Parafrasi e commento

May 20, 2017 | Autor: Pietro Cataldi | Categoria: Theory of literature, Teoria Della Letteratura, Letteratura italiana
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Pietro Cataldi

La strana pietà Schede sulla letteratura e la scuola

Palumbo

© Copyright by G.B. Palumbo & C. Editore S.p.A. - 1999 Proprietà letteraria dell’Editore Stampato in Italia

Indice

Premessa. Giustificazione di un percorso 9 1 Perché leggere Dante (oggi)? 15 2 Dante per pochi. Vita Nova di Gorni 25 3 A chi appartiene Dante? Per un commento della Commedia 31 4 Il Dante reazionario di Sanguineti 39 5 Percorsi dell’invenzione: Maria Corti e Dante 43 6 Il “mistero” di Guittone e il Canzoniere curato da Lino Leonardi 47 7 Folengo e la fantasia. Un saggio di Segre su «Strumenti critici» 49 8 L’opera in versi e in prosa di Sbarbaro 51 9 L’edizione critica della Cognizione del dolore di Gadda curata da Manzotti 55 10 La «strana pietà» dei montalisti 61 11 Il Diario postumo di Montale 69 12 Pasolini non è il fato 73 13 La natura e la civiltà. L’impianto leopardiano del Pianeta irritabile di Volponi 87 14 La poesia straniante di Leonetti tra Palla di filo e Le scritte sconfinate 91 15 Le scritte sconfinate di Leonetti 95 16 Sulle Lezioni americane di Calvino 99 17 L’olivo e l’olivastro di Consolo 103 18 Il domani di Ciabatti 107

6 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39

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Niente di personale di Gianfranco Ciabatti Non solo oggi di Fortini Il “metodo” di Timpanaro Elogio della critica (per una ristampa di Luigi Russo) Quarant’anni di critica letteraria in un libro di Leone de Castris Eco e l’estetica della serialità Reagan, Eco e l’“intentio lectoris” La tradizione in Gadamer. Comprendere e persuadere Da Derrida a Saussure. Ritorno al futuro La retorica al servizio della linguistica Contro le riviste di poesia La cultura e la propaganda. Tatò e Bosetti La letteratura a dispense di Siciliano Il Dizionario della letteratura italiana del Novecento di Asor Rosa Complessità e illuminismo. La Storia di Ferroni Le Lettere a Belfagor di del Brica ricevute da Ferroni La «ricreazione» e la riforma della scuola. A proposito di un libro di Ferroni Scuola e mercato. L’insegnamento nel tempo del Postmoderno Elogio del difficile Commento e parafrasi Conversando con Levìfilo

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Solo ciò che non ha bisogno di essere compreso passa per comprensibile. T. W. ADORNO (Minima moralia, 64)

1. La cultura postmoderna tende, si sa, alla testualizzazione del mondo. Se crollano le grandi narrazioni è perché la realtà presente avoca le loro pretese, facendosi interminabile racconto di se stessa, cioè dandosi come condizione già mediata del mondo, mediata anzi al punto da respingere ulteriore riduzione, da figurare come perfetta fusione di presenza e di rappresentazione. Dunque il postmoderno fa della realtà un testo senza contesto, dove ogni recupero nella sincronia o nella diacronia, di distanza o di differenza — storicità inclusa —, vale semplicemente quale istituzione di un nesso tra microtestualità e macrotestualità. Il postmoderno fa della realtà un testo senza possibilità di commento. Ciò che dovrebbe, o potrebbe, avere le qualità del commento è subito arruolato come ulteriore porzione di testo. Certo, l’intero processo della modernità mostra la tendenza a integrare i punti di vista estranei alle ideologie dominanti, risultando evidente la debolezza delle forme direttamente repressive e censorie. Sempre è però resistito un margine, di rottura o anche solo di scandalo, non passibile di integrazione (almeno immediata). Le avanguardie hanno lavorato su tale margine, sfruttandone la forza eversiva e d’altra parte accelerandone l’integrazione. Oggi, almeno alle nostre latitudini, l’efficacia di ogni margine appare disinnescata. Ciò non vuol dire che siano venute meno le condizioni per un punto di vista non integrato o per un suo effetto contrastivo; ma di certo è scomparso ogni vantaggio di posizione, e appaiono più difficili la conquista di una prospettiva altra, la sua difesa, il suo impiego oppositivo. Il commento mi sembra oggi uno dei possibili “margini”, in se stesso innocuo come ogni altro, suscettibili di attivare queste funzioni in crisi.

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Parlo qui di “commento” in accezione forte, sovradeterminando il significato del referente (e il tema stesso di queste considerazioni). Ma come lavorare ancora ossequienti a ruoli, pertinenze, competenze? Quando suona la campana dell’ultimo giro, le forze è lecito prenderle anche fuori dal proprio orto. Allora: si vede fin troppo bene che l’altare postmoderno al giano bifronte di presenza/rappresentazione è la televisione. Tant’è vero che nessuna altra forma rappresentativa è così abitata dalla presenza e, al tempo stesso, così abile nel negarle plausibile contesto, nel fare della rappresentazione l’unico contesto degli oggetti di essa. L’applicabilità del commento alla testualità televisiva è scoraggiata e impedita da mille ragioni, anche di ordine quantitativo. Vale di certo la pena di riflettere sulle responsabilità della scuola (e dell’università) nell’educare a forme critiche di fruizione televisiva, cioè sulla necessità di inventare un commento, in senso tecnico, ai vari tipi di trasmissione. Se da questo punto di vista il sistema educativo è in ritardo dipende innanzitutto, in questo caso, dalla carente elaborazione, anche entro un eventuale recinto specialistico, di codici critici di lettura. Si tratta di un compito urgente da svolgere; anzi, di due compiti. Intanto, però, resta che la fruizione televisiva è affidata all’istinto e che essa detiene un primato, quantitativo e qualitativo, presso la formazione dei giovani, anche scolarizzati. Per quello che riguarda l’insegnamento della letteratura, ecco che finalmente ogni «rapporto col testo […] improntato a spontaneità e immediatezza»1 si configura oggi, volente o nolente, come pericoloso doppio del rapporto televisivo. La questione è ricca di valenze. In realtà, l’auspicio di un contatto spontaneo e immediato con il testo letterario, cioè l’auspicio di esperienze di lettura felici, contiene il tentativo di conquistare alla letteratura nuovi adepti; e ciò non senza l’intenzione di sottrarli al televisivo monopolio dell’esperienza e dell’immaginario. In un caso come quello di Mengaldo, tale intenzione rivela un esplicito elemento politico, dato che «le isole di grandezza del passato sono un’accusa al presente e fomentano il sentimento, così disastrosamente caduto in quasi tutti, 1 P. V. MENGALDO, Storie letterarie e commento ai testi, intervista a cura di R Luperini, in «Allegoria» n. s., a. VI, n. 16, 1994, pp. 113-123; la citaz. è a p. 121. L’intervento di Mengaldo non è il solo apparso sulle pagine di questa rivista dedicato, in tutto o in parte, alla questione del commento. Ricordo anche il condivisibile Sul commento di N. Pasero (uscito sul n. 17, pp. 61-66), volto in particolare a sottolineare la funzione esplicata dal commento nella relazione tra testo e contesto (anche e soprattutto non letterario). Un’attenzione al tema è d’altra parte riscontrabile anche in molti altri scritti comparsi nella sezione «Letteratura e scuola» (e una sua rubrica fissa è dedicata proprio a modelli/ipotesi di commenti scolastici).

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dell’utopia».2 D’accordo. Ma dobbiamo pur portare a esplicitezza quanto vi è di latente in questo atteggiamento; e cioè che la letteratura sarebbe in se stessa un valore meritevole di essere trasmesso e rilanciato. Mentre è proprio questo a priori ad aver bisogno oggi di legittimazione, anzi di rilegittimazione. Esso si fonda, come è noto, sulla tradizione umanistica, riaffermata come base — ancora umanistica appunto — delle classi dirigenti della nuova Italia. Mengaldo fa lampeggiare una diversa ragione di attualizzazione, latamente adorniana; e non sarò io a respingere tale lusinga, dopo aver affidato alla tutela di Adorno, in esergo, la ragion d’essere di queste pagine. Ma non c’è dubbio che quella tradizione e quella base pesino invece, per esempio, sulla definizione che Segre e Martignoni forniscono di un «livello decente di cultura» oggi, vantabile da «chi conosca bene il Canzoniere di Petrarca e il Decameron, il Furioso e il Principe, e così via».3 Vorrei poter dire che esiste oggi una ragione più pungente per studiare la letteratura. Non credo comunque che il suo potere di seduzione possa bastare a renderla competitiva con i vigenti biberon dell’immaginario. Questo veicolo ambivalente della sua fortuna ha le armi spuntate. Vorrei poter dire che esiste oggi un bisogno di studiare la letteratura. Proprio i suoi punti di debolezza, rispetto ai fatidici mass media, possono rappresentare una possibile alternativa a essi. La lentezza, la complessità, la pertinenza formale: certo. Ma soprattutto, forse, la liceità del commento; anzi la necessità di esso. La letteratura nella scuola, la letteratura nelle università si offre come nicchia di criticità. È questa condizione a renderla oggi potenzialmente rispondente ai bisogni di coscienza, oltre che di conoscenza, altrove diuturnamente conculcati; ed è essa a porsi oggi come ragione valida, anche in senso politico, al suo studio e al suo insegnamento. Deve però essere chiaro lo scarto che si è compiuto rispetto alla secolare tradizione umanistica e rispetto alla sua prosecuzione ancora nel nostro secolo. Nei valori letterari non si realizzano più gli stessi processi di autoriconoscimento e di identificazione — nazionale, epocale e soprattutto di classe — che hanno a lungo segnato la fruizione letteraria. La crisi di tale condizione va di pari passo con la perdita di prospettive com-

2

P. V. MENGALDO, intervista cit., p. 121. C. SEGRE e C. MARTIGNONI, Ancora sulla storia-antologia «Testi nella storia», in «Allegoria» n. s., a. VI, n. 16,1994, pp. 125-133; la citaz. è alle pp. 129 sg. A C. Segre spetta anche un importante intervento generale sul commento tenuto ben presente in queste considerazioni (C. SEGRE, Per una definizione del commento ai testi, in Notizie dalla crisi, Einaudi, Torino 1993, pp. 263-273). 3

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plessive e con l’affermazione delle competenze parcellizzate; mentre una qualche funzione di collante ideologico può essere assunta dal sapere scientifico ed economico, e in realtà dal sapere tecnico-specialistico. Da questo punto di vista, la fruizione spontanea e immediata (cioè la fruizione estetica) del testo letterario risulta oggi fatalmente anacronistica e subalterna — così come valeva invece quale privilegio gnoseologico presso i ceti colti, avviati a ruoli direttivi, fino a qualche decennio fa —, a meno che non sia suffragata da adeguato processo critico. Come dire che l’atto di lettura serviva da riconoscimento di valori già introiettati per le élites studentesche fino agli anni Sessanta; laddove tale riconoscimento è divenuto impossibile per le masse scolastiche dei Novanta, cui quei valori non appartengono, e pleonastico (benché ancora frequentemente praticato) per l’odierna “aristocrazia” licealizzata, i cui privilegi si fondano (certo con basso tasso di consapevolezza) in più aggiornate e più sode garanzie, anche culturali (la conoscenza, poniamo, dell’inglese e dell’informatica). I testi letterari, e le grandi opere segnatamente, in quanto entità significanti commentabili, possono rivestire oggi una importanza non trascurabile come strumenti per resistere alla omologazione, oltre che delle culture, delle esperienze. L’esistenza di questi organismi comunicativi di alta responsabilità semantica e suscettibili di verifica critica è un’“isola di grandezza” nel presente dalla quale possono scaturire esigenze di eguale responsabilità e di eguale verifica critica verso la tempesta pseudo-comunicativa della società postmoderna. Queste potenzialità rendono oggi più che mai opportuna una riflessione sulle peculiarità del commento testuale e danno ragione dell’interesse in tal senso di molti fra i critici non pregiudizialmente disimpegnati. Non serve dire che molti dei discorsi sopra abbozzati valgono anche per la storiografia della letteratura, e insomma in generale per l’attenzione che da una decina d’anni circa gli studiosi del mondo universitario hanno nuovamente riservato al mondo della didattica, dopo una latitanza quasi completa di alcuni decenni. Questo scritto si concentrerà tuttavia sul momento specifico del commento al testo, nella consapevolezza di compiere una meditazione per sineddoche ma anche secondo il presupposto che proprio il commento testuale costituisce la prima linea di quella scommessa sopra delineata, nonché il momento fondativo di ogni ulteriore atto critico-interpretativo (storiografia inclusa). 2. Momento servile e nobilissimo dell’attività critica, il commento sconta i gravami della servitù e le responsabilità del prestigio. Nes-

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sun gesto critico è meno indipendente, e nessuno però vanta altrettale familiarità con il testo. A nessun altro genere di critica si ricorre con eguale urgenza, e nessun altro è altrettanto vicino al lettore, al lettore del testo. Da questo punto di vista il commento dichiara la propria natura di testualità interamente pragmatica, nella quale il carattere performativo è sacrificato a vantaggio di quello informativo e la denotazione prevale sulla connotazione.4 Quest’ultima è anzi potenzialmente disinnescata; o dovrebbe esserlo: non è raro il caso di commentatori più o meno inconsapevolmente in competizione con il testo primo, oppure suggestionati dai suoi caratteri stilistico-formali. Tanto più andrà ricordato che il commento rappresenta un veicolo istituzionalizzato di attualizzazione: se qualcosa, o molto, può essergli perdonato rispetto alla fedeltà al testo, nessun peccato nei confronti del presente gli verrà rimesso. Se io ho davanti l’incipit dell’ode pariniana La salute («Torna a fiorir la rosa…»), pertiene al genere letterario del commento la rinuncia, in sede di spiegazione referenziale, alle metafore coloristico-floreali (la rosa, i gigli). Benché la ragion d’essere del dettato pariniano consista, in gran parte, proprio in tali metafore, è non solo consentito ma opportuno metterle da lato, pronti, certo, a recuperarle in sede di ulteriore analisi. Benché a distinguere quelle frasi dal linguaggio comune siano innanzitutto la metrica e le metafore, dovrò rinunciare all’una e alle altre; e dire, proprio nel linguaggio comune, che quelle frasi significano che il malatino si avvicina alla guarigione, sta guarendo, e ripiglia colore. Sulla questione delle rinunce sarà necessario tornare, perché è fra le questioni essenziali. Per ora restiamo alla responsabilità, nel linguaggio del commento, verso il presente, che vuol dire verso i lettori. Posto che i lettori siano docenti universitari di letteratura italiana, magari annosi settecentisti, non avranno bisogno di spiegazioni, per il celebre incipit. Ma io penso a lettori-studenti. Ai quali appunto dirò che il malatino sta guarendo e ripiglia colore. Se essi capiranno, il tradimento dovrà non avere rimorsi. Agendo diversamente, la tentazione sarà di restituire a Parini con una mano quel che gli ho tolto con l’altra. Per esempio dirò «gote», come fa Baldi;5 introducendo

4 «Parafrasi e traduzione sono analoghi nel senso che fingono utilmente una scindibilità fra denotazione e connotazione»; così C. SEGRE, in Per una definizione del commento ai testi, cit., p. 268. 5 G. BALDI-S. GIUSSO-M. RAZETTI-F. G. ZACCARIA, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo. Letteratura italiana con pagine di scrittori stranieri, Paravia, Torino, vol. II, t. 2°, 1994, p. 714.

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un vocabolo che non usa Parini e che, per lo più, fuori di Toscana, suona letterario (quando pure non di difficile comprensione) e non usano i lettori-studenti (né, presumibilmente, lo stesso Baldi). Qui, cioè, al tradimento verso Parini si somma quello verso il presente; e il secondo non rientra nei privilegi del commento. L’attualizzazione operata nel commento (e a esso richiesta) vale come percezione radicale della differenza e della distanza. In nessuna altra attività della critica letteraria la differenza è altrettanto avvertita; e altrettanto legittima. È proprio la vicinanza al testo a fare del commento, chiamato a parlare al presente, una testimonianza dello scollamento tra testo e ricezione: uno scollamento che riguarda tanto il piano storico-linguistico (cioè la distanza temporale) quanto lo scarto tra parole e langue (cioè la specificità del momento letterario). Tale testimonianza qualifica a maggior ragione la parafrasi, il momento in ogni senso fondativo del commento, e anzi, da molti punti di vista, l’ombelico del commento propriamente detto. Quando Contini traduce6 «Tanto gentile e tanto onesta pare», mostra con la massima evidenza la necessità di una parafrasi attualizzante.7 Né si preoccupa del tradimento, che appare tanto più ingiustificato, quanto meno il lessico dantesco risulta in apparenza bisognoso di traduzione. Ma è proprio perché tutti coloro che oggi parlano italiano capiscono benissimo il significato di «gentile», di «onesta» e di «pare», e (scendendo al secondo verso) di «donna» e di «saluta», che la traduzione risulta indispensabile. Le parole di Dante non dicono più quel che Dante ha detto per loro mezzo, e significano qualcos’altro non privo di analogia con il senso originario ma tuttavia depotenziato delle valenze più qualificanti e intense. Lo sforzo di restituire tale senso e tali valenze suona come ogni altra difesa della 6 Il termine “traduzione”, trattandosi di una ricodificazione nella medesima lingua dell’originale, potrebbe generare rigetti. Ma di traduzioni abbiamo sempre bisogno, se ci rifiutiamo di riconoscere alla poesia il possesso di una lingua pura, perspicua per l’essenziale e quanto a esso comunque intraducibile, e di traduzioni saremo sempre però insoddisfatti, se nella poesia vediamo un uso specifico del linguaggio. Di «traduzione» parla comunque Segre in Per una definizione del commento ai testi, cit., benché limitando l’impiego del termine alla spiegazione delle singole parole, e definendo «parafrasi» la spiegazione letterale di porzioni più lunghe di testo. A me sembra però che anche i dati sintattici vadano “tradotti”, esattamente come quelli lessicali, e che perciò la parafrasi sia a sua volta a pieno titolo una traduzione (almeno se intesa, come mi pare corretto, quale fedele ricodificazione, o attualizzazione semantica, del piano letterale del testo, e non, come spesso avviene, quale primo implicito gradino interpretativo dei suoi significati complessivi). 7 Alludo al celebre Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante [1947], in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1979, pp. 161-168.

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memoria storica, come ogni altra lotta per la tutela del significato al cospetto del tempo: «Tale è l’evidenza della nobiltà e del decoro di colei ch’è mia signora, nel suo salutare […]».8 È la lingua presente che presiede alla resurrezione del significato del testo, che ne sollecita dall’interno, in quanto simile dissimile, la presenza e la distanza, contenendole nello stesso giro d’occhi. Nella parafrasi la lingua presente parla al passato; ovvero il passato parla la lingua presente.9 Ma appunto perciò nessuna “gota” è perdonabile. L’attualizzazione veicolata dalla parafrasi, e in generale dal commento, consiste dunque nella percezione della asimmetria tra semantica e semiotica: tra senso e segni non si dà relazione di intrinsechezza, o di essenzialità, ma rapporto storicamente e individualmente determinato. La restituzione di tale rapporto investe il presente attraverso la linguisticità. L’attualizzazione consiste appunto in tale sforzo del significato, agito dentro il codice presente, ovvero in esso riconnotato. In quanto si dà comprensione, cioè comunicazione, si dà per ciò stesso attualizzazione. Evidentemente ciò non ha nulla a che fare con forme di attualizzazione “selvaggia”, in cui cioè ci si rifiuti di accogliere il significato nella sua diversità, e lo si riduca e omologhi al presente: non alla lingua presente, dove come si è visto la diversità si radicalizzerebbe, ma ai significati presenti, dove essa instaura relazioni impertinenti e tranquillizzanti. Il tentativo di facilitare l’avvicinamento al testo che in genere anima questo meccanismo si risolve in una sua riduzione a passivo pretesto associativo. Fra i campioni di tale inclinazione, Mengaldo ha opportunamente citato il commento dantesco di Di Salvo. 3. E ora: la parafrasi e i suoi salutari sacrifici. Se un testo letterario presenta enunciati linguistici per lo più dotati di significato e passibili pertanto di essere comunicati e compresi (attualizzati, o riattualizzati), la parafrasi è innanzitutto il sacrificio provvisorio di ogni altro elemento testuale, pure essenziale, alla comprensibilità letterale da parte del ricevente; è cioè una ricodificazione del messaggio o, in altre parole, una maieutica della comunicazione tra emittente e destinatario. Tutto ciò che in questo processo di ricodificazione viene sacrificato è in larga misura proprio ciò che qualifica la specificità del messaggio let8

Ivi, p. 166. Ho tenuto presente, per questo rapporto tra lingua e traduzione e tra temporalità e significato, alcune suggestioni provenienti dal saggio di W. BENJAMIN, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino 1981, pp. 39-52. 9

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terario: in assenza non si può più parlare di letteratura. È però d’altra parte vero che in mancanza di comunicazione tra emittente e destinatario viene meno lo stesso fondamento sociale della scrittura. La rinuncia nella parafrasi al piano connotativo valorizza quello denotativo, denunciando lo scarto tra le due formazioni linguistiche (quella del testo originale e quella della parafrasi). D’altra parte il dato connotativo acquista rilevanza e significato solamente alla luce di quello denotativo. Ciò non vuol dire che una fruizione senza decodificazione semantica non sia praticabile (o godibile), ma esclude che una fruizione siffatta possa essere legittimamente ascritta al campo della ricezione critica. Anche perché, a ben guardare, anche una fruizione del mero piano connotativo, nel buio semantico rispetto al dato denotativo, non può fare a meno di ricostruire, sia pure in modo implicito o inconsapevole, una legittimazione denotativa, quanto si voglia semplificata, rozza o arbitraria; o anche complessa e sofisticata: ma arbitraria sempre.10 Il verso «amor, ch’a nullo amato amar perdona» attiverà sempre, in chiunque conosca l’abc dell’italiano (quello di oggi), pensieri d’amore. Se però non si doppia lo scoglio di quel «perdona» ogni suggestione rampollerà al di fuori del rapporto con i dati fondamentali del messaggio. La comprensione di quel verso esige una conoscenza approfondita della concezione cortese e stilnovistica dell’amore, da Andrea Cappellano in giù. Ma è anche vero che spiegando, e sia pure liberamente, quel verso in modo elementare (poniamo: “la natura dell’amore è tale da non permettere a chi è amato di non ricambiare l’amore”) si saranno percorse, d’un salto, più leghe di quante ne restino da percorrere. Il quindicenne al primo scontro con la Commedia avrà guadagnato almeno la metà della strada che lo separava, solo qualche attimo prima, dalla fruizione di un esperto dantista (ed è inutile aggiungere che per l’altra metà ci vorrà un po’ più di tempo e molta più fatica…). Verrebbe anzi quasi voglia di ammettere che avrà percorso già tutto, o quasi, lo spazio certo, e che hinc sunt leones. Innegabile che valga la pena di andarli a cercare, i leoni delle incertezze critiche (e filologico-linguistiche); ma innegabile anche che la valutazione dell’atteggiamento di Dante verso l’esperienza stil-

10 E questo il caso della critica neoermeneutica e della sua fede nella profondità della superficie testuale. Ignorando il rispetto per la semantica del testo e mancando, ch’io sappia, di aver fornito anche un solo commento nel senso qui considerato, la neoermeneutica rivela una volta di più la propria subalternità e organicità gnoseologica, culturale e politica al postmodernismo.

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novistica è meno importante del mero dato semantico (e comunque senza questo nulla può dirsi di quello). Il commento migliore sarà sempre quello più fedelmente al servizio del pıano semantico, e il sancta sanctorum del commento sarà sempre, ove necessaria, la parafrasi. Quest’ultima dovrebbe, per ben assolvere al suo prezioso ufficio, restringersi alla massima sobrietà: una parafrasi che transcodifichi una porzione testuale raddoppiandola o triplicandola, tirando proditoriamente dentro ciò che è assente nel testo, rifiuta la sfida della semantica testuale proprio sul piano in cui essa risulta maggiormente proficua, quello linguistico; e lo sposta su un registro argomentativo. Come se si parafrasasse il citato verso di Dante dicendo che quando una persona si innamora di un’altra, questa non può fare a meno di ricambiare l’amore innamorandosi a sua volta. Non solo il brodo allungato, se pure potrà risultare più digeribile, certamente ha meno sapore; ma con grande facilità presenta alterazione negli ingredienti. La ipotizzata parafrasi del verso dantesco non è solamente lunga, ma risulta gravemente imprecisa: Amore non è più il soggetto. Ciò non solo menoma l’anafora (Amore è tre volte soggetto nel testo di Dante), ma contraddice la concezione stilnovistica che affida all’Amore il potere di ingenerare nell’uomo la passione e, infine, accantona la concezione medievale della conoscenza e dell’esperienza come attività piuttosto subite che non gestite dal soggetto. La sobrietà della parafrasi dovrebbe tendere a un rapporto uno a uno, cioè a tradurre ogni termine con un solo termine. E dovrebbe accogliere, finché non vada a scapito della comprensibilità, la sfida della struttura sintattica originaria. Solamente in questo modo le sollecitazioni del testo originale attraversano in profondità la versione tradotta, mostrandone la natura servile e la scarsa autosufficienza espressiva. Stiamo alle dantesche parole di Francesca e concentriamoci sul difficile «perdona». A una ricognizione su una dozzina di commenti danteschi risulta di gran lunga prevalente una soluzione pilatesca, che ignora il senso effettuale del verbo e rappresenta il pensiero di Francesca aggiungendovi una negazione non priva di equivocità (all’orecchio del potenziale studente) in quanto affiancata all’altra già presente in «nullo». Così, per tutti, Momigliano: «Amore che a nessun amato permette di non amare». La sfida, in un caso simile, sta proprio in quel «perdona» e nella sua accezione. La quale non è tra l’altro del tutto aliena da certi usi anche d’oggi; come “è un male che non perdona”. Consapevolezza della questione scorgo per esempio nel commento di Casini: «Il vb. per-

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donare qui significa quasi dispensare, far grazia». Non si può eludere questo aspetto: che cosa significa, qui, il verbo “perdonare”? Stando a Momigliano (e alla maggioranza dei commentatori, con piccole varianti) significa “permette di non”. Peggio Sapegno: «amore che non tollera (perdona) che chi è amato non riami». Ci sono due negazioni assenti nel testo dantesco e sparisce quella in esso presente («nullo»). Eppure la soluzione esisterebbe e la offre per esempio il commento di Pasquini-Quaglio: amore, «che a nessuno (nullo) amato risparmia (perdona) di amare». È spesso inevitabile che, per fare quadrare i conti, nella parafrasi germoglino nuovi materiali, affatto assenti nel testo originale. Prenderò un solo esempio, di questo rigoglioso vivaio; e lo prenderò dall’antologia scolastica curata da Segre e Martignoni, proprio perché in essa si trova il commento generalmente più affidabile, almeno sul piano filologico (benché non manchino dislivelli anche cospicui tra le varie parti).11 «Pur non accheta la guerriera ardita / l’alma d’onor famelica e digiuna» (Tasso, Liberata XII, 2, 5-6). La parafrasi proposta è «Clorinda non pacifica la propria anima, desiderosa di gloria (famelica) e insoddisfatta (digiuna) delle opere del giorno».12 Noto di passata che nella parafrasi si volatilizza il «pur» che vale a collegare questi versi ai precedenti, rilevando l’eccezionalità del comportamento di Clorinda; che “Clorinda” non traduce ma interpreta la parafrasi «la guerriera ardita»; che il rimando in parentesi all’originale «famelica» è collocato al posto sbagliato, dato che non corrisponde a “gloria” (che traduce «onor») e neppure a “desiderosa di gloria” ma a “desiderosa”. Il punto che qui interessa è però soprattutto quel “delle opere del giorno” affatto assente nel testo tassesco. L’aggiunta ha il grave torto, nel dare una sua quadratura al discorso, di stravolgere del tutto la sintassi originale, fondata sul parallelismo

11 C. SEGRE-C MARTIGNONI, Testi nella storia. La letteratura italiana dalle origini al Novecento, 4 voll., Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 1991. L’affidabilità filologica di questa antologia consiste nella rarità delle parafrasi inesatte, ridotte a un tasso, per quanto mi è possibile valutare, del tutto inevitabile e accettabile, comunque assai inferiore agli altri testi per la scuola. Ma le alte cime sono inevitabilmente quelle più percosse dal vento… Altra questione è poi la insufficienza quantitativa delle note, per la quale l’antologia di Segre e Martignoni non fa punto eccezione. (Per inciso: degli errori di fatto presenti nei commenti, scolastici e non, ho evitato di prendermi cura in questo scritto; è questione grave — anche perché le “sviste” nelle opere scolastiche sono in alcuni casi davvero troppe — ma d’altra parte è questione facilmente esecrabile, difficilmente correggibile per mezzo di una riflessione teorico-metodologica). 12 Ivi, vol. II, p. 637.

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dei due aggettivi («famelica e digiuna»), entrambi riferiti a «d’onor». Il senso corretto è dunque: “l’anima desiderosa di onori e inappagata di onori”. Esso potrà essere reso meglio (p. es.: “l’anima desiderosa di onori e inappagata [da quelli già meritati]”), comunque segnalando le integrazioni. In ogni caso non è lecito, pur di fornire un senso comprensibile o filato, sovvertire i legami logico-sintattici, come accade nell’esempio riferito. Nel quale si perde anche la possibilità di rilevare legittimamente, in un secondo tempo, la coerenza metaforica dei due aggettivi, nonché la figura dell’hysteron pròteron (il digiuno precede e non segue la fame). 4. Soprattutto al cospetto di un commento scolastico (il principe dei commenti; e perciò quello più francamente servile), più grave di spiegare tradendo è spiegare senza chiarire. E qui nessuno potrà scagliare la prima pietra. Ma sia consentito di lamentare che il citato Segre-Martignoni in quest’arte eccelle, coerentemente a una concezione umanistica e aristocratica della letteratura e del suo insegnamento. Due esempi. Il primo lo traggo dallo stesso episodio di Clorinda da cui il precedente: al v. 7 dell’ottava 18 compare il nome di «Arsete», il servo che ha salvato e “adottato” Clorinda. La nota lo presenta così: «il servo, già definito padre al v. 6, 3, che ha l’ufficio ricoperto da Metabo, re di Priverno, nell’episodio di Camilla dell’Eneide XI. La narrazione ricalca l’episodio di Cariclea nel IV libro delle storie di Eliodoro (IV sec. d.C.)».13 Non credo che sia solo una questione di perspicuità… Va da sé che lo studente in panne qui si sentirà raggirato e smarrito. D’altra parte, se la letteratura si regge sulla letteratura, queste equazioni (non si tratta di spiegazioni) sono a volte tutto ciò che il commentatore è possibilitato a fornire. Senza il sospetto che chi conosce quale sia «l’ufficio ricoperto da Metabo» nell’Eneide può fare a meno di cercare nelle note; e chi non lo conosce, difficilmente sarà illuminato dal rimando a Cariclea e a Eliodoro. C’era qui un povero nome da spiegare; ora, ahimè, ce ne sono altri cinque. Per non dire di quell’«ufficio ricoperto», che parrà alludere, alle orecchie dello smarrito sedicenne di turno, a una qualche carica politica, invero ben prestigiosa, se un «servo» può essere chiamato «padre» dalla nobile guerriera Clorinda! E che conto dovrà essere fatto, in questo regesto delle suggestioni immaginative, della ineffabile definizione di «eunuco» pure agli atti nel testo? Per spie-

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Ivi, vol. II, p. 640.

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gare l’“incognita” «Arsete» possono bastare due o tre righe; per spiegare la spiegazione sopra riferita ce ne vorrebbero venti. Ma chi commenterà i commentatori? L’altro esempio è: «canzone, caccia con li veltri neri» (nel congedo della dantesca canzone delle tre donne). La spiegazione è: «li veltri neri: i Neri»14 (eguale si trova in numerose altre antologie scolastiche, e p. es. in quella stagionata di Salinari-Ricci). E «veltri»? Non siamo di fronte a una semplice superficialità, ma a un vero e proprio cortocircuito tra spiegazione e interpretazione; nel senso che l’interpretazione ha preso il posto della spiegazione. Infatti la lettera materiale del testo dantesco non parla di “Neri”, ma di “cani di color nero”. E questa sarà dunque la parafrasi corretta da offrire (anche perché il vocabolo “veltri” è poco familiare al linguaggio giovanile), salvo aggiungere che nell’immagine è con ogni probabilità contenuta una allusione al partito dei Neri. Diversamente, un commentatore persuaso (ve ne sono, o ve ne sono stati) che il «veltro» del primo dell’Inferno sia Cangrande o Dante, o magari Garibaldi o Hitler, potrebbe parafrasare la celebre profezia così: “gli uomini ai quali la lupa si unisce sono molti, e saranno ancora di più, fino a che verrà Cangrande — o Dante, o Garibaldi, o Hitler — che la farà morire con dolore”. Non mi sfugge, certo, che in molti casi la parafrasi non può fare a meno di addossarsi una qualche responsabilità interpretativa. Propriamente parlando, anzi, ogni spiegazione è sempre già anche un’interpretazione. Ciò risulta ben chiaro dinanzi a testi di particolare spessore e complessità semantica, come «Donna me prega» di Cavalcanti. Ma è la specifica polisemicità del linguaggio letterario a rendere in ogni caso ardua una transcodificazione non tendenziosa e dunque riduttiva. Vale la regola generale per cui tutto ciò che si guadagna in chiarezza si perde in complessità, e dunque in profondità. Quando allo smarrito Dante, annaspante ai piedi del colle confinante con la selva dell’incipit infernale, si mostra la luce del «pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle», la peggior spiegazione della perifrasi sarà “sole”, benché essa risulti a tutti chiarissima. Infatti il significato del sole, appunto, quale si mostra in quel luogo non può prescindere dai riferimenti contenuti nella perifrasi né dalla loro relazione con i termini del dramma allegorico quali sono stati introdotti nei versi precedenti: la contrapposizione luce/oscurità, in senso generale, e, più specificamente, il nesso «diritta» (o «verace») «via» (vv. 14

Ivi, vol. I, p. 477.

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3 e 12) / «diritto… calle». Spiegando la perifrasi secondo il significato realistico referenziale si giudica di fatto la sua funzione come meramente esornativa, mentre è appunto nella funzionalizzazione di passi come questo che è depositata la chiave dell’allegoria. I commentatori che tagliano corto con un laconico “sole”, e poi informano il lettore che il sole rappresenta allegoricamente Dio, fanno, rispetto al processo di allegorizzazione, come chi gettasse via la chiave e poi sfondasse una porta a spallate. Le equivalenze «pianeta che ecc.» = sole = Dio sono micidiali scorciatoie bignamesche cui si chiede solamente di prestar fede, gettandosi nel vuoto. Mentre logica vuole che se uno per dire “sole” dice otto parole otto e non soffre, notoriamente, di logorrea, bisogna partire di lì. Pertanto la equazione corretta (ammesso che ve ne possa essere una) sarà semmai: «pianeta che ecc.» = sole + Dio (o sole/Dio). Da cui consegue: calle (o via) dritto (o dritta, o verace) = vita vissuta secondo la volontà di Dio, assistita dalla Grazia. Da cui consegue ancora: luce = Grazia (e: tenebre = peccato). Eccetera eccetera. Se però la parafarsi interpreta prima di aver reso onore a tutti gli elementi in gioco, a soffrirne è proprio il passaggio ulteriore dalla spiegazione letterale alla interpretazione; perché questa si fonda su quella. La parafrasi non può perciò rigettare la sfida nella quale consiste la sua stessa funzione: attualizzare la semantica del testo conservandone nella misura del possibile le implicazioni originarie e fuggendo le interpolazioni indebite (scorciatoie comprese). 5. Tanto il rifiuto idealistico di tradurre (è nota l’allergia crociana al commento) quanto le spiegazioni semplificanti implicano di fatto una concezione della scrittura letteraria come entità assoluta. In ogni caso l’oggetto della fruizione è solamente in superficie il significato, e in realtà riguarda il dato estetico (o formale-strutturale), il quale non è ovviamente né traducibile né in alcun modo comunicabile fuori dell’unicum testuale. E pertanto come l’assenza di commento esclude in modo esplicito dalla fruizione i non iniziati, così ogni commento che scavalchi la lettera materiale e la sua specifica semantica ha già decretato di divulgare il senso generale, ma confidando in sostanza di relegare i propri destinatari in partibus infidelium. Il privilegio (oggi ben definito come “ascolto”) resta in ogni caso riservato ai fedeli. Ciò non toglie che pecchi poi di ottimismo la contrapposta fiducia nella traducibilità (o parafrasabilità) senza residui del testo letterario. Essa ha per esempio in della Volpe un’evidente funzione pole-

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mica (antiidealistica).15 Ma il rischio razionalistico è egualmente forte, e minaccia la stessa specificità discorsiva del fatto letterario, e dunque la rigorosa impostazione materialistica dellavolpiana: basti pensare al rilievo sensibile dei valori fonico-musicali o alla organizzazione polisemica del linguaggio poetico. La sfida della parafrasabilità va giocata piuttosto dentro lo scarto con il significato originale, come verifica della parzialità della denotazione e d’altra parte come riconoscimento della sua funzione primaria entro la complessa organizzazione testuale. La parafrasi ideale, se è lecita l’espressione, sarebbe forse quella che presenti un carattere di incompletezza, di incompiutezza e di provvisorietà; e il completamento, compimento e definizione della quale possano avvenire solo attraverso il ricorso critico al testo originale. È in questo senso che ho parlato sopra di scarsa autosufficienza espressiva — e, è bene aggiungere, semantica — della parafrasi.16 Una parafrasi che si spieghi da sé, che finga una surrettizia compiutezza semantica ed espressiva, potrà valere a dissetare per sempre il lettore, ma difficilmente renderà giustizia al testo del quale è al servizio. La parafrasi infatti non deve dare appagamento ma curiosità verso il testo, offrendo al tempo stesso gli strumenti essenziali per intraprendere il viaggio della conoscenza. Ma perché dissimulare, di tale viaggio, la necessità e le difficoltà? Se il commento tratta il testo come un rebus e di esso confida la soluzione, perché cercare nel testo altro che una superficiale verifica? Infine non si tratta, attraverso il commento e la parafrasi, di avvicinare alla letteratura i non iniziati, né di rendere loro più agevole l’iniziazione. Si tratta semmai di costruire l’educazione a una fruizione critica. Ciò significa necessariamente la familiarizzazione con la semantica testuale, perché chi non capisce è escluso da ogni procedimento critico; e in questo senso è lecito parlare di una primaria funzione attualizzante del commento (cioè di una spiegazione letterale). In tal modo il testo viene avvicinato al lettore. Ma una fruizione critica richiede per sua natura un’oscillazione telescopica, cioè l’alternarsi di prossimità e di distanza. La parafrasi e il commento nella sua interezza sono tanto più pertinenti ed efficaci in senso critico quanto più sanno unire le due spinte (o le due esigen15 Cfr. G. DELLA VOLPE, Critica del gusto [1960], in Opere, Editori Riuniti, Roma 1973, vol. 6. 16 Che il commento è «privo di autonomia comunicativa» osserva C. SEGRE in Per una definizione del commento ai testi, cit., p. 263.

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ze): alla prossimità e alla distanza. Spiegare che il «pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle» è il sole vale ad avvicinare a Dante, ma dimentica di allontanare da lui, cioè altera la percezione della effettiva distanza storica che da lui ci separa, contraffacendone la voce. Il che è tanto più grave al cospetto di un passaggio eccezionalmente carico del sentimento della diversità e della distanza. Perché Dante chiama «pianeta» quel che noi sappiamo essere una stella? Perché affida al sole la funzione di guidare il cammino degli uomini (il che oggi è tutt’altro che ovvio)? È già nella lettera materiale del testo che la distanza si manifesta; e qualora venga precluso l’accesso a essa, difficile o artificioso diviene il recupero del sentimento storico su altri piani (poniamo per quel che riguarda il simbolismo religioso). A volte al commento spetta addirittura la funzione di ingenerare sospetto (e diffidenza semantica) dove non parrebbe esserci opacità nella comprensione. Il caso del sonetto dantesco di lode interpretato da Contini è già un valido esempio di tale funzione. Ma in quel caso non mancano tuttavia elementi (compreso il nome venerando e remoto dell’autore) atti a suggerire prudenza. È invece spesso proprio a contatto con testi più recenti, anche novecenteschi, che questa funzione merita di essere considerata con la massima attenzione. E visto che di luce parlano i citati versi di Dante, restiamo alla luce. L’esempio in questione è di Saba: «Anche gli piace / a sera accendere il lume» (nell’ultima delle Tre poesie alla mia balia). Siamo intorno al 1930, e il piacere del poeta nell’accendere il lume deriva, come si sa, dal fatto che quel gesto compiva, quando egli era piccolo e cioè quarant’anni prima, il balio; e al poeta dà conforto prenderne il posto accanto alla amata balia. Ebbene: siamo certi che quel gesto significhi, come d’istinto si crede e come forse molti parafraserebbero, “accendere la luce”? Cioè: siamo certi che la nostra comprensione spontanea e immediata non definisca un gesto ben diverso da quello di cui parla Saba? «Accendere il lume» vorrà dire “azionare un interruttore”? Oppure “dare fuoco a uno stoppino (o simili)”? Si deve ammettere che la prima possibilità rende un poco improbabile la valorizzazione simbolica del gesto, che già un bambino avrebbe potuto compiere. C’era nel 1930 l’illuminazione elettrica nella casa della Peppa? O, quel che più conta, c’era nel 1890, nel 1885? Se al commento spetta di realizzare quell’attualizzazione semantica senza la quale il testo è muto, gli spetta d’altra parte di denunciare quelle attualizzazioni avvenute senza rispetto per la specificità

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testuale e tali da fare di questa un’entità comunque preterintenzionale. Perché al commento attiene di sorvegliare ciò che il testo fa dentro il presente, ma anche di scoprire ciò che il presente fa dentro il testo. E in entrambi i casi esso si fa carico delle rispettive identità e delle reciproche relazioni. 1995

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