano figli di Dio. Questo fa sì che l’insegnamento del CCC rivesta un’autorevolezza del tutto particolare nel rinnovamento teologico e serva di valida guida nella legittima apertura delle menti a una più ampia comprensione dei problemi umani perché si possa intavolare quel dialogo fraterno così profondamente inserito nella fede cristiana. Perciò, benché il CCC non affronti in modo esaustivo i complessi rapporti della Chiesa con gli ebrei e l’ebraismo come fanno più ampiamente i Sussidi, esso non può non creare in maniera più approfondita l’atteggiamento caratteristico della vita e della prassi del cristiano e, quindi, ciò che deve essere il suo programma intellettuale e personale davanti all’ebraismo nella società in cui vive: il suo atteggiamento ecclesiale in questa tematica. Vediamo, se pur brevemente, le linee principali dell’insegnamento del CCC in ciò che ci interessa. Il vasto blocco che il CCC dedica al nostro argomento si divide in due sezioni. La prima riguarda «Gesù e Israele» (nn. 574-594); la seconda, la morte di Gesù, il suo significato salvifico universale e la responsabilità storica della crocifissione (nn. 59522

Per un riassunto della dottrina del CCC su questo tema, cf P. Vanzan, Ebrei ed ebraismo nel «Catechismo della Chiesa Cattolica», CC 3443 (1993/IV) 439-451.

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600). È lo stesso Catechismo a offrire nella «sintesi» il riassunto delle idee principali in esso contenute. Sono tre: a) «Gesù non ha abolito la Legge del Sinai, ma l’ha portata a compimento con una tale perfezione da rivelarne il senso ultimo e da riscattarne le trasgressioni»; b) «Gesù ha venerato il tempio salendovi in occasione delle feste giudaiche di pellegrinaggio e ha amato di un amore geloso questa dimora di Dio in mezzo agli uomini. Il tempio prefigura il suo mistero. Se ne predice la distruzione, è per manifestare la sua propria uccisione e l’inizio di una nuova epoca della storia della salvezza, nella quale il suo corpo sarà il tempio definitivo»; c) «Gesù ha compiuto azioni, quale il perdono dei peccati, che lo hanno rivelato come il Dio salvatore. Alcuni Giudei, i quali non riconoscevano il Dio fatto uomo, ma vedevano in lui “un uomo” che si faceva “Dio” (Gv 10,33), l’hanno giudicato un bestemmiatore» (nn. 592-594). Completando queste idee, nel CCC affiorano qua e là altre asserzioni di grande rilievo: Gesù è nato ebreo da un’ebrea, da «una figlia d’Israele, una giovane giudea di Nazaret in Galilea, “una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe”», motivo per cui i cristiani non possono non sentire un obbligo di amare gli ebrei (nn. 423; 488); numerosi giudei e anche alcuni pagani che condividevano la loro speranza hanno creduto in Gesù (n. 439); Gesù ha fatto propria la religione ebraica, essendo stato circonciso e partecipando al culto durante tutta la sua vita (n. 527); il popolo ebraico occupa un ruolo centrale e insostituibile nella storia per il fatto che Gesù è stato il Messia d’Israele (n. 528); gli ebrei parteciperanno alla salvezza messianica secondo il testo di Rm 9-11, dove l’Apostolo parla di una riannessione degli ebrei in seguito della partecipazione totale dei pagani (n. 674); esiste una comune attesa della fine, sebbene la speranza degli ebrei si differenzia proprio in relazione a Cristo e alla seconda venuta (n. 840); esistono pure elementi comuni della liturgia ebraica e cristiana (nn. 1096; 1328; 1334; 1340), ecc. Forse ci sono due numeri del CCC che meritano uno speciale accenno nel nostro lavoro in quanto si indirizzano a specificare il rapporto fra cristianesimo ed ebraismo. Il primo si riferisce alla relazione esistente fra l’antica e la nuova alleanza, precisata nei seguenti termini: «La Chiesa, popolo di Dio nella nuova alleanza, scrutando il suo proprio mistero, scopre il proprio legame con gli ebrei, che Dio “scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola”. A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è gia risposta alla rivelazione di Dio nell’antica alleanza. È al popolo ebraico che appartengono “l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne” (Rm 9,45) perché “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (Rm 11,29)». Il tema non viene sviluppato, ma la dichiarazione rimane come sfida alla teologia dell’alleanza. Se è vero, come insegna il CCC, che la Chiesa è «il popolo della nuova alleanza» e Israele 149

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«il popolo dell’antica alleanza», non è meno vero, come già precisavano i Sussidi, che l’antica alleanza «non è mai stata revocata» e che «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili», frasi che fanno supporre che il popolo ebraico non ha cessato di essere un popolo specialmente eletto da Dio, con il quale Dio continua a mantenere legami inviolabili. Certamente, il tema trova un primo chiarimento sotto la prospettiva che la nuova alleanza è stata rivolta in primo luogo agli ebrei (cf Rm 1,16), e che la Chiesa è una comunità che è venuta ad integrare ebrei e gentili in un unico popolo di Dio (cf Ef 2,1122): una risposta, quindi, nella logica della continuità-compimento-perfezionamento nel processo del disegno divino salvifico, non in quella della sostituzione, abrogazione o annullamento dell’antica alleanza una volta stabilita la nuova. L’altro concetto che vogliamo mettere in rilievo è quello, apparentemente forse meno importante, che parla della domenica come «compimento» del sabato ebraico23. Il brano insegna: «La domenica si distingue nettamente dal sabato al quale, ogni settimana, cronologicamente succede, e del quale, per i cristiani, sostituisce la prescrizione rituale. Porta a compimento, nella Pasqua di Cristo, la verità spirituale del sabato ebraico e annuncia il riposo eterno dell’uomo in Dio. Infatti, il culto della legge preparava il mistero di Cristo, e ciò che vi si compiva prefigurava qualche aspetto relativo a Cristo». Quest’asserzione, in cui si ribadisce che la domenica, pur essendo imparentata nella sua concezione col sabato ebraico, se ne distingue nettamente, sembra avere come scopo quello di evidenziare la differenza d’identità tra le due religioni nonostante il patrimonio religioso comune. Essa sottolinea infatti ciò che è di comune e ciò che è di diverso. La risurrezione di Cristo, per il cristiano, rende il giorno di riposo cristiano escatologicamente diverso del sabato, fino al punto che coloro che vivendo «nell’antico ordine di cose si sono rivolti alla nuova speranza», vivono adesso secondo la domenica, «giorno in cui è sorta la nostra vita, per la grazia del Signore e per la sua morte» (n. 2175).

Riflessioni conclusive In questo rapido sguardo teologico ai principali documenti magisteriali di quest’ultimo scorcio di secolo sul rapporto della Chiesa con l’ebraismo, si fa palese soprattutto un’importante realtà: l’esistenza di una riflessione che si è man mano allargata, indice del sempre maggiore interessamento e della sempre maggior consapevolezza della centralità del tema. Questa riflessione è stata sostenuta da un atteggiamento ecclesiale portatore di una mentalità nuova, destinata a diventare vivo «fermento» del rinnovamento teologico del terzo millennio. I documenti citati, infatti, hanno preso come compito la fondamentale impresa catechistica indirizzata a offrire 23

Cf CCC 2175.

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un’immagine della Chiesa cosciente del «vincolo che la lega spiritualmente con il mondo ebraico» e che dia un’informazione corretta a tutti i livelli ecclesiali sugli ebrei e sull’ebraismo, rettificando se fosse il caso una prassi distorta. Nella sua realizzazione, i diversi testi segnalati presentano ulteriori puntualizzazioni di carattere fortemente teologico, aprendo nuove possibilità all’indagine scientifico-teologica. Vorrei accennare soltanto a due argomenti che la teologia cattolica è chiamata a sviluppare: – La maggiore presa di coscienza della realtà dell’Incarnazione. Non c’è dubbio che affermazioni come «Gesù è ebreo e lo è per sempre» (Sussidi III, 1); oppure quella del CCC 423: «Noi crediamo e professiamo che Gesù di Nazaret, nato ebreo da una figlia d’Israele, a Betlemme, al tempo del re Erode il Grande e dell’imperatore Cesare Augusto, di mestiere carpentiere, morto e crocifisso a Gerusalemme, sotto il procuratore Ponzio Pilato, mentre regnava l’imperatore Tiberio, è il Figlio eterno di Dio fatto uomo», creano un’atmosfera teologico-cristologica che non può non liberare la teologia da interpretazioni gnostiche e, da un punto di vista positivo, servono a rimarcare come l’economia della salvezza, incentrata nel mistero dell’incarnazione del Verbo, ha contorni reali e precisi. Infatti, l’ebraicità di Gesù implica che il Figlio di Dio non si è fatto uomo astrattamente, ma si è incarnato storicamente legandosi ad un popolo specifico, in una terra precisa, in un luogo e tempo determinato, in precise circostanze storiche (della sua nazione e del mondo circostante), assumendo quindi non solo una carne ma anche una cultura e una tradizione religiosa caratteristica, condividendo così «la condizione della stragrande maggioranza degli uomini: un’esistenza quotidiana senza apparente grandezza, vita di lavoro manuale, vita religiosa giudaica sottomessa alla legge di Dio, vita nella comunità» (CCC 531). Lo sviluppo teologico dell’ebraicità di Gesù – che a noi sembra un ambito ancora da scoprire  – risulta perciò qualcosa di essenziale in un rinnovamento della cristologia, che deve saper unire gli sviluppi teoretici alla concretezza del dato storico e biblico. Una migliore conoscenza degli ebrei e dell’ebraismo – lingua, cultura, tradizione –, anche quello dei nostri giorni, non può non portare come conseguenza ad una migliore conoscenza di Cristo, vero Dio, sì, ma pure vero Uomo. – Una più precisa definizione della natura della Chiesa. Le considerazioni sorte nella nuova presa di coscienza da parte della Chiesa del suo rapporto con l’ebraismo hanno portato a riflettere sulle origini della Chiesa e sulla sua missione universale di evangelizzazione. Si è messo in rilievo, infatti, che «numerosi giudei e anche alcuni pagani che condividevano la loro speranza hanno riconosciuto in Gesù i tratti fondamentali del “figlio di Davide” messianico, promesso da Dio a Israele» (CCC 459), nonché il fatto che i «dodici» erano tutti ebrei e che la fede in Gesù implica 151

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l’accettazione delle promesse messianiche contenute nell’AT date in primo luogo al popolo d’Israele (cf CCC 528). Tutte queste asserzioni conducono ad una più ampia riflessione sull’identità della Chiesa, sulle sue origini, sulla sua missione, sul modo come si è svolta la storia della salvezza e, quindi, a proclamare contro le inesattezze di certe teologie marcioniste che non di rado portano con sé gravi errori d’ordine spirituale e catechistico che il Dio delle diverse alleanze è un unico Dio, pieno di amore e misericordia verso gli uomini. In questo ambito, l’ecclesiologia non può fare a meno di servirsi di una corretta esegesi che sappia chiarire la complessità del mondo giudaico ai tempi di Gesù e, quindi, distinguere con precisione i diversi rapporti di Gesù con i gruppi religiosi allora esistenti, concretamente, con i farisei, sul quale argomento il CCC si esprime nei seguenti termini: «Certamente i rapporti di Gesù con i farisei non furono esclusivamente polemici. Ci sono dei farisei che lo mettono in guardia in ordine al pericolo che corre. Gesù loda alcuni di loro, come lo scriba di Mc 12,34, e mangia più volte a casa dei farisei. Gesù conferma dottrine condivise da questa élite religiosa del popolo di Dio: la risurrezione dei morti, le forme di pietà (elemosina, preghiera e digiuno) e l’abitudine di rivolgersi a Dio come Padre, la centralità del comandamento dell’amore di Dio e del prossimo» (CCC 575). Su questa linea dovrebbero entrare tutte le considerazioni attinenti la responsabilità per la morte di Gesù, l’«indurimento degli ebrei», ecc., che vengono trattati nei diversi documenti accennati. Al termine di queste brevi osservazioni mi sembra si possa affermare che il dialogo ebraico-cristiano, anche perciò che si riferisce alla riflessione teologica all’interno della Chiesa, costituisce un locus theologicus che ha dimostrato la sua validità e le cui conclusioni devono essere ritenute come un punto luminoso di riferimento in una teologia che vuole rinnovarsi alle vive sorgenti della fede. Non c’è dubbio che l’eredità della Nostra Aetate e dei successivi documenti, Orientamenti e Sussidi, nonché del Catechismo della Chiesa Cattolica, sono stati recepiti e ulteriormente ampliati ai diversi livelli in cui la Chiesa svolge la sua missione. C’è stata un’evoluzione teologico-pastorale, bisognosa ancora però di essere del tutto assimilata e sviluppata ulteriormente. C’è, come indica il titolo di questo simposio, un «fermento» che ha creato una riflessione, ma che aspetta ancora che ci sia una maggiore presa di coscienza della sua realtà per il suo più pieno sviluppo.

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