Oralità e Scrittura

September 6, 2017 | Autor: Benedicta Daddabbo | Categoria: Philosophy, Languages and Linguistics, Ermeneutica, Didattica, Phylosophy of Mind
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Lo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, di N. Zingarelli di Zanichelli Editore Spa, p.1193
Ibidem
W.J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Società editrice il Mulino, Bologna, 1986, p. 7
Ivi, p. 24
Ivi, p. 29-30
Ivi, p. 44
Ivi, p. 60
Ivi, p. 105
Ivi, p. 106
Ivi, p. 107
Ivi pp. 107-108
Ibidem
J.DERRIDA, Of Grammatology (trad.), Baltimore e London, Johns Hophans University Press, 1976, p.14
W.J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Società editrice il Mulino, Bologna, 1986,p. 111
M. MCLUHAN, Capire i media. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore Tascabili, Milano, 2008, p.87
Ivi, p. 89
Lo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, di N. Zingarelli di Zanichelli Editore Spa, p.1627
Enciclopedia italiana Treccani.it, online, http://www.treccani.it/vocabolario/testo3/
Ibidem
PEIRCE C. S., Writings of Charles S. Peirce: A Chronological Edition, a cura di Max Fisch, Edward C. Moore, Christian J. W. Kloesel et al, Bloomington (Indiana), Indiana University Press, 1982, p. 333
R.JAKOBSON, Lo sviluppo della semiotica e altri saggi, Bompiani, Milano Marzo 1979, p. 87
R. JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli Editore 2002, p. 56
PEIRCE C.S., Grammatica speculativa, a cura di M.A. Bonfanti, R.Grazia e G.Proni, Bompiani, Milano 1984,p. 172
W.J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Società editrice il Mulino, Bologna, 1986, p. 110
Ivi, p. 126
Ivi, p. 110
Ivi, p. 119
Ibidem
Ivi, p. 126-127
PEIRCE C.S., Grammatica speculativa, a cura di M.A. Bonfanti, R.Grazia e G.Proni, Bompiani, Milano 1984,p. 175
W.J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Società editrice il Mulino, Bologna, 1986, p. 123
Ivi, p. 174
M. MCLUHAN, Capire i media. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore Tascabili, Milano, 2008, p. 91
Ivi, p. 92
Ivi, p. 93
Ivi, p. 30
Ivi, p. 39
Ivi, p. 154
Ivi, p. 270
Ivi, p. 275
Ivi, p. 243
U.ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani Milano, 1985, p. 104-105
I. CALVINO, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 2012, p. 7
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ORALITÁ E SCRITTURA:
UN' ERMENEUTICA DELLA COMUNICAZIONE.
CONFRONTO TRA WALTER J. ONG E MARSHALL MCHLUAN

Nel mondo odierno è particolarmente evidente quanto l'oralità e la scrittura abbiano una profonda influenza sulla nostra esistenza contingentemente empirica . Fin dagli albori della sua storia, l'uomo si è sempre imbattuto in forme di oralità e in forme di scrittura, in racconti e storie da ascoltare o da leggere. Tra i miliardi di individui che hanno utilizzato queste due primarie, fondamentali forme di espressione, solo pochi, in realtà, si sono interrogati circa il loro significato intrinseco.
Nel presente saggio ci disponiamo a scandagliare tali questioni alquanto enigmatiche, attingendo agli studi di due grandi personalità: Walter J. Ong (1912/2003), religioso gesuita americano, antropologo, filosofo, insegnante di letteratura inglese e storico delle culture e delle religioni, e il suo collaboratore Marshall McLuhan (1911/1980), sociologo canadese.
Il vocabolario della lingua italiana Zingarelli definisce l'oralità come: «Qualità o carattere di ciò che è orale» , intendendo, con il termine «orale» lo Zingarelli intende «Ciò che è espresso con le parole, con la voce». Una tale definizione, per quanto precisa, ci pone comunque di fronte ad un dubbio: il mezzo utilizzato, ovvero la parola pronunciata a voce alta, condiziona il messaggio che viene trasmesso, o nel processo orale il messaggio resta sconnesso dai suoni utilizzati per comunicarlo?
Secondo la studiosa ___________, l'oralità utilizza la cosiddetta «parola parlata», come medium per la trasmissione di un determinato messaggio. Walter Ong, nel suo celebre saggio Orality and Literacy: The Technologizing of the word del 1982, definisce le parole emesse come suoni «senza alcun luogo».
Il suono è un'entità dalla vita breve: esiste esclusivamente nel momento in cui viene pronunciato, per poi svanire appena un attimo dopo la sua nascita. Il suono ha una ontologia effimera ; ed è proprio prendendo atto di una tale ontologia, che Ong decide di compiere una fondamentale distinzione tra oralità primaria, «quella cioè degli analfabeti», e oralità secondaria, «o di ritorno dell'attuale cultura tecnologica avanzata, in cui una nuova oralità è incoraggiata dal telefono, dalla radio, dalla televisione e da altri mezzi elettronici la cui esistenza e il cui funzionamento dipendono dalla scrittura e dalla stampa».
Per quanto riguarda la cosiddetta "oralità primaria", per comprenderla appieno sarebbe utile ritornare mentalmente indietro nel tempo, a quando le popolazioni recepivano molto, possedevano e praticavano una profonda saggezza, non attraverso i libri, quindi neanche attraverso lo studio, bensì mediante apprendistato, ascoltando e memorizzando ciò che veniva detto loro come vera e propria sequela discepolo-maestro.
E' possibile riscontrare un esempio di tale concetto nella «questione omerica» cioè nel celebre dibattito-scontro letterario che interessò filologi e storici della lingua greca arcaica circa la consistenza storica del leggendario Omero, portata ad esempio anche da Walter Ong. Notevole è come, in tale questione, la svolta principale sia stata data proprio dalla scoperta, effettutata da Millman Parry, della genesi orale dei poemi:

virtualmente ogni carattere distintivo della poesia omerica è dovuto all'influenza su di essa dei metodi di composizione orale. Questi possono essere ricostruiti mediante uno studio attento del verso, dopo aver però messo da parte quelle convinzioni sull'espressione verbale e sui processi mentali che generazioni di cultura scritta hanno radicate nella psiche.

Analizzando a fondo il testo dei poemi, Parry scoprì che alcune "formule" si ripetevano in numerosi punti immutati o con piccole variazioni: ed egli comprese che tali formule erano funzionali sia alla memorizzazione di un prodotto già composto, che alla creazione di nuovi racconti. Questo lavoro di ricostruzione e memorizzazione di un testo non poteva essere opera esclusiva di un singolo, ma doveva necessariamente essere il risultato di un numero indefinito di anonimi rapsodi, il prodotto della cultura di tutto un popolo e non di un autore preciso: Parry ebbe il merito di mostrare al mondo come i poemi omerici, a noi giunti in forma di libro scritto, fossero in realtà espressione della memoria collettiva orale del popolo greco nell'età che andava tra il XII e l' VII secolo a.C.
Le scoperte di Parry ci fanno riflettere su come, laddove la scrittura non abbia compiuto ancora il suo ingresso in società, le nozioni, i concetti, le storie debbano necessariamente essere ripetute, suono dopo suono, di bocca in bocca per essere ricordate e tramandate. Basandosi su questo assunto Ong giustifica il valore che ha il suono nel tempo e nello spazio come caratteristica della psicodinamica dell'oralità :

Tutte le sensazioni hanno luogo nel tempo, ma il suono in particolare ha un rapporto speciale con il tempo, diverso da quello degli altri settori del sensorio umano. Il suono esiste solo nel momento in cui sta morendo; deperibile ed essenzialmente evanescente, e come tale viene percepito. Quando pronunciamo la parola «permanenza», nel momento in cui arriviamo a «-nenza» il «perma-» se ne è già andato, e deve essere così. Non è possibile fermare il suono ed averlo al tempo stesso.

Il suono verbale non vive nel tempo permanentemente, non afferisce a concetto di passato o di futuro ma solo di presente, attimo, istante in cui viene svelato e nel medesimo palpito in cui si svela, scompare; in esso, nascita e morte coincidono. Infatti un discorso orale non potrà mai essere ripetuto in maniera identica a come è stato pronunciato la prima volta: frasi, periodi, suoni, intonazioni o anche dei semplici dettagli varieranno costantemente, in modo che ogni emissione di suono verrà a costituire un unicum a se stante ed irripetibile nella sua autenticità.
Oltre alla relazione del suono con il tempo, Ong sottolinea un'altra caratteristica che determina la psicodinamica dell'oralità: l'interiorità del suono.

Per verificare l'interiorità fisica di un oggetto, nessun senso è efficace quanto l'udito. […] L'udito può prendere atto dell'interno di un oggetto senza penetrarlo. Si può dare un colpetto su una scatola per sentire se è piena o vuota, o su un muro per scoprire se è cavo o massiccio; nello stesso modo si può far cadere una moneta per sapere se è d'argento o di piombo. Tutti i suoni registrano la struttura interna di ciò che li produce.

L'udito ha la straordinaria capacità di unificare e armonizzare i singoli elementi che percepisce dalla realtà empirica. Una manifestazione sonora, che generalmente può accadere in qualsiasi luogo e verso qualsiasi direzione, non mantiene il suo raggio d'azione circoscritto al luogo di emissione, ma lo estende in diverse diramazioni, arrivando fino all'ascoltatore anche attraverso distanze considerevoli, penetrando nel mondo interiore di quest'ultimo attraverso l'organo sensoriale dell'orecchio:

L'udito è dunque un senso che unifica. L'ideale visivo è la chiarezza, la nettezza dei contorni, la possibilità di scindere in componenti ( la campagna di Descartes a favore della chiarezza registrò un'intensificazione della vista all'interno del sensorio umano), quello uditivo è, al contrario, armonia, unificazione. Interiorità ed armonia sono caratteristiche della percezione umana.

Nella cultura orale, pertanto, avere a che fare con il suono, senza alcun riferimento ai testi scritti, «entra in profondità nel senso che l'individuo ha della vita» cioè il suono è specchio del mondo che mi circonda e potenzia, inoltre, il senso che l'uomo, posto al centro del cosmo, ha del cosmo stesso.

Un'economia verbale dominata dal suono tende verso l'aggregazione (armonia) piuttosto che verso l'analisi disaggregante (che compare assieme alla parola scritta, visualizzata). Tende anche all'olismo conservatore (il presente omeostatico che dev'essere mantenuto intatto, le espressioni formulaiche che devono essere conservate), al pensiero situazionale (di nuovo olista, con l'azione umana al suo centro) piuttosto che a quello astratto, ad una organizzazione della conoscenza centrata attorno alle azioni di esseri umani o antropomorfi, piuttosto che attorno a cose impersonali.

Sarebbe lecito chiedersi come mai la parola pronunciata abbia questa misteriosa tendenza ad armonizzare ed unificare. La risposta è alquanto semplice: la parola parlata, derivando dall'interiorità umana, svela agli uomini la loro stessa essenza di « interiorità coscienti» e li rende consci della a loro appartenenza ad una comunità; in tal modo, l'oralità prepara la strada per un' aggregazione senza la quale gli esseri umani vivrebbero, a guisa di monadi, in solitudine ed isolamento, e nella più totale diffidenza reciproca. Per illustrare tale concetto, Ong propone questo esempio:
Quando un oratore si rivolge ad un uditorio, i suoi membri diventano un tutt'uno, che li comprende insieme all'oratore. Se egli chiede al suo pubblico di leggere un volantino, non appena ogni singolo lettore sarà entrato nel proprio mondo privato della lettura, si spezzerà l'unità dell'uditorio, per ricomporsi soltanto quando l'oratore riprenderà il suo discorso. La scrittura e la stampa isolano.

Le parole emesse sotto forma di suoni non sono segno di qualcosa d'altro, né un rimando ad altre realtà a loro estrinseche: le 'parole parlate' sono portatrici di significato in sé stesse, come osservava già il filosofo francese Jaques Derrida: «non esiste segno linguistico antecedente alla scrittura».
Il pensiero è tutto insito nel discorso orale e chi ascolta tale discorso non pensa alle parole come a segni, ma come a semplici espressioni foniche portatrici di un messaggio.

Non è facile che l'analfabeta pensi alle parole come a dei «segni», quieti fenomeni visivi. Omero si riferisce ad esse con il solito epiteto «parole alate», che suggerisce evanescenza, potere e libertà: le parole sono in continuo movimento, ma volano, movimento che solleva chi lo compie al di sopra dell'ordinario, grossolano, pesante metodo «oggettivo».

Secondo Ong, il significato della definizione omerica "parole alate" starebbe da ricercare nella natura stessa dei suoni, mai fermi e stabili su di una pagina bianca, e sempre in continuo movimento, sempre carichi di un potere e di una libertà tali da farli arrivare ovunque.
L'analisi dell'oralità e della comunicazione fu una tematica indagata anche dal famoso collaboratore di Ong, il sociologo canadese Marshall McLuhan, che nella sua opera maggiore del 1967, Capire i media. Gli strumenti del comunicare., si concentrò principalmente sull'importanza dei mass-media, non solo focalizzando l'attenzione sui messaggi che propagano, ma prestando anche attenzione ai criteri strutturali con cui organizzano la comunicazione. Nella seconda parte del trattato vi è una sezione denominata La parola parlata. Fiore del male? e dedicata, appunto all'oralità, che sarà analizzata da McLuhan in una maniera diversa da come l'aveva intesa il maestro, Ong. Lo studioso canadese, infatti, spiega l' oralità come ciò che

…Coinvolge drammaticamente tutti i sensi, anche se le persone più alfabete tendono a parlare il più coerentemente e il più naturalmente possibile.

Nella sua visione, la parola parlata giunge a coinvolgere tutti i sensi: ad esempio ciò che può semplicemente essere un singhiozzo, un gemito, una risata o un grido lancinante sortisce effetti diversi se è emesso da una viva voce umana o se è reso, magari anche onomatopeicamente, su di un testo scritto. Nella comunicazione orale si tende a reagire immediatamente ad ogni situazione che ci si può presentare, e tale reazione si esplica nei gesti e nei toni del parlare. L'interlocutore pertanto non è estraneo e lontano dal suono che percepisce, come avviene di fronte ad un messaggio scritto; egli è parte integrante della comunicazione parlata, alla stregua di una radio ricevente capace di decifrare onde elettromagnetiche:

Se l'orecchio umano può essere paragonato a una radio ricevente, capace di decifrare onde elettromagnetiche e di ritradurle in suoni, la voce umana può essere paragonata a una radio trasmittente in quanto sa tradurre i suoni in onde elettromagnetiche. Il potere della voce di plasmare aria e spazio in forme verbali è stato forse preceduto dall'espressione meno specialistica di grida, grugniti, gesti e comandi, canzoni o danze.

Alla luce di tutto ciò, la comunicazione verbale ha dato avvio all'interazione con una realtà molto più ampia: ha permesso che non si conoscesse solo la realtà fattuale o gli oggetti empirici solo nel raggio d'azione del nostro sguardo limitato e limitante, ma che si intendesse anche una realtà lontana dall'uditore nello spazio e nel tempo.
Lo sguardo di McLuhan sulla questione si dimostra significativamente più ampio rispetto alla visione del suo maestro, e ci permette inoltre di introdurre un secondo concetto, da prendere in esame: l'oralità secondaria, ovverossia una forma di nuova oralità incoraggiata da nuovi mezzi di comunicazione quali telefono, radio, televisione e altri mezzi elettronici la cui vita dipende dalla scrittura e dalla stampa.
Prima di addentrarci in tale labirinto non privo d' uscita, cerchiamo di capire cosa si intende con il termine scrittura e cosa si intende per testo scritto.
Secondo quello stesso Zingarelli che ha sostenuto le precedenti analisi, la definizione di «scrittura» o meglio di «scrivere» è: «significare, esprimere, idee, suoni, e sim., mediante il tracciamento su una superfice di segni grafici convenzionali». Sin da questa prima definizione cogliamo due differenze sostanziali rispetto alla definizione di oralità: l'assenza di un'espressione vocale e la presenza di segni grafici convenzionali tracciabili su di una superfice. Il che fa saltare subito agli occhi la principale differenza tra la scrittura e l'oralita: la prima, più durevole della seconda, ha una potenziale aspirazione all'eternità. Inoltre notiamo la presenza del termine «segno», totalmente assente nella definizione di oralità: infatti, come vedremo, il concetto di segno è strettamente legato alla nozione di testo. L'enciclopedia italiana Treccani definisce il testo « contenuto d'uno scritto o d'uno stampato, ossia l'insieme delle parole che lo compongono, considerate non solo nel loro significato ma anche nella forma precisa con cui si leggono nel manoscritto o nell'edizione a cui ci si riferisce». Nel campo semantico proprio dell'informatica, il testo è sinonimo di messaggio, ossia «insieme di dati che viene fornito da un utente a un sistema informatico o, viceversa, da questo all'utente o da un sistema a un altro». Tale valenza del testo informatico come messaggio di qualcuno per qualcun altro può essere estesa anche al testo letterario o comunicativo, come egregiamente sostiene il padre della semiotica Peirce, secondo la cui logica traduttiva
Ogni cosa può essere compresa o più rigorosamente tradotta da qualcosa: ossia ha qualcosa capace di una tale determinazione da stare per qualcosa attraverso questa cosa; un po' come il grano di polline di un fiore sta all'ovulo che penetra per la pianta da cui è venuto poiché trasmette le peculiarità di quest'ultima. All'incirca nello stesso senso, anche se non nella stessa misura, ogni cosa è un medium tra qualcosa e qualcosa.

D'accordo con Peirce si dimostra anche il linguista e semiologo contemporaneo Roman Jakobson, secondo cui in ogni processo linguistico

Il MITTENTE invia un MESSAGGIO al DESTINATARIO. Ai fini della sua operatività, il messaggio deve innanzitutto riferirsi a un CONTESTO (il "referente", secondo un'altra terminologia piuttosto ambigua), contesto che possa essere colto dal destinatario ( o, in altre parole, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine ci deve essere un CONTATTO, un canale fisico, una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario che consenta loro di entrare e rimanere in comunicazione.

Pertanto ogni atto di comunicazione verbale o scritta sarebbe un' esperienza comunicativa prodotta da un mittente a beneficio di un destinatario. È irrilevante la lunghezza del messaggio: anche solo una parola può rientrare nello schema messo a punto, e costituire un messaggio chiaro e completo in quanto realizza il contenuto specifico della comunicazione.
Ogni singola parola è, essa stessa, segno.
Non possiamo accostarci al significato di un contenuto linguistico senza includere l'accezione semiotica dei termini:

Il senso di parole italiane come formaggio, mela, nettare, conoscenza, ma, solamente, o di qualsiasi altra parola, o gruppo di parole, è senza dubbio un fatto linguistico, o, più precisamente o comprensivamente, un fatto semiotico. […] Non esiste significato senza segno, né si può dedurre il senso della parola formaggio da una conoscenza non linguistica della mozzarella o del provolone senza l'aiuto del codice linguistico. È necessario ricorrere ad una serie di segni linguistici se si vuole far comprendere una nuova parola.
Alla luce di quanto afferma Jakobson possiamo ben comprendere come il senso di una parola, il suo significato, altro non sia che la trasposizione della suddetta parola in altro segno, che può esserle sostituito senza troppi problemi, e che ne amplia il significato.
Tutto in un documento scritto è segno, e tutto, mediante un Interpretante, rimanda ad un oggetto, innescando un processo inferenziale in un gioco di rimando continuo. La conseguenza di ciò è il determinarsi di un infinite series senza inizio né fine, come ben ci illustra Peirce:

Tutte le parole, frasi, libri, e altri segni convenzionali sono Simboli. Noi parliamo come se scrivessimo o pronunciamo la parola «uomo», ma quella che pronunciamo o scriviamo è solo una replica, o messa in atto della parola: la parola in se stessa non ha alcuna esistenza, sebbene essa sia reale, in quanto consiste nel fatto che le entità esistenti devono conformarsi a essa. Si tratta di un modo generale di successione di quattro suoni o representamen di suoni, che diviene un segno solo perché un abito, o legge acquisita, provocherà repliche di esso destinate ad essere interpretate come significanti un uomo.

Considerando quanto detto attraverso gli occhi del nostro semiologo pragmatico, un segno o simbolo genuino sta per qualcos'altro indicando all'interpretamen un significato generale, come avviene, ad esempio, nella parola «uomo»: tale parola ,una volta generata, non può essere eliminata dal circolo ermeneutico nel quale si è inserita.
Alla luce di queste considerazioni, la definizione di testo che stiamo lentamente costruendo acquista un'ulteriore connotazione: si potrebbe dire, infatti, che il testo sia una successione di segni grafici, contenenti un messaggio, in attesa di essere eseguiti. Su questa scia di pensiero si posiziona il nostro studioso Walter Ong secondo il quale

Quelle che il lettore vede ora su questa pagina non sono vere parole, ma simboli codificati mediante i quali un essere umano adeguatamente informato può evocare parole vere, il cui suono egli pronuncia. Un brano scritto non può essere nulla di più che dei segni su una superfice, fin tanto che un essere umano non lo usi consapevolmente come indice di parole parlate. Chi ha una mentalità modellata dalla scrittura e dalla stampa trova convincente pensare alla parola, essenzialmente suono, come a un «segno», poiché il «segno» è qualcosa che viene soprattutto percepito visualmente. Il signum, da cui deriva la parola «segno», era lo stendardo innalzato da ogni unità dell'esercito romani per essere identificato visivamente; etimologicamente, indicava l' «oggetto che uno segue», dalla radice proto-indoeuropea sekw-, seguire.

Pertanto se i nomi sono parole che si muovono nel tempo, ad essere immobili, fissi, ancorati al foglio sono i simboli, che sono insegne, «segni» delle parole ma non sono parole.
Quindi come potremmo considerare la scrittura?

Naturalmente è possibile considerare la «scrittura» ogni segno semiotico, ossia ogni segno visibile e intelligibile prodotto da un individuo, e a cui egli assegna un significato. […] L'apertura verso nuovi mondi della conoscenza avvenne nella mente umana, non quando fu ideato il singolo segno semiotico, ma quando fu inventato un sistema codificato di marcatori visivi per mezzo del quale lo scrivente poteva determinare le parole esatte che il lettore avrebbe prodotto a partire dal testo. Questo è quanto noi oggi solitamente intendiamo per scrittura in senso stretto.

L'invenzione di un sistema codificato di marcatori visivi ci ha condotto a considerare anche le parole parlate come segni, come simboli visivi; ma una tale visione si dimostra alquanto inesatta, inducendoci in errore, ed un tale fallo è causato dalla tendenza, «forse incipiente nelle culture orali ma chiaramente marcate in quelle chirografiche e ancor di più in quelle tipografiche ed elettroniche, a ridurre tutte le sensazioni e tutta l'esperienza umana ad analogie visive».
Nella società degli anni zero, ogni concetto deve necessariamente essere ricondotto ad analogie di tipo visivo: sentimenti, passioni, pensieri, stati d'animo vengono sempre più spesso rappresentati più da immagini che da parole o testi. Ma questa tendenza, da sola, non basta a convincerci che le parole siano, come le immagini, dei segni a tutti gli effetti: le due entità restano profondamente diverse, e se le parole rimangono parole libere e forti nella loro essenza, i segni rimangono segni imprigionati su di una superfice. E tali segni, offrendosi alla vista del lettore-interpretante , tendono a trasformare la mente umana più di qualsiasi altra invenzione avvenuta nel mondo alfabetizzato: senza la scrittura, un individuo non penserebbe e non sarebbe il soggetto che effettivamente è perché essa crea, un «linguaggio decontestualizzato, o una forma di comunicazione verbale autonoma» cioè un tipo di discorso che una volta impresso su di una superfice non può essere più discusso dall'autore e con l'autore. E' un discorso profondamente autoreferenziale ed indipendente, avendo perso, grazie alla scrittura, ogni tratto di quella dipendenza a cui sono sottoposte le comunicazioni verbali.

Il libro trasmette un messaggio derivante da una fonte, rappresentata da chi ha effettivamente «parlato» o scritto il libro. L autore potrebbe essere sfidato se fosse possibile raggiungerlo, ma di fatto egli non può essere raggiunto in nessun libro. Non esistono modi diretti di confutare un testo. Anche dopo una confutazione totale e distruttrice, esso dirà ancora esattamente le stesse cose di prima.

Partendo da questi presupposti, Ong analizza le obiezioni che sono state mosse nei confronti della scrittura da Platone nel Fedro (274-7) e nella Settima lettera, paragonandole alle obiezioni che oggi vengono poste alle nuove tecnologie. Negli scritti di Platone, la scrittura viene definita disumana perché ricrea erroneamente fuori della mente umana quello che invece può esistere solo al suo interno, distruggendo, così, la memoria. Infatti i fruitori di questo nuovo medium, secondo il grande filosofo greco, avrebbero smesso di ricordare e sarebbero stati vittime della pigrizia, poiché avrebbero potuto far ricorso a fonti esterne alla loro mente, evitando lo sforzo di imparare a memoria. Inoltre egli, riportando il pensiero del suo maestro Socrate, ritiene il libro "inerte", perché se interrogato un testo non avrebbe mai avuto la possibilità di rispondere in alcun modo alle accuse; questo rende il testo passivo, fuori da un contesto, in un mondo irreale e innaturale.
Lo stesso scetticismo che dimostrava Platone serpeggiò, secoli dopo, tra la popolazione europea all'indomani dell'invenzione della stampa, e ancora oggi serpeggia persino tra di noi, uomini moderni alle prese con i computer e le nuove tecnologie: tutte queste nuove invenzioni che si sono inserite nella vita "analfabetizzata" dell'individuo sono mezzi per tecnologizzare la parola e inevitabilmente incutono nel fruitore sospetto e sfiducia.
La parola è diventata tecnica, la tecnologia viene utilizzata per ampliare l'oralità, per renderla sempre più alla portata di tutti e sempre più "per sempre": Platone pensava alla scrittura come ad una tecnologia esterna così come noi oggi pensiamo al computer. La scrittura è una tecnica talmente interiorizzata che non riusciamo a pensarla come tecnologia, anzi non riusciamo a considerarci più senza di essa: tutto deve essere scritto e tutto deve essere fissato su carta o su fogli digitali per evitare che le parole parlate vengano perdute.
Questo valore "tecnologico" della scrittura ha una importanza fondamentale nello sviluppo della nostra definizione:

La scrittura, intesa in questo senso, fu ed è l'evento di maggiore importanza nella storia delle invenzioni tecnologiche dell'uomo. Non si tratta di una semplice appendice del discorso orale, poiché trasportando il discorso dal mondo orale-aurale a una dimensione del sensorio, quella della vista, la scrittura trasforma al tempo stesso discorso e pensiero. Le incisioni su bastoni e altri aidesmémoire conducono infine alla scrittura, ma non ristrutturano l'ambiente vitale umano come fa la scrittura vera e propria.

La scrittura , al contrario del linguaggio naturale/orale, soffre di artificialità perché non nasce dall'inconscio ma è "vittima" di una semiosi infinita che genera l'imprescindibilità tra interpretamen/representamen, interpretante/segno, lettore/parole. Infatti è a causa di questo infinito rimando, che, inevitabilmente, s'innesca un meccanismo illimitato di interpretanti e traduzioni, in quanto il significato viene ad essere la traducibilità di un segno in una rete di altri segni. Pertanto il segno linguistico, fonetico non porta in sé un significato chiuso ma fa di se stesso occasione per aprirsi ad altri segni che, in epoche diverse, in contesti diversi e in esperienze diverse, inducono la mente interpretante a cogliere una varietà di significati comunicati, come nota, a giusta ragione, Peirce nella sua Grammatica speculativa :

Omne symbolum de symbolo. Un simbolo, una volta in vita, si diffonde fra la gente. Con l'uso e con l'esperienza il suo significato si arricchisce. Parole quali forza, legge, benessere, matrimonio, hanno per noi significati molto diversi da quelli che avevano per i nostri barbari antenati. Il simbolo può, con la sfinge di Emerson, dire all'uomo:

Dell'occhio tuo io sono il raggio.

Anche Ong, messo di fronte allo stesso scenario descritto da Peirce, ovvero nell'ottica di una sempre nuova e sempre indipendente ridefinibilità del testo scritto, nonlo percepisce come un'avversità, una sventura per l'uomo, né tantomeno intende condannare in nessun modo la scrittura; al contrario egli scorge in essa l'occasione fondamentale per lo sviluppo dei potenziali umani interiori.

La scrittura è del tutto artificiale: non c'è modo di scrivere «naturalmente». Il discorso parlato è invece sentito come naturale dagli uomini nel senso che, in ogni cultura, chiunque non abbia danni fisici o psichici impara a parlare. Il parlare permette la vita cosciente, ma sale alla coscienza da profondità inconsce, seppure con la cooperazione – consapevole o meno- della società. […] Il discorso scritto in quanto tale differisce da quello orale nel senso che non nasce dall'inconscio. Il trasferire la lingua parlata nella scrittura è un processo guidato da norme consapevolmente inventate, e chiaramente formulabili.

Le tecnologie non sono semplici aiuti esterni, lontani dal corpo e dalla mente dell'essere umano, ma se vengono ben interiorizzata dal soggetto che se ne appropria, non degrada la vita umana, ma al contrario la migliora.
La stampa, a ben guardare, ha avuto la grande capacità di radicare la scrittura in modo ancora più definitivo su di una superfice: se da un lato muore il contesto, muoiono con esso anche lo spazio e il tempo, e se da un lato la condivisione face to face in un preciso luogo e momento decade, per aprirsi ad un'operazione solipsistica, d'altra parte è pur vero che

La stampa sostituì il prolungato dominio dell'udito con quello della vista, la cui influenza era iniziata con la scrittura ma che non avrebbe potuto imporsi col suo solo supporto. La stampa colloca inesorabilmente le parole nello spazio, più di quanto la scrittura non abbia mai fatto; quest'ultima infatti trasferisce solo le parole dal mondo del suono a quelle dello spazio visivo, mentre la prima le fissa all'interno di questo spazio.

Cambia, cioè, con la stampa lo spazio in cui si collocano le parole, e si passa da un contesto naturale e modificabile a un luogo sempre uguale a se stesso, immutabile e permanente, uno spazio visivo immodificabile, trappola di segni. Tale spazio fisso, ben definito dallo sguardo dell'uomo, non elimina completamente l'oralità, ma ne resta al servizio: si può affermare, infatti, che la scrittura esista solo in quanto dipendente da un sistema primario precedente, ossia dalla lingua parlata. Mentre la parola parlata può benissimo esistere senza alcun sistema semiotico di riferimento, la scrittura non può esistere senza l'oralità.
Anche rispetto al concetto di scrittura, Marshall McLuhan, nel suosaggio Capire i media. Gli strumenti del comunicare, dimostra una significativa divergenza di idee rispetto al suo maestro:

A poco a poco arrivai a capire che i segni su quelle pagine erano parole intrappolate. Chiunque era in grado di decifrare i simboli e a rimettere in libertà le parole intrappolate reinserendole in un discorso. L'inchiostro tipografico intrappolava i pensieri, che non potevano andarsene più di quanto un doomboo possa sfuggire da una fossa.

Anche McLuhan vede il testo scritto come una trappola di segni che precedentemente soffrivano di potente libertà. L'interpretante non ha altro compito che quello di interpretare quei segni immobili, in modo tale da rimetterli in libertà, riconsegnandoli alla loro natura discorsiva e "alata".
Quando l'uomo analfabeta si ritrova a fronteggiare questa nuova tecnologia, come aveva già notato Ong, egli inizia lentamentea modificare se stesso, la propria mentalità e il proprio vivere. L'uomo diventa apatico, atterrito dall'ansia perché pian piano si stacca dalla comunicazione orale partecipativa e immediata per abbracciare una comunicazione basata su rappresentazioni mentali riportati attraverso la riproduzione grafica di un suono. McLuhan propone un esempio comune a molti:

Supponiamo che invece di esporre le stelle e le strisce, scrivessimo su un pezzo di stoffa le parole «bandiera americana» ed esponessimo questo. Trasmetterebbe certamente lo stesso messaggio del simbolo, ma l'effetto sarebbe molto diverso. Tradurre il ricco mosaico visivo delle stelle e delle strisce in forma scritta equivarrebbe a privarlo di molte delle sue qualità in quanto corporate image e sintesi di esperienza, anche se resterebbe praticamente immutato l'astratto legame che esso suggerisce.

Questo esempio ci aiuta a capire il mutamento l'uomo nel diventare alfabeta. Notiamo bene come il sentimento emozionale collettivo venga meno, eliminato dai rapporti con il contesto culturale e sociale di cui fa parte.
L'alfabeto, contrariamente quanto detto per l'oralità, viene ad introdurre potere, autorità e controllo su di un discorso che non è mai vivo nel presente, ma ha sempre un certo scarto temporale – più o meno significativo- che separa il momento della sua emissione con il momento della sua ricezione. Emerge pertanto il problema dell'attualità di un discorso retrodatato e retro contestualizzato, e verrebbe da chiedersi se realmente il lettore, in ogni epoca e in ogni contesto possa sempre farlo proprio, appropriarsene e crescere con esso così come avviene nel caso di una comunicazione orale.
L'alfabeto fonetico è una tecnologia particolare nella quale «a lettere semanticamente prive di significato corrispondono suoni semanticamente privi di significato». Non ha la stessa carica emotiva e calda presente nel linguaggio orale. E se è vero che la scrittura crea l'uomo civilizzato, è anche vero che essa tende a separare gli individui, ad introdurre una sopravvivenza nello spazio e nel tempo di un qualcosa che, in caso contrario, sarebbe stato soggetto al perimento, e ad unificare i codici comuni.

Le culture tribali non ammettono la possibilità dell'individuo o del cittadino separato. I concetti di spazio e tempo non sono né continui né uniformi, ma «compassionali» e compressi nella loro interiorità. È perché l'alfabeto è in grado di estendere i modelli di uniformità visiva e di continuità che le culture risentono del suo «messaggio».

I caratteri fonici hanno, sin da subito, privilegiato la vista, come abbiamo detto precedentemente, diminuendo l'importanza degli altri sensi, cosa che non accadeva nelle culture tribali portatrici della cultura orale e per questo appoggiavano l'udito negando la parte visiva. Invece la scrittura, come ogni nuova tecnologia, che McLuhan ribattezza medium, diventa estensione dell'uomo e diventa messaggio esso stesso.
Come accade per la semiosi infinita di un testo, i cui segni visibili rimandano continuamente ad altri segni altrettanto visibili, il contenuto di un medium è sempre il contenuto di un altro medium, in un rimando continuo e illimitato e per questa infinita trasposizione il medium è il messaggio:

In questo contesto può risultare illuminante l'esempio della luce elettrica. Essa è informazione allo stato puro. È un medium, per così dire, senza messaggio, a meno che non lo si impieghi per formulare qualche annuncio verbale o qualche nome. Questo fatto, comune a tutti i media, indica che il «contenuto» di un medium è sempre un altro medium. Il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa e la stampa quello del telegrafo. Alla domanda: «Qual è il contenuto del discorso? » si deve rispondere: «È un processo mentale, in se stesso non verbale».

Per comprendere in che senso «il medium è il messaggio» è molto utile l'esempio della luce elettrica, perché è un chiaro ed evidente mezzo di comunicazione,– la luce elettrica - ma senza contenuto. Nel processo di accensione di una lampadina, solo il suo utilizzo conferisce contenuto al medium utilizzato: e tuttavia il fruitore non si accorgerà tanto della luce in sé, quanto del suo contenuto che, appunto, è un altro medium, segno di segni. Pertanto risulta chiaro come il cosiddetto medium sia ormai entrato così tenacemente nelle nostre esistenze quotidiane da plasmare e controllare «le proporzioni e la forma dell'associazione e dell'azione umana». Epppure va specificato che non sono i media in sé ad avere un valore proprio: tale valore viene determinato, in un secondo momento, in base al modo in cui i fruitori li usano, aggiungendosi così a ciò che l'uomo è. Così facendo l'uomo diventa una somma delle sue caratteristiche biologiche e delle tecnologie che ha quotidianamente a portata di mano e di cui non ne può fare a meno.

In una società alfabeta e omogenizzata l'uomo cessa infatti di essere sensibile alla vita diversa e discontinua delle forme. Acquisisce l'illusione della terza dimensione e il «punto di vista personale» diviene parte integrante della sua fissazione narcisistica; ciò fa sì che egli si neghi in pratica l'intuizione Blake, o quella del Salmista, secondo cui noi diventiamo esattamente ciò che vediamo. Oggi, quando sentiamo il bisogno di orientarci nella nostra cultura e di sfuggire alle prevenzioni e alle pressioni esercitate da qualsiasi forma tecnica dell'espressione umana, dobbiamo soltanto visitare una società dove questa forma particolare non abbia agito o un periodo storico in cui non era conosciuta.

L'influenza che il medium ha sulla nostra persona è un viaggio senza possibilità di ritorno. Non si può prescindere dall'influenza che le tecnologie hanno su di noi rimanendo radicati in esse, soprattutto considerando che viviamo in un mondo in cui tutto è tecnica.
McLuhan non si limita solo a considerare i media che ci circondano ma si addentra anche nella classificazione e nella suddivisione degli stessi in "caldi" e "freddi" aventi tutti la funzione di immagazzinare e diffondere informazioni.
Per media "caldi" McLuhan intende quei media caratterizzati da un'alta definizione e da una scarsa partecipazione da parte dell'utente.
Per comprendere tale definizione portiamo ad esempio alcuni di questi media "caldi" che abbiamo tra le mani regolarmente come la stampa e la radio.
La stampa, come abbondantemente dimostrato in precedenza, si è ormai inserita in un mondo privo di segni rendendo visivo persino il linguaggio parlato.

La stessa concezione delle lettere dell'alfabeto come icona incise è riaffiorata oggi nelle arti grafiche e nei manifesti pubblicitari. Forse il lettore avrà riconosciuto l'intuizione di questo cambiamento nel sonetto di Rimbaud sulle vocali o in certi quadri di Braque. Ma anche i normali titoli dei giornali tendono a dare ai caratteri una forma iconica, vicinissima a una risonanza audiovisiva e anche a una qualità tattile e scultorea.
La principale caratteristica della stampa forse ci sfugge in quanto appare così ovvia e casuale. Consiste, precisamente, nell'essere una dichiarazione pittorica che può venire ripetuta con precisione all'infinito, o almeno finchè dura la matrice.

La stampa appare agli occhi dell'interpretante come una «dichiarazione pittorica» che può essere ripetuta in modi sempre uguali e diversi all'infinito. Oltre alla stampa, intesa come elemento solo ed esclusivamente immobile esiste un altro medium caldo che ha segnato profondamente la nostra esistenza: la radio. Essa è, in tale visione, un medium estremamente caldo, perché riporta il fruitore che ne fa uso ad un'oralità ormai perduta e lo avvicina così alle sue origini tribali.

La radio tocca intimamente, personalmente, quasi tutti in quanto presenta un mondo di comunicazioni sottintese tra l'insieme scrittore-speaker e l'ascoltatore. È questo l'aspetto immediato: un'esperienza privata.
Le sue profondità subliminali sono cariche degli echi risonanti di corni tribali e di antichi tamburi. Ciò è insito nella natura stessa del medium, per il suo potere di trasformare la psiche e la società in un'unica stanza degli echi.

Si crea una relazione intima, privata tra ascoltatore e speaker, rapporto raro se pensiamo al medium in quanto tale. Il ritorno all'oralità e la limitatezza del fruitore nel completare visivamente il suono recepito da uno strumento radiofonico hanno dato la possibilità di rendere nuovamente contemporaneo il passato. Per questo la radio ha ritribalizzato l'intera umanità che ne fa uso ed è proprioin virtù di questa ridefinizione dell'umanità che Hitler ha potuto utilizzare un canale radiofonico come strumento fondamentale per affermare il proprio dominio e il proprio potere e per accelerare l'informazione che «restringe il mondo alle dimensioni di un villaggio».
Per media "freddi", invece, McLuhan intende quei media che posseggono una bassa definizione: il fruitore deve necessariamente avere una presa maggiore su di essi, tanto da completare le informazioni che il media non trasmette autonomamente, come avviene, ad esempio, con il telefono.

Il telefono è una forma partecipazionale che esige un partner, con tutta l'intensità della polarità elettrica. Non può assolutamente essere uno strumento di fondo come la radio.

Si ha così un'estensione evidente del corpo umano; un'estensione dell'orecchio e della voce. Come ogni medium freddo, l'apparecchio telefonico decentra ogni operazione, pretende ed esige una partecipazione completa che l'uomo alfabetizzato spesso non è in grado di fornire perché vittima inconsapevole dell'attenzione frammentaria che richiedono i media caldi e a cui i media caldi ci hanno abituato. Mentre parliamo al telefono non visualizziamo la persona dunque l'immagine che il fruitore si crea è solo ed esclusivamente uditiva; per questo la partecipazione richiesta è forte e decisa. Per la sua incompletezza strutturale, la comunicazione telefonica esige un partner senza del quale produrrebbe una solitudine immensa in chi ne fa uso: ma, a differenza della radio, essa penetra ovunque a discapito di ogni forma di privacy visiva.
Alla luce di quanto emerso durante le nostre considerazioni, possiamo ben comprendere come, nella nostra epoca, scrittura ed oralità siano due forme di comunicazioni perfettamente complementari: infatti anche l'oralità, sebbene in forme talvolta diverse dal passato ,ancora oggi pregna la nostra vita e la nostra esperienza modificando lo stile di vita e la stessa struttura umana.
Come spiega bene lo scrittore Umberto Eco, il testo, stampato o meno che sia, che un lettore interpretante si ritrova sotto gli occhi è specchio di un dialogo triadico continuo e circolare tra l'interpretante (lettore)-segno (parole di un testo)-oggetto (messaggio) ed «è la condizione normale della significazione ed è ciò che permette l'uso comunicativo dei segni per riferirsi a cose». L'interpretante, potenziale o attuale, è costantemente inserito in questa rete semiotica nella quale ogni parole-segno contribuirà a fare del testo un «macrosegno» che può essere inteso tanto in senso diacronico, avendo un significato variabile in base alle interpretazioni che vengono elaborata nelle varie epoche arricchendo l'opera stessa, quanto in senso sincronico, poiché ogni elemento segnico che lo caratterizza porta con sé un significato particolare. Il segno linguistico, dunque, spalanca un mondo nuovo al lettore che, con sorpresa, legge i segni incontrando così l'autore e la sua storia. Si instaura un dialogo immortale tra il lettore e l'autore che si offre a noi mediante la sua opera, mediante segni linguistici che il lettore deve magistralmente cogliere, indagare e dispiegare per giungere al reale oggetto in essi contenuti. L'opera otterrà sempre, infinitamente un «compimento incompiuto». Il dialogo tra il lettore e l'autore non si compirà mai una volta per tutte eternamente fedele nei secoli, al contrario, la sua incompiutezza rende l'opera sempre aperta a nuovi significati e sempre pronta ad arricchirsi. Il testo media l'io dell'autore che offre la propria storia immortale all'io del lettore che riceve un vissuto, e si schiude, così, una conoscenza sorprendente e un cambiamento inimmaginabile e casuale. Così come casuale e inaspettato può essere l'incontro con la persona amata, analogamente casuale e inaspettato può essere l'incontro con un testo che materializza la fisicità dell'autore. Un testo letterario è un messaggio immortale che l'autore invia al lettore in una collaborazione appassionata sempre nuova e straordinaria. In questo circolo ermeneutico il lettore, imbattendosi nel testo deve essere sempre pronto ad afferrare i segni che questi trasmette e deve coglierli poichè, come lo scrittore Italo Calvino spiega con estrema cura in Perché leggere i classici:

4.D'un classico una rilettura è una lettura di scoperta come la
prima.
5.D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.
La definizione 4 può essere considerata come corollario di
questa: 6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che
ha da dire.













Bibliografia:
Lo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, di N. Zingarelli di Zanichelli Editore Spa
L. CASTIGLIONI, S. MARIOTTI, Il vocabolario della lingua latina
Enciclopedia italiana Treccani.it, online, http:// www. Treccani .it/ vocabolario/ testo3/
W.J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Società editrice il Mulino, Bologna, 1986
R. JAKOBSON, Lo sviluppo della semiotica e altri saggi, Bompiani, Milano Marzo 1979,
R. JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli Editore 2002
M. MCLUHAN, Capire i media. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore Tascabili, Milano, 2008
C. S PEIRCE., Writings of Charles S. Peirce: A Chronological Edition, a cura di Max Fisch, Edward C. Moore, Christian J. W. Kloesel et al, Bloomington (Indiana), Indiana University Press, 1982
U.ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani Milano, 1985

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