Pittura e neorealismo

June 3, 2017 | Autor: Enrico Bernard | Categoria: Italian Studies, Italian Cultural Studies, Italian Literature, Italian Cinema, 20th Century Italian Literature, Filosofía, Critica letteraria, Letteratura italiana moderna e contemporanea, Arte, STORIA DELL'ARTE, Storia, Neorealism, Letteratura, Lingua E Letteratura Italiana, Pittura, Cinema, Film Noir, Neorealismo, Teoria Della Letteratura, Storia Della Lingua Italiana, Cesare Zavattini, Letteratura italiana, Storia Dell'Architettura, Dipartimento Di Lettere E Filosofia, Disegno, rappresentazione, teoria e storia della rappresentazione, Romanzo critica letteraria, Artes Visuais, Lettere, Lettere e Filosofia, Arti Figurative, Storia Della Critica Letteraria, Dipartimento Di Architettura, Università degli Studi di Padova - Dipartimento dei beni culturali, dipartimento di studi umanistici università di Catania, Filosofía, Critica letteraria, Letteratura italiana moderna e contemporanea, Arte, STORIA DELL'ARTE, Storia, Neorealism, Letteratura, Lingua E Letteratura Italiana, Pittura, Cinema, Film Noir, Neorealismo, Teoria Della Letteratura, Storia Della Lingua Italiana, Cesare Zavattini, Letteratura italiana, Storia Dell'Architettura, Dipartimento Di Lettere E Filosofia, Disegno, rappresentazione, teoria e storia della rappresentazione, Romanzo critica letteraria, Artes Visuais, Lettere, Lettere e Filosofia, Arti Figurative, Storia Della Critica Letteraria, Dipartimento Di Architettura, Università degli Studi di Padova - Dipartimento dei beni culturali, dipartimento di studi umanistici università di Catania
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Pittura e neorealismo.1 di Enrico Bernard

L’epistolario Bernari–Za contiene un certo numero di cartoline apparentemente poco significative, ma che in realtà pur nella sinteticità del messaggio racchiudono significati che solo chi ha convissuto con queste personalità può comprendere. Tra queste spicca la cartolina spedita a Za da Gaeta il 15 agosto del 1977 – considerando che Bernari imbuca proprio nel giorno di Ferragosto va da sé che il timbro postale sia quello del 19. Il messaggio apparentemente dice poco: Qui con Paolo Ricci, – che con sua moglie ti salutano, – mentre prosegue una sua “personale” (*), leggendoti sull’Unità, ti abbraccio Carlo Bernari. Seguono le firme di Piera (Piera Ricci) e quella incerta di Paolo Ricci2, nonchè la nota che Bernari infila come augurio: (*) A quando una zavattiniana? Il testo della cartolina, che raffigura l’ultimo tratto della spiaggia di Serapo sotto Monte Orlando all’altezza dell’albergo Miramare dove il pittore Paolo Ricci sta allestendo una piccola personale estiva di acquarelli, dice effettivamente molto più delle parole. La firma sulla cartolina di Paolo Ricci è, come dicevo, molto incerta, infantile, tremante. In effetti, Ricci ha dovuto firmare con la mano sinistra, la mano che gli è rimasta da usare – per tutta l’ultima parte della sua produzione artistica – dopo il grave ictus che lo aveva colpito nel 1972. La mostra all’hotel Miramare di Gaeta era proprio la prima uscita pubblica dell’artista napoletano, compagno di gioventù e di formazione di Bernari fin dal 1925. Per poter tornare alla pittura, sia pur con la mancina, Ricci aveva dovuto percorrere un lungo periodo di riabilitazione motoria e di logopedia. Così il messaggio implicito della cartolina è quello di comunicare a Za che il comune amico Paolo Ricci stava lentamente tornando all’attività (in realtà il secondo e fulminante attacco colpì Ricci nel 1981).

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Estratto da: Enrico Bernard: I più segreti legami, arti visive e sinergie neorealiste nel carteggio Bernari-Zavattini (1932-1989), in Rivista di Studi Italiani diretta da Anthony Verna: 2 Il pittore Paolo Ricci (Barletta 1908 - Napoli 1986) fonda con Bernari il movimento Uda nel 1929 e rappresenta il trait d'union tra la "scuola" dei Circumvisionisti e la letteratura protoneorealista di Carlo Bernari.

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Il sodalizio tra il pittore e storico dell’arte Paolo Ricci e Bernari risale alla seconda metà degli anni Venti3 e coinvolge anche un terzo giovane intellettuale, Guglielmo Peirce, a sua volta filosofo e pittore, nonchè cugino di Bernari. I tre giovani daranno vita, proprio negli anni in cui il regime fascista rivelava la sua natura autoritaria e violenta, ad un movimento marxista, quindi anticrociano e, soprattutto, antifuturista. Tra il 1927 e il 1929 i tre giovani intellettuali, non ancora ventenni, decisero di impegnarsi per una Storia del movimento operaio a Napoli, opera che mai vide la luce ma che fornì a Bernari, impegnatosi più degli altri due nelle ricerche storiche, il materiale e gli ambienti per le prime stesure di Tre operai (Tempo passato del 1928–29 e poi Gli stracci del 1929–1931)4. Tramite Ricci5, Bernari si avvicina agli artisti circumvionisti napoletani6 e,                                                                                                                 3

Le attività dei tre amici vengono narrate da Bernari in racconti come Bettina ritrovata, in Per cause imprecisate (1965) e in romanzi semi–autobiografici quali Amore amaro, Prologo alle tenebre e ne Le radiose giornate. Le stesse attività vengono richiamate con una certa distanza critica, e con nostalgia, nell’ultimo romanzo di Bernari: Il grande letto. Per le esperienze vissute con Ricci durante la guerra, si vedano molte pagine in Vesuvio e pane. In un curioso capitolo di Bibbia napoletana Bernari narra le visite con Ricci in casa di Benedetto Croce. Cfr.,B ERNARI, Visite a don Benedetto, in Bibbia napoletana, cit., p. 131. Va anche ricordato che già dagli anni venti a casa del pittore D’Ambrosio, nella «Libreria del 900» di Arcuno, e a casa di Paolo Ricci a Villa Giulia, tantissimi artisti e intellettuali si radunavano per discussioni, dibattiti e scambio di informazioni. Casa Ricci era frequentata non solo da molti artisti napoletani ma anche da autori quali De Filippo, Viviani, Guttuso, Pratolini, Gatto e Alvaro, tanto per fare alcuni nomi. 4 Il romanzo Tre operai di Carlo Bernari pubblicato il 9 febbraio 1934 nella collana ‘I giovani’ di Rizzoli diretta dal giovane Cesare Zavattini, fu concepito già nel 1928, lo testimonia una prima stesura, ritrovata nel 1965, dattiloscritta: «Carlo Bernari/ TEMPO PASSATO [maiuscolo cassato a matita, ndr.] / Gli stracci [a matita, ripassato a penna] /1928– 1929 [a matita, ripassato a penna] / Ia stesura di 3 operai, Inedita [a matita]». Alcuni capitoli, poi espunti o rielaborati nella stesura definitiva, furono pubblicati nei primi Anni Trenta da «Il Tevere» e «L’Italia vivente». Cfr. B ERNARI C ARLO , Opera, in «L’Italia vivente», II, 14,15–31 agosto 1932. Morte di una ragazza, in «Il Tevere» , IX, 234, 1° e 2 ottobre 1932. Il ragazzo del XV Lotto, in «Il Tevere», IX, 242, 12–13 ottobre 1932. Giornata di sole, in «Il Tevere» , IX, 260, 1°–2 novembre 1932. Cfr, B ERNARI C ARLO , Nota 1965, postfazione dell’Autore alla I edizione della Collana Narratori italiani di Tre operai, a cura di Niccolò Gallo, Milano, Arnoldo Mondadori, pp 256–257. Qui Bernari stesso fornisce una dettagliata descrizione del manoscritto inedito e della storia di Tre operai: «[...] dovendo sgomberare la cantina per una riparazione urgente, da una cassa piena di cartacce emerse un volume dattiloscritto, magicamente dico, poiché credo alla magia di certe concomitanze. Come non mettere in relazione la cantina allagata, la cassa che quasi vi galleggiava, il me assillato da quel discorso si e no su «Tre operai» , e quell’INEDITO che a grandi lettere in rosso mi tentava dalla copertina? Intatto; salvo alcuni margini intaccati dai topi, e sei pagine mancanti (33–38) pubblicate, come si legge sul risvolto della 32, nel1”’Italia Letteraria” del febbraio 1934; mentre le pagine 57–62 risultano staccate e recano annotazioni tipografiche di mano ignota (“tondo”, “corsivo”) rifiutate forse da qualche giornale dopo lo scandalo suscitato da «Tre operai» . Sul frontespizio, il primo titolo Tempo passato, cancellato a matita, è seguito dalla dicitura: “Gli stracci – 1931 – prima stesura di Tre operai – Inedita”. Quindi, dopo una pagina bianca, un’ epigrafe tolta dal Sistema della natura del d’Holbach, che dice il mio ingenuo materialismo di allora: “Se si consultasse 1’esperienza in luogo del pregiudizio, la medicina fornirebbe alla morale la chiave del cuore umano; e, sanando il corpo, si avrebbe qualche volta la certezza di sanare lo spirito”. La parola “fine”, a pagina 282, è preceduta da due date: 1930–1931.» 5 Cfr. R ICCI P AOLO , catalogo della mostra retrospettiva con interventi e saggi vari, Napoli, Castel Nuovo 26 giugno – 28 settembre 2008, a cura di Mario Franco e Daniela Ricci, Napoli, Electa, 2008. 6 Il gruppo circumvisionista sodalizio fra pittori di belle speranze e di molte illusioni nacque tra il 1928 e il 1929. Tra i firmatari del primo Manifesto dei pittori circumvisionisti (stampato in opuscolo e dopo alcuni mesi riprodotto in «Forche Caudine», II, n. 2, Benevento, 15 gennaio 1929, p. 5) è proprio Guglielmo Peirce. Per una analisi esaustiva del

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grazie all’attivissimo Peirce, al gruppo romano della “seconda ondata”, legato al futurismo. Il 18 gennaio 1929, in una serata al Circolo Marchigiano di Roma, presenti Marinetti, Balla e Luigi Pepe Diaz, quest'ultimo antifascista e comunista, rifugiatosi in seguito a Parigi, Gustavo Barela, leader del gruppo, legge due poesie di Bernari, Ghigliottina e Idillio 7, andate perdute. Ma in questo clima Bernari, Peirce e Ricci fondano un movimento d’avanguardia e, tornati a Napoli circa a metà del ‘29, lanciano il Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione distruttivisti attivisti), che, stampato in cinquecento copie «imbucato e distribuito di notte»7 viene recensito da Ungaretti.

Il manifesto nacque tra la fine del ‘27 e i primi del ‘28; proprio in opposizione all’ottimismo futurista. Lo concepimmo innanzitutto come testimonianza critica antifascista, in opposizione all’arte ufficiale fascista. Essendo giovani non potevamo essere ingenerosi, per cui vedevamo fascismo dovunque. E bisognava abbatterlo; e come, se non prevaricando! […] Cosa proponevamo? Non il suprematismo macchinista di stampo futurista, che era in sé per sé un’esaltazione della macchina, già allora tanto minacciosa; ma una coscienza tecnologica che modificasse o tentasse di modificare anche quelle strutture ideologiche che potrebbero considerarsi sconfitte dalla macchina. […] Ed ecco come da una simile riflessione doveva nascere il distruttivismo e l’attivismo dell’U.D.A., cioè Unione distruttivisti – attivisti, per un’attività dello spirito non in senso gentiliano, ma in dialettica con la natura, in dialettica con la storia, e coscienti dei mezzi tecnologici e scientifici da cui l’uomo d’oggi è condizionato.8

Il Manifesto affermava alla luce del marxismo e di Freud l’inutilità dell’arte, anche di quella cosiddetta d’avanguardia, futurismo in primis, perché destinata a diventare comunque un aspetto della cultura borghese, annunciando la fine delle “arti belle” e mostrando intolleranza per ogni tipo di autorità sia in campo politico che artistico. I distruttivisti–attivisti affermavano il primato della scienza e della tecnologia, «uniche attività capaci di sottrarsi all’asservimento di classe e in grado di restituire un’immagine positiva del reale»,9 in tal senso essi consideravano la macchina non l’oggetto mitico dei futuristi, ma uno                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               movimento circumvisionista cfr. D’A MBROSIO M ATTEO , I circumvisionisti, un’avanguardia napoletana negli anni del fascismo, Napoli, Edizioni Cuen, 1996. 7 V ERGINE L EA , L’opposizione di alcuni artisti nella Napoli degli anni ‘30 oppure I distruttivisti–attivisti, testo di una trasmissione radiofonica del terzo canale della Radio, 8 marzo del 1971, dattiloscritto in fotocopia, p.1, ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 7/421. 8 C APOZZI R OCCO , Intervista a Carlo Bernari, in «Italianistica», IV, gennaio aprile 1975, n.1, p.157. 9 B ERNARI C ARLO , Ricci, dattiloscritto, s.d., Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi ASNA), Archivio Paolo Ricci,

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strumento da osservare senza enfasi:

Uno strumento in grado di trasformare i meccanismi produttivi e di eliminare lo sfruttamento presente nel mondo industriale. Colpisce, nel testo d’impronta dadaista, l’attenzione, sulla linea di Breton e dei surrealisti, alle ricerche della psicanalisi e al loro rapporto con l’arte moderna, mostrando un interesse che investiva tutti i campi dell’attività culturale: dai problemi sociali che si richiamavano al marxismo all’architettura, dall’urbanistica alla scienza, ai costumi della vita moderna.10

Il movimento ebbe scarsa influenza sulla cultura ufficiale, ma non passò inosservato a Croce che, nonostante la sua celebre ostilità verso ogni novità, a Francesco Flora che glielo fece recapitare disse che il manifesto era «una cosa molto seria»11 aggiungendo la “storica” frase: «’Sti guaglioni non so’ fessi!».12 L’unica lettura non superficiale del testo udaista fu quella di Giuseppe Ungaretti sul giornale «Il Tevere»13: Sono tre pagine non stupide, scritte da persone che hanno seguito le idee intorno all’arte di questi ultimi tempi. […] È, riconosciuto, l’errore romantico. Per i romantici si trattava di liberare lo spirito dai ceppi della retorica. In realtà abbiamo avuto questo: una serie di rivoluzioni teoriche, la durata sempre più breve di queste successive retoriche, la persuasione sempre più insopportabile di avere tra i piedi una retorica da mandare al diavolo. E così l’arte si è fatta moda. Cioè si è messa a perseguire fini che sono l’opposto di questi dell’arte e i predetti Signori non hanno torto di lanciare il manifesto dell’antiarte. Ma ora viene il bello. I Distruttivisti– Attivisti parlando di arte che sarebbe mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia con il cambiare della simpatia stessa, vogliono dirci che questo oggetto è la macchina. Lo aveva detto anche Marinetti. Ma essi non considerano la macchina come una bellezza da esaltare ma come un prodotto della nostra civiltà da sfruttare.

Il Manifesto14 dei “distruttivisti–attivisti” Bernari, Peirce e Ricci rappresenta la reazione                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Parte Generale, 1/36. 10 B ERNARD D ANIELA , Carlo Bernari a Parigi, in «Studi novecenteschi», Serra Editore, XXXVI, n.78, luglio–dic. 2009, pp. 313–346. 11 Intervista a Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/80. 12 Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 3/125. 13 U NGARETTI G IUSEPPE , L’arte è novità, «Il Tevere», 19 ottobre 1929. 14 Il Manifesto dell’U.D.A. (titolo originale: Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. Unione Distruttivisti Attivisti. Napoli, Vico delle Fiorentine a Chiaia, 5) appare in appendice al saggio di Rocco Capozzi, Bernari tra fantasia e realtà, cit.,

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negativa, probabilmente la prima da parte di giovanissimi intellettuali marxisti, al futurismo: si tratta sostanzialmente, al di là della polemica tipica del tempo sulla funzione e valore dell’arte, di una vera e propria “messa in guardia” ideologica

contro il mito della “macchina” che,

disumanizzando il lavoro e incrementando la dinamica del profitto, non può essere vista solo come uno strumento di progresso, ma deve esserne avvertita la minacciosa potenzialità alienante. La cultura italiana, solitamente provinciale e un po’ miope, ha sempre insistito, tranne qualche raro caso, sulla mancanza di sbocchi e di influenza del Manifesto dell’Uda.15 Tuttavia Il 9 giugno 1929 sul «Corriere d’America» a New York apparve il Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. ( Unione Distruttivisti Attivisti) di Napoli, firmato da Carlo Bernard, Guglielmo Peirce e Paolo Ricci: la sorpresa sta nel

fatto che il Manifesto sia

arrivato in America subito dopo la

pubblicazione a Napoli. Se colleghiamo questa data del 1929 col soggiorno parigino di Bernari del gennaio–aprile 1930 (Bernari raggiunge gli amici artisti Paolo Ricci e Guglielmo Peirce, che già sono nella “Ville Lumière” da qualche tempo), dobbiamo rivedere – e di molto – la tesi sulla scarsa                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               pp. 151–157; qui viene citato come UDA. La data 1928 nel punto 6, si riferisce alla fondazione del “Circumvisionismo”. Qui di seguito i nove principi base esposti all’inizio del Manifesto e poi elaborati in cinque brevi capitoletti ricchi di riferimenti alla cultura europea del primo Novecento: 1. Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è stata sempre rivoluzionaria. 2. L’arte essendo l’espressione del tempo, è moda, cioè cambiamento. 3. L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della simpatia. 4. È sbagliato dire, per es. che oggi bisogna concretizzare ciò che hanno creato i primi futuristi. I primi futuristi non hanno laciato niente d’incompleto, poiché le loro opere sono perfette in relazione al loro tempo. Sono perfette perciò in assoluto. L’imperfetto e l’incompleto in arte non esiste. In arte esiste la non arte. 5. I problemi che interessavano gli avanguardisti del 1909 sono lontani da noi perché sono lontani da noi gli anni 1909 etc. – e niente affatto perché I nostri problemi artistici siano più complessi. 6. Il 1929 è un nuovo momento storico, non solo differente dal 1909, ma finanche differente dal 1928; presuppone quindi una nuova espressione. 7. È sbagliato pensare che le realizzazioni artistiche che vanno mettiamo dai cubisti ai surrealisti possono servire oggi come esperienza. In arte l’esperienza non esiste poiché essa sorge dalla storia che è eternamente nuova. 8. La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte. 9. “L’arte è novità, la novità è arte” 15 È da segnalare l’importanza che verrà data al documento dell’Uda soprattutto in seguito come ha scritto Filiberto Menna per il quale il manifesto «non ebbe il rilievo che meritava e che avrebbe certamente avuto non dico a Parigi, a Monaco, a Berlino, ma anche a Roma o a Milano.»

Cfr. M ENNA F ILIBERTO , Un normanno a Napoli, in Paolo Ricci, Napoli, Electa, 1987, p.14

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diffusione delle idee del Manifesto U.D.A. Appena giunto a Parigi infatti Bernari, ventunenne, entra in contatto con André Breton e Ribemont –Dessaignes16. Racconta Bernari:

Avevo conosciuto Ribemont–Dessaignes e, insieme, Nino Frank, in una fredda e grigia stanzetta che affacciava su un interno di St.Germain – des – Près; era tutta lì la redazione della sontuosa rivista «Bifur»; dove il direttore mi riceveva con il cappotto indosso, un cappotto marrone dal taglio antiquato. Sulla sponda opposta Breton metteva la rivista del surrealismo al servizio della rivoluzione, per esserne ricompensato con l’espulsione dal Partito Comunista dopo il rifiuto di compilare un rapporto sulla situazione dei gasisti in Italia. “Pensate!” mi diceva furibondo “Io! Uno scrittore! Che ne so di quel che succede in Italia?” E io a rimproverarlo, che non avrebbe dovuto sottrarsi al compito. Chè sarei stato ben felice se qualcuno al mio paese avesse potuto chiedermi qualcosa di simile. Ero persuaso di dover invidiare quella libertà che consentiva a lui di respingere una richiesta, essa stessa affermazione di libertà.17

Il giovane scrittore napoletano incontra Breton proprio nel momento in cui l’artista, che aveva aderito nel 1927 al partito comunista francese, si stava staccando dal gruppo e mutava l’insegna della sua rivista da «Révolution surréaliste» a «Le Surréalisme au service de la révolution». La lettura delle opere di Breton lo suggestionano e gli fanno sentire attuali le riflessioni fatte a Napoli e confluite nel manifesto U.D.A.:

                                                                                                                16 Il legame del Manifesto con il Surrealismo è forte: nel 1930 Bernari vive alcuni mesi in Francia, dove un anno prima era uscita la ristampa del Manifesto del Surrealismo, a cura di André Breton.

I due scrittori entrano in contatto condividendo aspetti comuni alle rispettive formazioni: l’acuta insofferenza per i valori dominanti, l’esplorazione psicologica, l’attenzione alle nuove logiche del sogno, del caso, della contraddizione, il lavoro sul linguaggio e sulle sue molteplici potenzialità. Nel Manifesto del Surrealismo, a proposito del sogno, Breton riflette sul conflitto che coinvolge sogno e memoria: si «verifica una dispersione maggiore negli elementi costitutivi del sogno […]. Vorrei dormire per potermi confidare ai dormienti, come mi confido a quelli che mi leggono, ad occhi ben aperti.» B RETON A NDRÉ , Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 1987, p. 127. La dimensione onirica è uno degli aspetti più significativi della poetica di Bernari: uno dei momenti letterari più suggestivi del romanzo Tre operai è il finale “come in sogno”, attraverso la cui costruzione l’autore pone fine alla vicenda di Teodoro e dei suoi compagni non–operai. Proprio a questi ultimi si contrappongono con fermezza i tre operai “con le maglie a righe rosse” che salutano il lettore con una disarmante dimostrazione di tenacia e di resistenza, qualità estranee ai protagonisti dell’intera “menzogna” letteraria. 17

B ERNARI C ARLO , Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, pp. 225–6.

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[…] le opere [di Breton e Ribemont – Dessaignes n.d.r.] lette sul posto mi avevano impressionato in quanto le vedevo in linea con un surrealismo storico le cui radici affondavano nei Les Chants de Maldorol per un verso nei racconti del Poe nell’altro verso, ma più che altro ciò che mi impressionava era il filone dada che in un certo senso o forse in tutti i sensi era stato raccolto da quella parte distruttivistica che aveva ispirato l’Uda 1928–1929. Erano passati due anni dal manifesto Uda (forse tre) e mi toccava, lì sul vivo, sentirne ancora l’attualità.18

Fatto sta che i due celebri esponenti del surrealismo accolgono Bernari (e le tesi del manifesto udaista) con grande interesse, rispondendo anche epistolarmente ad una Inchiesta sul surrealismo che Bernari porta avanti con determinazione e giovanile entusiasmo: la corrispondenza di Bernari con Breton e Ribemont–Dessaignes è del gennaio–febbraio 193019. A testimonianza del particolare clima di amicizia e considerazione, nonchè di collaborazione, instauratosi tra Breton e Bernari, resta un frontespizio del Manifeste du surrèalisme che Breton stesso dedica così: «A Carlo Bernard, trés simpathique homage Andrè Breton février 1930».20 Considerando che contemporeaneamente a Parigi nei primi mesi degli anni Trenta si trovano anche Paolo Ricci e Guglielmo Peirce – quest’ultimo a matita realizza una sorta di autoritratto21 del terzetto di amici, confondendone e fondendone i lineamenti –, va da sé che i temi ancora caldi, “attuali” come riferisce Bernari, del Manifesto U.D.A. diventino una sorta di biglietto da visita per i tre giovani intellettuali. Un sodalizio che sembra pure rompersi a causa di uno screzio politico– artistico tra Bernari e Ricci22, ed anche per via delle tendenze omosessuali di Peirce che percepiva                                                                                                                 18 B ERNARI C ARLO , Risposte a un’intervista sul circumvisionismo, su “Tre operai” e sul soggiorno a Parigi, manoscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 9/482. 19 La lettera di André Breton a Carlo Bernari, datata Parigi 16 febbraio 1930, oggi presso il Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma, è stata pubblicata nel catalogo della commemorazione Roma Ricorda Carlo Bernari nel decennale della morte, Roma 2002. 20 Frontespizio del Manifeste du surrèalisme dedicato da Breton a Carlo Bernard in data “février 1930” (Collezione privata Enrico Bernard, Roma). 21 Il ritratto a matita firmato da Guglielmo Peirce riporta la data del marzo 1930. Collezione privata di Enrico Bernard, Roma. 22 Entrambi marxisti, Bernari e Ricci si sono confrontati per tutta la vita sulla politica. Bernari fu sempre animato da uno spirito indipendente, anarcoide, insofferente alle “direttive” o a seguire la linea dettata dal Partito. In questo caso lo screzio nacque sulla posizione di Andrè Breton che fu espulso dal Partito Comunista. In seguito, nel dopoguerra fino alla fine degli Anni Settanta proseguirono le diatribe ideologiche tra Bernari e Ricci. In particolare va ricordato il caso della richiesta di iscrizione al PCI del 1944 che Bernari stracciò in seguito ad incontro a Napoli tra Bernari e Togliatti, organizzato dallo stesso Paolo Ricci, in cui Bernari si vide “tagliato” dal Migliore parte del catalogo della Biblioteca del Marxismo da lui preparata. Togliatti fece infatti “saltare” numerosi autori perché non allineati o in “odore” di troskismo. Il viaggio a Napoli per incontrare il capo del PCI fu organizzato anche per discutere l’edizione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Anche in questo caso il dissidio tra Bernari e Togliatti fu totale, poiché Bernari

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una certa gelosia per le “parigine” frequentate dai due coetani. Comunque, le idee dei giovani distruttivisti–attivisti (che nel 1929 hanno trovato anche eco a New York) si diffondono negli ambienti intellettuali parigini23. E parlando dell’influenza più o meno diretta che l’udaismo esercitò,                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               comprese che il dirigente comunista voleva in qualche modo adattare il pensiero gramsciano alle linee del partito. Su questo argomento vedi: Dario Fertilio, Togliatti censore: correggete Gramsci, sul «Corriere della Sera» del 2 febbraio 1996, p. 3. L’articolo, che contiene alcune pagine del diario di Bernari, è stato ripreso da Luciano Canfora, sempre sul «Corriere della Sera» il 5 dicembre 1996. La questione della “organicità” al partito dell’intellettuale, rappresenta sempre un punto di dissidio tra gli amici Bernari e Ricci che fu sempre militante e collaboratore anche dell’organo stampa del PCI, il quotidiano «l’Unità». Ma è interessante notare che il punto 10 del III paragrafo del Manifesto udaista prende le distanze dal “realismo socialista” e dall’Unione Sovietica. Vale la pena di ricordare che siamo nel 1929 e il mito stalinista è ancora in auge. In questo paragrafo del Manifesto, testo sul quale Bernari si confronterà fino alla Primavera di Praga col piü “allineato” e “organico” Paolo Ricci, infatti si legge: «I Sovieti, che accettarono le teorie avanguardiste prodotte dall’esasperazione dell’idealismo individualista, oggi negano il loro carattere rivoluzionario valutandole come reazionarie e borghesi; e si orientano verso un puro realismo. Essi credono nel realismo come constatazione dell’oggetto in sé; e impiegano razionalmente gli artisti ai loro bisogni di propaganda sociale. I Sovieti sono perciò i più vicini all’annullamento completo dell’arte. Questo movimento non è un ritorno alle vecchie estetiche: è l’eliminazione volontaria dell’estrema arte individualista. (Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro sel sesso, anche il realismo è soggettivismo). I Sovieti, che considerarono il soggettivismo come arte borghese, cadono in essa con lo stesso realismo.» B ERNARI, R ICCI, P EIRCE, Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, sta in C APOZZI, Bernari tra Fantasia e Realtà, cit., p. 155. Il tema del rapporto soggettivo, “emotivo” o “emozionale, con la realtà per la nascita di una “nuova arte” trova riscontro nelle letture del giovane Bernari, in cui emerge il materialismo “sensibile” di Feuerbach e la filosofia erotica di Von Baader. Bernari descrive il manoscritto de Gli stracci (la versione del 1929–31 di Tre operai) ritrovato da lui nel dopoguerra, segnalando: «[...] una pagina bianca, un’epigrafe tolta dal Sistema della natura del d’Holbach che dice il mio ingenuo materialismo di allora: Se si consultasse l’esperienza in luogo del pregiudizio, la medicina fornirebbe alla morale la chiave del cuore umano; e, sanando il corpo, si avrebbe qualche volta la certezza di sanare lo spirito.» B ERNARI, Nota 65, postfazione a Tre operai, cit., p. 238. Recentemente ho rinvenuto un inedito manoscritto di Bernari, iniziato nel 1929 e proseguito nel 1932, intitolato 32 pensieri sulla paura in cui il rapporto oggetto–soggetto viene analizzato in una serie di aforismi alla luce del concetto di paura, che scaturisce dalla sensibilità feuerbachiana. Cfr. B ERNARD E NRICO , Bernari tra natura e paura con la trascrizione dei 32 pensieri sulla paura di Carlo Bernari, in «Forum Italicum», New York, vol. 42 Nr. 2, 2009, pp. 403–15. In una risposta all’Inchiesta sul neorealismo di Carlo Bo, Bernari parla di uno scambio incessante tra il soggetto e il mondo, in cui anche le opere dello spirito – quei prodotti della fantasia che Feuerbach considerava prodotti della natura – sono destinate ad ingrossare le acque dell’esistenza e a modificarne il flusso. Bernari usa la metafora di un «mare pauroso e mutevole» per alludere a uno scambio incessante tra il soggetto e il mondo, in cui anche le opere dello spirito – quei prodotti della fantasia che Feuerbach considerava prodotti della natura – sono destinate ad ingrossare le acque dell’esistenza e a modificarne il flusso. Cfr. B O C ARLO , Inchiesta sul neorealismo, Torino, Eri Edizioni Rai, 1951, p. 56. Queste considerazioni comportano ovviamente la necessità di una revisione critica completa del-l’interpretazione del neorealismo che, fin dalla sua nascita, non rappresenta principalmente una forma letteraria che si evolve dal “realismo” o dal “verismo”, ma piuttosto un rifiuto del “realismo”, come arte borghese, in nome del materialismo feuebachiano; e, successivamente, ecco la nascita di Tre operai, del materialismo storico attraverso un percorso di ricerca artistica ed estetica di ricerca del rapporto tra individuo e la “sua” realtà interiore/esteriore. 23

A Parigi il 25 maggio del 1929 intanto esce il primo numero della rivista «Bifur», che apparve con frequenza bimestrale fino al 31 dicembre del 1929 e poi ancora, in maniera più altalenante dal 30 aprile del 1930 al 10 giugno del 1931. Malgrado Breton la qualificasse “remarquable poubelle”, fu senz’altro una delle più belle e ricche riviste dell’epoca, aperta alle esperienze culturali internazionali. La tiratura della rivista fu per i primi 4 numeri di 3.000 copie, per i numeri 5–6–7 di 2.000, e per l’ultimo numero di 1.700 copie. La rivista era pubblicata dalla Edition du Carrefour con sede a Parigi in Boulevard Saint–Germain,169; direttore della rivista era Pierre G.Lèvy, redattore capo George

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indipendentemente dalla sua fortuna letteraria, va pur detto che in questo contesto, fra Parigi e New York, nacque la sceneggiatura di Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin, film la cui genesi ideologica e artistica risale al 1933–34. Naturalmente non si può stabilire una relazione diretta tra la critica della “macchina industriale”, di cui Bernari–Ricci–Peirce nel 1929 evidenziano, contro l’esaltazione del futurismo, la mostruosità estetica ed esistenziale, e la tragica farsa dell’omino chapliniano incastrato dalla e nella catena di montaggio. Certo è che se l’aria del tempo si respira nel capolavoro di Chaplin, ad accendere il fuoco sotto la pentola a pressione della critica del “progresso” sono stati, “last but not least”, anche i tre giovani distruttivisti–attivisti napoletani! Tant’è vero che questa forma di critica assumerà più i connotati di una reazione di paura individuale al progresso industriale che un tentativo di dominazione economico–sociale di esso, insomma: più Feuerbach, con la sua teoria della sensibilità individuale e della determinazione materialistica– naturalistica delle percezioni, che analisi storica propria del marxismo. Ed è proprio il concetto di “paura”, intesa come forma della sensibilità moderna, a collegare l’omino chapliniano tragicomicamente straziato dalla macchina industriale, ai primi scritti filosofici di Bernari contemporanei alla stesura finale di Tre operai del 1932. Mi riferisco ai 32 pensieri sulla natura/paura che ho ritrovato nell’archivio di famiglia nel 200424.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Ribemont –Dessaignes e a partire dal secondo numero Nino Frank è segretario di redazione. Frank era anch’egli un napoletano, di padre svizzero tedesco, rimasto fortemente attratto da Parigi come del resto Bernari e gli altri giovani del tempo che volevano allargare i propri orizzonti letterari e sfuggire alle miopie politiche, sociali e culturali del fascismo. Nino Frank, in particolare trasferirà il suo incarico di segretario di redazione direttamente da «’900» a «Bifur» dove il suo ruolo sarà ufficializzato a partire dal secondo numero, mentre già a partire dalla prima uscita e fino all’ultimo numero il consiglio di redazione interamente straniero sarà formato da: Bruno Barilli, Gottfried Benn, Ramon Gomez de la Serna, James Joyce, Boris Pilniak e William C. Williams. Grazie a un comitato così composto la rivista renderà facili i suoi contatti con l’Italia, la Spagna, la Germania, la Russia, l’America, l’Inghilterra, con reportages, lettere e racconti che permetteranno di offrire al lettore un visione ampia del mondo. Con la redazione di «Bifur» Bernari viene a contatto quasi subito recandosi in Boulevard Saint– Germain, nella redazione della rivista francese, e, analizzando la rivista, i contributi dei suoi redattori risultano evidenti le influenze tematiche e stilistiche che esse operarono nella formazione di Bernari. Nino Frank diventerà l’amico parigino dei giovani scrittori italiani, intermediario culturale di rilievo tra Roma e Parigi, traduttore importante ediffusore, attraverso le sue influenze e conoscenze negli ambienti letterari, delle opere italiane di cui cercherà di ottenere la pubblicazione. 24

I 32 pensieri sulla natura/paura di Carlo Bernari sono stati pubblicati a mia cura e con mia prefazione su «Forum Italicum». Cfr. B ERNARD E., Bernari tra paura e natura, «Forum Italicum», cit., p. 403–15. Il rapporto tra realtà e paura viene sviluppato da Bernari su un piano teorico, oltre che narrativo, con l’elaborazione del concetto di “realtà della realtà”, in particolare nel saggio L’arte è paura, ovvero la realtà della realtà raccolto in Non gettate via la scala ma scritto diversi anni prima come revisione nei “pensieri” del 1932. Nel saggio Bernari pone la questione del “mistero”: «Mentre ciò che costituisce il vero problema di ogni discorso intorno all’arte è rintracciare quel filo di Arianna che può aiutarci ad attraversare il labirinto, fino alla paura, essenza della realtà, realtà della realtà». B ERNARI, in Non gettate via la scala, cit., pag 67.

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La critica – non solo letteraria, tranne alcune eccezioni che segnalerò subito, ma anche e soprattutto gli storici e studiosi di arti visive e cinema, – ha fino ad ora sottovalutato o ignorato l’importanza di questo documento. Non se ne è parlato fino alla fine degli anni ‘70, quando Rocco Capozzi ha pubblicato una fondamentale analisi del Manifesto in relazione alla genesi del neorealismo 25 . Recentemente Capozzi ha riproposto il problema dell’amnesia della critica italiana:                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Cfr. anche C APOZZI R OCCO , Paure e ombre nel primo Bernari, in «Rivista di Studi Italiani», Anno XXVI, nr. 2, dicembre 2008, pp. 75–104. 25 Cfr. C APOZZI R OCCO , Arti visive e Nuova oggettività, sta in «Forum Italicum», anno 2001, nr. 1, pp. 140–62. Capozzi esamina la presenza degli elementi figurativi nelle prime opere di Carlo Bernari. Attraverso questa analisi, Capozzi intende dimostrare come l’esperienza narrativa di Bernari vada collocata al centro di una cultura europea che

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Dal 1972, vale a dire, a cominciare dalla mia intervista apparsa in parte in Italianistica nel 197526 ho sostenuto che una conoscenza degli interessi artistici di Bernari è essenziale per poter valutare la funzione simbolica dei colori e dei giochi di luce e di ombre che abbondano nelle sue opere dal 1929 fino al primo dopoguerra. Purtroppo, anche nelle pagine dei pochi critici che hanno ricostruito la formazione culturale di Bernari sono scarsi i riferimenti alla maturazione artistica e letteraria del giovane scrittore che seppe cogliere “il polline” culturale che viaggiava nell’aria di quell’epoca27. L’autore era conscio di queste lacune nei suoi critici e nella Nota ‘65 decide di segnalare ad esempio che Guido Piovene, nella recensione di Tre operai menzionava come dalle pagine di questo romanzo traspaiano la luce e i colori di Mario Sironi. Immagino che Piovene si sia soffermato su tantissime descrizioni di paesaggi urbani e periferici che abbondano nei primi capitoli di Tre operai [...]28

Ma ci sono voluti altri trent’anni prima che la lacuna critica lamentata e documentata da Capozzi fin dal 1972 tornasse in discussione: Francesca Bernardini, nella prefazione all’edizione Oscar Mondadori del 2005 di Tre operai, ribadisce l’importanza del Manifesto UDA: Nel ‘29 il Manifesto di fondazione dell’UDA [...] costituisce già nel taglio critico e polemico un punto d’arrivo e fornisce le basi su cui si preciseranno la poetica e l’ideologia dello scrittore: nonostante l’affermazione dell’arte come [...] afferma che l’arte è storico, assume una posizione e responsabilità politiche ben precise, propugna una concezione materialistica della vita e dell’arte; è antiidealistico e anticrociano, rifiuta l’ideologia futurista, in particolore l’attivismo e la , guarda con interesse alla psicanalisi, al surrealismo, alla Neue Sachlichkeit tedesca, sottopone a critica il realismo sovietico e si ispira al costruttivismo, in particolare per il funzionalismo in senso socialista e per il possibile sviluppo di un realismo critico in cui sono centrali i temi della città e dell’industria.29                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               certamente include le avanguardie napoletane legate ai manifesti “Circumvisionismo” e “UDA”, ma che allo stesso tempo abbraccia i movimenti tedeschi dell’espressionismo e del “nuovo oggettivismo”, il surrealismo francese, e l’arte metafisica italiana. Per Capozzi, la formazione culturale e interdisciplinare dell’autore ha un ruolo di estrema importanza sia nella composizione di Tre operai, l’opera forse più rappresentativa tra i cosiddetti romanzi capostipiti del Neorealismo, sia nelle opere successive, almeno fino a Speranzella. 26 Il proprio saggio cui Capozzi si riferisce è stato citato nelle pagine precedenti. 27 «Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno nei libri e nei film. Credevamo di essere fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella cultura ci ispirava”; “le idee viaggiano nell’aria come il polline e una coscienza avvertita sa sempre da dove spira il vento giusto”». B ERNARI, Nota ‘65, cit., p. 251. 28 C APOZZI R OCCO , Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, in «Rivista di Studi italiani», Anno XXVI, n° 2, Dicembre 2008, pp. 50–74. 29 B ERNARDINI F RANCESCA , Introduzione a «Tre operai», Milano, Mondadori, 2005, p. xxx.

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È allora di tutta evidenza che, se si intende fissare una data ed un episodio di partenza del neorealismo, non è possibile ignorare il Manifesto UDA del 1928–29. Esso viene, certo, a rompere le uova nel paniere di una critica ormai assuefatta allo schematismo accademico, che considera il neorealismo cinematografico del dopoguerra come una innovazione, peraltro con forti margini di autonomia, del protorealismo letterario dei primi anni ‘30. Il quale, a sua volta, sarebbe una diretta conseguenza del filone realistico–veristico derivato da Manzoni e Verga. Questa impostazione, fuorviante, se non addirittura erronea, potrebbe essere nata anche da un gigantesco equivoco provocato in prima battuta da un critico, Emiliano Zazo, che, nel 1934, recensendo Tre operai con lo pseudonimo di “Aristarco”, si avvalse del termine “neo–verismo” 30 per ridimensionare l’innovazione stilistica del romanzo d’esordio di Bernari. Non c’è qui lo spazio per affrontare la questione della reazione della critica letteraria – peraltro resa nervosa anche dal fatto che il fascismo intuì con qualche ritardo e tentennamento la novità e pericolosità dell’opera e impose il silenzio31 con una velina di Mussolini solo a cose fatte – alla pubblicazione di Tre operai. Va comunque detto che il romanzo fu spiazzante per le posizioni del tempo32, in quanto promotore di una nuova forma, – anticalligrafica ed anticipatrice delle tecniche narrative cinematografiche, oggetto di questa analisi, – finalizzata all’espressione di un nuovo contenuto: non più l’operaio mitizzato dal realismo fascista o dal realismo sovietico, ma la figura tipica del giovane esponente di una classe allo sbando e priva di prospettive politiche, economiche, sociali e culturali. Mi riferisco ovviamente al giovane rivoluzionario fallito (Teodoro) di Bernari, ma anche al giovane borghese intorpidito de Gli indifferenti (1929) che dimentica di caricare la pistola (Michele) di Moravia, o a Gente in Aspromonte (1927) di Alvaro, in cui Antonello, il figlio del pastore Argirò che subisce le angherie della famiglia Mezzatesta, è come predestinato ad una ribellione priva di conseguenze sociali. Una linea narrativa, quella del protagonista ribelle e soccombente, che segnerà il percorso principale della letteratura italiana                                                                                                                 30

“Aristarco” (E. Zazo), Un neo–verista: Carlo Bernard, in «L’Italia Letteraria» X, 14, 8 aprile 1934. La recensione peraltro non positiva di Piero Pancrazi fu bloccata in redazione al «Corriere della Sera» e pubblicata postuma su «Il Ponte» nel 1956. 32 I contenuti letterari e politici che avevano alimentato la polemica sulla “intelligenza” e la “umanità” nell’arte, si riproposero all’inizio degli Anni Trenta nella polemica tra “contenutisti” e “calligrafi”: i contenutisti accusavano dalle pagine di riviste filofasciste come «Il Saggiatore» e «Oggi», i calligrafi di difettare di eticità e di umanità e di risolvere il loro atteggiamento di indifferenza morale e politica nel culto del bello stile e della bella pagina; nella lora schiera figurano quegli scrittori e intellettuali che attribuivano alla nozione di realismo la funzione di rappresentare la nuova Italia mussoliniana, ora in maniera conformistica ora in maniera critica, ma comunque in aperta contrapposizione con quell’altra tendenza ad una letteratura di contenuti, affermatasi già alla fine degli Anni Venti. Cfr. B ERNARDINI, Introduzione a «Tre operai», cit., p. XL. 31

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dall’Ortis di Foscolo fino ad Emmaus (2009) di Alessandro Baricco.33 Non si è quindi lontani dal vero sostenendo che la forma originaria del neorealismo e, aggiungerei, del susseguente filone contemporaneo definito “neo–neorealismo”, è formalmente e contenutisticamente determinato dal tema della ribellione e della sconfitta del personaggio giovane che non trova individualmente sbocchi nella società borghese. Questa tendenza avvicina contenutisticamente il primo neorealismo degli anni 1928–1934 agli sprazzi di rivolta romantica contro la società borghese (Ortis, Werther ecc.) di fine ‘700 e primi ‘800, con due sostanziali novità per quanto riguarda Bernari: la forma narrativa che si arricchisce dell’esperienza e delle suggestioni delle arti visive e, a livello di contenuto, l’ambiente dello sfruttamento e dell’alienazione moderna dell’uomo, ossia la fabbrica. Il neorealismo così rappresenta innanzitutto una innovazione formale nettamente distinta dal verismo (basti solo pensare che gli scrittori del primo neorealismo sono marxisti e rivoluzionari, al contrario dei predecessori Manzoni e Verga che sono conservatori e cattolici): non è più in discussione, insomma, la rappresentazione di un contenuto sociale, ma la sua critica (rivoluzionaria). Dunque, siamo alle prese con una “forma rivoluzionaria”, quella appunto del neorelismo. È lo stesso Bernari ad anticipare a Za, il 21 febbario 1933 da Roma, l’imminente spedizione del dattiloscritto con una lettera esplicita a proposito del nuovo rapporto forma e contenuto proposto dal romanzo: Carissimo Zavattini, sei troppo buono tu, coi tuoi pensieri e le tue preoccupazioni, a chiedermi il romanzo in lettura. Mi convinco ora, più che mai, che il tuo spirito di sacrificio non ha limiti. Sobbarcarti la fatica e la pena di leggere un lavoro di cui non conosci che pochi pezzi letti sui giornali34, significa per me un grande segno di amicizia! Ti spedirò il volume tra qualche giorno, appena ossia avrò terminata l’affrettata correzione, che comincerò domani stesso. Non so questo libro come potrà sembrarti dal punto di vista puramente estetico. Non per mettere le mani avanti, ma per chiarire la sua funzione in questo ambiente e in questo mo–mento, vorrei dirti alcune cose: credo che la parte, diciamo così ‘program–matica’, abbia inficiato il suo significato puramente lirico. Chi infatti lo giudicasse coi metri dell’estetica idealista, lo troverebbe certamente arido e senza respiro; chi o giudicherà invece – come potrai farlo tu, per la posizione che hai                                                                                                                 33 Sul tema dell’antiromanzo di formazione nella letteratura italiana vedi la mia conferenza tenuta presso il Romanisches Seminar dell’Università di Zurigo il 27 novembre 2009. Cfr. B ERNARD E NRICO , Ortis, Teodoro, Andre: tre protagonisti dell’anti–romanzo di formazione, in «Avanguardia», nr. 1, gennaio 2010. 34 Bernari si riferisce ai brani del romanzo pubblicati su «L’Italia vivente» e su «Il Tevere» nel 1932.

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assunto nella letteratura italiana – fuori delle file del crocianesimo, tenendo d’occhio, ossia prima che l’ispirazione lirica, la sua funzione etica e politica, potrà forse – dico: forse! – trovarvi qualche cosa di buono; potrà forse vedere nella sua aridezza il mezzo più onesto per il fine che la mia posizione ideologica mi consentiva raggiungere. Non vorrei adesso accodarmi al treno della retorica corrente attorno ad un’arte a contenuto sociale; ma penso, dal mio modesto punto di vista – senza per questo voler dar spago ai gazzettieri che si sono messi a strombazzare ai quattro venti la necessità di un’arte sradicata dal terreno della lotta economica e politica, è un bel fiore di cartapesta: avrà colori smaglianti, ma saprù sempre d’anilina, potrà essere profumato, ma sentirà sempre di morto. Mi consolo di una cosa: ripensare al tuo nuovo libro.35 Zavattini raccoglie subito il messaggio in bottiglia dell’amico e lo decifra con l’estrema sintesi e schiettezza che gli sono propri. Così risponde nel giro di pochi giorni: Carissimi [...] Vi abbraccio, vi saluto e aspetto il manoscritto di Bernard. Vedo Peirce impegnato in polemiche (grave che non mi ha scordato, tanto più che la “contemporaneità” di quelli che sono stati chiamati umoristi non viene considerata. Errore enorme). Presto vi scriverò dicendovi alla buona le mie idee su queste polemiche. In linea generale manca la buona fede. Il perché di tanta confusione è lì, di tanti accomodamenti, ecc. ecc. e sfugge quello che a me pare “il fatto” più importante: una nuova generazione. Le discussioni con i contenutisti e formalisti non poteva trovare un articolo più memorabilmente sciocco, cieco per noi giovani di quello di Gargiulo su ‘Espero’.36 Zavattini coglie nel segno, come se avesse percepito che il materiale letterario che sta per                                                                                                                 35 Lettera dattiloscritta, con correzioni e firme manoscritte, pubblicata in Carlo Bernari, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini cit. pp. 215–217, datata Roma, 21 febbraio 1933 (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia). Bernari risponde a una cartolina postale di Zavattini (datata 20. 2. 1933, Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma, pubblicata in questa sede nel capitolo dedicato al teatro), nella quale “ZA” oltre a comunicare la probabile pubblicazione di una novella, chiede per la prima volta il manoscritto di Tre operai in lettura, espone il progetto del suo nuovo romanzo, raccomanda agli amici «di stare vicino a Betti». 36 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard–Peirce/ via 4 Fontane 4/ Roma, data del timbro postale (Milano, 1. II. 33), inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). Nelle lettere di Zavattini sono frequenti anacoluti e piccoli errori grammaticali, dovuti ad una scrittura rapida e spesso arzigogolata con aggiunte e ripensamenti. G ARGIULO A LFREDO , Profondità, in «Espero», anno II, n. 1, gennaio 1933, p. XI. In questo articolo Gargiulo sembra prefigurare e anticipare l’atteggiamento ostile nei confronti del nuovo realismo di Bernari che assumerà la critica istituzinale all’indomani della pubblicazione di Tre operai. Gargiulo sostiene che «l’umanità con la quale il neorealismo andrebbe ridando sostanza a questa nostra letteratura – sino a ieri come dicono, troppo formale – deve consistere unicamente in una maggiore profondità psicologica[...]», e prosegue con un confronto tra il verismo che «intendeva cogliere la genuina sostanza umana, soprattutto attraverso i primordiali istinti» e il neorealismo «che va in cerca della più ricca umanità, scendendo più giù ancora, dove non troverà mai nulla, dato che laggiù, in quella zona del passivo, le figure, le persone, addirittura non si formano» e così termina il suo articolo deducendo che «l’inconsistenza e la disperata uniformità delle persone, tutte eguali, porta il neorealismo a presentare un abulico.»

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giungergli sarà estremamente innovativo; e finirà col confondere le carte in tavola dell’ormai annoso e sempre più fumoso dibattito pro e contro uno sterile formalismo (la bella pagina) o un ottuso contenutismo (il realismo fascista). Bernari in effetti già rappresenta agli occhi di Za, che ha letto solo alcuni brani dell’opera su alcune riviste, il “fatto importante” di cui parla nella lettera agli amici: una nuova generazione in grado di elaborare un nuovo modo (forma) di rappresentare criticamente la realtà–contenuto. In tono scherzoso, ma non tanto, Zavattini comunicherà a Bernari dopo l’uscita del libro una serie di iniziative promozionali e pubblicitarie della redazione Rizzoli, tra cui

una spiritosa

provocazione tipicamente zavattiniana: «Manderò una poderosa colonna con tutti i giudizi all’Italia letter. [aria] quanto prima con scritto grosso: forma o contenuto?»37 Il fatto è che il “contenuto” sociale, nel caso di Bernari la fabbrica e la condizione operaia, ha finito per abbagliare i lettori poco attenti che, spesso e volentieri, hanno sottovalutato l’importanza, sotto il piano formale, del romanzo d’esordio di Bernari. Importanza che va fatta risalire alla fase preparatoria teorica della fine degli anni ‘20 e all’impostazione e redazione del Manifesto UDA, il cui scopo principale è quello di creare un’arte nuova, rivoluzionaria, in virtù dell’apporto sinergico di tutte le arti.38 Il concetto di opera d’arte totale è d’altronde il tema dominante del primo scorcio del ‘900. Nel tratteggiare il difficile percorso dell’arte totale è assolutamente necessario ricordare almeno Depero e Balla per la “fusione totale” capace di dare «scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile», Schreyer per l’arte scenica che “nasce organismo”39, Schwitters per il tentativo di fondare il “Gesamt-kunstwerk”, l’arte di tutte le arti; Moholy–Nagy per il richiamo alla “fusione delle arti”; e poi Gropius per il “teatro comunità”; e non                                                                                                                 37  Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard/4 Fontane 4 / Roma, data del timbro postale, Milano 29. II. 1934, pubblicata in Tre operai a cura di Francesca Bernardini, cit. p. 234 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).   38 «In Tre operai si nota chiaramente l’intenzione di drammatizzare ambiente e personaggi tramite la luce (sia solare che lunare), le ombre, i colori, le nubi, la pioggia, il vento e l’inquinamento per far risaltare in primo piano le senzazioni inquietanti, quali il pessimismo, l’attesa e la paura, che affliggono la società. Con i suoi taglipittorici Bernari vuole mettere in risalto delle immagini che vanno al di là dell’immediato realismo della rappresentazione dell’ambiente. E questo potrebbemessere il fattore principale che rende la sua narrativa troppo concettuale esperimentale e meno realista per i critici che si aspettavano realismo e impegno dagli autori della cosiddetta era neorealista.» C APOZZI, Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, cit., pp. 56–7.

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ultimo Piscator per il “teatro politico” in cui “architettura e drammaturgia si determinano a vicenda”40. Questo “spirito del tempo”, come si è detto, assume dunque un ruolo centrale nella formazione artistica e nella visione del mondo del giovane Bernari, la cui “forma mentis”, il back ground culturale, è determinata da una visione del mondo aperta a 360 gradi sul connubio e partecipazione sinergica all’atto creativo, – sia pur letterario – la cui componente ideologica, politica, lo trasforma in un atto rivoluzionario tout–cour: non c’è azione artistica senza rivoluzione e non c’è rivoluzione senza un’altra rivoluzione con cui rivoluzionare la rivoluzione stessa. Questa visione del mondo sarà la costante ideologica di tutta l’attività letteraria di Bernari, fino ad uno degli ultimi romanzi dal titolo emblematico Tanto la rivoluzione non scoppierà41. Un romanzo, terzultimo della sua produzione letteraria, che Bernari stesso in una intervista alla Rai42 ha definito come la prosecuzione e conclusione di Tre operai proponendo un suggestivo confronto tra i due protagonisti delle rispettive opere, Teodoro Barrin e Elio Denito. I quali sarebbero sostanzialmente uno la prosecuzione dell’altro nella visione di un grande fallimento del mito rivoluzionario incarnato, prima dal Barrin operaio fallito, e poi dal suo "doppelgänger": l’intellettuale meridionale che esporta e sperde nelle nebbie del nord opulento, venendone risucchiato e corrotto, la sua rabbia e desiderio di rivolta sociale. Torniamo però a considerare il piano formale, sinergico, che, al di là di ogni sterile e obsoleta polemica sul “calligrafismo–contenutismo”, si rivela essere fin dall’inizio al centro degli interessi dello scrittore nella ricerca di un nuovo modo di strutturare la rappre-sentazione critica del reale.43                                                                                                                 40 B ALLA –D EPERO , Ricostruzione futurista dell’universo, in «Archivi del futurismo», a cura di M. Drudi Gambillo e T. Fiori, Roma, De Luca, 1958, vol. I, p. 59. M OHOLY –N AGY L AZLÒ , Pittura Fotografia Film, Einaudi, Torino, 1987, pp. 15–16. S CHREYER L OTHAR , Das Bühnenkunstwerk, in Expressiunismus, Die Kunstwende, a cura di R. Walden, Berlin 1918, in C HIARINI P AOLO , Caos e geometri, La Nuova Italia, Firenze, 1964, p. 117. G ROPIUS W ALTER , I compiti del teatro del Bauhaus, in O. Schlemmer, L. Moholy–Nagy, F. Molnar, Il teatro del Bauhaus, Torino Einaudi, 1981, p. 191. P ISCATOR E RWIN , Il teatro politico, Torino, Einaudi, 1975, pp. 87–88. cfr. anche T RIMARCO A NGELO , Opera d’arte totale, Roma, Sossella, 2001, pp. 21–33. 41 Cfr. B ERNARI C ARLO , Tanto la rivoluzione non scoppierà, Milano, Mondadori, 1976. 42 Intervista a Carlo Bernari, in Un autore una città, a cura di Anna Benassi, programma televisivo della Rai, 1978. L’intervista è stata raccolta in Un autore una città, Torino, Edizioni Eri–Rai 1991. 43 Cfr. B ERNARI C ARLO , Thomas Mann e noi, sta in Non gettate via la scala, cit., pp. 177–202. In questo saggio Bernari sottolinea l’importanza dell’elemento “critico” del reale rappresentato da qualsiasi arte fondata sul linguaggio

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In effetti, l’aspetto formale dell’opera d’arte è un tema centrale del dibattito culturale del tempo fin dagli inteventi di Luigi Pirandello44: esso non può e non deve essere confuso con la rivendicazione neocrociana della “bella pagina”. Il problema della forma rientra in quel campo etico cui Bernari accenna nella lettera a Za del 1933, al di là di ogni considerazione contenutistica. Insomma, per rappresentare la realtà, un contenuto, bisogna prima avere un’idea “rivoluzionaria” sul “come” farlo45. Del resto, gli stessi autori, considerati artefici e protagonisti del neorealismo italiano, hanno ripetuto, fin dai primi anni ‘50, che non basta la descrizione di un ambiente sociale, non basta l’engagment politico–ideologico, non basta il documentarismo, cioè la “rappresentazione della realtà vera”, così com’è, a trasformare un’opera d’arte in opera neorealista. Lo dice chiaramente Zavattini in un convegno del 1953: Il cinema neorealista è la forma del cinema italiano che risponde ai bisogni, alle esigenze, alla storia degli italiani in questo momento [...] Ci sono dei film più o meno felici nell’ordine sociale. C’è un film di straordinaria intelligenza come Le vacanze del signor Hulot ma non è neorealista, di neorealista ci sono i pensieri [...] Le opere neorealiste non possono essere che nel corso [...] che si deve percorrere per avvicinarsi alla realtà [...] Voglio dire che c’è una posizione, un atteggiamento verso la vita che non si limita al fatto così detto artistico, ma fa diventare idoneo il fatto artistico, idoneo secondo le attuali necessità storiche [...].46

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              riprendendo il concetto dal Saggio su Lessing di Thomas Mann. Cfr. M ANN T HOMAS, Saggi e scritti, Milano, Mondadori, 1958. 44 «Chi concepisce la tecnica come alcunché d’esteriore, cade precisamente nello stesso errore di chi concepisce come alcunchè di esteriore la forma. La tecnica è il movimento libero spontaneo e immediato della forma [...] Chi imita una tecnica, imita una forma, e non fa arte, ma copia, o artificio meccanico.» P IRANDELLO L UIGI, Arte e scienza, in Saggi e interventi, Milano, Mondadori, Meridiani, 2006, p. 692. 45 Nella Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino esprime chiaramente la problematica della forma ponendola al centro della poetica neorealista: «[...] Mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere [...] mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quelli oggettivi che passavamo per essere [...] Il neorealismo per noi che cominciammo di lì, fu quello [...] Perché chi oggi ricorda il neorealismo soprattutto come una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione: in realtà [...] tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che per noi era il mondo.» C ALVINO I TALO , Prefazione 1964 a Il sentiero die nidi di ragno, in Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori Meridiani, 2003, pp. 1186–7. 46 Z AVATTINI C ESARE , Il neorealismo secondo me, relazione al Convegno sul neorealismo tenuto a Parma il 3, 4, 5 dicembre 1953 (pubblicata in «Rivista del Cinema italiano», a. III, n. 3, marzo 1954, poi in Neorealismo ecc. a cura di Mino Argentieri, Milano Bompiani, 1979. Ia citazione è ripresa dall’antologia: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milanini, Milano, Il Saggiatore 1980, p. 177.

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Il pensiero di Zavattini viene poi ripreso da Federico Fellini che, in un intervento sotto forma di lettera aperta a Massimo (Mida)47 del 1955, deve difendere La strada dagli attacchi della critica marxista italiana:

Caro Massimo, ho letto con viva attenzione la tua lettera48, come ho letto gli articoli di alcuni critici di sinistra, ai quali ti accordi, e spero vorrai accettare la mia franchezza se ti dirò che le vostre critiche, o meglio i vostri rilievi, non mi sembrano persuasivi [...]

E dopo aver difeso La strada dalle accuse di “monadismo”e di “individualismo”, Fellini chiarisce ulteriormente la sua posizione intorno al neorealismo:

Secondo me il processo storico, che l’arte deve, certamente, scoprire, assecondare e chiarire, si svolge in dialettiche assai meno limitate e particolari, assai meno tecniche e politiche, di quanto voi credete: a volte, un film che, prescindendo da riferimenti più precisi a una realtà storico–politica, incarna, quasi in figure mitiche, il contrasto dei sentimenti contemporanei in una dialettica elementare, può riuscire tanto più realistico di un altro dove ci si riferisca a una precisa realtà social– politica in cammino.49

Da questi interventi risulta evidente che l’incomprensione tra autori e critici, da cui scaturì quella polemica degli anni ‘50–’60 intorno al neorealismo (di cui – non riuscendo a giungere ad una definizione soddisfacente – poi si preferì teorizzare la morte prematura, tanto per far sparire col cadavere – del neorealismo – anche l’ipotesi di delitto perpetrato dalla critica), riguarda appunto l’errore di partenza: quello di considerare il genere neorealista sotto l’aspetto del “contenuto” e non della “forma” come altresì suggerito a gran voce dagli artisti stessi. A cominciare dallo stesso Bernari che in Questioni sul neorealismo scrive:

                                                                                                                47 F ELLINI F EDERICO , Neorealismo, sta in «il Contemporaneo», a. II, n. 15, 9 aprile 1955. La citazione è tratta da: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche , cit., p. 196. 48 M IDA M ASSIMO , Lettera aperta a Federico Fellini, sta in «Il Contemporaneo» a. II, n. 12, 19 marzo 1955. 49 F ELLINI , Neorealismo, in Neorealismo poetiche e polemiche, cit., p. 200.

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Un contenuto artisticamente parlando può risultare prevedibile, quanto invece imprevedibile deve essere la forma in cui si manifesterà; tutto alla fin fine è contenuto; quel che non è, per definizione, contenuto, può diventare tale appena rivelato sul piano estetico da rifluire sulla stessa realtà da cui proviene e modificarla.50 Naturalmente la critica ha dovuto fare poderose marce indietro, rimangiarsi giudizi ridicoli (la quasi stroncatura de La strada di Federico Fellini ne è un classico esempio, ma se ne potrebbero aggiungere altri come le diffidenze dei “compagni” e l’ostracismo dei conservatori contro il regista Giuseppe De Santis51). Ma questa marcia indietro, innestata senza tener conto dell’avvertenza di Pirandello che l’arte è forma e non contenuto, ha cozzato nuovamente contro i paletti della letteratura: si è così cominciato a parlare, nell’immediato dopoguerra, di un “incunabolo” neorealista a proposito della letteratura dei primi anni ‘30. In modo particolare si è usato il romanzo Tre operai del 1934 di Carlo Bernari per quella subdola mistificazione del neorealismo in chiave contenutistica. Tutto ciò nonostante le ribellioni di Bernari e di altri autori che mai accettarono di essere considerati “neorealisti”, tantomeno “proto” – se per neorealismo si doveva intendere il prevalere del “contenuto”, l’impegno sociale, sulla “forma” rivoluzionaria dell’opera d’arte. Certo, Tre operai fin dal titolo, pareva rappresentare la riprova, malgrado le rimostranze dell’autore, di una letteratura postverista che, rappresentando l’ambiente della fabbrica e della condizione operaia, gettava le basi “contenutistiche” di un neorealismo in nuce. Così la critica (e si sa che la critica cinematografica è piuttosto superficiale nei confronti della letteratura, così come la critica letteraria guarda al cinema con una certa altezzosa severità) ha trovato bell’e pronta la soluzione al problema del neorealismo: un travaso contenutistico dalla letteratura postverista e protoneorealista alla forma tipicamente neorealista del cinema. Le cose tuttavia, dicevo, non stanno propriamente così. Se si concepisce il neorealismo (lo dicono Zavattini e Fellini) come un “avvicinamento al reale” (Za), cioè come una forma e non come un contenuto sociale e politico (altrimenti il verismo bastava e avanzava), allora oltre all’individuazione della scintilla neorealista (il Manifesto UDA), bisogna poter anche evidenziare la catena di trasmissione con cui questa nuova “forma” neorealista riuscì ad innestare il suo processo artistico.                                                                                                                 50 B ERNARI C ARLO , Questioni sul realismo, saggio del 1953 raccolto in Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, p. 109.   51 Cfr. V ITTI A NTONIO , Peppe De Santis secondo se stesso, Pesaro, Metauro, 2006.

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Anche se la critica, come dicevo, con le eccezioni di Rocco Capozzi, Eugenio Ragni52 e Francesca Bernardini e pochi altri, ha ignorato l’importanza di questo documento, esso rappresenta il tassello fondamentale del passaggio dalle arti visive del primo ventennio del ‘900 alla letteratura neorealista dei primissimi anni ‘30. Si tratta di un atto “formale” che sancisce la nascita del “neorealismo” come processo di “avvicinamento” alla realtà, non più e non solo da un punto di vista letterario (verismo e conseguente contenutismo), ma con la teorizzazione della sinergia di tutte le arti sul piano della forma53.

A monte del Manifesto c’è la vicinanza al gruppo dei circumvisionisti, che, superando il futurismo, ma conservando simpatie per il cubismo, già si erano rivolti all’espressionismo, all’astrattismo, al surrealismo, al costruttivismo russo [...]54

Non aver preso in considerazione questo passaggio storico, che fonda un nuovo modo di concepire l’arte nel rapporto tra forma e contenuto, tra arti visive e letteratura – quest’ultima viene trascinata nel Manifesto ad un confronto serrato sul piano dell’eikon, dell’immagine – ha reso possibile l’equivoco letterario–contenutistico a proposito del neorealismo che citavo poc’anzi. Per questo Carlo Bernari redarguiva il critico cinematografico (Mario Verdone, tanto per non far nomi) che pensava di fargli un piacere a ingabbiarlo in una definizione, quella di autore “neorealista”, che in realtà era, per lo scrittore, una riduzione “contenutistica” di un’opera letteraria “formalmente” aperta alle altre arti. Non che Bernari rifiutasse la definizione di neorealismo per distinguersi ecletticamente, piuttosto lo scrittore si ribellava ad un’operazione critica che all’epoca mirava a svalutare la libertà formale dell’arte per prediligerne l’aspetto sociale e politico, il contenuto. Di qui, negli scrittori e registi neorealisti, nasce il dissidio con la critica allineata, prima dei fatti di Ungheria, col Partito Comunista (vedi Fellini e il caso De Santis cui ho precedentemente                                                                                                                 52

Cfr. R AGNI E UGENIO , Invito alla lettura di Bernari, Pesaro, Mursia, 1978. Nella cultura italiana permane una sorta di setticismo nei confronti del “formalismo”, probabilmente per un retaggio critico la cui origine risale al giudizio sul marinismo. In realtà il formalismo italiano, basti pensare a Carlo Gozzi, ha influenzato autori e movimenti rivoluzionari del ‘900, basti pensare ai formalisti russi, alla rivoluzione dada, ma anche a Brecht e a Pirandello, che hanno considerato la “forma” (e non il contenuto) come il vero contesto rivoluzionario dell’arte. 54 B ERNARDINI , Introduzione a «Tre operai», cit., p. XXX. 53

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accennato). Nel saggio sul realismo del 1957, poi ripreso nel 1973, Bernari lancia un’accusa grave contro la “critica” sia cattolica che marxista:

[...] fin quando però la cultura italiana non si riconoscerà in un comune fronte laico, ma continuerà a manipolare le verità complici, (con la complicità della Chiesa innanzi tutto, e delle chiese in genere, ognuna delle quali sa trovare, per proprio conto o tornaconto, un’unità confessionale) non vedo vie d’uscita entusiasmanti; non vedo cioè come questa cultura possa sottrarsi all’azione corrosiva della controriforma che insidia, anzi è il presupposto permanente di ogni mistificazione conservatrice. Altro che realismo e neo–realismo!55

Comunque, a proposito della “genesi” del neorealismo nell’ambito dell’avanguardia artistica (forma), e non nella tradizione letteraria (contenuto), Bernari ne parla con chiarezza nell’intervista originaria del 195756 in cui definisce il realismo socialista come:

[...] una corruzione del realismo in senso neorealistico, cioè nel senso di un rozzo e anarchico compromesso tra aspirazioni al vero e velleità populistiche (degenerazione che ha tradito le premesse da cui partì lo stesso neorealismo, che fu un movimento avanguardista, espressione di crisi di una società oppressa dal fascismo, e il cui atto di nascita può collocarsi tra il ‘30 e il ‘40, allorché il neorealismo significò resistenza al fascismo o quanto meno agli ideali estetici propugnati dal fascismo e miranti a una restaurazione neoclassica) [...]

La definizione negativa di Bernari del realismo socialista, da lui bollato come «una corruzione del realismo in senso neorealistico», risale al 1957, all’indomani dei fatti di Ungheria. Caspita, essa avrebbe dovuto smuovere nugoli di studiosi e di critici alla ricerca del “vero” fondamento del neorealismo! Si optò invece per la soluzione più schematica e semplice possibile, cioè il neorealismo fu preso per la sua coda “contenutistica”, e non per la sua “testa” pensante, rivoluzionaria e formalistica. Naturalmente Tre operai ha un preciso contenuto storico e politico,

                                                                                                                55

B ERNARI, Risposte a Questioni sul neorealismo, in «Tempo presente» a. II, n. 7, luglio 1957, cit. p. 111–2. Ibid., B ERNARI, Risposte a Questioni sul neorealismo, in «Tempo presente» a. II, n. 7, luglio 1957, cit., pp. 220–4. 56

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addirittura economico, ma tutto ciò è preceduto dalla “forma” nuova che assume il romanzo, che non è più nella poetica bernariana – dopo il Manifesto UDA – quella del romanzo borghese:

Tre operai ha pertanto la funzione [...] di contribuire alla rinascita del romanzo, proponendo nuovi contenuti e una forma nuova, contrap–ponendosi alla tradizione del romanzo borghese, anche contemporaneo, nel quale attraverso la memoria la soggettività dell’autore, l’ dei personaggi e la letterarietà la realtà e la situazione storica venivano sublimati in una dimensione lirica e astratta. L’umanizzazione di cui Bernari e Zavattini discorrono nelle loro lettere consiste nel radicare concretamente le vicende e i personaggi su un terreno economico e politico, nell’analisi delle trasformazioni che la tecnica e l’industria hanno comportato nella struttura e nei rapporti sociali.57

Come si legge, la questione della forma è essenziale. Perché il romanzo di Bernari viene subito accusato di essere “scarno”, “ridotto all’osso”. Rimando al saggio di Francesca Bernardini per la storia della critica a Tre operai, ma colgo qui solo un aspetto della questione: la novità dell’opera di Bernari è che non si tratta più di letteratura, ma di qualcosa d’altro che va in direzione delle arti visive e del cinema, assumendo la caratteristica di una vera e propria sceneggiatura, di un trattamento o di una novellizzazione di opera cinema-tografica58. Insomma di un’altra “forma” rispetto al romanzo borghese, una forma deter-minata dal rapporto con le arti visive – e va da sé che non stiamo parlando di un astratto formalismo fine a se stesso, esagerazione o “male infantile” delle avanguardie, che Bernari in ripetuti interventi fa ricadere nell’estetica borghese. Di questa nuova “prospettiva”, che va in direzione delle arti visive e delle esperienze artistiche del ‘900, parla Remo Cantoni a proposito di Tre operai, definendolo “visionario” al di là della matrice letteraria:

                                                                                                                57

B ERNARDINI, Introduzione a Tre operai, cit. p. XXXVIII Sui rapporti di Tre operai con le arti visive, cinema e teatro, vedi: B ERNARD E NRICO , Esiste un teatro neorealista?, in Ripensare il neorealismo, a cura di Antonio Vitti, cit., pp. 17–28. Vedi anche: B ERNARD E NRICO , Bernari e il cinema, in «Esperienze Letterarie», Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, XXXI, 2006, n. 4, pp. 5. 58

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un libro realista, per i temi sociali che affronta, per gli ambienti che descrive; [...] ma realismo continuamente filtrato attraverso una soggettività che riduce gli oggetti a sensazioni luminose59

Apro una breve parentesi. Il paradosso è che il primo stroncatore di Tre operai fu Elio Vittorini, che, nel 1934, lo liquidò come un romanzo “operaio” politicamente fallito. Il titolo della recensione di Vittorini merita l’inciso: Tre operai che non fanno popolo60. Lecito domandarsi: qual è dunque la differenza tra il neorealismo contenutistico61 di Vittorini e il neorealismo formale di Bernari? Ebbene, Vittorini, nella prefazione de Il garofano rosso, si lascia sfuggire una frase che è tutta un programma politico–contenutistico: «scrivo perché credo in “una” [virgolettato mio, ndr] verità da dire.»62 Ebbene, Bernari non crede, non ha mai creduto e mai crederà nella “verità”, tantomeno in “una” verità. Il titolo dell’ultima opera cinematografica di Zavattini, che come raccontavo prima contiene anche un brano della mia canzone La verità, è neanche a farlo apposta una sonora pernacchia ad ogni vero ideologico: La veritààààà. Il marxismo di Bernari è dialettico, la sua missione di intellettuale e scrittore non è la verità, ma la crisi della verità, la critica del vero, la ricerca come atto formale di indagine della realtà, contro ogni “massimo sistema”, che si chiami fascismo o partito comunista. È, d’altronde, interessante notare che il punto 10 del III paragrafo del Manifesto udaista prende le distanze dal “realismo socialista” e dall’Unione Sovietica quando, siamo nel 1929,

il mito rivoluzionario

dell’Urss è ancora forte. In questo paragrafo del Manifesto, infatti si legge: I Sovieti, che accettarono le teorie avanguardiste prodotte dall’esa–sperazione dell’idealismo individualista, oggi negano il loro carattere rivoluzionario valutandole come reazionarie e borghesi; e si orientano verso un puro realismo. Essi credono nel realismo come constatazione dell’oggetto in sé; e impiegano razionalmente gli artisti ai loro bisogni di propaganda sociale. I Sovieti sono                                                                                                                 59

C ANTONI R EMO , Prefazione a Carlo Bernari, in Tre operai, Milano, Mondadori, 1951, pp. 9–10. E.V [Elio Vittorini], Tre operai che non fanno popolo, in «Il Bargello» , VI, 22 luglio 1934; poi in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926–1937, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 1997. 61 Del resto, Vittorini, rifiutando nel 1947 ufficialmente le vesti di pifferaio della rivoluzione e del Partito Comunista, ha progressivamente modificato la sua opinione sul rapporto arte–ideologia. Il suo intervento L’arte è engagement naturale, relazione tenuta nell’agosto del 1948 in occasione delle Rencontres internationales di Ginevra, sta in V ITTORINI E LIO , Diario pubblico, Milano, Bompiani, 1957 (sta anche in Neorealismo poetiche e polemiche, cit. pp. 77–83), parebbe assumere una posizione che richiama il concetto formalistico del Bernari del 1929. Infatti quella dell’engagement sarebbe dunque una predisposizione dell’artista nei confronti del reale. Torneremo su questo assunto nelle conclusioni. 62 V ITTORINI E LIO , Prefazione a Il Garofano rosso, Milano, Mondadori, 1948. 60

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perciò i più vicini all’annullamento completo dell’arte. Questo movimento non è un ritorno alle vecchie estetiche: è l’eliminazione volontaria dell’estrema arte individualista. (Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro del sesso, anche il realismo è soggettivismo). I Sovieti, che considerarono il soggettivismo come arte borghese, cadono in essa con lo stesso realismo63. Il Manifesto Uda rappresenta, nella formazione della poetica bernariana e da questa al primo neorealismo, il tassello del passaggio dalle arti visive, pittura e cinema64, degli anni ‘20 e ‘30, alla letteratura con un corto circuito parola–immagine, logos–eikon, – da cui scaturisce la scintilla di una nuova letteratura, appunto il neorealismo che deve essere allora così ridefinito. Naturalmente, le questioni relative ai rapporti letteratura–cinema neorealista sono note e dibattute ampiamente dagli stessi protagonisti ed autori del tempo. La discussione che, alla fine degli anni ‘50, assunse anche toni polemici circa la “morte” del neorealismo è conosciuta. Resta però – ripeto – ignorato l’antefatto che ha permesso la nascita di una cultura neorealista, antefatto che affonda le sue radici nelle arti visive e che ha nel Manifesto UDA del 1928–1929 un momento teorico le cui implicazioni, nonostante il Manifesto stesso sia passato quasi inosservato, risulteranno essenziali. È in questo contesto infatti in cui i cosiddetti protoromanzi neorealisti di Moravia, Alvaro, Bernari, Pavese, Silone ed altri vengono alla luce come un nuovo modo di fare letteratura sfruttando, non solo e non tanto, le armi e le tecniche della “vecchia” letteratura, quanto piuttosto la forza espressiva delle immagini derivate dal rapporto logos–eikon dalle arti visive. E non è certo un caso che Bernari e Zavattini, come Moravia ed Alvaro, si dedicarono al cinema e al teatro, alla pittura e alla fotografia con la stessa passione e forza che alla narrativa. Realizzando così quella sintesi delle arti che Carlo Bernari rivendicò

nel 1953 con un intervento dal titolo emblematico: Cinema tra

arte figurativa e letteratura.65

                                                                                                                63

B ERNARI, R ICCI, P EIRCE , Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, sta in C APOZZI, Bernari tra Fantasia e Realtà, cit. p. 155. 64 L’influenza del cinema sulla letteratura del tempo è scontata, basti pensare al romanzo di Luigi Pirandello Si gira! del 1915 riscritto e ripubblicato dall’agrigentino del 1925 col titolo I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Ma vale la pena ricordare che mentre in Pirandello si tratta di far letteratura partendo dal cinema, per gli scrittori della generazione successiva, Bernari, Moravia, Alvaro ed altri, si tratta del processo inverso, cioè di scrivere “come” per il cinema. Trasformando altresì il “romanzo” tradizionale, anche da un punto di vista di tecnica narrativa, in un “trattamento” vero e proprio dove la parola deve per forza trasformarsi in immagine in movimento. 65 B ERNARI , Cinema, tra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del Cinema italiano», cit., pp. 7–29.

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In questo intervento Bernari parla della crisi della pittura neorealista che cede il passo al scomposizione del reale e all’astrattismo (di cui Bernari non dimentica affatto, si badi bene, i meriti e i risultati artistici):

[...] affiora sempre un risolino di scherno sulle labbra dell’intellettuale raffinato [...] quando si parla di tentativi di recupero dei contatti con la realtà, rimasta troppo fuori e troppo distante dalla sfera delle arti figurative, per quel processo di decantazione dei contenuti cominciato circa un secolo fa e non ancora esaurito. Ma quale è la strada che riconduce le arti figurative nell’ambito di quel generale processo di rinnovamento della nostra cultura che grazie alla letteratura e al cinema sembra muoversi in direzione di un realismo critico? Mi limito qui a fare solo tre esempi su tali prese di contatto con la realtà [...]; la serie degli “Orrori della oppressione nazista” di Renato Guttuso, la serie degli “Orrori della guerra” di Corrado Cagli, eseguite ambedue durante la guerra, fra il ‘44 e il ‘45; e la serie di paesaggi e le figure lucane dipinta da Carlo Levi durante il suo soggiorno coatto in Lucania. Si dice anche che la riuscita di un realismo pittorico sia problema unicamente di linguaggio: poiché mancando oggi i mezzi espressivi adatti si afferma che mancherebbe anche la possibilità non soltanto di affermarsi, ma anche di estrinsecarsi. Qualcosa del genere sosteneva Domenco Cantatore quando scriveva («Cinema nuovo», n. 9, aprile ‘53) che: [...] Ma il problema del neorealismo non si limita al linguaggio: i mezzi espressivi mancano quando manca una convinzione della necessità di ciò che si vuole esprimere. I mezzi espressivi, allorchè occorrono, allorchè una verità non deformata da intenzioni propagandistiche e commerciali s’impone alla nostra coscienza, sono sempre pronti alla nostra coscienza. È proprio in questa direzione che bisogna accettare l’esempio del cinema”.66

Si tratta allora di cogliere l’essenza del nuovo modo di “de–scrivere” la realtà: una narrazione per immagini che diventa critica della realtà attraverso lo strumento della parola. Qualche ulteriore testimoninza a supporto di questa tesi non guasta. Nel carteggio con Bernari, dando da Milano, il 5 marzo 1934, il resoconto della promozione di Tre operai e stimolando l’amico a procurarsi recensioni e segnalazioni per premi letterari, Zavattini cita Corrado Alvaro:

                                                                                                                66

Ivi.

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[...] La faccenda della STAMPA (in maiuscolo nell’originale, ndr) è di enorme importanza. Devi con tutte le tue forze tendere al felice esito della proposta di Alvaro che saluterai tanto da parte mia. Anch’io lo ringrazio per questa sua pronta e larga cordialità.67

Zavattini si riferisce probabilmente ad una possibile candidatura di Tre operai per il premio letterario patrocinato da «La Stampa». Alvaro, che ha già ottenuto il riconoscimento e che proprio sul quotidiano torinese ha pubblicato il 14 gennaio 1927 le prime pagine di Gente in Aspromonte, è la sponda ideale per Bernari: l’amicizia tra i due risale alle frequentazioni napoletane di casa Ricci e della libreria Arcuno del 1928–1929. Il consistente carteggio tra Bernari e Corrado Alvaro, documentabile a partire dalla lettera di Alvaro del 2 novembre 1935, si interseca temporalmente e, in qualche caso, “programmaticamente” – soprattutto nel periodo 1935–1941 – con i rapporti epistolari tra Bernari e Zavattini. Anzi, i rapporti tra Alvaro e Zavattini vengono cuciti proprio da Bernari che si fa portavoce di varie proposte editoriali (come la collaborazione di Alvaro al «Tesoretto» edito da Bompiani prima, e con il «Tempo» di Mondadori di cui Bernari, grazie all’intercessione di Zavattini con Alberto, diverrà caporedattore). Ma al di là di questi curiosi episodi di vita letteraria, interessa qui segnalare una lettera di Alvaro a Bernari in cui l’autore calabrese puntualizza al più giovane collega napoletano la questione formale del neorealismo:

[...] accenni al quesito se quel libro si possa chiamare romanzo. I pittori e i critici seguitano a chiamare figura e ritratto e paesaggio raffigurazioni che con queste denominazioni non hanno quasi più nulla da fare, e che sono riflessi di uno stato d’animo poiché la tecnica è la sola cosa che cambia di secolo in secolo o di decennio in decennio nelle arti. Altrimenti noi staremmo a rifare coi medesimi modi le medesime apparenze essendo l’uomo e la natura sempre gli stessi. Queste cose si possono dire soltanto tra artisti; si può dire che i temi sono pochi, sempre quelli; noi li confondiamo sotto falsi aspetti di novità, gli antichi rifacevano di continuo e apertamente sempre, e diversi, gli stessi temi e gli stessi miti. L’evoluzione delle arti nell’ottocento, e di certe arti come il romanzo, ci è sembrata definitiva; ma pensiamo a quello che furono e perciò non pensiamo al loro divenire. Ed esse sono divenute tanto più diverse, personali,                                                                                                                 67 Lettera dattiloscritta, datata Milano, 5 marzo 1934, firma manoscritta autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’Arte della Stampa, Milano” inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).  

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estranee in apparenza, quanto più esperienza ha avuto l’artista, e non nel senso che l’artista abbia applicato la sua esperienza letteraria o artistica rifacendo il già fatto, ma servendosene da reagente, andando, d’istinto, proprio nell’inesplorato, nel non espresso, disprezzando le forme che i critici ci rimproverano di non rispettare, i generi che essi ci accusano di violare.68

Dalle parole di Alvaro emerge così l’aspetto formale del processo e del progresso letterario che non può essere altro che innovazione e rivoluzione del modo “critico” (forma) di rappresentare la realtà (contenuto). Bernari, come possiamo ben constatare, è tornato più volte sulla questione: il dibattito su quello che, con un pleonasmo, potrei definire “realismo del neorealismo”, in tal senso parafrasando Bernari stesso che in diversi interventi ha teorizzato una “realtà della realtà” come obbiettivo dello scrittore, lo ha difatti impegnato per tutta la vita. Capozzi ha più volte stimolato Bernari a tornare sull’argomento ottenendo, ad esempio, questa risposta epistolare69:

Il problema del realismo non può risolversi applicando la più ovvia formula dialettica, ora col privilegiare la realtà (l’oggetto) ora col privilegiare l’artista (cioè il soggetto) a seconda che si propenda per un materialismo cieco o uno spiritualismo non meno allucinante. A questo punto dovrebbe essere chiaro per tutti che quando si parla di realismo non si vuole pretendere di asservire l’arte al più piatto oggettivismo o naturalismo, ma s’intende agire all’interno di un fenomeno per coglierne tutti i momenti di crisi. Operando una scelta nella realtà l’artista compie un atto critico; ma tale scelta è già il risultato di un rapporto istituito, o meglio in fieri fra l’artista, nel nostro caso lo scrittore, e la realtà [...]

Al di là delle questioni teoriche e storiche concernenti la formazione dell’idea del “neorealismo”, è importante soffermarsi sul “piano formale” del discorso tra Alvaro e Bernari prima e tra Bernari e Capozzi poi. Quello che si può facilmente constatare è che non emerge                                                                                                                 68

Lettera datata Santa Liberata (Grosseto) 20 settembre 1938, autografa, redatta con macchina da scrivere e ricopiata da Bernari a macchina da scrivere per la conservazione nel suo archivio. Emblematico che vengano ribattute da Bernari esclusivamente le lettere di Alvaro del periodo più fecondo della loro collaborazione dal 1935 al 1941. Il carteggio prosegue fino alla morte di Alvaro nel 1961, ma solo su basi strettamente amichevoli e di collaborazione ai problemi del Sindacato Nazionale Scrittori, di cui Alvaro fu fondatore e segretario generale. È curioso notare che nel ricopiare le lettere senza modifiche, Bernari sintetizzi l’intestazione con un “Caro B.” al posto del “Caro Bernard” usato dal Alvaro. La questione è che Alvaro, come Zavattini, cercò di dissuadere l’amico dal darsi lo pseudonimo di Bernari. Entrambi gli scrissero vanamente: “Caro Carlo, resta Bernard, è un nome bellissimo”. 69 Lettera di Carlo Bernari a Rocco Capozzi, 13 nov. 1974. Il carteggio Bernari–Capozzi è pubblicato in «Rivista di Studi Italiani», Anno XXVI, nr. 2 Dicembre 2008, pp. 248–285.

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nettamente una questione “contenutistica”: gli autori di cui parlo, Alvaro, Bernari, Zavattini, Moravia eccetera, danno per scontato l’engagement sociale, ma sfuggono alla rappresentazione realistica (cui si avvicina di più Vittorini) preferendo una rielaborazione allegorica, grottesca, fantastica e favolistica della realtà. La testimonianza70 di Capozzi, definito da Bernari stesso “il mio biografo”, dell’ultimo incontro con lo scrittore in un ristorante nei pressi di Ponte Milvio a Roma (molto prima che il fenomeno pseudoletterario di Muccia e dei suoi “lucchetti d’amore” trasformasse la zona in un circo notturno) rappresenta un ideale suggello a questa analisi:

Alla fine di agosto del 1988, in un piccolo ristorante buio nei pressi di Ponte Milvio, ebbi l’ultimo colloquio con Carlo e gli chiesi se voleva essere conosciuto come un autore impegnato; la sua risposta ci riporta all’inizio del nostro discorso e ai rapporti tra Paolo Ricci e Bernari:

«Se per impegno s’intende l’engagement sartriano, cioè quell’obbedienza alle regole politiche di questo o quel partito, mestiere che fu battezzato da pifferai, certamente mi trovi congedato. Se invece per impegno vuol intendersi rettamente quel processo che trova lo scrittore come coscienza e come conoscenza conflittuale del mondo reale, allora mi reputo più che impegnato, asservito a quest’opera alla quale mi sono votato da molti decenni.»

E quindi, realismo spettrale, realismo critico, realismo linguistico, o qualsiasi altro tipo di realismo che possiamo identificare nelle opere di Bernari, va ribadito che alla base della sua narrativa c’è sempre la realtà socio–storica abbinata all’arte e alla cultura del tempo. La sua finzione è sempre ricchissima di richiami alla realtà e alle verità nascoste della società che viene descritta e indagata in ogni opera. In breve, è sempre la realtà a mettere in moto la fantasia dell’autore. Ma una volta che la realtà, come quella della sua città nativa, entra nell’immaginazione di Carlo Bernari, e cioè una volta che si dissolve in “libera fantasia”, ecco come questa diventa una menzogna narrativa ben costruita, o meglio, un’ingegnosa macchina conoscitiva alla ricerca di verità nascoste sotto la cosiddetta realtà che ci circonda.

                                                                                                                70 Rocco Capozzi ha intervistato per l’ultima volta Carlo Bernari a Roma nel luglio del 1989, circa mesi prima dell’ictus che colpì lo scrittore. La risposta citata da Capozzi è quella rielaborata da Bernari in una lettera, l’ultima indirizzata al “suo biografo”, del settembre 1989. L’intervista a Carlo Bernari di Rocco Capozzi è pubblicato su «Forum Italicum» nr. 1, 1994, p. 381 e seg.

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La «ingegnosa macchina conoscitiva alla ricerca di verità nascoste sotto la cosiddetta realtà che ci circonda», tanto per usare la felice espressione coniata da Capozzi, può essere adoperata per spiegare la prevalenza dell’aspetto formale nel neorealismo, che è dunque un modo di rappresentare un contenuto attraverso una particolare “Weltanschauung”: non tanto e non solo quella ideologico– politica (che c’entra ma non c’entra col neorealismo, potrei dire con un eufemismo), bensì quella fantastica, visionaria e talvolta erotica (vedi la Silvana Mangano di Riso amaro di Giuseppe de Santis o della Lisa Gastoni di Amore amaro dello stesso Bernari) che, uso una pittoresca espressione di Zavattini, “faceva a cazzotti” col “pifferaio” al servizio del partito. Tornando agli anni Trenta e ai rapporti tra Bernari, Alvaro e Zavattini, è stato Domenico Scarpa della Normale di Pisa a notare in margine alla copertina della prima edizione Bompiani de L’uomo è forte di Corrado Alvaro la firma dell’artista della curiosa immagine: b e r n a r d. Si tratta ovviamente di Carlo Bernard, che proprio con una variante suggerita a malincuore da Alvaro, comincerà a firmarsi Bernari dalla fine del 1939.

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Nel saggio del 1953 su cinema arte e letteratura, Bernari si richiama al filone neorealista della pittura – che a suo giudizio rischia di esaurirsi per l’esplosione delle tendenze astrattiste – un filone che da Sironi e Crisconio, attraverso Paolo Ricci e i Circumvisionisti, giunge a Carlo Levi, Renato Guttuso, Domenico Cantatore, Alberto Sughi, Villoresi, Ernesto Treccani, Emilio Greco e Domenico Purificato. 71 Presentando nel 1980 l’opera pittorica di Purificato, ad esempio, Bernari insiste sulla dialettica logos–eikon, immagine e parola:

Il confine che separa i colori della tavolozza del pittore, dalle parole dello scrittore è una linea sottilissima, talora invisibile. Spesso, fra l’una e l’altra attività, pittorica o letteraria, si determina uno scambio in cui è difficile stabilire quale delle due espressioni ha prevalso [...] Vi sono comunque casi singolari in cui lo scrittore che si dedica alla pittura, anche trasferendo in questa attività collaterale o suppletiva gran parte del suo mondo interiore, raggiunge talvolta traguardi di sorprendente autonomia [...] Ma accade anche l’inverso, quando è il pittore ad invadere il campo vicino delle lettere. Il pittore allora trasferisce nella scrittura, insieme ad una quantità di sensazioni visive, gran parte di quell’humus che dà vita al suo mondo pittorico; ma in modo aneddotico, oserei dire: narrativo; ecco, come se il pittore attingesse ad un altro cielo di verità.

Ecco dunque che il neorealismo si delinea come questa forma, questa capacità, questa potenza, sinergica tra le arti, di rappresentare la realtà attingendo, per dirla con le parole di Bernari, ad altri cieli di verità. Va da sé che allora il rapporto col cinema72, l’immagine in movimento che – nella concezione zavattiniana – è una sintesi di arte figurativa e narrativa, come se le immagini venissero messe appunto in moto dalla narrazione, costituisce il fulcro, l’essenza del neorealismo.                                                                                                                 71 Bernari fu buon profeta fin dal 1950 della crisi dell’astrattismo, un tema ricorrente nei suoi inteventi critici e nei cataloghi delle mostre con la sua prefazione. Basti pensare alla recensione apparsa sul «Corriere della Sera» della autobiografia del critico Renato Barili, notoriamente considerato il cuore e la mente della Neoavanguardia (Autoritratto a stampa, Fausto Lupetti editore, 2010). Recensendo il libro autobiografico di Barili scrive Pierluigi Panza: «Pure la Neoavanguardia, dopo la stagione rovente, anche sul piano sociale, degli anni Settanta perde forza, nonostante alcuni tentativi di rilancio negli anni Novanta [...] c’e chi come Eco diventa scrittore borghese postmoderno e chi si rifugia negli studi storici, come Barilli, che prende a rivolgersi persino a Giovanni Pascoli [..]» 72 Cfr. P URIFICATO D OMENICO , Domenico Purificato e il cinema. Tra teoria e pratica, «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis», a cura di Marco Grossi e Virginio Palazzolo, pubblicato in occasione dell’omonimo incontro tenutosi a Fondi presso il Palazzo Caetani il 23 maggio, 2010. Molti scritti teorici sul rapporto pittura–cinema del pittore Domenico Purificato sembratn in qualche modo ispirati alle argomentazioni di Bernari. Del resto, tra lo scrittore Bernari e il pittore Purificato i rapporti sono stati intensissimi a partire dai primi anni ‘60. Entrambi avevano lo studio estivo in una villetta liberty a Gaeta, in contrada Catena al numero 1 e frequenti erano gli scambi e le visite tra i due artisti.

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Un modo di rappresentare il reale che va ben oltre il documentarismo e mette in allerta l’astrattismo con quel monito con cui Zavattini conclude il suo discorso sul neorealismo:

Non crediate che tutto questo laboratorio (neorealista, ndr.) non serva anche alle altre forme di cinema, anche a quelli non neorealisti, in quanto sono svegliati di notte come i frati per sentirsi dire: avvicinati alla realtà.73

Questo “avvicinamento alla realtà”, inteso da Za come una predisposizione, sul piano della forma, dell’artista all’impegno, è il “leit–motiv” della discussione a cavallo degli anni ‘50. Abbiamo visto

come Vittorini, nel passaggio storico del 1947, in seguito alla crisi de «Il

Politecnico», rivendica all’artista un ruolo indipendente, se non disimpegnato, nei confronti del contenuto – e dell’ideologia del partito. Questa “nuova” posizione di Vittorini, che dagli stretti legami con Togliatti passa ad una critica del cosiddetto realismo socialista, è però già all’ordine del giorno, perché ricalca sostanzialmente le tesi del 1929 del Manifesto udaista di Bernari & Co. Tesi che tornano di attualità venti anni dopo con Vittorini stesso, che pure originariamente le osteggiò, con Zavattini e Fellini che, nell’intervento del 1955 in difesa de La strada, scrive:

Se sono partito – per questa ricerca di come l’essenza del desiderio e della possibilità sociale nasca in un rapporto – da una situazione così apparentemente inadatta, e astratta, e immediata, e squallidamente quotidiana, è perché credo che oggi il capovolgimento da un individualismo ad un giusto socialismo, per essere persuasivo, dev’essere tentato e analizzato come bisogno del cuore, come impulso dell’attimo, come linea in azione dentro il più dimesso corso della nostra esistenza.74                                                                                                                 73 Non c’è bisogno di ricordare, se non a piè di pagina, che Zavattini stesso fu pittore notevole di ispirazione surrealista e che il suo cinema “neorealista” ed ideologicamente impegnato ha un’impronta surrealista inconfondibile. Questo comporta che il neorealismo sfugge ad ogni definizione e delimitazione in un ambito preciso, rappresenta un approccio soggettivo (del singolo artista) e critico alla realtà. Ha quindi ragione Antonio Vitti quando propone di usare il plurale “i neorealismi” al posto del singolare (cfr. V ITTI, Ripensare il neorealismo, cit.). È del resto quanto sostiene Zavattini nel suo intervento del 1953,: «Partiamo tutti insieme, per esempio accordandoci sulle esigenze fondamentali del neorealismo, mettiamo Vita di un paesucolo. Partiamo in venti, tutti insieme, ripeto, ma dopo il primo metro, e anche prima, ciascuno prende la direzione che crede e che può [...] la partenza è comune e non si pongono limiti al neorealista, se non quelli che non deve appartarsi di fronte alla realtà; e deve trarre da essa e solo dall’esperienza di essa tutte le suggestioni che solo l’approfondimento di quest’esperienza può infinitamente dargli.» Z AVATTINI, Il neorealismo secondo me, in Neorealismo poetiche e polemiche, cit., p. 184. 74 F ELLINI, Neorealismo, in Neorealismo poetiche e polemiche, cit., p. 199.

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Va da sé che il “bisogno del cuore”, di cui parla Fellini, parta dal concetto rivoluzionario post–romantico e anti–idealistico, feuerbachiano, di sensibilità: che nel manifesto udaista del 1929 viene concepito come una forma di “simpatia” (e relativa empatia) tra il soggetto e l’oggetto della rappresentazione. È da questo grumo sanguigno, da questo snodo del 1929, che si dipartono – attraverso l’opera bernariana – dunque i nervi di quello che nel dopoguerra sarà definito “neorealismo”. Bisogna così partire dal presupposto che la genesi dell’opera letteraria di Bernari – l’incunabolo neorealista75, come viene definita dalla critica letteraria l’evoluzione tra il 1928 e il 1934 del romanzo capostipite del genere, Tre operai – trova l’humus ideale non tanto nella letteratura dell’epoca, quanto piuttosto nelle arti figurative. Anche perché Bernari ha la sua sponda intellettuale nei due amici pittori e soprattutto negli ambienti del circumvisionismo napoletano di cui Paolo Ricci, il più anziano (anche se di poco, ma sul filo dei venti anni anche i mesi contano) e ideologicamente determinato del gruppo, è diventato uno degli esponenti di spicco, mentre Peirce ne rappresenta l’anima iniziale e più teorica76. Il passaggio tra il manifesto circumvisionista del 1928 al manifesto dell’U.D.A del 1929, meglio l’osmosi dal circumvisionismo, ancora ipotecato dal futurismo e da Marinetti, all’udaismo, è una diretta conseguenza della ragion d’essere rivoluzionaria e marxista di questi giovani che prendono le distanze dall’estetica futurista del regime fascista. E lanciano una non–estetica, una nuova ricerca di espressione della realtà, che si fonda sulle angosce più profonde dell’individuo di fronte ai mostri del ‘900, capitalismo e fascismo, alleati nell’idrolatria della “macchina” e del progresso. Progresso antiumanistico, se privato del                                                                                                                 75 Il termine “incunabolo neorealista” viene riferito in particolare al romanzo Tre operai di Bernari. La paternità del termine è piuttosto incerta e comunque dimostra la difficoltà della critica del dopoguerra nel catalogare un’opera poliedrica e ricca di richiami come quella di Bernari. Con questo termine si è anche cercato di collegare il cinema neorealista del 1943–1948 con la precedente esperienza letteraria degli anni Trenta, dimenticando una semplice realtà, che Bernari e Zavattini, protagonisti della letteratura italiana di quel periodo, sono stati, anche se in diversi modi e misure, protagonisti del cinema neorealista. Il che stabilisce una correlazione diretta tra la prima esperienza letteraria neorealista e il successivo cinema neorealista. 76 Carlo Bernari, Carlo Cocchia, Antonio De Ambrosio, Gildo De Rosa, Mario Lepore, Guglielmo Peirce, Luigi Pepe Diaz, Paolo Ricci: questi i nomi dei giovani artisti napoletani che tra il 1928 e il 1931, partendo da un rapporto non subalterno col movimento e l’estetica futurista, tentarono di interpretare criticamente la tradizione delle avanguardie e di collegarsi con le ricerche più innovative in corso in Europa. La prima mostra dei pittori circumvisionisti all’hotel Quisisana di Capri, fu inaugurata da Marinetti il 19 agosto 1928 alle ore 18. Il Manifesto dei pittori Circumvisionisti fu pubblicato in «Forche Caudine», n. 2, Benevento, 15 gen. 1929, p. 5, a firma Cocchia, D’ambrosio, Peirce. Cfr. D’A MBROSIO , I Circumvisionisti, cit., pp. 338–41.

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“sentimento” per privilegiarne l’aspetto totalitaristico–tecnologico, secondo la critica udaista che non ricade nell’errore romantico del rifiuto della modernità, ma la “relativizza” al bisogno e all’aspetto “emotivo” del rapporto Uomo–Natura. Attraverso gli amici e coetanei della nuova avanguardia circumvisionista della Mostra a Capri del 1928, che coglie molti aspetti del futurismo ed in particolare della pittura di Sironi77, e con la immediatamente successiva, breve ma intensa, stagione udaista del 1929–1930, si delinea il percorso della formazione intorno ai vent’anni di Carlo Bernari. Una formazione in primo luogo antiaccademica, ed in seconda battuta pittorico–visiva, puttosto che letteraria. E come poteva essere altrimenti, se i compagni di viaggio (Ricci–Peirce) del giovane Bernari erano artisti, pittori, anziché letterati? Riprendendo la risposta a Carlo Bo, Bernari richiama alcune tappe della genesi di Tre operai, romanzo che la critica ha definito, ricordiamo, “l’incunabolo neorealista”:

Vi è da aggiungere che mi si faceva torto nel rinfacciarmi solo parentele letterarie, e non anche politiche, sociologiche, filosofiche: di questa specie erano allora le mie letture più frequenti ed estese. Senza contare che pur nel mio isolamento, una scuola l’avevo anch’io dietro le spalle: una scuola antiaccademica, è vero, ma con tutti gli ordini di studi, dal più elementare avanguardismo di tipo surrealista e dadaista, alle medie e superiori che battezzammo Circumvisionismo e Costruttivismo, sino all’ultima soglia universitaria che fu per noi l’Udaismo (da UDA – Unione Distruttivisti Attivisti, il cui manifesto, firmato da Paolo Ricci e da Guglielmo Peirce, oltre che da me, apparve nel 1929).78

Si può dunque facilmente intuire che le radici del neorealismo affondano in un terreno ben più fecondo del semplice back ground letterario: così l’idea di un travaso di linfa immediato (e un                                                                                                                 77 Il primo accostamento della pittura di Sironi a Tre operai è di Guido Piovene su «Pan», aprile 1934. Bernari commenta nella Nota 65: «[…] allora mi suonò come un affronto. Conoscevo di Sironi i manifesti celebrativi del fascismo e le tavole con cui egli veniva illustrando, sulla rivista diretta da Mussolini, articoli e racconti. Era naturale che travolgessi in un giudizio senza appello anche la sua migliore pittura, dalla quale avevo tratto, pur senza volerlo, una lezione figurativa; lezione che integrava l’altra, proveniente dal cinema realista europeo o americano, che con aria di scandalo mi si rimproverava di aver sùbito. I muri screpolati di Sironi, le sue tragiche rocce, quei tenebrosi calanchi che respingono ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il furore degli uomini, la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch’esse visioni congruenti al cinema di quel periodo […] Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film. Credevamo di esserne fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo, con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella pittura c’inspirava.» B ERNARI, Nota 65, cit., pp. 244. 78 B ERNARI , Nota 65, cit., p. 252–3.

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po’ scontato) dalla letteratura verista o dal realismo coglie solo in minima misura il bersaglio. Bernari, infatti, allarga il campo in cui vanno ricercate queste radici, a tutta una serie di “letture” che lui stesso definisce “politiche, sociologiche, filosofiche”. Ma la questione va ben oltre questi confini “libreschi”: perché le origini stesse dell’incunabolo neorealista, da cui nacque Tre operai, fu una culla in cui le arti visive, e qui stiamo analizzando in particolare la funzione che ebbe l’arte figurativa, la pittura, assolsero un ruolo determinante. Al punto che possiamo affermare che la formazione giovanile del “capostipite” della letteratura neorealista, Carlo Bernari, venne pressochè ipotecata da una ricerca artistica e teorica in cui la letteratura stessa non aveva un ruolo primario, ma venne a costituirsi in seconda battuta, cioè dopo le prime esperienze del 1928–29 dedicate all’arte. In questo senso il neorealismo, come nuova visione e interpretazione del reale, non prenderebbe le mosse all’interno della letteratura, ma scaturirebbe direttamente dalle arti visive e, in questo caso, figurative. In altre parole, non è tanto o solo di Verga che bisogna parlare come referente culturale della nuova generazione di scrittori attivi verso la fine del primo ventennio del ‘900, bensì dell’opera pittorica, questa sì fondamentale, di Sironi che, con le sue ciminiere, fabbriche, camion e paesaggi industriali cupi e privi di speranza, apre le porte a nuove visioni della condizione umana. E il punto di congiunzione tra il neorealismo “letterario” del Bernari di Tre operai e questo retroterra pittorico–visivo sironiano, è rappresentato dagli artisti circumvisionisti della mostra caprese del 1928, primo su tutti Crisconio, quale ideale erede di Sironi. Tant’è vero che proprio nei primi quadri – mi riferisco in particolare all’olio su tavola Centrale termica dell’Ilva del 1929 – di Paolo Ricci, che di Sironi e Crisconio fu fin da giovanissimo amico ed estimatore, e nei dipinti del 1934 Cantata operaia di un altro artista circumvisionista, Antonio De Ambrosio, si può toccare con mano la vera anima del neorealismo che si manifesta letterariamente con la pubblicazione della stesura definitiva di Tre operai del 1934. Il quadro di Paolo Ricci del 1929 intitolato Centrale termica all’Ilva (v. fig. 1) trova del resto una collocazione narrativa nel romanzo di Bernari, in quanto una parte della vicenda del giovane operaio Teodoro si svolge proprio, con una premonizione incredibile vista la situazione attuale degli operai dell’Ilva di Taranto, in quella stessa acciaieria!

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Paolo  Ricci,  Centrale  termica  dell'Ilva,   1929  

35    

Un altro esempio di pittura circumvisionista è rappresentata dalla serie Cantata operaia di De Ambrosio (v. fig. 2) del 1932–1934, proprio gli anni della stesura definitiva del romanzo di Bernari.

Che la genesi del romanzo segua le date e le tappe, fin dal 1928, della nascita in campo artistico del circumvisionismo e, nel 1929, dell’udaismo, non è assolutamente una coincidenza, poiché queste esperienze rappresentano momenti essenziali, e interconnessi, della formazione di Carlo Bernari scrittore, pittore, fotografo, sceneggiatore, drammaturgo, critico d’arte e giornalista. A proposito della “genesi” del neorealismo nell’ambito dell’avanguardia artistica, e non nella tradizione letteraria, Bernari ne parla con chiarezza in un’intervista del 195779 in cui definisce il realismo socialista come:

                                                                                                                79

B ERNARI, Risposte a Questioni sul neorealismo in «Tempo presente», a. II, n. 7, luglio 1957, cit. pp. 221.

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[...] una corruzione del realismo in senso neorealistico, cioè nel senso di un rozzo e anarchico compromesso tra aspirazioni al vero e velleità populistiche (degenerazione che ha tradito le premesse da cui partì lo stesso neorealismo, che fu un movimento avanguardista, espressione di crisi di una società oppressa dal fascismo, e il cui atto di nascita può collocarsi tra il ‘30 e il ‘40, allorchè il neorealismo significò resistenza al fascismo o quanto meno agli ideali estetici propugnati dal fascismo e miranti a una restaurazione neoclassica) [...]80

Immagine e testo. Allorquando, alla fine del 1929, Zavattini comincia la sua avventura milanese presso il gruppo editoriale Rizzoli, dapprima in veste di semplice correttore di bozze, poi come art director ed infine come Direttore Editoriale, è bene a conoscenza dell’attività teorica–artistica del terzetto di giovani napoletani composto da Carlo Bernari, del cugino Guglielmo Peirce e del pittore Paolo Ricci. Attività che a Za non può essere passata inosservata, visto che il Manifesto UDA del 1929 viene recensito da Ungaretti, trova spazio sulla stampa di oltreoceano e suscita l’interesse dei surrealisti a Parigi, – e di Breton in particolare che risponde ad alcuni quesiti del giovane Bernari con una lunga lettera. Del resto Zavattini è attentissimo alle novità: dall’epistolario con Bernari– Peirce, a partire dal 1932, si ha infatti la certezza che Za conosca bene il gruppetto di giovani artisti, e che stia tenendo d’occhio Bernari in particolare che nel 1932 pubblica alcuni brani del capolavoro neorealista sul «Tevere». Vedremo infatti come l’interesse di Za si focalizzi sempre più proprio su Bernari: nelle prime lettere, indirizzate a Bernard–Peirce, Paolo Ricci non viene nominato. Poi anche il nome di Peirce andrà via via sparendo. In una lettera del 1932 indirizzata solo a Bernard (che da subito è il referente privilegiato anche nell’intestazione delle lettere), Za taglia corto circa alcune “querelle” letterarie, per stabilire un contatto artistico diretto e il piu ampio possibile col giovane amico: [...] La mia cartolina un rebus? Io mi accorsi che in altre cose si divergeva teoricamente. Poco male perché sia tu che io in teoria siamo impegnati, come quelli che hanno fatto la polemica pro e contro la Ronda. Ma possiamo stropicciarcene. Pensa che non ricordo neanche quali erano i punti del dissenso, ci vuole altro: e la nostra amicizia si sta facendo su un terreno umano e, diciamolo anche se è una ripetizione, artistico. Caso mai, io credevo di essere crociano sino ad un mese fa e non avevo mai letto Croce. Poi mi è sembrato di non esserlo, assolutamente. E oggi non mi ricordo più perché mi sembrò di non                                                                                                                 80

Ivi.

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esserlo. L’importante è essere sicuro su due o tre cose fondamentali e in quelle siamo d’accordo.81 In questa lettera Za comunica a Bernari, più o meno direttamente, un’apertura di credito personale che va ben oltre i meriti teorico–artistici del gruppo udaista del 1929. Infatti la missiva esordisce con un giudizio non negativo, ma certamente riduttivo dei disegni di Guglielmo Peirce: Mio caro Bernard, Bompiani ha già dato l’incarico a Mucchi per illustrare il mio libro. Ma non voglio che questi disegni di Peirce vadano perduti e allora spero di convincere Piazzi82 a ospitarli nel [Secolo] XX con un mio pezzo fatto ad hoc. Ci vorrà solo un pochino di pazienza. Questi disegni mi piacciono ma sono un po’ alla maniera di… ti pare? Non si può stabilire con esattezza la data e l’occasione del primo incontro tra Bernari e Zavattini, certamente tra il 1929 e il 1930. Da Milano a Napoli passando per Firenze e Roma, gli amici in comune e i motivi di incontri sono innumerevoli. Certo è che, ambientatosi definitivamente a Milano verso la metà del 1930, forte del successo di Parliamo tanto di me pubblicato presso Bompiani nel 1931 e ormai certo del sostegno professionale nel mondo editoriale (Bompiani, Rizzoli e Mondadori saranno i suoi principali sponsor), Zavattini non dimentica gli amici più giovani: Ricci, Peirce e soprattutto, come abbiamo visto, Bernari. Intanto, è certo che sono Bernari e Peirce a rivolgersi a Zavattini ai primi del 1931 per ottenere un sostegno dall’amico che ormai, nel mondo editoriale milanese, comincia a muoversi con efficacia. È interessante notare che la proposta indirizzata a Za ha come oggetto i disegni di Peirce. In risposta a una ipotizzabile lettera di Bernari83, Za risponde con una lettera manoscritta: Cari amici, sono qui ancora tutto intontito dall’influenza. Per quei disegni non c’è proprio modo di piazzarli. Il solo che poteva pubblicarli, Piazzi, mi ha detto di no – io mi ero offerto di farci su un articolo. Che cosa devo dirvi? Di tutto il gruppo solo il Secolo XX84 poteva aiutarvi – ma anche là hanno paura di andare troppo in là – Come vedete, sono inerme e non riesco a farvi guadagnare un soldo. Ripeto, provate ancora con una novella.                                                                                                                 81

Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”. Inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).   82 Filippo Piazzi, direttore editoriale della Rizzoli conosciuto da Zavattini a Milano alla fine del 1929. Fu Piazzi ad inserire Za nel mondo editoriale milanese ed in particolare nelle riviste del gruppo Rizzoli, inizialmente con l’incarico di correttore di bozze al «Secolo XX», «Novella» etc. 83 Gugliemo Peirce era il cugino di Bernari, oltre ad essere l’ideatore del Manifesto UDA. Omosessuale e antifascista, Peirce fu arrestato nel 1937; fu allora che Zavattini, per paura di essere coinvolto, bruciò un’intera cassa di materiali letterari, corrispondenze ecc. attestanti i rapporti con Peirce e Bernari. 84 «Il Secolo XX», settimanale edito da Rizzoli, “Grande rassegna d’arte, di lettere, di politica, di scienze. Documenti rari ed eslusivi”. Zavattini vi collabora a partire dal 1929.

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Ahimè, Milano è così – Vi abbraccio, scrivetemi e non abbiate paura di disturbarmi chiedendomi questo e quello per voi: per male che vada, continuerò a far cilecca come sino ad ora – Vostro affezionatissimo Zavattini. 85

Pur non avendo a disposizione i riscontri di tutte le lettere inviate da Bernari a Zavattini, alcune come dicevamo distrutte da Za nel 1937, si intuisce dalle risposte da Milano che alle insistenze di Bernari (e Peirce, che però non sembra scrivere mai in prima persona), Zavattini continua a farsi in quattro per aiutare gli amici, ai quali scrive da Milano il 6 agosto 1932: Carissimo Bernard... ti assicuro che mi ricorderò di Peirce per l’Almanacco. Quei suoi tre disegni sono ancora inutilizzati mio malgrado, bisogna aspettare. Che noia, caro Bernard, vorrei andare a villeggiare in un bicchier d’acqua...86

Zavattini insomma incontra grandi difficoltà a “piazzare” i disegni di Peirce (curioso il gioco di parole col suo referente, il direttore Piazzi). Il perché è presto detto: questi disegnini sono avulsi dal contesto editoriale/commerciale dei rotocalchi e quotidiani in cui opera Za. Il quale però manda a Bernari un messaggio preciso con l’espressione «provate ancora con una novella» suggerendo agli amici una soluzione editoriale precisa per una “terza pagina” illustrata. L’idea sembra funzionare, tanto che da Milano giunge una rassicurazione sull’impegno personale ad aiutare i due amici e una piccola conferma:

Caro Bernard ho bisogno di un’altra proroga. Scusami, scusami, scusami. Speravo di rubare qualche ora in ufficio, ma Marotta87 è ammalato e io non ho un minuto di tempo.

                                                                                                                85

Cartolina postale, manoscritta, autografa, indirizzata a “Bernard–Peirce / Via 4 Fontane / Roma”, data del timbro postale, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). Si tratta della prima lettera in ordine cronologico pervenutaci dell’epistolario Bernari–Za.   86 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano” indirizzata a “Sign. Carlo Bernard / via Quattro Fontane, 4 / Roma”, data del timbro postale Milano, 6 VIII. 1932, pubblicata in: B ERNARI, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini, cit., p. X (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).  

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Dunque, aspetta ancora qualche giorno, sii buono. È uscita la novella, finalmente. Riceverete il modesto compenso (L. 100) in settimana. Vedrete com’è ridotta, povera novella, con l’aggiunta e con i tagli! Fatene un’altra. Ora sono in corrispondenza con Petrone 88 , un giovane che scrive spesso sui giornali di Roma. Lo conosci?89

La missiva scritta da Zavattini a penna, col solito caos nell’utilizzare il foglio in ogni verso e direzione, come fosse un disegno, prosegue con un’interessante osservazione sulla mentalità che regna nell’organizzazione della stampa periodica, in particolare dei rotocalchi a grande tiratura. Probabilmente Zavattini risponde a un lamentela di Bernari:

Per i settimanali hai ragione. Ma non vogliono essere altro – tanto che avevo chiesto li facessero precedere [i racconti pubblicati, ndr], il primo, da un cappello per spiegare che io volevo solo fossero così [sottolineatura nell’originale, ndr] – Giornalistici, labili, labilissimi, contingenti – non vogliono essere altro. E c’è un proposito: quello di non scrivere cose importanti [sottolineatura nell’originale, ndr]: giù di cattedra, così, non come scrittore. Ma può darsi che fosse meglio non averli iniziati. Ti abbraccio saluta Peirce.

Naturalmente Za continua a pensare anche a Peirce, e scrive al “Caro Bernard”: [...] Per i disegni di Peirce, spero di fare il pezzo sul [Secolo] XX nella settimana ventura. Se crede, farà qualche cosa per l’almanacco letterario 1933, che sto architettando in questi giorni. Ci pensi.90                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               87 Nel 1930 Zavattini inaugura per Giuseppe Marotta, direttore di «Cinema Illustrazione», la rubrica di immaginarie corrispondenze Cronaca di Hollywood, firmandola con vari pseudonimi di fantasia. 88 Con ogni probabilità si tratta dello scrittore Guglielmo Petroni, autore de Il mondo è una prigione. Bernari conobbe Petroni a Roma proprio in questi anni, probabilmente in seguito all’indicazione di Zavattini. 89

 

Lettera manoscritta [1932], inedita, autografa (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

90 Lettera manoscritta, autografa carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”. Inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).  

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Ma non c’è nulla da fare: nonostante gli sforzi Zavattini non riesce ad aiutare gli amici come vorrebbe. Il 7 ottobre 1932 scrive da Milano: Caro Bernard, te lo dicevo che finiremo con le botte. Non sono ancora riuscito a fare un piacere a te o a Peirce. Mentre a voi sembra facile. Per un pelo infatti: così queste due novelle, vanno quasi bene. A manca un finale. Tu dirai c’è: più corposo e più complicato. Questo è il parere dei redattori nostri. La trovata è spassosissima, finisce solo in un modo un po’ magro. Questo secondo il nostro pubblico o quel genere che gli somministriamo dietro sua indicazione. Io sono addolorato, pensa che altri quattro o cinque amici in gamba hanno subito la stessa sorte. E temo d’andarci di mezzo io. Volete provare ancora? Io leggerò subito tutto, uniformatevi a 91. La mano l’avete, come si dice, e dovreste fare centro. Per ottobre niente. Non parlarmi di Mondadori, ora sono nel solito mare di guai e non trovo tempo neanche per la Gazzetta. Ti scriverò fra pochissimi giorni per l’almanacco. Intanto vi abbraccio. Io sono a vostra completa disposizione. Ma non posso fare quello che vorrei per voi. A ogni modo scrivetemi e vogliatemi bene. Vostro ZA.92

Le difficoltà di Zavattini sono naturalmente dovute a una scarsa comprensione da parte dei giovani intellettuali dei meccanismi massmediali e commerciali dell’industria editoriale che è da subito terreno di scontro e confronto tra Bernari e Za. Del resto, in una lettera già precedentemente citata, Za aveva consigliato a Bernari di scrivere facile, giù di cattedra insomma. I tentativi di pubblicare i disegni di Peirce ottengono scarsi risultati, ma non per questo Za demorde. Da Milano parte una lettera in data 26 ottobre 1932: la missiva contiene una proposta grafica di come impaginare testo e disegno, idea che rivela l’attenzione di Za al ruolo dell’immagine e dell’illustrazione del testo. Caro B. Peirce potrebbe fare un disegno da soggetto letterario (umoristico, comico) e tu potresti scrivere le cinque righe di commento, potrebbe essere immaginato così:                                                                                                                 91 Nel giugno del 1930 Zavattini è assunto a «Novella» edito da Rizzoli, “antologia settimanale di letteratura amena; ogni fascicolo contiene sei novelle, una puntata di romanzo, aneddoti, varietà; riccamente illustrata”. 92 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a Sign. Carlo Bernard / via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale. Inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).  

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(segue esempio grafico di impaginazione: disegno, a sinistra, testo a destra, ndr.) questa impaginazione non è obbligatoria faccio per chiarire la mia proposta. Potrebbe essere una trovata, una forma di collaborazione. Me lo mandate subito? L’almanacco sta per andare in macchina. Ci conto? Voglio che in qualche modo i vostri due nomi ci siano. Lasciate passare questa bufera. È una vera bufera e spero fortemente che potrò fare qualche cosa per voi. Vi giuro che ora non basta la buona volontà. Vi scriverò presto. Un abbraccio vostro Za.93

Le sottolineature con matita rossa nell’originale evidenziano, in primo luogo, un concetto che viene assumendo nella dinamica che stiamo analizzando un ruolo centrale: il soggetto letterario.

Si comprende bene che questa lettera è fondamentale per l’ultima fase di formazione dello stile di Bernari che viene sollecitato da Zavattini all’individuazione di una sinergia, non più intuitiva, ma                                                                                                                 93 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Il Secolo Illustrato, Secolo XX, Commedia, Novella, La Donna, Piccola, Cinema – Illustrazione, Ragno d’Oro, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).  

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da questo punto razionalmente ricercata, tra testo e immagine, tra parola e rappresentazione visiva. Da questo momento, dunque, la possibilità della narrazione verrà estesa dall’organo del pensiero razionale, il logos, al pensiero rappresentativo che si base sulle immagini e sulla loro “messa in sequenza”. 94Dalla corrispondenza immediatamente successiva si evince che Bernari e Peirce non si stanno proponendo come, rispettivamente, autore di testi e illustratore: sembrerebbe infatti che entrambi scrivano e disegnino – una passione, quella del disegno, che Bernari, come dirò, coltiverà per tutta la vita. Da Milano in data 2 novembre 1932, Za insiste: Carissimi grazie, ma quello dell’Italia vivente è uno stelloncino pubblicitario. Aspetto tre righe sul genere di quelle di ottobre. Come mai? Dei vostri due pubblicherò quello coi soldi. Va bene? Per la novella aspettate ancora due giorni. Io l’ho già letta, ora la leggeranno gli altri. Ma so già il responso. Quasi... Sì, accidenti a tutto il mondo. Ma sbagliate giudicando come avete fatto. Chi non lo sa che le novelle di Novella sono quel che sono? Quando si dice: le vostre non sono adatte per l’amor di Dio, non si tocca il merito, anzi. Quest’ultima, per esempio, valeva un po’ più piena. Che cosa devo farvi? Io vi do le istruzioni secondo il modello che qui hanno in testa e da quello non si muovono. Se dipendesse da me, mandatemene pure, io farò l’impossibile ma non ricadete nell’errore di credere, ecc. ecc. Dirò a Bompiani se può pagarvi quel disegno. Ma B. non mollerà, lo so, perché ciascuno collabora gratuitamente, salvo le rubriche. Insomma io sono addolorato di non potervi far guadagnare soldi, ma che cosa posso farci? Ditelo francamente. Io sono sempre a vostra disposizione. Vi abbraccio vostro Za.95

La tesi secondo cui Bernari e Peirce si starebbero rapportando a Za entrambi in qualità di artisti a tutto tondo, cioè entrambi come autori di testi e disegni, risulta evidente da un’altra breve comunicazione di Za datata Milano 27 dicembre 1932:                                                                                                                 94

Verga, come diremo nel prossimo capitolo a proposito dell’osmosi fra verismo e neorealismo di Bernari, parla di una “messa in movimento” dell’immagine. 95 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale 2 novembre 1932, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).  

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Carissimi, grazie degli auguri, li trovo qui tornando a casa. Anche a voi. Avete visto l’almanacco? È come è (o meglio come può essere). I disegni vostri ci sono, entrambi. Scrivetemi e io vi scriverò più a lungo. Ora sono in mezzo, e peggio, a guai finanziari. Vi abbraccio Za.96 E ancora da Milano il 27 gennaio 1933 Za scrive: Cari amici, aspetto, se fossi in voi tenterei ancora una volta, l’ultima, una novella per Novella, (vedeste che vi rubai un terzo di spunto in un mio raccontino? Ma così poco che potreste non esservene accorti, sul Fuorisacco97). Aspetto dunque i disegnini e farò l’impossibile per il Secolo XX. Il solo che, lo capite da voi, possa ospitare il genere [...]98

L’abbinamento testo/disegno su cui Za insiste per una semplice ragione editoriale, dal momento che i rotocalchi cui egli fa riferimento necessitano di quello che suol chiamarsi “alleggerimento in pagina” della parte narrativa, spinge Bernari, che proprio tra il 1932 e il 1933 sta dedicando ogni sforzo alla riscrittura di Tre operai, ad “alleggerire” anche la parte “letteraria” del capolavoro del neorealismo. Tuttavia Zavattini, nonostante la buona volontà, riesce ad ottenere solo magri risultati per i due giovani amici, così è costretto a desistere, almeno per il momento, e a rinviare i disegni all’autore Guglielmo Peirce.

                                                                                                                96 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale Milano 27 dicembre 1932, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).   97 “Fuorisacco” è una rubrica che Za teneva sul Secolo XX. 98 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale 27 gennaio 1933, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).  

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In realtà, Zavattini si renderà, nel giro di poco tempo, utilissimo a Bernari tanto da diventare il suo primo editor, ma non avrà che sempre più sporadici contatti con Peirce. I contatti saranno definitivamente troncati nel 1937, con l’arresto di Peirce, omosessuale e comunista: troppo esposto, insomma, per un tipo come Zavattini, molto cauto con le amicizie e le frequentazioni. Questa posizione poco delineata politicamente procurerà a Zavattini non pochi rimorsi di coscienza, descritti nel romanzo del 1976 La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini, in cui si dichiarerà, in una lettera a Bernari che vedremo in seguito, troppo poco indignato, al pari di altri intellettuali, nei confronti del fascismo. Senonché l’idea di una fusione immagine–parola nell’ambito del racconto, una sinergia che naturalmente nasce spontanea in Zavattini che lavora nelle redazioni dei rotocalchi e poi passa a dirigere un settore della Walt Disney mondadoriana, resta una ricerca costante nei rapporti con l’amico Bernari. Il quale viene sollecitato, prima, nel 1932–1933, coi disegni di Pierce, poi, nel 1934, con opere di “artisti di nome”, quindi – come appureremo nel prossimo capitolo – con la fotografia, ad insistere su questa particolare forma di rappresentazione in cui immagine e parola trovano un sorta di sintesi narrativa. Così Zavattini scrive a Bernari datando a mano “Milano il 12 settembre del 1934”:

Caro Bernard, dovresti interessarti per l’almanacco di raccogliere a Roma dei disegni (non molti), ma di primaria importanza, e di artisti di nome. Quest’anno l’almanacco conta di pubblicarne pochi ma buoni: ci contiamo. Scrivimi in merito ed interessatene veramente. Grazie, ed occupati di quello di cui ti eri impegnato per l’almanacco. Tanti saluti dal tuo Zavattini99

Nel carteggio si cominciano a perdere le tracce di Gugliemo Pierce, anche perché il cugino di Bernari, come dicevamo, ha una vita particolarmente rischiosa e spericolata ostentando, in maniera fin troppo disinvolta, la sua omosessualità e le sue idee antifasciste. Ma il discorso tra                                                                                                                 99 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Casa editrice V. Bompiani & C. S.A., Milano”, indirizzata a “S. Carlo Bernard / Quadrivio/ Piazza di Spagna, 66 / Roma”, datata Milano 12 settembre del 1934, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). Sottolineature nel testo originale.

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Bernari e Zavattini coinvolge sempre, e diremmo sempre di più, le arti visive, non solo la pittura e il disegno, ma la fotografia e il cinema, arti che avranno un ruolo centrale nella formazione dell’idea neorealista. La questione da ribadire resta, insomma, quella relativa alla centralità, nell’ambito della produzione creativa dei due scrittori, della pittura cui si sono entrambi dedicati attivamente, sia pur con diverse fortune. Nota è, ad esempio, l’attività artistica di Za che fu, nella sua genialità poliedrica, pittore a tempo pieno; mentre Bernari, pur coltivando il pallino del disegno e dei pennelli, ha proseguito solo estemporanemente e per svago la sua “passione” per il disegno che si rivela ad esempio in un ritratto di Guglielmo Pierce da lui realizzato nel 1930100. In questo caso in calce sono riportati la data e il soggetto del ritratto, poiché la calligrafia è proprio quella di Bernari, quindi non si tratta di una firma. Del resto, che quella per la pittura sia una passione di vecchia data per Bernari è dimostrato da questo piccolo dipinto, una tempera su cartoncino, realizzato nel 1939101, come una visione del capitolo XVI di Tre operai, intitolato Marco trova un impiego; ed Anna muore.

                                                                                                                100 101

Collezione privata Enrico Bernard. Collezione privata Enrico Bernard.

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Il rione Cattori era formato da un gruppetto di palazzine e due palazzi grandi, costruiti quasi sulla spiaggia, che si stendeva tra Torre Annunziata e Castellammare. [...] La plaga era arida e stepposa [...] La domenica anche gli operai andavano al bagno, ma si riunivano fra di loro e se ne stavano in disparte in qualche angolo della spiaggia, che non aveva fine; dove gli uomini e le cose, per la vista larga, si perdevano in una nebbiolina lucente che il caldo sollevava dalla rena. Le voci dei villeggianti si facevano eco di tenda in tenda e giungevano fino ai diseredati cariche di vapori, di colori e d’intatta felicità, e sembravano provenire da una terra ignota, dove tutto squilla di piacere e ogni cosa brilla, anche la spiaggia che, da quella parte, invece, appariva più sporca e triste. Il mare batteva quasi sempre su quel lato portandovi sbavature di alghe e di catrame, che seccandosi attiravano mosche, zanzare, nugoli di moscerini.102

Il quadretto, successivo di oltre cinque anni al romanzo, come attestato dalla firma “Bernari 1939”, sembra comunque essere un fotogramma che dalla pagina si materializza in una visione della stessa marina napoletana tra Torre Annunziata e Castellammare. Questa immagine infatti ritorna nel capitolo finale, significativamente intitolato La spiaggia, del penultimo romanzo di Bernari Il giorno degli assassinii. Qui ci troviamo nello stesso “villaggio estivo” in cui avevamo lasciato Teodoro nel finale di Tre operai, un epilogo che accumuna il personaggio bernariano del 1934, Teodoro, al suo epigono, Lo Scrivente, del romanzo del 1981:

Allora vivevo in una casetta di un Villaggio estivo, sorto su un arenile, poco distante dalla città, e che si popolava soltanto durante le vacanze; mentre nei mesi invernali, quando io vi fui portato da Lea, era un deserto di sabbia, di rovi bruciati dalla salsedine, e di vento.

A questo punto la descrizione si interseca con la stessa spiaggia di Tre operai, di cui il quadretto del 1939 sembra essere una sorta di fotogramma interiore impresso nella memoria visiva dello scrittore, tanto da riemergere quasi mezzo secolo dopo:

                                                                                                                102

B ERNARI, Tre operai, cit., pp. 115–6.

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L’alta marea vi aveva lasciato appena una striscia di rena asciutta, sotto un manto di sterpaglie, di alghe, di spugne marine.

In realtà Bernari nel 1980 non aveva sotto gli occhi il suo dipinto giovanile: esso era sepolto in un cassetto del mio armadio, destinato probabilmente ad essere gettato se non lo avessi salvato. Mia madre che mi rimetteva a posto i cassetti lo stava stracciando, nella riproduzione si nota il segno dello strappo, quando riuscii a fermarla perché avevo iniziata una collezione di disegnini di vari artisti. Questa testimonianza personale rende ancor più significativa la descrizione del capitolo La spiaggia de Il giorno degli assassinii del 1980: essa fotografa esattamente il quadretto che mio padre aveva realizzato decenni prima:

Margini stenti di verde nel grigiore del cemento segnavano incerti limiti tra una villetta e l’altra. Pochi e rinsecchiti gli alberi che riuscivano ad elevare qualche smunto ramo oltre le recinzioni; pronti a chinare anche quei pochi ciuffi dal verde malato all’impeto del maestrale che spalmava attorno, fin sui vetri delle finestre, mani di salmastro.103

Tuttavia, se è vero che Bernari non è stato un pittore se non in rari momenti di pausa dalla scrittura, va citata la sua attenzione per il mondo dell’arte figurativa e della pittura attraverso amicizie profonde e di lunga data con pittori come Alberto Sughi, Domenico Cantatore, Carlo Carrà, Ernesto Treccani, Emilio Greco, Renato Guttuso, Domenico Purificato, oltre ai sodalizi storici (Paolo Ricci e l’ultimo dei “circumvisionisti” Giordano in arte con lo pseudonimo di “Buchicco”) e alle amicizie con giovani artisti come Enzo Frascione, Vangelli, Pasini, De Tomy, Zanetti–Righi, Villoresi, Dessì e molti altri. Naturalmente Bernari trae ispirazione per le sue opere di narrativa dal rapporto con i pittori che sente a lui più vicini. Ma in qualche caso scopre una vera e propria simbiosi con alcuni amici artisti in particolare. Il primo è Domenico Cantatore, una figura di cui abbiamo già parlato in precedenza, ma sulla quale occorre spendere altre due parole.

                                                                                                                103 B ERNARI , Il giorno degli assassinii, cit., p. 169. Per la genesi del romanzo cui ho avuto modo di assistere e partecipare, cfr. B ERNARD E NRICO , Il giallo fulminante nella narrativa di Carlo Bernari, in «Studi novecenteschi», XXXVII, 80, luglio–dicembre 2010, pp. 339–59.

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L’amicizia tra Bernari e Cantatore era consolidata da un terzo personaggio che entrambi frequentavano assiduamente, Michele Pellicani, giornalista, politico e storico del movimento operaio.104 Le riunioni avvenivano di pomeriggio in casa Pellicani, in via Tagliamento a Roma, a pochi passi dalla sede del settimanale «l’Espresso», per cui gli incontri spesso si allargavano ai redattori che salivano per un “cicchetto” di whisky da Michele, considerato un grande intenditore e collezionista non solo di arte, ma anche di rare marche irlandesi e scozzesi; oppure, per le cene, a casa Bernari, dove immancabilmente mia madre, a conclusione del menù (solitamente sartù di riso e parmigiana di melanzane di cui erano tutti ghiotti), offriva un delizioso gelato al caffé preparato da lei stessa. Il rapporto con Domenico Cantatore travalicava la semplice e sincera amicizia. Infatti, grazie anche alla presenza silenziosa di Michele Pellicani, abilissimo a scatenare le discussioni politiche o artistiche per poi restarsene in disparte ad ascoltare, la stima tra il pittore e lo scrittore si era consolidata sempre più fino a raggiungere la forma di una sinergia. Bernari ha scritto diverse presentazioni alle cartelle di incisioni di Cantatore; una in particolare merita la nostra attenzione fin del titolo: Cantatore o della scrittura. La bozza del testo, battuta con la vecchia Olimpia su carta redazionale del «Mattino di Napoli», cui Bernari collaborava, è recentemente spuntata fuori da un fascicolo dell’Archivio.

Il   confine   che   separa   i   colori   della   tavolozza   del   pittore,   dalle   parole   dello   scrittore  è  una  linea  sottilissima,  talora  invisibile.  Spesso,  fra  l'una  e  l'altra   attività,   pittorica   o   letteraria,   si   determina   uno   scambio   in   cui   è   difficile   stabilire   quale   delle   due   espressioni   ha   prevalso;   ed   è   questa   la   ragione   che   continua   a   farci   dire:   pittore-­‐che-­‐scrive;   oppure   scrittore-­‐che-­‐dipinge;   pur   sapendo   ad   occhi   chiusi,   tuttavia   quale   delle   due   attitudini   privilegiare,   professionalmente  parlando.                                                                                                                     104

Fu eletto deputato per la prima volta nella IV Legislatura della Repubblica Italiana alla Camera dei Deputati nel 1963 per il Partito Socialista Democratico Italiano di Saragat. Successivamente, fra il 1968 e il 1976, è stato rieletto nella V e VI Legislatura per il Partito Socialista Unificato e infine per il Partito Socialista Italiano. Fu dunque nominato sottosegretario di stato nel Governo Rumor I alla Pubblica Istruzione; nel Governo Rumor III a Grazia e Giustizia; nel Governo Colombo a Grazia e Giustizia; nel Governo Rumor IV alla Difesa. Ha presentato numerose proposte di legge sia come primo firmatario che come co–proponente, fra le quali si evidenziano principalmente quella sul voto ai diciottenni, sulla pensione sociale, sulla obiezione di coscienza al servizio militare di leva, sul divorzio. Fu giornalista e direttore fra l’altro della rivista «Vie nuove» e del quotidiano del PSDI, «La giustizia», ha scritto inoltre svariati saggi politici sulla storia del movimento operaio.

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Dopo   questa   premessa     che   suggerisce   un   approccio   sinergico   all'attività   dell'artista  

contemporaneo,  Bernari    prosegue  con  alcuni  esemplificazioni:     Vi   sono   comunque     casi   singolari   in   cui   lo   scrittore   che   si   dedica   alla   pittura105,  anche  trasferendo  in  questa  attività  collaterale  o  suppletiva  gran   parte   del   suo   mondo   interiore,   raggiunge   talvolta   traguardi   si   sorprendente   autonomia.    Certo,  quando  vediamo  una  china  di  Victor  Hugo  o  di  Goethe,  o   un  dipinto  di  un  contemporaneo  come  Savinio  o  Pirandello,  come  Buzzati  o   Alfonso   Gatto   o   Montale,   benché   notandovi   trasfusa   gran   parte   del   loro   mondo   interiore,   finiamo   sempre   per   convenire   che   quel   mondo   si   è   arricchito   di   qualche   altro   elemento   che   non   è   riconfinabile   solamente   nelle   pagine   anche   se   eccelse   di   quegli   autori   […]   Ma   accade   anche   l'inverso,   quando   è     il   pittore   ad   invadere   il   campo   delle   lettere.   Il   pittore   allora   trasferisce  nella  scrittura,  insieme  ad  una  quantità  di  sensazioni  visive,  gran   parte   di   quell'humus   che   dà   vita   al   suo   mondo   pittorico;   ma   in   modo   aneddotico,  oserei  dire:  narrativo,  ecco,  come  se  il  pittore  attingesse  ad  un   altro  cielo  di  verità.  106

Da rimarcare l'espressione bernariana: «come se il pittore attingesse ad un altro cieolo di verità» che rivela la concezione dell'artista come “cercatore di verità”, indipendentemente dal mezzo espressivo e semmai in sinergia con ciascuno di esso. Si ha così l’impressione che il recentissimo saggio107 di Bernard–Henry Levy su pittura e scrittura, arte e filofofia, avrebbe potuto e dovuto tener conto di questi importanti precedenti. La seconda figura artistica di rilievo nella biografia bernariana è senz’altro il pittore di Cesena Alberto Sughi. Egli sembra raffigurare sulla tela personaggi, idee pittoriche, ambienti che Bernari traduce letterariamente. Sarebbe troppo lunga l’analisi delle forti corrispondenze, non solo visive ma addirittura ideologiche, tra il Sughi autore di Gran Caffé Italia e i personaggi, i salotti, le redazioni, romane e milanesi, dei romanzi di Bernari. L’amicizia e la collaborazione di Sughi con                                                                                                                 105

È il caso di Zavattini e in tono minore dello stesso Bernari. B ERNARI C ARLO , Cantatore o della scrittura, in «il Mattino di Napoli», 15 ottobre 1986, p. 3. 107 Cfr. H ENRI L ÉVY B ERNARD , Arte e filosofia, il grande armistizio, in «Corriere della Sera» del 6 giugno 2013, p. 37. Il saggio di Henry Lévy viene pubblicato dal quotidiano italiano in occasione della l’uscita in Francia del volume Le avventure della verità del filosofo francese. 106

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Bernari meritano sicuramente una ricerca a parte che darebbe luogo ad una ricostruzione artistica e ideologica degli ultimi quarant’anni del Novecento italiano.108 Qui possiamo solo accennare alla specularità visuale del narratore che, per usare un simpatico eufemismo, dipinge con le parole, e il pittore che scrive con le immagini. Conservo un foglietto di carta con uno schizzo di Bernari che raffigura un personaggio femminile sotto la sua firma a caratteri cubitali109:

                                                                                                                108 Cfr. C APOZZI , Arti visive e nuova oggettività nel primo Bernari, cit., pp. 140–162. Vedi anche la relazione di Rocco Capozzi Luce, colori e narrativa. Carlo Bernari critico d’arte in occasione del Convegno Internazionale: Carlo Bernari nel ventennale della morte tenutosi il 10–11 dicembre 2012 presso l’Università la Sapienza di Roma. Gli atti sono in corso di pubblicazione . 109 Era su un’agenda accanto al telefono di casa. Parlando Bernari aveva l’abitudine di fare qualche disegnino o prendere qualche appunto. Collezione privata Enrico Bernard.

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Ma in un altro quaderno lo stesso Alberto Sughi, era il 1969, mi ha dedicato un suo disegno110 così:

In un domani Enrico, ti nascerà il problema della donna. È un problema irrisolvibile ma appassionante.

Nei tratti della figura femminile di Sughi, che ricorre in tutta la sua opera pittorica, mi sembra di scorgere il personaggio femminile di Bernari, che ne attraversa l’opera narrativa: un personaggio femminile sicuramente idealizzato, ma che dimostra l’esistenza e la persistenza di fotogrammi della memoria che riaffiorano nella mente dello scrittore – anche quando sta conversando al telefono.

                                                                                                                110

Collezione privata Enrico Bernard.

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A partire dagli anni Cinquanta Bernari diventa un assiduo frequentatore di gallerie e mostre, di cui cura spesso cataloghi e presentazioni, scrive recensioni di arte contemporanea e saggi. Tuttavia, sembra aver perfettamente interiorizzato lo schema immagine/parola dettatogli da Zavattini nel lontano 1932. Una lezione che insiste nella mente delle scrittore napoletano quando realizza su carta velina una ventina di disegni raffiguranti una mano che scrive disegnando o che disegna scrivendo:

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In questo schizzo sono raffigurati diversi momenti del processo di scrittura e di illustrazione: c’è una mano con la matita che disegna due mani che battono sulla tastiera di una macchina da scrivere; una mano che disegna un personaggio della narrazione... accanto la firma accennata (Carlo) e un numero di telefono che non sapremo mai di chi fosse.

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Raccontare disegnando, Scrivere con le immagini, Un quadro come una pagina scritta, Cantatore ovvero della scrittura, sono i titoli delle introduzioni di Bernari ai cataloghi delle mostre di amici pittori come Enzo Frascione, Paolo Villoresi, Sughi e Domenico Cantatore: titoli che confermano, a questo punto, origine e finalità di un’arte visiva, la pittura, che attraverso il teatro elabora “criticamente” il fotogramma della realtà attraverso la narrazione che si sviluppa, a sua volta, nella finzione – cioè in una seconda realtà cinematografica. Le immagini così prodotte, 55    

secondo la visione di Bernari e Zavattini, sembrano riallacciarsi ai padri della pittura e della letteratura italiane – Giotto e Dante Alighieri – il primo impegnato nella rappresentazione drammatica e il secondo nella drammatica rappresentazione, la Commedia appunto, della realtà del suo tempo.

Un piccolo ma significativo aneddoto spiega come l’immagine, la rappresentazione grafica o pittorica, sia parte integrante non solo dell’opera di Zavattini e di Bernari, ma coinvolga la vita quotidiana, i rapporti interpersonali. Zavattini comunicava spesso e volentieri tramite disegnini o quadretti: mi fece ad esempio pervenire nel giorno del mio matrimonio, al posto del classico telegramma, un quadretto augurale111 con su scritto:

W gli sposi Cesare (salutatemi i rispettivi genitori da Zavattini)

                                                                                                                111

Collezione privata Enrico Bernard.

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Ciò illustra eloquentemente la funzione dell’immagine figurativa, del quadro come del disegno, nell’opera dei due scrittori che, fin dalle prime, fondamentali esperienze letterarie, procedono verso una forma di narrazione che prolunga la scrittura in una vera e propria rappresentazione plastica. Nascono così le didascalie dei capitoli del romanzo d’esordio di Bernari, veri e propri schemi da story board112 cinematografico, didascalie che non sono presenti nella precedente stesura (Gli stracci). L’incipit di Tre operai

è fulminante per la potenza visuale che ne caratterizza il

dinamismo della “carrellata” – prendendo in prestito un termine della tecnica cinematografica – al punto che potremmo dire che un regista non avrebbe potuto visualizzare meglio la scena iniziale di un film!

È domenica, di marzo. Luigi Barrin e il figlio Teodoro sulla via Poggioreale. In fondo, il cimitero coi suoi alberi folti e neri, poche nuvole gelate nel cielo chiaro. Nella piazza Nazionale vi sono due baracconi da fiera e un organetto che suona lentamente la Marsigliese. Vecchi cartelloni di propaganda elettorale pendono fradici dai muri.

Ecco dunque cosa spiega l’immediato, fortissimo interesse di Zavattini per l’opera prima del giovane amico: la sua forza visiva, la novità della forma "neorealista”, più dell’aspetto contenutistico. Non è neppure difficile immaginare la possibilità di una versione illustrata del romanzo di Bernari utilizzando semplicemente queste didascalie che preannunciano il contenuto dei capitoli. I – Da una domenica all’altra: la prima settimana di lavoro. II– Teodoro s’è fatto licenziare per scarso rendimento. Ma ora si accontenterebbe di un qualunque lavoro. III– Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai non si può essere che operai. IV– Teodoro non ne può più: ha bisogno di Maria; ma anche un po’ di Anna.                                                                                                                 112

Nella storyboard la sceneggiatura viene esemplificata con disegni e didascalie delle varie scene.

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V – Teodoro deve prendere una decisione. VI – Teodoro non sa far nulla di buono: e tantomeno apprezzare la povera Anna. VII–Teodoro ha deciso, parte con Marco De Martino che gli pare un uomo coraggioso e intelligente. VIII– Anna è libera: se ne va a Roma, e conosce i ladri dei poveri. IX – Teodoro fa colpo sulla prima donna che incontra; ma forse il lavoro non è fatto per lui. X – Di uno che cerca un pacifico lavoro la vita può farne anche un rivoluzionario. XI – Praticamente Teodoro impara che la mentalità e le idee sono il frutto di determinate condizioni d’ambiente. X – Anna trova un uomo che le vuole bene e d’un impiego. XIII – Teodoro ha studiato, s’è messo al corrente, ma i riformisti sono più forti di lui e gli fanno commettere una grande sciocchezza. XIV – Pippetto muore a Napoli. XV – Teodoro fa carriera nell’industria delle conserve alimentari. XVI – Marco trova un impiego: ed Anna muore. XVII – Agosto–settembre 1921: occupazione delle fabbriche. XVIII – Sbandamento. Naturalmente c’è dietro la tecnica che risale al romanzo cinquecentesco, in particolare Rabelais, nonchè il feuilletton romanzesco che Za è impegnato a rialaborare nell’ambito delle sue collaborazioni editoriali passando dai rotocalchi ai fumetti. La polemica su «Novella», anzi sulle “novelle per Novella” è il tallone d’Achille di Za che deve far capire agli amici la situazione e, soprattutto, deve spiegare che non è in discussione il loro valore letterario. Anzi, aggiunge Za, è vero magari il contrario, che per scrivere novelle per questi giornali non c’è bisogno di alcun valore.

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Sta di fatto che però questa insistenza da parte del più anziano e navigato amico accasatosi nella grande editoria milanese, convince Bernari a rivedere molte cose della sua attività creativa, in primis ad utilizzare la scrittura come se fosse un disegno, una illustrazione, come a dirsi: disegna prima con la mente quello che stai per scrivere. Vedremo in seguito come i passi ulteriori dello scrittore Bernari, e non potrebbe essere altrimenti, andranno in direzione della fotografia, del teatro e del cinema. Ma è altrettanto vero che Bernari giungerà a questa forma nuova di rappresentazione e interpretazione dell’oggettività, il neorealismo, attraverso il complesso delle arti visive che intersecano la sua intera produzione letteraria. La pittura in particolare, come si è detto, rappresenta sia da un punto di vista teorico che sotto l’aspetto pratico quel bacillo giovanile originario da cui scaturirà l’evoluzione rapida e drastica della sua scrittura. Possiamo chiudere questa sezione con una fotografia di Bernari che ritrae il pittore e scultore Pietro Consagra in occasione di una vernissage negli anni Sessanta: è la testimonianza della sinergia tra lo scrittore che fotografa un artista e ci porta ad introdurre l’argomento del prossimo capitolo, dedicato appunto alla fotografia.

  Link  per  il  saggio  completo:   Enrico   Bernard:   I   più   segreti   legami,   arti   visive   e   sinergie   neorealiste   nel   carteggio   Bernari-­‐Zavattini  (1932-­‐1989),  in  Rivista  di  Studi  Italiani  diretta  da  Anthony  Verna:  

www.rivistadistudiitaliani.it/filecounter2.php?id=1752     59    

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