Rapporto tra cinema di consumo e politica

September 11, 2017 | Autor: Franco Montanaro | Categoria: Comedy, Political Science, Cinema Studies
Share Embed


Descrição do Produto

ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE

TESI DI LAUREA IN SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

RAPPORTO TRA CINEMA DI CONSUMO (COMMEDIA) E POLITICA: DAGLI ANNI ’50 A OGGI

Relatore: Chiar.mo Prof.

Candidato:

FRANCO BONAZZI

FRANCO MONTANARO

Sessione ΙΙΙ Anno Accademico 2012 – 2013 1

INDICE Introduzione………………………………………………..p.3 CAPITOLO 1 – Breve storia delle origini del cinema...…p.5 1.1 - il cinema alle sue origini………...…………………….p.5 1.2 - il cinema come industria…...………………………….p.8 1.3 - la nascita dell’industria cinematografica in Italia…….p.12 CAPITOLO 2 – Il cambio di costume…………………...p.16 2.1 - la trasformazione del costume…………………….….p.16 2.2 - cinema tra ideologia e critica sociale………….……...p.25 2.3 - Gli anni ’50………………………………….………..p.30 CAPITOLO 3 – La commedia all’italiana…………....…p.36 3.1 - cosa s’intende per commedia…………………………p.36 3.2 - il comico e la commedia tradizionale…………………p.40 3.3 - cosa s’intende per commedia all’italiana …………….p.42 3.4 - gli anni ’60 – ’70……………………………..….……p.43 3.5 - i ‘nuovi comici’ degli anni ’80……………….….……p.53 Conclusione …………………………………………..…...p.65 Bibliografia…………………………………………...…..p.67

2

Introduzione: Ho scelto di occuparmi del rapporto che lega il cinema di commedia italiano alla politica dagli anni ’50 a oggi, cercando, ove rintracciabili, tracce di impegno civile o politico. La mia curiosità rivolta al genere della commedia in rapporto alla politica è data dal fatto che tale genere filmico è il più popolare da sempre, e si è rivelato nel corso degli anni un’ insospettabile veicolante di rimandi politici sulla società in continua evoluzione. Il cinema, in generale, è stato il principale mezzo dei regimi totalitari per contaminare l’ immaginario collettivo e veicolare messaggi politici. Ciò che trovo interessante in questo genere specifico, in particolare, consiste nella peculiarità che da sempre accompagna la commedia sin dai tempi di Aristofane: si possono veicolare messaggi che possiedono anche un contenuto politico, propri appunto del filone del cinema militante, in maniera non così esplicita ma non per questo meno efficace. Il cinema politico in Italia è stato spesso associato al cinema ‘impegnato’ o di sinistra e contrapposto al genere filmico “d’evasione” o di destra. E’ davvero possibile tracciare una tale e netta dicotomia che sia espressione fedele della filmografia italiana, tra quella più di consumo, che sia rappresentativa dei cliché di “destra’’ e di “sinistra’’? Presupponendo che i film politici siano spesso quelli in cui l’elemento ideologico è maggiormente implicito, possiamo leggere il cinema popolare italiano degli ultimi quarant’anni facendo emergere intrecci essenziali nella rielaborazione pubblica della politica in Italia, mettendo in luce come la politica si sia avvalsa degli strumenti e dell’immaginario cinematografico a fini di pura propaganda elettorale persino in alcuni prodotti apparentemente disimpegnati. Trovo personalmente più interessante che un’ analisi di questo tipo privilegi maggiormente un tipo di cinema che non si presenti di per sé come espressamente ‘militante’. Il cinema espressamente politico ha segnato un periodo importante della storia del cinema italiano a cavallo tra la fine degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta. Si tratta dunque di rintracciare il legame tra impegno civile, politico e cinema di consumo, capace di raccontare il nostro Paese con tutte le sue contraddizioni. In una modernità figlia del periodo post-ideologico che sembra aver smarrito la tradizionale contrapposizione destra-sinistra, risulta interessante affrontare la percezione delle due categorie, guardando al di fuori del già ampiamente ispezionato 3

spazio canonico del cinema cosiddetto militante per affidarci agli schemi narrativi del cinema di genere. L’idea portante di questo percorso è sempre quella di lasciare viva l’antica diade tra destra e sinistra affinché questa possa fungere da bussola per orientarsi nell’ampio orizzonte storico- politico sempre più complesso e sfuggente, di cui il cinema popolare ha saputo costituire uno specchio fedele e a volte chiarificatore. Come hanno sottolineato i due storici francesi Pierre Sorlin e Marc Ferro, il cinema di fiction è “suo malgrado’’ portatore di un carattere di testimonianza non meno capace di svelare il discorso della società su se stessa e di partecipare alla costruzione dell’immaginario collettivo. Se ciò vale per il cosiddetto cinema d’autore, vale anche per quei film considerati meno nobili e di successo, che abbracciano un pubblico ampio e variegato, anche in termini di preferenze politiche. In un certo senso, il territorio filmico, si configura come una sorta di terra di nessuno in cui è possibile “sospendere le ostilità’’, per mettere a confronto due parti che nella vita reale e quotidiana sono del tutto antitetiche e reciprocamente esclusive. Naturalmente, l’analisi proposta, non intende togliere importanza al cinema d’autore e al Neorealismo stesso, né intende assimilare esigenze modaiole degli ultimi anni, intese alla rivalutazione totale e indiscriminata del cinema cosiddetto trash ma piuttosto è utile per una consapevolezza iniziale del ruolo determinante che ha avuto il cinema di consumo negli ultimi quattro decenni sia nella formazione che nel nutrimento, conscio e inconscio, dell’immaginario politico più recente.

4

CAPITOLO 1

Breve storia delle origini del cinema 1.1Il

cinema alle sue origini

Il cinema è uno strumento moderno di comunicazione di massa e le sue origini si fanno risalire alla prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière, tenutasi il 28 Dicembre 1895 a Parigi. Tuttavia, in origine, nei paesi che si spartivano l’intero mercato, vale a dire il Nord America, la Francia e l’Inghilterra, fu per i primi dieci anni una sorta di fiera ambulante che coinvolgeva i ceti più bassi della società nei centri urbani. Negli ultimi anni dell’Ottocento la proiezione di film non costituisce uno spettacolo autonomo, è allestita in sedi precarie come caffè o sale da ballo oppure è integrata all’interno di spettacoli come il circo o il teatro. Eppure, nel giro di qualche decennio, questa forma di comunicazione avrebbe acquisito a pieno titolo lo status di ‘forma d’arte’. Secondo Burch le cause che contribuirono a rendere inizialmente il cinema poco appetibile alla classi più agiate erano da rintracciarsi in quattro categorie: 1-Cause tecnologiche 2-Cause economiche 3-Ideologiche 4-Biologiche Vi erano grandi difficoltà riguardo alla possibilità di fare riprese di una certa durata a causa della fabbricazione della cellulosa. Questo portava i film a essere proiettati in ambiti in cui, assieme allo spettacolo dal vivo, vi erano proiezioni tra loro non omogenee. Lo spettacolo appariva come frammentato e i luoghi stessi in cui questi spettacoli itineranti si svolgevano erano perlopiù fiere e caffè concerto che però non attiravano il pubblico medio, più propenso all’ illusione scenica del vaudeville. Va precisato, inoltre, che questo tipo di spettacolo veniva considerato anche per certi versi pericoloso, in virtù degli incendi che potevano divampare coinvolgendo gli 5

spettatori inermi, come nel caso del rogo del Bazar de la Charitè, che molto scalpore tra i ceti più agiati della società aveva destato. Le pellicole al nitrato e le lampade al gas o acetilene risultavano essere un mix pericoloso, capace di innescare pericolosi roghi. Se a questo si somma anche la scarsa propensione delle classi più agiate al rischio fisico e si pone da contro altare invece il fatto che un incidente sul lavoro era un evento assai comune per un operaio, o lavoratore manuale, capiamo allora come mai le classi più agiate si tenessero lontane dal frequentare questo genere di spettacoli. Per i lavoratori manuali e gli operai, il cinema, pur non essendo un luogo considerabile come comodo o sicuro, particolarmente igienico e ben areato, sembrava essere tutto sommato uno svago al cospetto dei pericoli e delle asprezze che il lavoro riservava loro quotidianamente. La borghesia era di tutt’altro avviso e metteva in conto ogni tipo di disagio connesso a questo ambiente. Nel suo primo decennio di vita il cinematografo in Europa dovette fare i conti con queste difficoltà e chi faceva cinema non poteva certo contare sul sistema delle sale per portare il pubblico a sé. Bisognava quindi rivolgere lo sguardo a quel tipo di pubblico che frequentava cafè concerto, music hall e fiere. Il cinema degli inizi si presentava quindi sia da un punto di vista produttivo che di fruizione, come un fenomeno prettamente popolare. In questo periodo, fino al 1908, in Inghilterra ad esempio, il pubblico che frequentava il cinema era prettamente operaio e popolare. I lavoratori inglesi avevano ricevuto migliori garanzie e diritti sul posto di lavoro se raffrontiamo le loro condizioni a quelle in cui versavano i loro corrispettivi francesi, erano un pubblico più evoluto e più capace di frequentare più assiduamente il cinematografo. Il quadro cambia radicalmente a partire dal 1910 e a dimostrazione di ciò vi è il cospicuo regresso del cinema d’oltremanica e la relativa ascesa di quello francese, che da solo rappresentava all’incirca il 40% del mercato complessivo. Questa profonda mutazione stava ad indicare una volontà precisa da parte delle classi dirigenti di rendere questo genere di spettacolo più tollerabile e adatto alla vista delle classi più agiate, eliminandone tutti gli elementi considerati offensivi della sensibilità delle classi borghesi. Diverso era lo scenario che già dal 1907 si poteva rintracciare Oltreoceano. Negli Stati Uniti il pubblico che seguiva il cinematografo era già cambiato da tempo e il cd. pubblico di massa era presente e aveva sostituito quello più popolare e meno composito ancora presente in Europa. Un elemento che contribuì ad allontanare il 6

pubblico più disagiato fu certamente la crisi economica, che non rendeva più possibile per gli strati più umili della società una spesa seppur esigua per uno svago. Altro fattore da non sottovalutare era anche la sopravvenuta stanchezza da parte di tale pubblico per spettacoli messi in pellicola che finivano per essere quasi sempre inseguimenti che monopolizzavano quasi tutte le produzioni del tempo. Fu chiaro allora a chi faceva cinema che l’unico modo per sopravvivere era quello di rivolgere lo sguardo verso un altro tipo di pubblico, più agiato e che meno dipendesse dalle oscillazioni economiche, che fosse in grado insomma di permettersi sempre questo tipo di spettacolo. Iniziarono così le prime censure e i primi ammiccamenti al pubblico che fino a quel momento era stato il pubblico del vaudeville e che nutriva una certa insinuata diffidenza per il cinematografo. Vi fu anche un aumento del prezzo del biglietto e con questo stratagemma si cercò di selezionare ancor di più gli spettatori. Inoltre, cosa di non poco conto, gli spettacoli proposti iniziavano ad essere più lunghi e articolati in una struttura narrativa nuova, più accattivante e capace di attirare il pubblico di massa.. Possiamo affermare che il cinema degli inizi abbia avuto una connotazione marcatamente popolare con corpose differenze fra Europa e Stati Uniti. Nella fase appena successiva, invece, si fa strada il cinema come fenomeno che coinvolge le classi sociali borghesi e più agiate, apprestandosi a divenire quella grande industria che avrà come modello di riferimento Hollywood.1

1.1 1F.Bonazzi,

Itinerari di Sociologia delle Comunicazioni, Franco Angeli, Milano, 1999

7

1.2 Il cinema come industria Come osserva un personaggio della Musa tragica di Henry James davanti a Notre Dame “ :>. >2. Il cinema, una volta acquistato il suo modo di rappresentazione insieme a un pubblico di massa stabile, diventò un fenomeno di prim’ordine capace di ritagliarsi un proprio settore nell’economia nelle nazioni che lo ospitavano. Iniziava tuttavia a sorgere un problema che sarebbe stato ontologico in tal senso per questa nuova forma d’espressione: il suo essere anche un’industria. Di qui la contrapposizione inevitabile fra cinema come forma d’arte e cinema come industria. A tal proposito, l’autore che meglio cerca di dirimere questa questione in termini organici è lo studioso Peter Bächlin, nella sua opera “ Der films als Ware ”, in cui sotto un’ ottica marxiana, snocciola il problema ponendo il cinema stesso come una merce che abbisogna di una produzione e alla cui fruizione e consumo è destinato un pubblico di massa, affinché vi sia ad essa connessa l’aspetto remunerativo. Secondo Bächlin “ In economia capitalistica, un film, in quanto produzione intellettuale, ha tutti i requisiti per essere un’opera d’arte ma è necessariamente anche una merce a causa delle diverse operazioni industriali

e commerciali richieste dalla sua

produzione e dal suo consumo ’’3. Il film ha bisogno di una produzione e di una distribuzione e di un consumo di massa. La macchina cinema si organizza come impresa ed essendo il film una merce, come in ogni sistema capitalistico, risente di concentrazioni industriali e monopoli che tentano di controllare il mercato e la distribuzione per diminuire i rischi d’impresa. Appare evidente che, tanto maggiori saranno gli investimenti e i capitali investiti sul prodotto film, quanto maggiori saranno i condizionamenti operati da chi investe sul versante prettamente artistico. Altra caratteristica del cinema in quanto fatto produttivo, è quella di prevedere un’alta specializzazione del lavoro e divisone dei ruoli. Ne deriva che il prodotto film, deve essere quanto più possibile standardizzato per arrivare a un pubblico sempre più vasto. Scrive infatti Bächlin “ Fin dall’inizio i produttori hanno cercato di 2H.James,

La musa tragica, Einaudi, Torino, 1996

3P.Bächlin,

Il cinema come industria, Feltrinelli, Milano, 1958

8

diminuire i rischi di vendita standardizzando non soltanto i metodi di lavorazione ma anche e soprattutto i film stessi. In questa standardizzazione vi sono tre aspetti da studiare: a) il sistema delle star; b) la limitazione dei soggetti a certe determinate categorie; c) la propaganda. Per lo studioso svizzero quindi, i fattori economici diventano assolutamente preminenti e centrali per affrontare un discorso sul cinema. Certamente il rigore schematico delle sue osservazioni risentono dello spirito della sua nazione d’origine ma è indubbio che le sue osservazioni abbiano avuto il merito, soprattutto in Italia, di ridimensionare i dibattiti intorno al cinema inteso solo come arte. Gli studi di Bächlin, in tal senso, risultano ancor più importanti da un punto di vista scientifico se si considera il periodo in cui egli tratta del cinema seguendo uno schema per certi versi impopolare, vista la diffusa concezione alimentata anche dalla massiccia pubblicità, che il cinematografo fosse questione poco attinente al discorso economico, portando ordine in un campo d’indagine in cui la confusione e la dispersione regnavano sovrane. Tuttavia in seguito, a partire dagli anni ’60, questo tipo di studi economici intorno al cinema non appaiono più sufficienti a descrivere il fenomeno nella sua interezza, nelle sue diverse sfaccettature. Studiosi di storia del cinema come D. Bordwell e Gian Piero Brunetta, ad esempio, hanno cercato di inserire le loro ricerche in un campo multidimensionale, in cui ogni singolo fattore viene scandagliato singolarmente e riportato agli altri. Basti pensare all’analisi di G.P. Brunetta sul cinema italiano, fondato sull’analisi di una molteplicità di elementi diversi tra loro che vanno dagli aspetti economico-finanziari a quelli politici, dagli elementi narratologici e stilistici a quelli legislativi e istituzionali. Una serie di dati che vengono raggruppati in aree omogenee e confrontati con quelli provenienti dai campi vicini. Per Brunetta, la storia del cinema non è solo storia del film ma un insieme di processi multipli e di forze differenti che si trovano ad interagire tra loro. Dunque l’approccio di Brunetta rappresenta essenzialmente una scelta di fondo, un modus operandi che tiene conto e fa sua la prospettiva secondo cui è la storia stessa ad essere un intreccio di più storie e che ogni sua analisi debba essere concepita come tale. Rispetto all’analisi proposta da Bächlin è evidente il salto in avanti e la prospettiva non più solo economico-industriale del fenomeno ma anche la sua relativizzazione in un contesto più ampio. A tal proposito, grande eco ebbe nel 1966 un capitolo de la Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer ed Adorno. Nel capitolo in questione, 9

intitolato L’industria culturale, i due studiosi pongono all’attenzione il fatto che il fatto che nei sistemi di economia appartenenti alla civiltà di massa, i dirigenti non hanno interesse a nascondere l’ intelaiatura del sistema stesso, in quanto ogni autorità si rafforza quanto più appare riconoscibile. I Film e la radio, secondo i due studiosi, non sono altro che prodotti lontani dal concetto di arte, prodotti che servono a tenere insieme il tutto finché il loro elemento livellatore si ripercuote nell’ingiustizia stessa a cui serviva. E’ davvero una critica radicale quella dei due studiosi che si spingono fino a considerare come le distinzioni attorno alle tipologie di film o fra storie in settimanali, fungano in egual misura da classificatori per i consumatori, con lo scopo di renderli più controllabili e manipolabili. Una volta ripartiti, i consumatori possono essere oggetto degli uffici di studio, che al pari di quelli di propaganda, li catalogano in gruppi di reddito, di istruzione e così via. Da quest’ ottica emerge una visione dello spettatore-consumatore asservito alle regole stabilite e gestite da chi gestisce l’industria cinema, senza possibilità di scelta. Questa situazione si ripercuote anche nel linguaggio stesso del cinema, che cerca di riprodurre il mondo fuori in maniera talmente meccanica e realistica, fino addirittura a far sembrare allo spettatore il mondo fuori come il prolungamento di quello mostrato su pellicola dal cinema. Lo spettatore viene così depauperato della possibilità di spaziare e muoversi liberamente per conto proprio con il suo immaginario, reso ormai addestrato a riconoscere solo la realtà come via percorribile dell’orizzonte narrativo stesso4. Quest’analisi è indubbiamente intrisa di un negativismo esasperato che per molti altri critici è eccessivamente semplificativo e meccanico, ma ha avuto il pregio di mettere in luce alcuni meccanismi di cui questa nuova industria del consenso si serve per attirare a sé lo spettatore-consumatore. Altra opera importante in questa direzione è il libro del sociologo tedesco Siegfried Kracauer dal titolo ‘From Caligari to Hitler’. In quest’opera l’autore muove un’attenta analisi delle pellicole tedesche che vanno dal 1918 al 1933 e cerca di scoprire attraverso questa, le correlazioni esistenti che portarono la Germania di quel periodo ad abbracciare la tirannia del nazismo. Per Kracauer il cinema, più della radio, della televisione, libri e della carta stampata è fenomeno destinato a un pubblico di massa che più compiutamente di altri contiene elementi e indicatori utili a spiegare l’evoluzione sociale, storica e culturale della società in un determinato 4M.Horkheimer

e T.W.Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Biblioteca Einaudi, Torino, 1997

10

periodo. In effetti, i film tedeschi degli anni venti del cosiddetto espressionismo tedesco, avevano in sé molti degli elementi e delle suggestioni che sarebbero state successivamente incorporate nella pratica politica da Hitler. L’autore è convinto che ci sia un nesso di causalità tra le pellicole di questo periodo e gli eventi storicosociali che portarono all’ascesa del Nazismo. L’analisi di Kracauer si muove lungo la presa in esame delle pellicole tedesche e dei suoi personaggi principali: Caligari, Mabuse e Nosferatu diventano prodomi dei futuri tiranni che la società tedesca conoscerà di lì a poco. Appare suggestivo il raffronto operato dall’autore tedesco e a tal proposito interessante è l’analisi psicologica che accompagna tutta l’opera di Kracauer con speciale riguardo al film di Lang (Mabuse). Ciò che ne emerge è un clima di depravazione, anarchia, orge in cui Mabuse, da criminale incallito si muove, come un tiranno alla maniera di Hitler.5 Lo studioso tedesco conclude infatti la sua opera così: “Irrimediabilmente piombata nel regresso, la maggior parte del popolo tedesco non poté fare a meno di sottomettersi a Hitler. Poiché la Germania realizzava così quanto il suo cinema aveva previsto fin dai suoi inizi, importanti personaggi dello schermo presero realmente vita. Sogni incarnati di menti timorose della libertà come in uno choc fatale e continuamente tentate dall’adolescenza, questi personaggi affollarono le scene della Germania nazista. Homunculus andava attorno in carne ed ossa, autoelettisi Caligari spingevano migliaia di Cesari all’assassinio, pazzi Mabuse commettevano impunemente delitti fantastici e gli Ivàn escogitavano inaudite torture. E insieme a questa lugubre processione di personaggi, molti motivi cari allo schermo si tradussero in realtà. A Norimberga venne adottato su larga scala lo schema ornamentale di I Nibelunghi, quell’oceano di bandiere e di folla artisticamente disposta. Lo spirito veniva completamente manipolato in modo da dare l’illusione che il cuore facesse da mediatore fra cervello e braccio. Battaglie infuriavano e vittorie seguivano a vittorie. Tutto era come era stato sullo schermo. E anche gli oscuri presentimenti di uno sfacelo finale si realizzarono.’’6 L’opera di Kracauer ha riscosso un notevole successo ed è uno dei libri sul cinema del dopoguerra che maggiormente è riuscito a imporsi a un vasto pubblico di non solo studiosi del settore cinema. Al di là della suggestione delle tesi proposte dallo studioso, il libro ha il merito di aver dimostrato come al cinema possano essere 5S.Kracauer, 6Ibidem,

Da Caligari a Hitler,una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, Torino, 2001

pag.339

11

affiancate branche di studio diverse come la sociologia, la psicologia e la storia, rappresentando a suo modo un modello per chi intende avere un’ottica ad ampio raggio del cinema stesso. In questo libro si sottolinea il ruolo di fonte, di testimonianza del film e l’importanza del cinema stesso nel fornire documenti significativi per capire come ogni cultura rappresenti sé stessa.

1.3 La nascita dell’industria cinematografica in Italia “Diciotto anni ho lavorato di cinematografia – scriveva Arrigo Frusta, sceneggiatore e regista del cinema muto – ora di voglia, ora di gusto, ora come viene viene; se con intelligenza e con garbo, non sta a me scriverlo. Mai non ho pensato di dove fare dell’Arte. Dell’industria sì, che rendeva piuttosto benino, per non dire assai. Allora la fabbrica, che produceva i film (le chiamavano pellicole) era la Casa: Casa Ambrosio, Casa Pasquali, Casa Italia…e tutti, soggettisti, metteurs-en-scène , attrici e attori di teatro, o di circo, pittori, operatori, sarti, tutti si lavorava anonimamente per la Casa, che ci riuniva. Solo nel 1913 si annunziò che la Cabiria era di D’Annunzio: e non era vero. E il mio nome sui film cominciò da apparire a pena nel 1915, non so perché, con L’onore di morire. Ma la Spergiura e le Nozze d’oro e la Lampada della Nonna e il Granatiere Roland e cento e cento altri miei soggetti mai non ebbero né il nome dell’autore, né quello del metteurs-en-scène, né altri. Bastava per tutti la marca della Casa. E tutti si stava contenti, perché la cinematografia era un’industria’’7 La testimonianza di Arrigo Frusta, una delle maggiori figure del cinema torinese del primo Novecento, è utile per capire la situazione in cui versava il cinema muto italiano nel periodo precedente lo scoppio del primo conflitto mondiale. Senza dubbio, come ricordava il Frusta, il cinema italiano era già in questo periodo un’industria e l’anonimato era una prassi assai corrente, in quanto a garantire la qualità del prodotto bastava la Casa, il marchio di fabbrica, come per qualsiasi altro prodotto industriale. Un’ industria particolare, in cui anche il lavoro di maestranze non considerabili come squisitamente ‘artistiche’, aveva invece un carattere 7A.Frusta,

Ricordi di “uno della pellicola’’, Bianco e nero edizioni, Roma, 1952, pagg 31-32

12

‘creativo’, per usare un termine contemporaneo. Questa sua natura complessa, sfaccettata, a metà strada tra la dimensione produttiva di pellicole e foriera di stimoli estetici che si portano dietro un’emotività connessa ai film stessi intesi come spettacoli cinematografici, richiede un’analisi ad ampio raggio che non può tener conto solo del lato della produzione, con i suoi bilanci, le sue tabelle sulla concorrenza, il mercato, i consigli di amministrazione ecc…, anche perché di questo materiale che attesti documenti risalenti al periodo in questione è reperibile solo una minima parte di quanto appartenuto alle diverse case di produzione presenti in Italia nei primi anni del Novecento.8 Lo stesso G.P. Brunetta, a riguardo scriveva in riferimento allo scenario del 1907 “La storia di queste case di produzione è ancora tutta da scrivere: la mancanza di una storia economica rigorosa e scritta da specialisti, costruita sulla base di ricerche d’archivio sistematicamente presso gli uffici del lavoro, le camere di commercio, gli archivi di Stato, consentono solo di progredire di qualche passo e di documentare in modo meno improvvisato alcune ipotesi, ma non di mettere a fuoco con sicurezza un campo di problemi che sfuggono, per la perdita di gran parte dei materiali, a documentazioni sicure’’ 9. Nella stessa opera rivisitata e aggiornata del 1993, il Brunetta rivede in parte questa posizione, alla luce delle importanti analisi ed esplorazioni analitiche apportate alla materia da Aldo Bernardini, capaci a suo dire, di fornire un rapporto dettagliato sia culturale che inerente le dinamiche economiche delle case di produzione presenti in Italia nei primi anni del Novecento. E’ indubbio che il lavoro di stimati studiosi e ricercatori come Aldo Bernardini e non solo, abbia consentito di scoprire molte delle dinamiche riguardanti le prime attività produttive sorte con un certo carattere pioneristico, valutando dati riguardanti le loro dimensioni effettive, la quantità e la qualità stessa dei loro prodotti. Uno di questi, considerata invero la vera iniziatrice nel campo di ricerca è Maria Adriana Prolo, che con stile assai asciutto e chiaro forniva già nel 1951, una serie di informazioni di prima mano entro cui rintracciare lo spirito ispiratore del primo cinema torinese. Nella sua opera sul cinema muto italiano, Maria Adriana Prolo descrive con dovizia di particolari lo spirito pionieristico di uno dei primi e più importanti produttori di cinema dell'epoca: “Ambrosio che nel 1905 girò nuovamente 8G.

Rondolino, Un secolo di cinema italiano, Editrice il Castoro, Milano, 2000

9G.P.

Brunetta, Storia del cinema italiano 1895-1945, Editori Riuniti, Roma, 1979, pag.42

13

la corsa Susa-Moncenisio ed altri documentari che furono proiettati nel luglio-agosto al cinematografo di via Roma 25, impiantò una piattaforma nella sua villa oltre la barriera di Nizza, circondata con tende. Essa costituì il primo teatro di posa della “Ambrosio Film’’. Si scritturarono attori della compagnia Cuniberti e della Filodrammatica dialettale di Luigi Maggi, che da tipografo dell’ Utet diventa regista. Il giornalista E.M. Pasquali s’improvvisa soggettista cinematografico, i pittori Decorso Bonifanti e Borgogno s’improvvisarono scenografi. Nel giardino della villa, o nei boschi di Stupinigi, o sulle rive del Sangone o nel Castello Medievale di Valentino, si girano drammatiche scene di costume, od avventure di uomini insensati che rincorrono signorina che insegue prete che rincorre grossa balia che rincorre un pompiere che insegue un cane che fugge con una interminabile filza di salamini. Siamo nell’orgia del movimento cui già abbiamo accennato: al cinematografo cinematografico’’10. Emerge da queste righe lo spirito pioneristico e avventuriero, la curiosità che aveva spinto Arturo Ambrosio a divenire il primo produttore cinematografico torinese. Tra i produttori dell’epoca fu certamente Ambrosio a capire con ragionevole anticipo rispetto alla concorrenza, le potenzialità commerciali del cinematografo, fino ad arrivare a intuirne gli sviluppi successivi. Nasceva così l’industria del cinema a Torino, costeggiata intorno da un panorama mondano in cui industria, cultura, commercio e spettacolo si mescolavano. Si svilupparono e presero piede i primi lavori a soggetto, che permisero ai film di non essere schiavi del ristretto campo della riproduzione del reale in movimento, consentendo l’adesione a esso di un pubblico che vedeva affiancare al teatro, un nuovo spettacolo popolare, capace di ben altre possibilità fantastiche e spettacolari. Torino, ancor prima di Hollywood, divenne il polo privilegiato del cinema in Italia, capace di formare un modello consolidato (di cui accennava la Prolo), di essere un’industria con tutti i crismi, i pregi e i difetti del caso. Si passò nel giro di poco tempo da una dimensione artigianale a una dimensione industriale in cui il lavoro diviene altamente specializzato, come una piramide , in cui le mansioni vengono divise e la macchina produttiva è capace di saziare la grande fame di narrativa sotto forma di immagini e suoni proveniente da un pubblico sempre più numeroso. Il tutto fu favorito dallo sviluppo industriale che la città stava conoscendo in questo periodo accompagnato da una borghesia aperta a nuovi scenari politici e culturali, 10M.A.

Prolo, Storia del cinema muto italiano, Poligono, Milano, 1951, pag.21

14

considerando che fra gli azionisti delle maggiori case produttrici del tempo figuravano banchieri, industriali e uomini d’affari. Un orizzonte in cui spirito d’avventura si fondeva con la serietà e la progettualità indispensabili per ogni settore d’impresa che si rispetti. Di questo nuovo strumento fecero la loro ragione di vita i primi arditi e coraggiosi produttori cinematografici, allettati non solo dalle prospettive di guadagno, ma anche, seppur in secondo luogo, dalla possibilità di spezzare la monotonia quotidiana, una valvola di sfogo per la società dalla nascente industria delle grandi fabbriche, con il lavoro meccanico della catena di montaggio e la fatica degli operai. Si avventurarono su una strada fino ad allora non praticata e tanto ricca di insidie quanto interessante, una strada che portava con sé una concezione nuova e differente della vita stessa.

15

CAPITOLO 2

Il cambio di costume 2.1 La trasformazione del costume Nel consultare un qualsiasi vocabolario, alla voce ‘costume’, troviamo tra le altre definizioni: “ Modo di comportarsi per abitudine acquisita (o anche, talora, seppure meno propriam. naturale), condotta morale’’. Da un punto di vista sociologico possiamo inquadrare il costume come un insieme di elementi, oltre al modo di comportarsi e alla condotta morale, caratterizzati dalle tradizioni, dagli usi e dalle consuetudini che caratterizzano un gruppo sociale o una comunità in un determinato momento storico. Il costume è quindi inquadrabile come un ordine sociale di riferimento per un gruppo sociale, un ordine mutevole, capace di cambiare e perciò meno refrattario al cambiamento della morale stessa, più statica e rigida da questo punto di vista. E’ una sorta di codice comportamentale che incide concretamente sul presente pur rifacendosi in qualche modo al passato, un codice non ferreo, la cui eventuale violazione non porta a conseguenze gravi come quelle previste per i reati, e le condotte immorali, ma che anzi ammette al proprio interno una certa discrezionalità da parte degli agenti sociali. Quando si parla di costume ci si riferisce al modo concreto di comportamento delle persone più che a un complesso di grandi norme morali o culturali. Perché allora prendere in esame il costume? Il motivo sta nel fatto che esso è rintracciabile nel cinema e nelle storie che attraverso il cinema vengono narrate. Sebbene le storie narrate dal cinema non siano vere, ma ascrivibili al mondo dell’immaginazione, risulta evidente la necessità di contestualizzarle in un ambito di verosimiglianza che fornisca allo spettatore le coordinate del tempo e dei luoghi in cui le vicende sono narrate, rispettandone per quanto possibile le convenzioni del tempo. Il cinema si occupa di rappresentare le convenzioni del quotidiano, un’operazione non semplice perché non tutto ciò che viene narrato dal cinema risulta essere poi ricostruzione attendibile. Il materiale cinematografico è per 16

certi versi somigliante a quello archeologico, ma per l’archeologo risulta più semplice interpretare i frammenti ritrovati e ricostruire ciò che è andato perso rispetto al lavoro interpretativo prettamente ‘sociologico’ che spetta a chi voglia ricostruire delle tipologie appartenenti ad elementi come i rapporti sociali, i sentimenti e le passioni raccontando una storia. Risulta compito difficile per il cinema quello di rendersi efficace nella ricostruzione fedele ed esauriente del mutamento sociale o di organizzazione sociale e istituzionale. Meglio gli riesce di rappresentare gli usi della vita quotidiana e le tematiche del ‘privato’ riguardanti la famiglia, i sentimenti ecc. Ma ci sono eventi, come una guerra, ad esempio, capaci di sconvolgere un paese e di rimettere tutto in discussione, anche la stessa capacità del cinema di saper raccontare un paese e i suoi cambiamenti.11 Se pensiamo all’evento che senza ombra di dubbio si è rivelato come il più tragico del Novecento, la nostra mente va alla Seconda guerra mondiale. Questa ha rappresentato per il nostro cinema una grande riserva da cui attingere, raccontando con grandi opere il nostro Paese e le sue ferite, le sue contraddizioni e illusioni, oltre che le sue speranze. Nonostante il carattere tragico e disastroso del conflitto mondiale, questo si rivelò al contrario per il cinema italiano foriero di indiscutibili fortune. A determinarle furono, come anche in altri Paesi, milioni di persone desiderose di svago e di allentare la pressione generata dal conflitto. Il cinema poteva soddisfare questo bisogno a un prezzo accessibile. Gli italiani avevano bisogno di tornare ad allentare la pressione esercitata dalla guerra. Dal 1938 al 1942 i biglietti venduti crescono esponenzialmente. Una legge del ’38, in pieno regime fascista, nazionalizzò le importazioni delle pellicole straniere. Questa decisione si portò dietro numerose critiche, tra cui quella dell’allora direttore della cinematografia Luigi Freddi, il quale temeva una rappresaglia in massa delle case americane, volta a danneggiare il cinema italiano a livello internazionale. In effetti, la reazione delle case americane non tardò a venire: Tutte le più importanti major americane (La Fox, la Paramount, la Warner e la Metro) si rifiutarono di cedere i diritti delle loro pellicole, creando così di fatti uno spazio maggiore nel mercato per le pellicole europee e italiane. Fino al 1938 la situazione a livello di incassi era la seguente: il 63,6% degli incassi proveniva da film americani e solo il 13,6% da pellicole italiane. La domanda di intrattenimento cinematografico era in ascesa e per non comprimerla si diede maggiore spazio a pellicole tedesche, 11G.

Rondolino, Un secolo di cinema italiano, Editrice il Castoro, Roma, 2000

17

spagnole, francesi ma anche norvegesi, svedesi e cecoslovacche e rumene. Pur essendo non pochi i limiti alla libertà di informazione, lo scenario appariva tutt’altro che autarchico. L’embargo imposto ai film americani fece fiorire una serie di generi prima di allora ad esclusivo appannaggio statunitense: basti pensare al genere esotico, di avventura, al western, al dramma sentimentale ed in costume ecc. Quasi tutte le pellicole prodotte tra il ’41 e il ’43, sono piene di eccessivo romanticismo, sessuofobiche e risentono indubbiamente di una società in cui i costumi e i rapporti sociali pagano ancora dazio per la dittatura, a fronte di un’arretratezza favorita in misura non irrilevante da componenti ideologiche conservatrici, come la Chiesa cattolica di Pio XII. E’ questo il periodo in cui un certo divismo italiano rinasce nelle sembianze di nuovi comici come Macario e Totò, il quale tra l’altro, può contare anche sulla stima di illustri intellettuali come Zavattini e Campanile. Anche Aldo Fabrizi e Anna Magnani sono da annoverare tra i trionfatori del quinquennio bellico, così come i fratelli De Filippo, Eduardo, Peppino e Titina, che conquistano grande successo di pubblico portando al cinema le trasposizioni delle loro opere teatrali maggiormente di successo. Si sviluppa un certo consolidamento delle strutture cinematografiche che va di pari passo a un artigianato italiano, creatosi sulla base di una precisa politica di formazione dei giovani cresciuti al Centro Sperimentale diretto da Luigi Chiarini. Tra gli allievi di questo periodo ci sono tra gli altri: Pietro Germi, Steno, Sergio Sollima, Michelangelo Antonioni e Luigi Zampa. Sono passati ormai dieci anni dall’introduzione del sonoro e la generazione che si affaccia al mestiere di autore, regista è preparata, colta, ha saputo fare tesoro anche degli insegnamenti della scuola straniera, rappresentata da maestri del calibro di Chaplin, Lang, Ford, Capra, Griffith ed Ejzenštejn. Una nuova schiera di registi che attua un chiaro intento oppositore alla pratica grossolana e frettolosa che vede sempre più folta la schiera dei produttori disposti a investire solo su quei registi disposti ad obbedire alle ricette più commerciali. Tra questi ci sono: Ferdinando Maria Poggioli (“Addio giovinezza”, “Sissignora”, “La morte civile”, “Gelosia” e “Le sorelle Materassi”), Mario Soldati (“Dora Nelson”, “Malombra”, “Quartieri alti”), Luchino Visconti (“Ossessione”), Roberto Rossellini (“la nave bianca”, “un pilota ritorna”, “L’uomo della croce”), Alberto Lattuada (“Giacomo l’idealista”) . Accanto a queste opere, altri registi come Mattioli, danno il via a un trittico di film abbastanza melensi sull’amore, non certo paragonabili per profondità e ricerca sociologica a opere del calibro di “Nessuno torna indietro” di Blasetti, che indaga la condizione 18

della donna o allo stesso “Una storia d’amore”, opera triste e sobria di Mario Camerini. Sono invece poco numerosi i film bellici. Oltre che per le oggettive difficoltà logistiche e organizzative relativa alla messa in scena che questi comportano, c’è un non latente timore reverenziale da parte degli autori nell’accostarsi a questo argomento. E’ la guerra che riaccende di fatti il dibattito su cinema e realtà che in Italia era già stato intrapreso negli anni Trenta ma che si era successivamente arenato. Il quindicinale “Cinema” con intellettuali come Umberto Barbaro, Giuseppe De Santis , Antonio Petrangeli e Carlo Lizzani si fa portabandiera di un certo distacco dal fascismo e di ogni possibile illusione legata alla soluzione autoritaria della dittatura, rispecchiando una notevole propensione alla militanza antifascista. Eppure, una delle maggiori novità del periodo viene proprio dal genere cinematografico militare : a tal riguardo, appare di notevole rilievo l’opera di Francesco De Robertis “Uomini sul fondo” (1941). Si tratta di un film in cui si mescolano le modalità documentaristiche e quelle più propriamente scaltre di dosaggio delle situazioni e della drammaticità della finzione. Il film tratta di un’operazione relativa al recupero di un sottomarino arenatosi durante un esercitazione militare. Questo film fu accolto in maniera benevola dalla critica e il regista ripropose, seppur con qualche variante, l’esperimento ben riuscito con altre opere come “Alfa Tau” (1942), “Uomini e cieli” (1943/47) e “Marinai senza stelle” (1943/49):c’è in questi film un elemento di notevole rottura col passato. De Robertis racconta storie di marinai e aviatori, di gente semplice, senza nessun approfondimento sul profilo psicologico dei personaggi, senza soprattutto l’utilizzo di attori professionisti. Questo modo di procedere è stato d’insegnamento per Roberto Rossellini e i suoi lavori. L’ottica di Rossellini è certamente sprovvista di un qualche fremito d’esaltazione dell’eroismo, è marcatamente rivolta all’aspetto conoscitivo, disadorna d’enfasi narrativa e munita di propensione didascalica. Opere come “Roma città aperta”, “La nave bianca” o “L’uomo della croce” testimoniano a pieno la strada intrapresa da Rossellini stesso.12 Due film, in particolare hanno anticipato quella che fu definita come la gloriosa stagione Neorealista: “Ossessione” (1943) di Luchino Visconti e “I bambini ci guardano” (1944) di Vittorio De Sica. L’opera in questione di Visconti è una trasposizione cinematografica del libro dell’americano James Cain dal titolo “il 12M. Argentieri,

Storia del cinema italiano, Newton Compton Editori, Roma, 2006

19

postino suona sempre due volte”. Il film racconta la storia di un adulterio e di un omicidio destando l’ira dei benpensanti, inquadrandosi come anticonformista e priva di retorica moralista. “veniva fortemente osteggiato dal regime per l’insolito pessimismo e l’aspro realismo con cui mostrava un’Italia marginale di miseria e di solitudine, ma ancor più per l’amor fou dei due amanti che viola ogni regola morale. Un’opera dunque aliena dal clima culturale dell’epoca, tuttavia calata in una geografia umana e sociale squisitamente italiana. Visconti e i suoi sceneggiatori, facendo propria la lezione del realismo americano degli anni Trenta e Quaranta, ne trasferiscono l’amaro pessimismo sociale in un Italia segnata dalla guerra, dalla miseria e dalla lotta clandestina”13. Fu inizialmente autorizzato dalla censura ma alcuni magistrati riuscirono a toglierlo di mezzo da alcune città del Nord. A spingere in questa direzione fu la stampa dipendente dalla Chiesa Cattolica oltre che l’associazionismo cattolico, in una tensione, tra autorità ecclesiastica e gli organi adibiti alla vigilanza, che volgeva al culmine nel ’43 ma che si protraeva dal ’40. L’autorità ecclesiastica accusava apertamente gli organi adibiti alla vigilanza di eccessiva permissività. “I bambini ci guardano” (1944) di Vittorio De Sica, metteva in scena invece il malessere familiare, raccontando la storia della fuga di un bambino che si rifiuta di assistere all’adulterio della madre con un amante venuto a trovarla in una località della costa ligure. “Un’altra via la intraprende Vittorio De Sica, volgendo le spalle alle garbate commedie precedenti dirette , “Rose scarlatte” (’40), “Maddalena zero in condotta” (’40), “Teresa Venerdì” (’41), “Un garibaldino al convento” (’42). “I bambini ci guardano” svela l’attitudine analitica di un autore che condivide con Cesare Zavattini, inseparabile collaboratore, la diffidenza nei riguardi dei discorsi gonfiati e dilatati e l’ostilità per l’ossequio alle convenzioni”14. Era la prima volta in cui il cinema italiano frugava, seppur con tono dimesso e tradizionale, nelle miserie della piccola borghesia, rappresentando un mondo senza vinti e vincitori. Tutto questo non piacque alla censura fascista ma neanche al pubblico piccolo borghese che in questo film poteva sicuramente identificarsi. Queste due opere hanno aperto la strada a quel fenomeno che tanto segnerà di lì a poco la storia del cinema italiano e mondiale: Il Neorealismo. 13M.

Fantoni Minnella, Non riconciliati , Utet Libreria, Torino, 2004, pagg.12,13

14M. Argentieri,

Storia del cinema italiano, Newton Compton Editori, Roma, 2006, pagg.54,55

20

“Se uno dei modi di verifica della politicità di un’opera cinematografica consiste nel valutare l’impatto con il potere dominante e la censura messa in atto da quello stesso potere, ecco allora che il neorealismo si configura perciò come un linguaggio intrinsecamente e profondamente politico che tuttavia non diventò mai un movimento organico”.15 E’ certamente una politicità non manifesta quella espressa dal Neorealismo, sottile, che lo spettatore percepiva come risultante di una visione critica, ma allo stesso tempo drammaticamente partecipe alle umane vicende, di una realtà sociale dilaniata dalla guerra e dall’occupazione nazifascista. Le storie narrate da Roberto Rossellini con “Paisà” (1946) o “Roma città aperta” (1945), o da Vittorio De Sica con “Sciuscià” (1946) e “Ladri di biciclette” (1948), sono portatrici di una presa di coscienza sui principi di libertà, di diritto e di democrazia su cui la futura Repubblica poggerà le sue stesse basi. Cesare Zavattini fu tra i primi intellettuali a cogliere la portata ampia del Neorealismo, che non si limitava a essere una corrente estetica ma piuttosto ad intercettare un intento e un linguaggio comune da parte di autori di provenienza diversa. Il Neorealismo intercettava l’autentico spirito e cultura antifascista, intrisa di quella cultura laica, cattolica, socialista o comunista che sarà la colonna dello Stato democratico e Repubblicano. La differenza tra Neorealismo e antifascismo risiede nel fatto che il primo fu aperto a farsi contaminare, dalla commedia al film storico, mentre il secondo ha sofferto la fine delle lotte operaie e la progressiva affermazione su scala europea delle politiche neo-liberiste, venendo di fatto fiaccato, sembrando agli occhi delle nuove generazioni come non più così attuale. Una grande capacità e merito riconducibile al Neorealismo fu quella di provocare i benpensanti, che rappresentavano così come oggi la maggioranza del Paese, senza però necessariamente ricorrere a sovrastrutture ideologicamente rigide ma con la precisa coscienza di rottura culturale, morale e di costume col passato, prima ancora che stilistica. “Molti riferimenti al costume nazionale nel nostro cinema, sono riferibili a un tema centrale e unificante: l’ascesa di un particolare gruppo sociale: la piccola borghesia. Questa è fortemente presente nel cinema che va dall’immediato dopoguerra alla fine degli anni Sessanta. Poi sembra sparire per riemergere dopo qualche anno profondamente cambiata. Fino agli anni Sessanta, l’italiano piccolo borghese è un 15M.

Fantoni Minnella, Non riconciliati , Utet Libreria, Torino, 2004,

21

grande lavoratore, familista e conformista convinto (molto attento ai poteri forti, religioso, politico, economico), “sta dentro” una precisa gerarchia di rapporti sociali e/o di classe, è più attento a ciò che è chiamato a fare-essere (i suoi doveri) che non ai propri diritti, ha traguardi modesti (in modesto benessere), è estroverso e pieno di inventività –fantasia. Passano dieci-quindici anni e lo ritroviamo profondamente cambiato: non sembra più ossessionato dal lavoro (e dalle difficoltà economiche), è preda di molte tentazioni e comunque non è più così “attaccato alla famiglia” (tanto è vero che non sono rari i casi di nuovi matrimoni), è interessato ai consumi, al benessere fisico e ai viaggi, appare libero dai poteri forti e riesce a esserne meno coinvolto-controllato, non è ossessionato dal dovere (professionale e sociale) ed è più attento ai propri diritti, non sembra utilizzare la sua creatività nel lavoro ma più nel tempo libero, è sempre estroverso ma meno simpatico (e, a volte, un po’ cafone) .”16 Cosa è stato a modificare usi e costumi dell’ identità collettiva di questa classe sociale rappresentativa di gran parte degli italiani ? Se usiamo solo il cinema per la nostra analisi, ci accorgiamo che le risposte convincenti latitano per due ragioni: da un lato, la profonda crisi del cinema italiano come numero di opere e capacità creativa dei registi negli anni Ottanta, dall’altro il fatto che vengono quasi sempre rappresentate le classi sociali relative alla piccola borghesia e in pochi casi si fa riferimento a grandi industriali e importanti uomini politici. Ne risulta un quadro ben preciso in cui la classe sociale della piccola borghesia viene rappresentata da individui protagonisti di storie private che è sempre più difficile contestualizzare, in cui risulta sempre meno evidente col passare del tempo la traccia di ciò che è esterno, del Paese, dei quartieri e dei loro mestieri. Mancano insomma grandi riferimenti alle lotte operaie e studentesche, alle correnti immigratorie interne ecc. Eppure, il borghese piccolo piccolo non è così lontano da tutto ciò ma è piuttosto occupato a costruirsi la sua piccola fetta di benessere. In tal senso, l’indagine sul costume potrebbe focalizzarsi sugli oggetti, i luoghi e i riti del ‘privato’ che fanno da testimone al cambiamento. Tutte quelle testimonianze che minore spazio hanno trovato nella letteratura, in una certa tv pedagogica di quel periodo possono essere rintracciate nel cinema, a patto che si unisca l’analisi del materiale iconografico mettendola in correlazione e attingendo anche ad altre fonti di studio come la 16G.

Rondolino, Un secolo di cinema italiano, Editrice il Castoro, Roma, 2000, pag.98

22

sociologia e l’antropologia. La realtà sociale di un certo periodo è una trama assai complessa e per essere compresa abbisogna di un’ analisi che non si fermi solo al cinema, pur attingendovi se possibile. Ciò che maggiormente differenzia i protagonisti piccolo borghesi protagonisti delle pellicole degli anni Sessata, rispetto a quelli degli anni Ottanta-Novanta è certamente il fatto che i primi avevano almeno la scusa di essere in fondo poveri ignoranti. Nelle commedie dei Vanzina i protagonisti sono cafoni ma non simpatici come i loro predecessori. Anche nelle commedie d’autore degli anni Ottanta sembra veleggiare una incapacità di vivere il proprio tempo da parte degli stessi protagonisti: si pensi a “La famiglia” di Scola o “La terrazza”, o a “il Portaborse”, in cui chi viola la morale non sembra poi così convinto di ciò che ha fatto o infine ai monologhi dei personaggi di Moretti, da cui si evince una chiara crisi generazionale. “Nei film comici italiani degli anni Ottanta, ad esempio, sfilano maschere, non personaggi. Si assiste cioè all’abbandono del personaggio classico della commedia all’italiana a favore di un ritorno della maschera regionale , di volta in volta toscana, romanesca, barese, milanese, napoletana. Mentre il comico degli anni ’60 sviluppava una linea di imitazione sociale, costruendo dei caratteri che venivano spinti dall’interno di un comportamento catastrofico e negativo, sulla scia del teatro comico di Molière, i nuovi comici si presentano come uomini senza qualità, senza carattere, eredi dello spirito dei “philosophes”, come veri e semplici sofisti, come dei logici irrimediabilmente compromessi dalla potenza disgregante della parola e della razionalità astratta. Più che da Molière sembrano venire dalla scuola di Diderot: come tanti sottoproletari della filosofia, mettono in atto un processo di moltiplicazione di se stessi spinto fino all’inverosimile, scindendosi, interpellandosi, rispondendosi. E soprattutto monologando”.17 Il fatto che sia il monologo e non il dialogo la forma imperante del comico nel cinema italiano degli anni ’80 fa capire come ci sia stata una caduta di socialità all’interno della società stessa. Un misto di smarrimento che si colloca in un contesto di costume dove tutto sembra permesso e possibile ma allo stesso tempo difficile da raggiungere. A riguardo, sembra interessante l’analisi proposta dai due sociologi francesi Luc Boltanski e Eve Chiapello, secondo cui la sinistra che noi conosciamo, si è costituita storicamente nell’arco di circa novant’anni (1870 – 1968). Ebbene, alla base di questa costituzione, i due sociologi pongono una duplice alleanza: fra una 17G.

Canova, L’occhio che ride, editoriale Modo srl, Milano, 1999, pag. 24

23

critica sociale al capitalismo (che veniva dalle classi oppresse, povere) e una critica culturale all’ipocrisia della borghesia (che veniva portata avanti dagli intellettuali e dagli artisti). Secondo i due studiosi, quest’alleanza ha funzionato pienamente fino al ’68 ma è entrata nettamente in crisi sin dai primi anni ’70, quando il capitalismo post-borghese

ha

iniziato

ad

accogliere

totalmente

le

rivendicazioni

liberalizzazione del costume, della sessualità e dell’immaginazione.

18

di

Anche il

cinema, in quanto forma d’arte e strumento artistico di critica alla borghesia, pare non essere sfuggito a questa crisi. Dagli anni ’80 sembra volgere la sua analisi al pessimismo e, di contro, la fiction televisiva offre una visione ottimistica della società, raccontando storie rassicuranti di gente normale che si impegna in lavori come giudice, madre premurosa, medico, avvocato, poliziotto ecc. L’analisi del materiale cinematografico appare più adatta quindi a fornire un quadro verosimile delle piccole cose della quotidianità piuttosto che a fornire i motivi profondi del cambiamento sociale. Le grandi storie che narrano di sentimenti, amore, amicizia, di grandi viaggi e mete collettive diventano esemplificatrici di un particolare periodo storico in cui il privato è diventato il campo privilegiato di rappresentazione. Anche se queste a volte non rappresentano in maniera veritiera e indiscutibile il periodo a cui si riferiscono, al loro interno è possibile rintracciare alcuni grandi mutamenti nel sociale e nel costume: il passaggio dalla povertà al benessere, il modificarsi dei rapporti di genere ecc. Il cinema, accentuando i caratteri, nel suo insieme, contribuisce a rendere possibile il confronto con società differenti appartenenti ad epoche diverse. Esso va analizzato e non concepito come documentazione attendibile di ciò di cui tratta, favorendo la ricostruzione della memoria storica, fornendo quei particolari che, la sociologia e la storia stessa a volte tralasciano, essendo queste orientate maggiormente all’analisi di grandi rappresentazioni.

18

L. Boltanski, E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris,1999

24

2.2 - Cinema tra ideologia e critica sociale “Ideologia e contraddizione coesistono nella produzione cinematografica. Un cinema esclusivamente ideologico, vale a dire totalmente orientato verso la trasmissione di parole d’ordine sarebbe insopportabile: lo dimostra il cinema sovietico degli anni 1945-1952, asfissiato dalla sua incapacità a fare altro che celebrare Stalin. Mentre si vendevano più di due miliardi di biglietti di cinema all’anno la produzione sovietica era di 18 film all’anno dal 1945-1952; solo il “disgelo” dopo la morte di Stalin consentì di aumentare la produzione. Il fascismo non ebbe mai la voglia, o la possibilità, di controllare totalmente la produzione italiana. Anche in una dittatura il cinema era impegnato nelle lotte derivanti dalla divisione sociale. Cercare, nel contenuto dei film, una visione critica della società è utile, ma insufficiente e troppo riduttivo[…] Per capire le disfunzioni e i conflitti interni bisogna considerare l’insieme del processo che va dalla scrittura della sceneggiatura alla proiezione.[…] Con i propri mezzi espressivi, che sono quelli dell’immagine e della finzione, il cinema lascia intravedere alcuni dei problemi che turbano un’epoca.”19 Pierre Sorlin, nel suo excursus sul film come tassello del contesto sociale, definisce il film come una sorta di drammaturgia della vita sociale della quale contribuisce a costruire le ideologie e i simboli.20 Il cinema risponde alle leggi del mercato essendo esso stesso un’industria. In quest’ottica i produttori sono tutt’altro che mecenati e devono tenere conto sia dei finanziamenti che possono arrivare dalle banche o dallo Stato, sia del potere dei distributori. La distribuzione in Italia è stata per molto tempo nelle mani di grandi compagnie che controllavano le prime visioni oltre che da svariate ditte di entità minore orientate alla gestione del mercato provinciale o regionale. A partire dagli anni Settanta si è avuta una maggiore concentrazione ma il sistema e le sue regole di fondo sono rimaste pressoché invariate: a farla da padrone sono sempre i grandi distributori, troppo attratti dalla possibilità di investire diminuendo i rischi e da piccoli distributori che allo stesso tempo appaiono troppo deboli per poter puntare su film che riescano a sorprendere il pubblico. Va considerato, inoltre, che l’industria cinematografica è al tempo stesso una forma di rappresentazione diretta al pubblico, è perciò spettacolo, suscettibile perciò dell’interesse da parte del potere, 19G. 20

Rondolino, Un secolo di cinema italiano, Editrice il Castoro, Roma, 2000, pag. 56

P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano, 1979

25

dello Stato. Allo Stato confluiscono una percentuale rilevante degli incassi ed esso stesso si occupa di distribuirli a un gruppo di potere piuttosto che a un altro. Allo Stato quindi interessa che l’industria del cinema funzioni bene. Nel sistema di liberalismo la macchina statale tollera anche quella che può essere considerata la produzione cinematografica maggiormente critica del sistema sociale o del regime politico, sapendo bene che tale produzione difficilmente troverà canali di distribuzione abbastanza grandi da potersi diffondere su larga scala. Un tentativo di controbattere la propaganda ufficiale fu quello operato della sinistra nell’immediato dopoguerra in Italia. Furono prodotti una serie di film volti ad indagare la situazione critica in cui versavano gli operatori e i contadini di un’ Italia che ancora non aveva conosciuto il famoso “boom economico”. Questi lavori denunciavano le ingiustizie patite da una gran parte dei cittadini e circolavano negli ambienti extra-parlamentari. Intrinsecamente, il valore oggettivo di questi documenti, che fotografavano con chiara lucidità alcune realtà sociali del periodo, è indubbio. Tuttavia, se teniamo conto di ciò che effettivamente è stato fruito e non di ciò che sarebbe stato interessante distribuire, la loro scarsa diffusione su larga scala, non ci consente di catalogarli come fatti sociali di grande rilevanza. Al contrario della letteratura, il cinema per sua natura ha come obiettivo quello di essere orientato al grande pubblico e deve tenere conto in misura maggiore di essa, sia delle opinioni che dei gusti che prevalgono presso la maggior parte dei fruitori stessi. E’ chiaro però che una larga scala di fruitori sarà appartenente a ceti sociali diversi, una classe avrà presumibilmente opinioni diverse e riterrà accettabile una serie di cose che invece possono non esserlo per le altre classi che compongono questa larga fetta di mercato. Uno dei modi per distinguere ciò che risulta accettabile a una vasta gamma di persone, appartenenti a diversi ceti sociali, da ciò che non lo è, è stata la censura. Della censura si è occupato in modo dettagliato lo storico di cinema Mino Argentieri nella sua opera “La censura nel cinema italiano”. Nella sua opera egli fa notare come l’Italia sia stata uno dei primi Paesi a trovare utile la censura per dirimere il problema sopracitato. Osservando quelle che sono le statistiche dei testi citati da Mino Argentieri ci si accorge di come sia effettivamente esiguo il numero complessivo dei film toccati parzialmente o totalmente dalla censura. Questo potrebbe significare, ad una prima analisi, che ai registi in generale, sia riuscito tuttavia di adeguarsi alle regole senza troppi patemi d’animo, mettendo alla luce opere per le quali non è stato necessario l’intervento della censura. A una seconda analisi, invece, più completa, 26

che tiene conto sia della rilettura dei testi che della legge del 1913 e dei decreti che l’hanno seguita, è possibile notare che: ciò che risulta vietato è sostanzialmente la critica alle istituzioni e qualsiasi allusione alla sessualità sotto l’aspetto fisico. E’ evidente quindi come sia consentito rappresentare la criminalità declinandola a fenomeno privato (singoli individui o parti di categorie sociali che si danno alla criminalità) a patto che queste devianze risultino alla fine punite. Il ruolo delle istituzioni, del governo in tal senso è quello di limitare l’imperfezione e la devianza insita nella società stessa, frapponendosi da scudo volto a proteggere la parte di società “sana”.21 Ebbene, nell’analisi della censura, occorre tenere presente come non sia utile a fini operativi, un approccio troppo semplicistico, ovvero ancorato a posizioni aprioristicamente ridicolizzanti, volte a sottolinearne solo la stupidità, la cecità, la tendenza a essere mero strumento ideologico nelle mani del potere, di cui esso si serve per costruire attorno a sé un consenso quanto più possibile generalizzato. In tale prospettiva, l’approccio di Marx appare certamente utile a spostare il focus permettendoci di mettere in luce altri aspetti della questione non meno interessanti, anche se più celati e meno evidenti. Interessante a tal riguardo è l’opera di Antonio Gramsci dal titolo “Il materialismo storico”, in cui lo stesso Gramsci spiega come Marx ritenesse l’ideologia come il luogo in cui è possibile ritrovare la manifestazione dei conflitti, ritenendo il fatto di saperla interpretare come fondamentale per riconoscere le opposizioni. Cosa si evince dall’assunto di fondo dello stesso Marx ? (tenendo conto della contestualizzazione temporale della sua analisi): Egli riteneva che le classi dirigenti fossero formate da un gruppo assai esiguo di capitalisti, capaci di controllare l’insegnamento e il mezzo di comunicazione della stampa (allora il mezzo più potente). Per Marx, quindi, era la classe dirigente a fornire gli strumenti necessari a comprendere il mondo e l’ideologia stessa era espressione diretta degli interessi dei dirigenti. 22 Gramsci però si spinge oltre, e ci fa notare come il concetto di ideologia si sia man mano allargato fino a comprendere anche “le elucubrazioni arbitrarie di determinati individui”. Ebbene, secondo Gramsci, per Marx stesso l’ideologia non era un concetto così allargato, ma solamente connaturato all’espressione dei rapporti di produzione, ritenendola la traduzione a livello di idee e rappresentazioni di questi stessi rapporti. 21M. Argentieri, 22A.

La cesura nel cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1974

Gramsci, Il materialismo storico, Editori Riuniti, Roma, 1971

27

Il mezzo cinematografico in quanto tale ha delle regole proprie ed è quindi espressione di un discorso ideologico, al di là del messaggio che trasmette. Non esiste cinema che non sia di per sé ideologico. 23 In Giappone, ad esempio, la comparsa del cinema ha rappresentato una vera e propria rivoluzione mentale per il pubblico. Il teatro nipponico non rappresenta, il palco appare vuoto ed è l’attore a compiere i gesti con cui suggerire uno scenario allo spettatore, che tuttavia è lasciato libero di immaginarlo, di costruirselo autonomamente. Con la comparsa del cinema, per gli spettatori giapponesi il mondo non poteva più essere immaginato ma era diventato un insieme esterno. Anche in Italia, seppur con minore spiazzamento, la comparsa del cinema, capace di rappresentare il mondo sullo schermo, ha cambiato la percezione del mondo stesso. Nella sua opera “Il Risorgimento”, Gramsci definisce l’ideologia dell’Italia moderna come uno sforzo per potenziare “l’iniziativa individuale, molecolare, privata” nella prospettiva di “una linea di sviluppo organicamente progressivo”24. Il cinema italiano, dalla metà degli anni Dieci agli anni Trenta, si è adattato a questa concezione ideologica. Occorre notare però, come il cinema, almeno nel primo decennio del Novecento, fosse in Italia attraversato da differenti tendenze. Uno dei registri ad apparire più imprevedibile in tal senso era il comico. A differenza degli altri Paesi Europei o dell’America stessa, dove il ruolo dell’attore comico, immesso in contesti semplici e prevedibili era funzionale a far sì che lo spettatore si riconoscesse in esso; in Italia, sia la costruzione narrativa che il ruolo stesso dell’attore erano concepiti in maniera più irregolare, meno schematica, basata su una concezione più fisica del ruolo dell’attore. Tuttavia, a partire dagli anni Venti, il cinema abbracciò il concetto di ideologia delineato dallo stesso Gramsci. Si possono notare, infatti, a tal riguardo alcune caratteristiche che portarono il cinema ad abbracciare il concetto di ideologia sopracitato: Innanzi tutto la scelta della forma racconto. Quella che oggi può sembrare scontata, è di fatti stata una scelta. Una scelta, quella della forma racconto, che include implicitamente una fine, che è interamente orientata verso una fine. Non importa di che tipo essa sia, se tragica, morale o immorale, l’importante è che lo spettatore sia sollevato dall’angustioso dilemma “E dopo cosa succederà ?”. Questa chiusura viene accompagnata da una fluidità del linguaggio, una fluidità che è resa tale da un uso 23Ibidem,

pag.57

24A .Gramsci,

Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma, 1971, pagg.93,94

28

del montaggio differente dal periodo precedente. Mentre nei primi film comici o nei melodrammi il montaggio serviva a mostrare, lasciando che i dettagli venissero inseriti senza transizione in riprese fatte in campo lungo. Al contrario, il racconto si serve dei movimenti di macchina, della luce e delle variazioni d’inquadratura affinché possano rendere fluido l’andamento verso la conclusione. Altro elemento interessante ai fini di quest’analisi è quello del divismo. Tra gli anni Trenta e Quaranta non fu possibile lo sviluppo di tale fenomeno per via della massiccia presenza su gli schermi di Mussolini. Non a caso, il fenomeno del divismo all’inizio degli anni Dieci in Italia fu ad appannaggio quasi esclusivo delle donne, mentre pochi erano i divi rintracciabili. Al contrario però le dive erano personaggi non aventi funzione narrativa rilevante. A partire dagli anni Trenta è sempre il maschio a dominare lo schermo, ad essere inserito nel racconto e a fungere da motore e azione dello stesso, che si parli di De Sica o di Amedeo Nazzari il risultato non cambia. Del primo cinema della corrente “gesticolatoria” facevano parte sia le dive così come il corpo degli attori comici e di fatti, nel nuovo cinema decisamente più schematico, non sembra più esserci spazio per essi, troppo sregolati, a tratti imbarazzanti. A partire dagli anni Venti, il cinema è diventato qualcosa di più rassicurante, che raggruppa un certo tipo di pubblico piuttosto che un altro, dove tutto è definito per bene, dal genere, dalla tecnica, dal racconto. Si lascia allo spettatore la possibilità di discutere alla fine del film i tratti psicologici dei personaggi ma è diventato, per riprendere la frase di Gramsci, quella “linea di sviluppo organicamente progressiva”. Il Neorealismo, con la sua presa diretta sulla realtà, saprà ridare slancio alla discussione attorno alle due dimensioni visive su cui le contraddizioni politiche si modellarono nel secondo dopoguerra: la narrazione e il documento

29

2.3 – Gli anni ‘50 Tra le nuove leve che si affacciano in questo periodo al mondo del cinema, venendo dal versante documentarista e critico l’uno, e dal versante rivistaiolo umorista, sceneggiatore l’altro, troviamo Michelangelo Antonioni e Federico Fellini. Fellini raggiunge grande successo e notorietà con “I vitelloni”(1953), arrivando a conquistare numerosi premi e l’Oscar con “La strada”(1954). Il regista romagnolo fa tesoro e conserva numerosi elementi del Neorealismo nelle sue opere, ma vi aggiunge un gusto accentuato per la magia, il sovrannaturale, il sogno e il mondo dell’irrazionale, del paranormale. Sono gli anni in cui nuove leve di registi che venivano dall’ambito documentaristico si affacciano al grande pubblico: Vittorio De Seta, Paolo e Vittorio Taviani, Gillo Pontecorvo, Ermanno Olmi ecc. Gli attori più amati dell’Italia postbellica, tanto desiderosa di lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e di poter ridere anche delle proprie sventure, sono Aldo Fabrizi e Anna Magnani. Ma l’astro che spunta e sorpassa ogni altro nelle preferenze del pubblico è certamente Totò. Con film parodistici come “I due orfanelli”, “Totò al giro d’Italia”, “Totò le Mokò” e “Totò sceicco”, l’attore napoletano si rivela al grande pubblico come un’ inesauribile maschera istrionica, istintiva e dotata di grande mimica e gestualità, che coniuga l’uso di invenzioni linguistiche caricaturali e dai risvolti surreali a tempi comici istintivi e perciò non riproducibili da altri. Una via di mezzo tra una comicità dirompente, che va dall’antica via maestra della commedia dell’arte, con sprazzi di salacità plautina, unita all’arguzia plebea, fino all’irriverenza qualunquistica della rivista e dell’avanspettacolo. L’intellighenzia, quella più avveduta, lo stima e lo ammira, l’altra parte pare snobbarlo. A volte i film (come si evince già dal titolo), costruiti su storie deboli, saranno pretesti per permettergli di dar vita a innumerevoli sketch e battute, precedentemente sperimentate sul palcoscenico della rivista. Egli reciterà infatti in centinaia di film, alcuni poveri di mezzi e sceneggiatura, tenuti in piedi grazie all’immenso talento naturale di cui l’attore partenopeo è dotato. Intanto, al termine del quinquennio postbellico, il parco attori, sia maschile che femminile appare profondamente rinnovato. Tra quelli della vecchia guardia, risultano ancora sulla breccia: Gino Cervi, Amedeo Nazzari, Alida Valli, Aldo 30

Fabrizi, Anna Magnani , i tre De Filippo e Vittorio De Sica. Tra i giovani emergenti, invece, si fanno strada tra gli altri: Vittorio Gassman, Enrico Maria Salerno, Marcello Mastroianni e Raf Vallone. Per quanto riguarda le donne, ci sono diverse ragazze, tra cui diverse ex concorrenti di Miss Italia, che risultano molto richieste dai produttori, tra cui spiccano: Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Silvana Pampanini. A queste si aggiungono Silvana Mangano, Sylva Koscina, Delia Scala e Marina Vlady. Sul versante comico si segnala l’arrivo, nella prima metà degli anni Cinquanta di Walter Chiari e Renato Rascel. Peppino, dei fratelli De Filippo, una volta staccatosi dal trio formato con Eduardo e Titina, tenterà con autorevolezza la strada per essere protagonista assoluto ma sarà spesso in coppia con Totò in numerose pellicole di successo. E’ questo il periodo in cui staziona al cinema con enorme successo, la coppia Gino Cervi e Fernandel, protagonisti delle vicende di “Don Camillo e Peppone”, tratte dai romanzi di Giovanni Guareschi. Un parroco e un sindaco comunista, perennemente in disputa ma alla fine pur sempre riconciliati. E’ una stilizzazione bonaria dell’antitesi comunismo – Chiesa Cattolica, sullo sfondo di una saga ridanciana pesano-romagnola. Verranno realizzati in tutto cinque episodi della serie, mentre fu interrotto il sesto e lasciato incompiuto a causa della morte dell’attore transalpino Fernandel. Per la prima volta nel cinema italiano, si parla esplicitamente di politica. Altri tentativi di satira politica vengono dalle commedie di scritte da Vitaliano Brancati e dirette da Luigi Zampa: “Anni difficili”(1948), “Anni facili”(1953) e “L’arte di arrangiarsi”(1955). Di rilievo, soprattutto “Anni difficili”, in cui un modesto impiegato viene costretto dal podestà, in pieno fascismo, a prendere la tessera per non perdere il suo posto di lavoro. Peccato che dopo la Liberazione, sarà proprio quella tessera a costar caro allo stesso impiegato, che perderà così il suo posto, mentre l’ex podestà riuscirà a riciclarsi a tal punto da diventare addirittura sindaco. La satira politica compare al cinema con i film di Brancati e Zampa, ma il vero e indiscusso protagonista della satira di costume è l’attore romano, proveniente dall’avanspettacolo e dal doppiaggio, Alberto Sordi. Tra il ’51 e il ’59 Sordi stesso girò 54 pellicole e molte di queste ritenute a detta della critica accettabili solo per via della sua verve, unita a grandi capacità attoriali. Era stato Fellini a lanciare Sordi, con “Lo sceicco bianco”(1952) e “i vitelloni”(1953), ma il successo presso il grande pubblico gli arride con due commedie dirette da Steno nel 1954: “Un americano a Roma” e “Un giorno in pretura”. E’ in questo stesso anno che Sordi incontrerà lo 31

sceneggiatore Rodolfo Sonego, che da questo momento in poi, saprà confezionare i migliori film di Sordi. La grande consacrazione definitiva per il personaggio di Sordi, dell’italiano con i suoi inguaribili difetti ma pur sempre buono, avverrà con “La Grande Guerra” di Monicelli. Ma gli anni Cinquanta sono soprattutto gli anni in cui la censura, per via Statale o indiretta (Chiesa cattolica) è più invasiva. L’accanimento nei confronti delle pellicole Neorealiste è evidente e si protrae senza sosta. Nel 1954, il Ministro della dell’Interno Mario Scelba, vieta alla Libertas (azienda distributrice di film sovietici in Italia) di distribuire in Italia le pellicole provenienti dall’URSS. L’Italia è governata da governi di centro-destra, tanto dinamici sul versante economico, quanto conservatori sul piano sociale, timorosi di una modernizzazione culturale e di costume, di quel cambiamento stesso, che nel Neorealismo è presente, con una forte carica di socializzazione. 25 Negli anni Cinquanta si cercò di superare il Neorealismo senza però rinnegarlo. Non v’era ragione, d’altronde, di rinnegare un periodo culturale, sociale e artistico così florido di idee e contenuti che Ermanno Olmi stesso ha saputo così sapientemente descrivere: “Il Neorealismo riportò il cinema a essere osservatore della realtà senza servire nessun altro scopo se non quello di attendere che la realtà si rivelasse in termini poetici. Per motivi di lavoro sono costretto a girare spesso, cambiando di continuo quelle residenze provvisorie che sono le camere d’albergo; posso badare al letto più o meno comodo, alla gradevolezza dell’arredo, ma quando entro in una stanza d’albergo, la prima cosa che guardo è la stanza da bagno. Ci sono alberghi un cui non entro nella vasca da bagno nemmeno per fare la doccia, ma quando mi capita una vasca bella, accogliente, di quelle che non sai perché ma capisci subito che lì dentro starai bene, allora faccio un bagno lungo e me la godo…il Neorealismo è stato proprio questo: una vasca dove abbiamo fatto pulizia profonda di tanto ciarpame, di tanto sudiciume stratificato, coperto da profumi che peggioravano la situazione anziché migliorarla. E’ stato un lavacro che ci ha fatto tornare a respirare un sano profumo di pulito”26 Le strade percorse furono due, di cui una fu subito abbandonata. In un primo momento si tentò di percorrere la prima strada, quella del cd. Realismo magico, ed un esempio in tal senso è rappresentato dal bellissimo film di Vittorio De Sica 25M. Argentieri, 26

Storia del cinema italiano, Newton Compton, Roma, 2000

E. Olmi, il sentimento della realtà, San Raffaele, Milano, 2008

32

“Miracolo a Milano”(1951). Il film, tratto dal romanzo di Cesare Zavattini “Totò il buono”, segnò l’ennesima collaborazione fruttuosa tra De Sica e lo stesso Zavattini, che già avevano collaborato insieme ad altri capolavori del Neorealismo come “Umberto D”, “Sciuscià” e “Ladri di biciclette”. Il film si sviluppa come una favola e racconta la storia di un ragazzo orfano che fa amicizia con due barboni e riesce a fidanzarsi con la sua amata. Del film, resta celebre la scena finale in cui i due barboni, accompagnati in Piazza del Duomo dal giovane Totò, rubano delle scope ai netturbini e con queste spiccano magicamente il volo verso quel paese immaginario da loro tanto agognato. Ci sono dunque elementi fantastici che fanno da sfondo a un contesto reale, in cui la sapiente sceneggiatura di Zavattini, De Sica e Suso Cecchi D’Amico mostra a pieno le contraddizioni tra ricchi e poveri. Il titolo originale del film durante il periodo di lavorazione era stato pensato in “I poveri disturbano”, ma fu cambiato in seguito alle costanti pressioni dei produttori e dei politici, che ritenevano il Neorealismo come un cattivo biglietto da vista per l’estero. L’impatto con il mondo politico non fu dei migliori: i progressisti lo ritennero eccessivamente evangelico e consolatorio, prova ne fu il divieto di distribuzione del film in Unione Sovietica. I conservatori, invece, giudicarono il film eversivo e lo ritennero addirittura d’ispirazione comunista. Come se non bastasse, anche l’impatto con il pubblico non fu positivo. Questo insuccesso, a dispetto di un prodotto di qualità, in linea con i precedenti lavori di De Sica, fu il chiaro segnale di come il pubblico italiano non era ancora pronto per seguire un certo discorso sul piano della fantasia: il fantastico era accettato solo se tranquillizzante e proveniente dall’America. Altro impatto e ben altra accoglienza anche in parte dalla critica, fu riservato al film di Renato Castellani “Due soldi di speranza”(1952), premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes. E’ questa la seconda strada che il cinema italiano intraprende per superare, senza rinnegarlo il Neorealismo. Il film narra la vicenda di un giovane militare in congedo (Vincenzo Musolino), il quale, dopo aver fatto diversi lavori, tra cui l’autista, il sacrestano, il venditore di bibite ecc. finisce per incontrare e sposare una ragazza povera ma felice come lui (Carmela). Nel film, i problemi legati alla povertà e alla disoccupazione, nonostante l’ambientazione realistica, appaiono non così gravi e tutto sommato risolvibili, in un quadro narrativo che non accenna a toni drammatici, ma che anzi, appare a tratti leggero, scanzonato e vivace. E’ l’amore sentimentale a essere al centro della tematica del film, mettendo tutto il resto in secondo piano. Il personaggio di Carmela è caratterizzato sulla falsa riga di quelli 33

femminili che presto si vedranno sul grande schermo, come la Bersagliera di “Pane amore e fantasia” di Luigi Comencini, o della Giovanna di “Poveri ma belli” di Dino Risi. Quest’opera è considerata a pieno titolo come capostipite del Neorealismo rosa, e condivide con il film di De Sica e Zavattini il fatto di segnare il tramonto della stagione Neorealista. All’amaro pessimismo della coppia Zavattini De Sica si contrappone il vivacissimo bozzettismo dialettale, lo strenuo e accattivante vitalismo mediterraneo intriso di una protesta sincera quanto velleitaria, contornata di una naturale esuberanza giovanile. Si arriva così al superamento del Neorealismo mediante la creazione di una narrativa popolare capace di integrare agli elementi esteriori del neorealismo, quelli tipici della commedia tradizionale, fatti di gag, fraintendimenti, travestimenti e scambi di persona. Grazie a questa combinazione fu possibile conservare per circa un decennio il Neorealismo, aggiornandolo, rigenerandolo, rendendolo ancora attuale e disponibile per la futura commedia di costume che a partire dall’anno di grazia 1958 rinnoverà il panorama cinematografico italiano. I punti di riferimento di questo “Neorealismo rosa” nuovo agli occhi dello spettatore, sono: il neorealismo di De Sica e Zavattini, dello stesso Zampa, la commedia hollywoodiana e il teatro goldoniano; ma anche l’opera buffa napoletana e il melodramma ottocentesco, con citazioni donizettiane e belliniane. Certo, si tratta di un Neorealismo allargato, in cui un certo bozzettismo e un certo rischio d’abuso della macchietta sono spesso dietro l’angolo, a delineare storie in cui i protagonisti sembrano spesso immersi in una sorta di paradiso di bontà naturale, in cui l’ordine sociale che sembrava minato inizialmente, alla fine si ristabilisce. Le donne, povere ma belle, sono tentate spesso da matrimoni vantaggiosi ma finiscono sempre per scegliere la strada dell’amore disinteressato ma felice. Così come accadrà per i giovani degli anni Ottanta, questa parentesi del cinema italiano si caratterizzerà per essere la commedia dei giovani, con la differenza che in questo caso i giovani sono le forze nuove del paese che si sta ricostruendo, che sta nascendo. La loro ingenuità è quindi naturale e non frutto di disimpegno o rifiuto dell’intelligenza. Numerose e a tratti ingiuste sono state le critiche rivolte a posteriori a questo genere, tacciato di eccessivo ottimismo e propensione accentuata per il consenso. Verso la fine del decennio il Neorealismo rosa volge al termine. Il segnale del suo tramonto è testimoniato dall’inserimento nei meccanismi ottimistici di una venatura di malinconia, quasi a voler significare la fine di un periodo di giovinezza spensierata. Renato Castellani era stato il precursore del genere del Neorealismo rosa, ed è 34

sempre un suo film “I sogni nel cassetto”(1957) a segnare stavolta il declino dello stesso. Il film racconta le vicende di due giovani squattrinati e felici, ma stavolta il finale è in decisa controtendenza con i suoi predecessori: quando sembra che per i due ragazzi tutto si realizzi per il meglio, i due giovani si svegliano infatti, e si accorgono d’aver sognato tutto, ritornando alla realtà. A un’ attenta analisi, tutto il film è disseminato di simboli e segnali di morte, in aperta rottura con le opere precedenti. Si apre la strada al nuovo filone che caratterizzerà gli anni Sessanta e Settanta. Il film considerato come simbolo di questo passaggio, è certamente “I soliti ignoti”(1958), che racconta le gesta di una squinternata banda di onesti morti di fame, interpretati anche dai giovani Gassman e Mastroianni, futuri mattatori della nuova commedia che sta per nascere. Emblematica, in tal senso, la scena in cui il maestro scassinatore intrepretato da Totò, dà lezioni di arte truffaldina ai suoi attenti allievi. Una sorta di passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo (Mastroianni, Gassman) che sta per venire.27

27E.

Giacovelli, La commedia all’italiana , Gremese Editore, Roma, 1995

35

CAPITOLO 3

La Commedia all’italiana 3.1 Cosa

s’intende per Commedia – (le origini)

Le origini della Commedia in senso proprio si fanno risalire alla Grecia del VI secolo a.C. La parola greca ‘comoidia’ sembra infatti derivare da ‘kòmos’ (corteo festivo) e ‘odè’ (canto). E’ facile pensare quindi che questa forma di drammaturgia derivi dalle antiche feste propiziatorie con riferimento ai culti dionisiaci. Anticamente, nella lingua italiana, si definiva tale un componimento poetico che giungesse ad un lieto fine. Lo stesso Dante intitola il suo poema ‘Comedia’, ritenendola un’ opera di mezzo tra la tragedia e l’elegia. La commedia può infatti vantare un albero genealogico molto esteso ed autorevole. In particolare, se si va ad analizzare la storia del teatro, si capisce come la commedia all’italiana sia imparentata con la commedia di origine greca e latina (Aristofane, Plauto, Terenzio) e con la commedia dell’arte; passando per il teatro comico rinascimentale (Shakespeare, Machiavelli) fino alla commedia borghese europea (Shaw, Wilde, Checov ). Eppure, gli antenati più vicini alla commedia all’italiana possono essere considerati il varietà e le riviste umoristiche. Dai palcoscenici della rivista e del varietà provengono Tognazzi, Sordi e Manfredi. Da questo nucleo primigenio arrivano dopo una opportuna gavetta molti degli autori e dei registi che faranno la fortuna di questo genere, rendendolo popolare nel mondo. Gli attori autori della commedia all’italiana sono debitori di precedenti colleghi, che non fecero tanta strada nel cinema (sia per scelta personale, che per ragioni prettamente anagrafiche). Basti pensare a Nicola Maldacea, inventore della macchietta, e soprattutto al grandissimo Ettore Petrolini, la cui comicità intrisa di elementi grotteschi e surreali, derivava dalla grande eredità della Commedia dell’ Arte. La comicità di Petrolini si stagliava entro un ordine di senso volto a scardinare 36

dalle fondamenta quello che era l’ordine fittizio di una certa società borghese, rea di essere ottusamente convinta e orgogliosa delle sue conquiste e delle sue inattaccabili convinzioni. La futura commedia che verrà appare come degna erede del lavoro di Petrolini; sembra sostituire all’ idiozia assoluta petroliniana portata agli estremi dal grottesco e dal paradosso, l’altrettanta idiozia nascosta sottotraccia dalla nascente società dei consumi. Petrolini era solito creare i suoi caratteri attingendo dalla strada, dalla vita vissuta, dalle botteghe, dai rioni popolari e, anche in questo si intravede una continuità tra il vecchio e il nuovo della commedia all’italiana. Anche Eduardo de Filippo, il più grande drammaturgo italiano del Novecento, assieme a Pirandello, proviene dal teatro popolare napoletano. Figlio del grande Eduardo Scarpetta, muove i primi passi col padre nel vaudeville. Eduardo ha saputo creare una sua commedia intrisa di profondità, di caratteri e risvolti drammatici. I suoi personaggi sono infatti sempre attorniati da una solitudine nei confronti della società che non accetta la loro ribellione. La società a cui fa riferimento Eduardo non è quella dei consumi, ma più precisamente la società di ogni tempo e luogo, e in questo senso la sua Napoli mitica, antica, eterna nella sua vitalità e nelle sue ingiustizie è il luogo perfetto per tale rappresentazione. Il teatro di Eduardo, il monumentale lascito di opere del drammaturgo partenopeo è di grande rilevanza qualitativa, sia per lo stile recitativo dello stesso attore/autore che per i contenuti. Il teatro dialettale prima di Eduardo non era visto con molto rispetto dalla critica, considerato come un genere di second’ordine, ma il superamento del dialetto e dell’italiano stesso, reso possibile dal lavoro sulla lingua e sul linguaggio del drammaturgo napoletano, capace di creare una lingua universale, conferì al suo teatro la considerazione da parte di tutta la critica colta italiana e mondiale. Il teatro di Eduardo, in misura prevalente, ruota attorno alle vicende familiari della famiglia della piccola e media borghesia meridionale e di quello che arriva dalla strada sembra arrivare solo un’ eco. L’opera di Eduardo sembra mettere in luce le dinamiche comportamentali degli uomini che, essendo costretti a vivere in vicinanza, tengono determinati comportamenti, assumono certi caratteri, innescando situazioni di conflitto. In questo senso la grande narrazione sociologica sembra spostarsi dai vicoli di Napoli (dall’esterno) all’interno. Dello stile recitativo personalissimo di Eduardo si ricorda tra le altre cose, l’uso delle pause, le frasi dal discorso a volte spezzato, in netta difformità con i canoni teatrali e cinematografici dell’epoca. Vi è un giudizio, a tal proposito, di un suo illustre collega oltre che ammiratore sincero, 37

che rende a pieno questo aspetto dello stile di Eduardo e del suo modo di mettere in scena se stesso e le sue storie: “Certo, Eduardo scrive "a monte" qualcosa che poi potrà minare in scena da quel grande attore che è. Non so quanto scientemente, ma lui si predispone la sua trappola, il famigerato copione cui crede tanto, tanto da restare ai posteri. In questo è donchisciottesco, e lo amo molto. Come si fa a non amare Don Chisciotte”28 Uno dei film di maggior successo di critica e pubblico della commedia all’italiana è il film di V. De Sica “Matrimonio all’italiana” (1964), il cui soggetto, non a caso, è tratto proprio da una celebre opera teatrale di Eduardo “Filomena Marturano” del 1946. L’amicizia e la collaborazione con V. De Sica fu feconda di altri esempi di sinergia, come in “Tempi nostri” e “L’oro di Napoli”. Anche il film del 1950 dello stesso Eduardo “Napoli Milionaria” è una trasposizione da una sua precedente opera teatrale risalente al 1945. Il rapporto tra Eduardo e il cinema tuttavia è stato fugace se rapportato alla sconfinata opera teatrale del drammaturgo napoletano, che si dedicò maggiormente alla televisione, portando in scena le sue opere attraverso la formula dello sceneggiato. Negli anni Sessanta si impongono nuove mode culturali importate dall’America. Il teatro di varietà lentamente scompare e i suoi autori e attori emigrano verso mete come cinema e televisione. Egual sorte tocca alle riviste umoristiche, che con la caduta del fascismo chiudono i battenti o si trasformano in sciatti giornali nello spirito e nella forma. La canzone italiana viene investita dalla nuova ondata di musica proveniente dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti: scompare così la canzone brillante, satirica e arrivano le nuove canzonette consumistiche separate dall’altra parte dalle canzoni dei cantautori che però non riescono a raccogliere un vasto pubblico. Si crea dunque una sorta di vuoto, lasciato dalla scomparsa di alcuni fenomeni tipici della nostra cultura che cedono il passo all’avanzare delle nuove mode, portate dal miracolo economico. Questo spazio sarà riempito dalla commedia all’italiana, che arriverà dopo la stagione dei “telefoni bianchi” e del Neorealismo rosa. Ma cosa s’intende per commedia? Un esempio molto pratico ed efficace, capace di chiarirci sin da subito, seppur solo in superficie, la differenza tra tragico, comico e commedia potrebbe essere quello di immaginare nella narrazione di una storia la 28

C. Bene, Opere, con l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano, 2002, pag.1146

38

passeggiata di un uomo e la sua successiva caduta al suolo. Se l’uomo in questione è vecchio, vestito di pochi stracci , abbandonato a se stesso e la rovinosa caduta vuole significare la sua dipartita misera, sullo sfondo di una società che non gli ha permesso di soddisfare i suoi bisogni, incurante come la folla che passa per strada, fatta eccezione per qualche passante che sembra volerlo soccorrere, magari con in sottofondo una musica triste, allora è evidente che questa scena non ci indurrà alla risata ma semmai a un sentimento di compassione per gli accadimenti che ci vengono narrati. Questo è ciò che si può definire infatti drammatico. Se al posto della figura sopradescritta sostituiamo invece un uomo d’ affari , magari anche di bell’ aspetto , sicuro di sé ed elegante , tronfio nel suo incedere spavaldo, che sembra guardar tutti dall’ alto in basso mentre si dirige a un importante appuntamento d’ affari, le cose cambiano. Mettiamo che la caduta sulla classica buccia di banana non ne provochi la morte ma anzi, solo una serie di buffi capitomboli che, innescando a catena altri piccoli incidenti senza conseguenze per gli altri passanti coinvolti, lo portino però a macchiarsi il suo bel vestitino ora sgualcito, con cui adesso sarà costretto a presenziare al suo appuntamento. Ecco che in questo caso sarà probabile che tale scena inneschi nello spettatore una risata e che non ci sia compassione per il protagonista di questa vicenda, così lontano dal poter esser compatito visto appunto la sua tracotanza, il suo esser antipatico perché potente e in apparenza inattaccabile anche dalla sorte. Siamo giunti nel campo del comico. E se assistessimo alla scena che vede protagonista un passante che fosse invece un uomo normale, non particolarmente bello ne potente, ma nemmeno disperato e ai margini, un uomo insomma in cui la maggior parte degli spettatori può riconoscersi, può rivedersi? Se la caduta provocasse un leggero zoppicare e l’uomo qualunque si alzasse un po’ acciaccato e si avviasse al suo appuntamento già per altro in ritaro? Ebbene, è probabile che questa scena provochi nello spettatore la risata ma non esagerata , perché in fondo una cosa del genere poteva capitare anche a lui : ecco che in questo caso siamo di fronte a una scena tipica da commedia. Possiamo inquadrare la commedia come via di mezzo tra il tragico e il comico. Aristotele definiva la via di mezzo quella in cui sta la virtù: ecco , anche la commedia a ben vedere , potrebbe essere definita così. Una terra di mezzo quindi, tra il drammatico e il comico, capace di farci preoccupare fino addirittura a piangere, ma solo per un attimo, capace soprattutto anche di farci ridere ma non troppo e comunque possibilmente invitandoci a riflettere. 39

I film di commedia si caratterizzano nello specifico nel presentare una prevalenza di elementi comico – umoristici rispetto a quelli drammatici. Non v’è di fatti una regola fissa e nulla vieta a un film di genere drammatico di avere elementi ironici, e viceversa, ma ciò che ne delimita l’appartenenza a un genere piuttosto che a un altro è questa sorta di prevalenza, come fosse un incontro di boxe che, anche nel nostro caso, termina sempre con la vittoria dell’ una o dell’ altra parte ai punti. E spesso questa prevalenza , proprio come nel giudizio dato dai giudici di gara ad un incontro di boxe può ritenersi per certi versi tutto sommato soggettiva. La famosa scena del film capolavoro di Rossellini ‘Roma città aperta’, in cui il prete interpretato da A. Fabrizi dà una padellata in testa a un paziente che non vuole fingersi morto, è di fatti una scena esilarante ma non basta certo a dare al film stesso il sapore generale della commedia. ‘Roma città aperta’ è di fatti considerabile uno dei capolavori iniziatori del genere Neorealista e non è considerabile un film di commedia. Nel corso dei secoli, la distanza tra commedia e genere tragico si è assottigliata, perfino a teatro. Non abbiamo dubbi nel considerare tragedie i testi di Sofocle e commedie quelli di Aristofane , ma come possiamo inquadrare , distinguere in maniera così netta i testi di Pirandello, Beckett, Ionesco, Cechov?

3.2 Il comico e la commedia tradizionale Ancor più annoso ci pare il compito relativo alla distinzione tra commedia e comico , tra cinema comico e di commedia. Il genere comico puro ha preso piede in America grazie a pellicole che hanno visto tra i maggiori protagonisti i vari C. Chaplin, Buster Keaton, Mack Sennet o i più recenti Monty Python. Qual è il tratto caratteristico di questi personaggi inseriti in un contesto comico? Ebbene, se pure all’ apparenza esseri in difficoltà e alla mercé delle più incredibili disavventure, questi possono di fatti essere considerati i precursori dei moderni supereroi , gli antesignani dei moderni Superman o Nembo Kid.

Il Chaplin che in ‘Tempi moderni’ viene

inghiottito dai meccanismi infernali degli ingranaggi e dei bulloni e ne esce 40

miracolosamente illeso, come fosse un bambino all’ uscita dal Luna Park ne è un esempio lampante. I personaggi in questione sono protagonisti di una storia che ignora le regole della fisica e del mondo. Le leggi della fisica non gli appartengono, sono burattini senza fili a cui è concesso di tutto. Immaginiamo per un istante il mondo intero come un enorme palla ovale in continua e frenetica rotazione , sulla cui superficie, ricoperta per l’ occasione di acqua e sapone, non solo è praticamente impossibile camminare ma perfino restare in piedi in equilibrio. Ebbene, il comico è colui al quale sarebbe concesso addirittura di ballare su un simile artificio, senza il minimo sforzo. Il personaggio di Totò è emblematico in tal senso: Una marionetta a metà tra un supereroe e uno squinternato personaggio dei cartoni animati, capace di vincere mirabolanti battaglie epiche e di superare ogni avversità con magico slancio. Basti pensare alla celebre scena del film ‘ Totò a colori ’, in cui il nostro protagonista manda sull’orlo dell’esaurimento un distinto onorevole che viaggia in treno nel suo stesso vagone. Ebbene, nella realtà l’ onorevole l’avrebbe fatto quasi certamente arrestare o addirittura malmenato. Ma Totò non appartiene alla schiera dei comuni mortali ed è come un personaggio dei fumetti, un cartone animato inarrestabile, in tutti i sensi per l’appunto. I film che vedono come protagonista il ‘Principe della risata’ rappresentano un chiaro esempio di differenza tra farsa e commedia. I film più tipici di Totò, infatti, sono delle farse geniali, come furono quelle di Plauto o quelle musicali di Donizetti e Rossini. Non appartengono a questa schiera invece i film dei vari Sordi, Tognazzi e Manfredi. Nelle commedie in senso proprio, non accade niente di lontano dalla realtà di tutti i giorni, di epico o fantastico; viene insomma raccontata la realtà con i suoi limiti e i suoi sogni impossibili e per lo spettatore c’è la possibilità di immedesimarsi nel costrutto narrativo del film stesso. I loro protagonisti sono uomini che sopravvivono agli accidenti soliti della vita, alla fine di un amore, alle beghe economiche ecc… ma non riuscirebbero a sopravvivere a un evento tragico più grande di loro come un cataclisma o un raffica di colpi di pistola. La commedia può essere considerata l’arte della misura, dell’umano possibile. Come sosteneva Terenzio, uno dei padri della commedia moderna : “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” ovvero, sono un uomo è nulla mi è estraneo di quanto accade agli uomini. 41

3.3 Cosa s’intende per ‘commedia all’italiana’? Uno dei tratti caratteristici della commedia all’italiana è quello di rappresentare la verità messa in commedia. Offrire allo spettatore la possibilità di sentirsi parte in causa dei fatti narrati, avvicinandolo, facendolo immedesimare nella storia che, per quanto bizzarra, sarebbe potuta forse accadere anche a lui. A bene vedere si possono notare alcune caratteristiche di fondo che segnano il percorso di quasi tutte le commedie di questo genere: 1)vi è un evento, un fatto, che di per sé sembra solo comico ma che successivamente, con l’evolversi della storia, assume connotazioni drammatiche 2)un apparente contesto di puro intrattenimento si rivela portatore di un significato che va al di là del mero divertimento 3)la condizione di colui che assurge al ruolo di protagonista non viene a conformarsi come personale, ma diventa esplicativa di un contesto più generalizzato che delinea un contrasto tra l’individuo e la società stessa. Ovviamente gli elementi drammatici inseriti nel contesto di commedia non devono superare quelli più da commedia, ma devono rivelarsi come una presenza costante che accompagna lo svolgimento della storia. Rispetto alla commedia tradizionale gli elementi drammatici sono trattati con maggiore crudezza, senza avamposti consolatori. Basti pensare alle ultime sequenze di ‘Brancaleone alle crociate’ dove la Morte stessa è presente nel film e si aggira con una falce in mano, pronta a rapire tutti i personaggi al di fuori di uno. E’ facile intuire che questa caratteristica fa venire in molti casi meno una grande e sempiterna certezza che era stata presente in tutte le commedie tradizionali del passato: il lieto fine. Nei film di commedia all’ italiana si può parlare in molti casi, piuttosto di un lieto fine ideologico, ricollegabile a uno scatto d’orgoglio del protagonista, piuttosto che al classico lieto fine narrativo. A un’attenta analisi possiamo notare come nella commedia all’italiana siano presenti da questo punto di vista tutti i meccanismi propri della commedia tradizionale ma che questi, in qualche modo, vegano come capovolti. Il ruolo dell’equivoco ad esempio, è diverso nella nuova commedia rispetto alla precedente: l’ equivoco serve qui non più a risolvere determinate situazioni sociali, ma bensì a metterne in luce tutte le sue contraddizioni. Quante volte, infatti, nei film in cui è protagonista, 42

abbiamo visto Sordi pronunciare fra sé, sottovoce, quello che realmente pensava il suo personaggio ma che non avrebbe mai potuto proclamare in pubblico. E’ cosa abituale per i personaggi della commedia all’italiana fare del loro caso personale una questione generalizzata che diventa massima, regola, la propria esperienza personale si fa contesto più generalizzato e per certi versi universale. Punto fisso della commedia in tal senso è appunto la generalizzazione del tipo ‘individuo’ da una parte e ‘società’ dall’ altra, tra un ‘solo’ e un ‘tutti’. Questo tipo di contrasto è evidente e si staglia nelle pieghe di tutte le opere che possono essere ricondotte al genere di commedia all’italiana. E’ la società dei consumi a voler annettere a sé l’individuo e a fargli perdere l’unico tesoro che davvero gli appartiene, che è l’individualità. Gli individui si comportano a seconda delle circostanze. Talvolta si fanno ammaliare dalle lusinghe di essa e altre invece vi sfuggono.

3.4 Gli anni ’60 e ‘70 La commedia all’italiana presenta al suo interno diversi generi che l’hanno attraversata con tre distinte fasi che ne hanno contraddistinto il cammino sin dagli albori. La prima fase di riferimento per il nostro percorso è certamente quella del cd. “Boom o miracolo economico”. Nel periodo che va dal 1952 al 1962, infatti, l’Italia conosce un periodo di espansione economica senza precedenti capace, inoltre, di generare conseguenze evidenti ed appariscenti: il reddito nazionale raddoppia e con esso anche i consumi. Diretta conseguenza di tale evento è la diffusione generalizzata di nuovi statussymbol (automobile, televisore, elettrodomestici, la seconda casa, la possibilità di fare le vacanze al mare ecc.) che acuiscono le rivalità sociali, portandole alle estreme conseguenze di un divario sempre più marcato tra ricchi e poveri. La comparsa dei nuovi mass-media (la televisione, che comincia a trasmettere a livello nazionale dal 1957, le prime radio portatili) e il massiccio martellamento pubblicitario, sembrano imporre a un paese appena approdato al consumismo, uno

43

stile di vita da paesi ricchi, ancora superiore alle effettive possibilità degli italiani e alla loro mentalità. I lati meno evidenti di questa espansione sono: l’immigrazione massiccia dal Sud alle grandi città del Nord, le indiscriminate e sempre maggiori speculazioni edilizie, il divario Nord-Sud che si accentua maggiormente e la mancanza di un reinvestimento adeguato. In un Italia che vuole sempre più essere internazionale, si assiste al lento declino delle forme culturali più spontanee e ingenue come la poesia dialettale, i giornali umoristici e l’avanspettacolo. A livello cinematografico, a partire dal 1958, si realizza un attenuamento seppur parziale della censura e il cinema italiano vive un evidente rilancio a livello internazionale con la candidatura all’Oscar del film “I soliti ignoti” e la vittoria del Leone d’Oro a Venezia per “La grande guerra” (ex-aequo con “Il generale della Rovere” ) . Si assiste alla consacrazione definitiva di numerosi e talentuosi sceneggiatori e registi (Age & Scarpelli, Monicelli, Germi, Risi e Scola) e alla crescita artistica di grandi attori come Gassman, Manfredi, Sordi e Tognazzi. Questi elementi messi insieme fanno da corollario alla nascita di un nuovo genere che prende il nome di commedia all’italiana. Il primo vero film di commedia all’italiana è da considerarsi “I soliti ignoti” (1958, di Mario Monicelli). La genesi del film è quasi casuale: occorreva sfruttare le costosissime scenografie di un film di Visconti (Le Notti Bianche). E’ un film che appare profondamente rinnovato nello stile rispetto ai suoi predecessori: ci sono riprese ed inquadrature dal taglio essenziale, svelto e moderno, le sequenze sono collegate tra loro tramite apposite didascalie ironiche (come avveniva nel cinema muto) e anche la colonna sonora si sprovincializza, dando spazio a un motivo molto elegante partorito dal jazzista Piero Umiliani, i personaggi “macchietta” riescono a essere immessi nel contesto narrativo in maniera tale da diventare a pieno titolo personaggi a tutti gli effetti. I protagonisti di questo film sono poveri proletari che desiderano agganciarsi alla borghesia, ma anche sfortunati, a differenza dei loro predecessori protagonisti delle vicende del Neorealismo rosa. Sembra che la loro fortuna sia a portata di mano, facile e a un passo, ma alla fine non gli riesce nulla. Nel ruolo del maestro scassinatore che istruisce le giovani leve, interpretato da Totò, sembra esserci metaforicamente parlando quel passaggio di 44

consegne fra la commedia vecchia e quella nuova, come spiega a tal proposito Jean Gili: “ Certi ruoli hanno talvolta un valore premonitore. Totò nella parte di un professore che insegna l’arte di aprire le casseforti è lì quasi a fare da legame tra uno stile che muore e uno stile che nasce, fra un certo tipo di commedia di cui è stato il maestro e un altro tipo che lo lascerà da parte anche quando avrebbe potuto esserci il suo posto. Insomma, riassumendo, è il passaggio di testimone fra Totò e Gassman, fra due generazioni di comici venuti da orizzonti diversi”29. Anche se il film di Monicelli non parla in maniera diretta del miracolo economico, in qualche modo sembra esserne il prototipo. Un altro film da considerare capostipite della commedia all’italiana nel periodo del boom è quello di D. Risi “Il vedovo” (1959), in cui Sordi interpreta magistralmente un borghese vile e opportunista, che cerca a tutti i costi di inseguire il successo economico, raggiunto invece da sua moglie, interpretata da Franca Valeri. Ma alla fine il personaggio di Sordi sembrerà il meno disumano, considerando che il suo insuccesso è appunto dovuto alla sua natura, in fondo simile a quella dei protagonisti de “I soliti ignoti”, e alla natura ancor più rapace dei suoi concorrenti. “La Grande Guerra” di M. Monicelli arriva nel 1959 ed è un capolavoro premiato con il Leone d’Oro a Venezia. L’opera di Monicelli si presenta come un affresco ironico e tragico al tempo stesso della vita in trincea durante la prima guerra mondiale. Un film mirabile, che oltre ad offrire un documento importante ed affidabile dal punto di vista storico (cosa non comune ai film di finzione), denunciando la violenza e l’insensatezza del conflitto stesso, rimarcava anche le condizioni di vita disumane delle persone e dei militari, non dimenticando di sottolineare i forti legami di amicizia nati nonostante le diverse estrazioni sia di tipo culturale che geografiche. Agli inizi degli anni Sessanta vengono prodotti alcuni film che possono essere ricondotti al filone storico-fascista ma un film di Dino Risi, “Una vita difficile”, del 1961, appare come uno splendido affresco sul generale clima di opportunismo e corruzione dell’ Italia democristiana. Sordi interpreta magistralmente un personaggio a cavallo tra l’essere un ex partigiano di sinistra che cerca di inserirsi nel sistema della borghesia reazionaria, sempre pronto a piegarsi al compromesso coi potenti, sempre disposto a rinunciare al cambiamento in cambio di qualche piccolo vantaggio. Alla fine, il protagonista, Silvio Magnozzi, l’ex partigiano giornalista, 29

J.A. Gili, Arrivano i mostri, i volti della commedia, Cappelli, Rocca San Casciano, Bologna, 1980, pag.177

45

arriva ad avere uno scatto d’orgoglio e a ribellarsi all’ultima ennesima umiliazione proveniente dal suo capo, riuscendo così se non proprio a

pervenire a un

cambiamento completo, almeno a una consapevolezza di se stesso. Pietro Germi aveva dato alla luce il suo “Divorzio all’italiana” nel 1961. L’opera del regista ligure viene presentata al Festival di Cannes 1962 , ottiene un grande successo di pubblico e critica arrivando a vincere anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura. Germi con questo film sorprende tutti. I suoi film precedenti erano decisamente a tinte più fosche mentre in questo film si cimenta con grande bravura nella commedia. Il pretesto narrativo del film è costruito attorno all’art. 587 del Codice Penale: un barone siculo ormai stanco della moglie e invaghito di una cugina sedicenne, induce la consorte al tradimento per poi poterla uccidere potendo così invocare il delitto d’onore, facendola praticamente franca e liberandosi per la giovane amante. Quest’opera rappresenta un arguto affresco di costume dal taglio fortemente politico consistente nell’attacco all’insensatezza, ingiustizia delle pene minime a cui venivano condannati coloro che si macchiavano del delitto di uxoricidio o delitti d’onore, condito anche da una satira sul clericalismo. Germi attraverso la costruzione del grottesco riesce a rilevare alcune questioni, alcuni temi irrisolti della modernizzata società italiana. Nel 1962, da un soggetto di Sonego, con la sceneggiatura di Scola, Risi e Maccari, Dino Risi mette in scena “Il sorpasso”. Il film è un road movie in cui viene tratteggiato un ritratto spietato e allo stesso tempo acutissimo del nostro paese, in un periodo di euforia e slancio dovuti alla sopraggiunta ricchezza e benessere del boom economico. Nel ruolo di interpreti dei due amici occasionali ci sono V. Gassman e J. L. Trintignant. Lo sfondo, il pretesto è il viaggio in auto in una apparente spensierata giornata di ferragosto che si rivelerà di fatti un viaggio verso la morte. La caratterizzazione dei due personaggi principali appare in qualche modo riconducibile all’immaginario politico esistente, pur non essendo la pellicola stessa un’opera a connotazione politica. I due personaggi principali sono così diversi fra loro eppure riescono a instaurare un’inaspettata amicizia. L’esuberante e spaccone Bruno Cortona interpretato da Vittorio Gassman, un po’ frivolo e scavezzacollo da un lato, e il timido studente introverso e a tratti problematico Roberto Mariani, un intellettuale che, come direbbe Totò, di certo “non tiene fame”, portato in scena da J. L. Trintignant, dall’altro, non rappresentato forse in qualche modo caratteristiche riconducibili all’immaginario della destra e della sinistra? In questi due tipi di uomo, 46

attraversati dalle loro contraddizioni, dai loro fallimenti privati, si riscontra quella definizione di Commedia e dramma tanto cara a Charlie Chaplin: “La Commedia è la vista in campo medio, il Dramma è la vista in primo piano” 30. Da un punto di vista narrativo, emotivo e drammaturgico appare il dosaggio del campo medio (di destra) abbinato al subentro del primo piano (di sinistra) nella commedia all’italiana ha spiazzato la critica militante marxista. Ebbene, “Il sorpasso” da questa prospettiva, rappresenta tutto questo, è una sintesi mirabile di questo concetto. Nel finale, il primo piano sullo scavezzacollo Bruno Cortona, la scoperta della sua famiglia e di una moglie che non lo ama, dei figli che non lo rispettano, mettono in luce la parte drammatica di questo personaggio, che fino a qualche momento prima era stato dipinto come sicuro di sé e baldanzoso, ed ora ci appare nel suo lato impietoso, un uomo solo, emblema del nostro falso boom economico occidentale. Un film di Monicelli che passa un po’ sottotraccia in Italia a causa di una cattiva campagna pubblicitaria ma invece molto apprezzato all’estero è: “I compagni” del 1963. Come si evince dal titolo, il film ruota attorno alle vicende di alcuni operai che lavorano presso una fabbrica tessile nella Torino di fine Ottocento e che chiedono condizioni di lavoro più sicure dopo un tragico incidente avvenuto in fabbrica. Inizialmente il ruolo del protagonista era stato pensato per Sordi, ma fu Mastroianni a interpretarlo. Il film è un ottima opera civile che affronta in modo democratico e per nulla demagogico i problemi della classe operaia e il rapporto tra gli intellettuali e le masse operaie. A penalizzare la pellicola forse è stato anche il titolo un po’ spregiudicato considerando l’epoca. Mentre continuano i film che hanno ad oggetto l’argomento del divorzio, la donna sembra però essere un po’ esclusa dal dibattito, tant’è che il fatto sembra essere solo una questione maschile. Ma verso la fine degli anni ’60 il clima mutato dalla contestazione in campo politico sembra aprire una breccia anche nel cinema italiano che inizia a tratteggiare con maggior cura dei ritratti al femminile sempre più complessi e articolati. Un esempio colto e raffinato è rappresentato dalla pellicola di Franco Giraldi, autore e regista capace di tratteggiare un nuovo ruolo al femminile col suo “Bambolona” (1968) tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice e poetessa partigiana Alba De Cèspedes. La protagonista della storia, interpretata da Isabella Rey, riuscirà a gabbare un avvocato quarantenne invaghito di lei, interpretato da Tognazzi. Il contorno psicologico del personaggio femminile appare profondamente 30

G. Aristarco, L’utopia cinematografica, Sellerio, Palermo, 1984, pag.23

47

mutato rispetto al passato. La protagonista femminile non è in balia dell’uomo di turno, o in mezzo a una qualche contesa ma è essa stessa perno della vicenda, attorno a cui ruoteranno le sventure del malcapitato avvocato Giulio Broggini. E’ la donna a prendersi gioco dell’uomo, quasi a volerci ricordare quale sia il nuovo potere della donna, le sue grandi doti di adattamento e sopravvivenza, in un contesto sociale che fino a quel momento l’aveva sempre dipinta come indifesa e un po’ ingenua. Del 1968 è invece la commedia a sfondo politico “La pecora nera” di L. Salce dove viene utilizzato il classico stratagemma dello scambio di persona: Due gemelli impersonati da Gassman, uno simpatico ed estroverso, un dongiovanni incallito e impenitente, pronto anche a usare i mezzi più bassi per arrivare, l’altro invece serio e irreprensibile uomo politico con l’intento di lavorare alla commissione corruzione per rendere la politica stessa più incline alla moralità e al rispetto delle regole. Sarà il fratello a prendere il posto dell’onorevole, scaricato dal suo ambiente, che ritiene invece le doti ‘poco virtuose’ del gemello più adatte a scalare le vette del potere. Di minor tenore autorale ma pur sempre degno di nota è invece la commedia “I due deputati” (1969) di Gianni Grimaldi. Degno di nota perché gli interpreti sono Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, tanto bistrattati dalla critica colta, quanto amati dal pubblico di tutte le età e generazioni. Lucio Fulci, che li diresse in diversi film orgogliosamente disse di loro: “ Per anni mi sono portato il marchio di Franchi e Ingrassia, ma io rispondo sempre di vantarmi di aver fatto questi film. Tra vent’anni molti di questi film saranno vivi, quando metà della commedia all’italiana sarà morta perché troppo datata.”31 Fellini arrivò a dire “ C’è più Italia in un film di Franchi e Ingrassia che in tutte le commedie all’italiana”.32 Nell’opera viene raccontata la storia di due cognati rispettivamente candidati uno nelle file del Pc e l’altro in quelle della Dc. Dopo un aspra e combattuta campagna elettorale, Franco riuscirà a spuntarla su Ciccio che invece sarà “trombato”. Tuttavia, la morte di un eletto, permetterà anche al cognato Democristiano di accedere alla tanto agognata seggiola parlamentare. E’ del 1969 uno dei più riusciti tentativi di commedia politica italiana. Il titolo è “Colpo di Stato”, la regia dello stesso Luciano Salce. La trama si snoda in un arco temporale immaginario e futuristico (1972): si stanno svolgendo le elezioni politiche e, ancora una volta, la vittoria della Dc sembra ineluttabile e scontata. Il calcolatore 31 32

M. Giusti, Continuavano a chiamarli Franco e Ciccio, Mondadori, Milano, 2004, pag.67 Ibidem pag. 98

48

elettronico del Ministero degli Interni però non è di questo avviso e a sorpresa rivela che è il Pc ad aver ottenuto il maggior numero di suffragi. Immediatamente si scatena il panico. Gli Usa allertano il sistema missilistico, i ricchi scappano all’estero e gli ufficiali dell’esercito consigliano al Capo del Governo e al Capo dello Stato un golpe per rimanere al potere. Saranno però gli stessi comunisti a rifiutare il potere, dopo un colloquio con Mosca. L’inventore del calcolatore del Ministero verrà fatto internare in manicomio. Questo film è senza dubbio l'opera più scomoda, più penetrante e per certi versi più incompresa di Luciano Salce. E’ un film che ancora oggi non sembra aver perso la sua capacità di essere attuale e provocatorio, con una solida struttura narrativa, che a tratti esula dai modelli più remunerativi del cinema di commedia di quest’epoca, il film è concepito anche attraverso le originali scenografie che ricostruiscono nel quartiere romano dell' Eur "la stanza dei bottoni" nella quale i potenti di turno decidono il destino di una nazione. […] Il periodo in cui il film è stato realizzato è quello dell’incendiario clima politico del ’68. L’opera non fu per niente apprezzata dalla critica militante, sia di destra che di sinistra, e anzi ritenuto alla stregua di un pessimo esempio di fantapolitica, bollato dai due rispettivi schieramenti sia come ‘fascista’ che come ‘estremista’. La censura operata sul film unita alla scelta del linguaggio operata dal regista, più vicina alla nouvelle vague che alla classica commedia, furono le cause dello suo scarso successo di pubblico. Nel 1973 esce “Vogliamo i colonnelli” di Mario Monicelli, che dà così vita a una commedia fantapolitca (ma neanche tanto, se si considera che qualche anno dopo verranno resi noti i fatti inerenti al tentato ‘Golpe Borghese’). La vicenda tratta di un tentato golpe fascista che si trasforma in Colpo di Stato politico dalla Dc. Il deluso neofascista Tognazzi finisce per andare a vendere il progetto di golpe militare a qualche paese dell’Africa. Anche questo film non ebbe un riscontro di pubblico in linea con il grande successo degli altri film di commedia all’italiana. Forse, il pubblico iniziava già a fiutare che la vera commedia politica all’italiana era quella che si svolgeva ogni giorno a Montecitorio e alla quale si poteva assistere tutte le sere guardando il televisore. “C’eravamo tanto amati” (1974) è un film diretto da Ettore Scola con la collaborazione per il soggetto e la sceneggiatura del collaudatissimo duo Age & Scarpelli. Il film narra le vicende di tre amici che hanno combattuto da partigiani la 49

guerra insieme ma che poi si dividono, ognuno per rincorrere la sua strada. Dopo 25 anni si ritrovano profondamente cambiati. Nelle intenzioni iniziali di Scola, la trama doveva essere diversa e avere un solo protagonista, un professore di provincia appassionato del Neorealismo che, desideroso ed entusiasta per “Ladri di biciclette”, decide di andare a Roma per conoscere Vittorio De Sica. Si optò invece per un film corale, a tre protagonisti, gli ex partigiani Antonio, Nicola e Gianni. Il cambiamento dei tempi in questo film si evince tra le altre cose dal fatto che per i protagonisti della vicenda, non è più tanto il tempo di costruire, di inventarsi una qualche identità nel rutilante periodo del boom economico, quanto piuttosto quello dei primi bilanci. Insomma, la guerra inizia a essere abbastanza lontana a differenza degli anni passati, e anche le illusioni, le speranze dell’ immediato Dopoguerra sembrano vacillare, soprattutto per chi ha tradito i suoi principi. L’intenzione degli autori è quella di identificare in Antonio, colui che non svende i propri ideali a costo di emarginazione e sacrifici,( il Pc dell’epoca), e in Nicola i movimenti intellettuali del dopoguerra, privi di base popolare e politicamente inconcludenti. Gianni invece rappresenta l’uomo capace di mettere da parte i suoi ideali per ottenere una posizione di vantaggio; la stessa posizione criticata dalla sinistra alla Dc dell’epoca. Tutti e tre i protagonisti della storia finiscono per innamorarsi della stessa donna che però alla fine, come compagno di tutta la vita sceglierà Antonio, l’unico che le è rimasto sempre fedele e l’unico a non aver tradito mai neanche i suoi principi. L’Italia degli anni Settanta non è più quella del dopoguerra, inizia a sentirsi lo scricchiolio delle prime speranze disattese, l’ironia e il disincanto sono la nuova cifra che acquisisce valenza esistenziale e politica nelle vicende dei ‘nuovi vitelloni’ del film di Monicelli “Amici Miei” (1975), che narra le vicende di un gruppo di amici intenti ad ammazzare il tempo, a sfogare i loro piccoli fallimenti personali attraverso le cd. “zingarate”, burle, scherzi ai danni di chiunque gli passi a tiro. “ Il vitellone non si sente incalzato dalla vita. La sua decadenza è priva di affanno e anzi acquisisce uno smalto dorato nel dissolvimento languido nella vecchia Italia e nelle generazione esteriormente splendida della nuova […] Non ha motivi di aggregazione, né ricordi romantici. Non ha dietro di sé che battaglie mai combattute ma non per questo meno perdute. Procede ancora a ordine sparso nella stretta della crisi politica ed economica, sui terreni nuovi e friabili di questa Italia alluvionale,

50

questa Italia imprevedibile, sconcertante, che in fondo rispecchia il vuoto di volontà, l’agnosticismo, il non eroismo di una generazione intera ”.33 Del 1975 è anche “Fantozzi” la grande maschera letteraria creata e trasposta su pellicola da Paolo Villaggio, diretta da L. Salce. Questo è il periodo in cui si scontrano due galassie opposte, due modi di intendere il cinema e anche filosoficamente la vita stessa: quella del cinema “alto” e impegnato e quella del cinema “basso” più commerciale, quella del cinema ideologico e quella del cinema di intrattenimento. Il primo mondo aveva un netto pregiudizio nei confronti del secondo e lo disprezzava, il secondo invece, sentendosi bistrattato inseriva spesso nelle sue opere figure di ‘Professori’ e pseudo luminari da mettere alla berlina in maniera caricaturale. Una delle scene più celebri dell’intero ciclo di Fantozzi è proprio quella in cui i programmi del ragionier Ugo Fantozzi sono quelli tipici dell’italiano medio, che aspetta di potersi gustare seduto a casa davanti a un piatto di pasta e birra ghiacciata la partita di calcio (Italia-Inghilterra), vengono rovinati da una telefonata del collega Filini: i dipendenti sono stati convocati dal temibile cinefilo professor Guidobaldo Maria Ricciardelli per vedere un film in cecoslovacco con sottotitoli in tedesco: “La corazzata Potëmkin” di S. M. Eisenstein. Alla fine dell’ennesima proiezione, il professore invita i dipendenti al dibattito sul film appena visto. Stavolta lo scoramento generale è forte, persino i più ruffiani non alzano la mano per intervenire. La tragedia di non aver potuto assistere alla diretta televisiva dell’attesa partita si è ormai perpetrata. Fantozzi sale sul palco e in un silenzio assoluto, con inaspettato coraggio arriva a proferire: >. La voce fuori campo commenta:>. Fantozzi riscatta nella sua ribellione al Ricciardelli le tante umiliazioni subite nel corso degli anni da questi. La carica ideologica di cui è intrisa la maschera creata da Paolo Villaggio andrà sempre più sfumandosi nei successivi episodi. Tale carica si estrinseca non soltanto nel rapporto tra Fantozzi, l’impiegato ragioniere e i suoi superiori, ma anche nella subita cooptazione ad opera di un suo collega appartenente a una fazione politica più estrema; o nella visione quasi onirica del ragionier Ugo che, sotto elezioni, accendendo il televisore si vede tutti i vari leader politici parlargli come se lo stessero guardando, per convincerlo a votare: i vari Pannella, Craxi, Almirante e Andreotti si rivolgono in una sorta di trasfigurazione

33

L. Garruccio, Italia senza eroi, Rusconi, Milano, 1980, pag.102

51

onirica all’uomo indeciso, che si sente oppresso da questi ‘grandi fratelli’ mediatici che sembrano volerlo solo convincere a dargli un voto per poi dimenticarsi di lui. Fantozzi, sia nel caso della ‘Corazzata Potëmkin’, che nell’ indecisione sul voto, si sente a pieno come una pedina manipolata dall’alto, archetipo dell’uomo massa che per provocare i bacchettoni al potere intinge la sua maschera di stereotipi utili alla comicità quasi a voler indirettamente esaltare i valori “di destra”. In realtà, il Fantozzi creato da Villaggio, propone dietro a riferimenti reazionari, altri riferimenti molto più propositivi, arrivando fino a contornare la sua maschera di un’aura gogoliana di cui il suo personaggio è permeato. Villaggio ha dimostrato di essere un acutissimo osservatore della realtà e ha sfruttato la sua esperienza all’ Italsider di Genova, in cui ha assorbito dalle varie conoscenze sul posto di lavoro i tratti peculiari che poi saranno quelli della sua grande maschera. Echi gogoliani in questo spasmodico girare attorno a quella medietà tanto cara anche al personaggio letterario creato da Goncarov, Oblomov. I libri di Paolo Villaggio sono stati tradotti in molte lingue nel mondo e sono stati infatti un vero e proprio caso letterario in Russia, risultando i libri italiani più tradotti in lingua russa. Fantozzi è intriso di una medietà dalla quale vorrebbe sfuggire ma che sembra incatenarlo: vorrebbe essere amico dei suoi colleghi e non semplice zimbello dell’ ufficio sinistri, vorrebbe una moglie diversa, corteggia la collega Signorina Silvani senza successo, vorrebbe una figlia diversa e spesso si vergogna perfino d’averla. Fantozzi soffre, si sente d’essere un essere umano imprigionato nel corpo di un ragioniere. Il successo di questa grande maschera sta nell’essere un Che Guevara ingabbiato nel corpo di un democristiano. Vorrebbe essere come gli altri, gli basterebbe almeno non essere umiliato ma vorrebbe anche differenziarsi per poter così arrivare a un ruolo che lo metta a capo della ribellione di turno. Fantozzi suo malgrado è un eversivo in un sistema che non lo comprende, non lo stima, che lo emargina per disinnescarlo. E’ il perdente di turno, che si vede superato in tutto dal suo odiato collega geometra Calboni, sicuro di sé e dongiovanni incallito. La sua carica rivoluzionaria non ha progettualità e la sua innocenza gli impedisce di nuocere. E’ una vittima del consumismo.34

34

Ch. Uva, M. Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano: film e immaginario politico dagli anni ’60 al

nuovo millennio, edizioni Interculturali Uno, Roma, 2006

52

L’Italia è popolata da milioni di Fantozzi, e lo stesso P. P. Pasolini scriveva in “Scritti Corsari”: “Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo? No. O lo realizzano materialmente solo in parte, divenendone una caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime".35

3.5 I ‘nuovi comici’ degli anni ’80. La commedia all’italiana in senso proprio, visse i suoi ultimi anni d’oro fino alla metà degli anni ’70 e lentamente andò scemando sino a scomparire quasi del tutto con gli anni ’80. L’ultimo film di commedia all’italiana in senso proprio di questo periodo è “La terrazza” (1980) con la regia di Ettore Scola. Gli stessi protagonisti del film sembrano il ritratto di una generazione che ha ormai dato e che dovrebbe lasciar maggior spazio ai più giovani. La grande stagione della commedia all’italiana pare ormai volgere al termine. Gli stessi protagonisti, interpreti come Tognazzi, Sordi, Manfredi, Gassman non sono più dei ragazzini e la stagione dell’impegno politico degli anni ’70 appare superata: arrivano gli anni ’80, gli anni rampanti dell’edonismo Reaganiano e della ‘Lady di ferro’ Margareth Thathcer, la prima donna a Capo del Governo in Inghilterra, delle televisioni private che irrompono sugli schermi degli italiani, della Democrazia Cristiana che non sembra più così sola al potere e del socialismo Craxiano. Il modello televisivo e la cultura di massa dettata dalla pubblicità diviene sempre più invasivo. La televisione è ormai il contenitore che accompagna la giornata di milioni di italiani. Anche la politica stessa viene assorbita dal meccanismo televisivo e sembra sempre più condizionata allo schema della fruizione commerciale. Le grandi produzioni statunitensi la fanno quasi da padrone al botteghino e per il cinema italiano non pare soffiare proprio un vento rassicurante. La famosa e ultra citata ‘crisi del cinema’ inizia, a detta dei maggiori critici di 35

P.P. Pasolini, Scritti Corsari, Garzanti, Milano, 1995, pag.23

53

cinema, proprio a cavallo degli anni ’80 in Italia. Anche per i grandi varietà televisivi, per un certo tipo di regia televisiva, inizia una nuova era. Grandi Registi televisivi come Antonello Falqui, che per anni avevano lavorato con enorme successo in Rai, essendo più che altro prestati alla televisione, in virtù delle grandi doti tecniche, sentono il cambio di passo dettato dai tempi che cambiano e lentamente abbandonano il campo: I tempi televisivi sono cambiati: le inquadrature, gli stacchi sembrano seguire i tempi stessi della pubblicità. Tra la regia televisiva di un programma e quella della pubblicità non sembra esserci più così tanta distanza. Dall’inizio degli anni ’80 si affacciarono alla ribalta delle scene i cd “nuovi comici”, nuove leve cresciute, nate negli anni Cinquanta e perciò facenti parte di una generazione nuova, che non ha vissuto in prima persona l’orrore e la tragedia della Guerra. Il cantiere in cui queste nuove leve crescono è il teatro, il cabaret, le cantine delle piccole sale in cui muovono i primi passi quelli che saranno poi alcuni dei protagonisti della commedia degli anni ’80. Carlo Verdone, Roberto Benigni, Massimo Troisi, Maurizio Nichetti, Francesco Nuti e Nanni Moretti. La scuola dei nuovi comici è il cabaret, la loro palestra, a differenza dei precedenti colleghi è la televisione. Vengono reclutati tutti o quasi dalla televisione, arrivano da “ Non stop” il programma di Enzo Trapani (1978) che ospita i Giancattivi (Athina Cenci, Alessandro Benvenuti e Francesco Nuti), il gruppo “La Smorfia”(Lello Arena, Enzo Decaro e Massimo Troisi), e Carlo Verdone. Maurizio Nichetti e Nanni Moretti fanno un percorso diverso che non include la televisione, ma riescono lo stesso a venire alla ribalta con i loro film. Sono nuove leve ma orfane di veri e propri maestri. I vecchi mattatori della commedia all’italiana sembrano infatti non aver lasciato eredi nel senso proprio del termine. Va detto che alcuni degli autori che avevano scritto pagine memorabili del cinema italiano sono ormai alla fine del loro ciclo umano e professionale. Questi allievi orfani di maestri hanno biografie diverse dai loro predecessori e saranno costretti a rapportarsi a un contesto socio politico culturale ed economico mutato rispetto a quello presente fino agli anni ’70 nel nostro paese. Anche se i padri non si sono preoccupati di lasciar allievi, i non allievi di questo periodo in realtà sembrano molto più in continuità fra il vecchio e il nuovo di quanto possa sembrare. A contraddistinguere queste nuove leve è una diffusa autoreferenzialità abbinata a una visione per il contesto sociopolitico ad essa orientata. In ultimo, e di non poco conto, le nuove leve fanno da sé, scrivono, 54

interpretano e curano personalmente le regie dei loro film; sono registi e autori di se stessi. La carriera cinematografica di Carlo Verdone inizia con il film d’esordio “Un sacco bello”(1980) e continua sino ad oggi con grande successo di pubblico e critica. Sergio Leone gli fa da padrino, gli produce il film e lo sceglie come regista, nonostante le pressioni per scegliere un collega più affermato, lo aiuta a portare al cinema i personaggi che già a Non Stop avevano conquistato il pubblico. Verdone è un comico di razza, fine osservatore della realtà, riesce a costruire le sue macchiette scrutando nei piccoli dettagli, mettendo in scena le piccole ossessioni dei suoi innumerevoli personaggi. Sin dall’esordio si nota come la cifra “comica” del romano sia intrisa di una certa malinconia. I suoi personaggi principali sono sempre bonari e goffi, sospesi in una dimensione tutta loro che sembra non farli aderire mai a pieno al contesto che li circonda. C’è chi parla di nuovo Alberto Sordi, ma rispetto al grande mattatore Verdone è sicuramente più completo dal punto di vista autorale, caratteristica che gli ha permesso di esordire giovane alla regia e di proseguire mettendo in scena i suoi film da regista, attore e sceneggiatore. Dei nuovi registiattori della nuova generazione è sicuramente quello che maggiormente si è rifatto ai padri della commedia all’italiana, cercando addirittura la collaborazione alle proprie sceneggiature di Benvenuti e De Bernardi, senza dimenticare la sua partecipazione da protagonista a un film di Alberto Sordi (In viaggio con papà). Verdone affronta diversi temi nei suoi film, dall’handicap fisico in ‘’Perdiamoci di vista’’ (1994) , alla psicoanalisi in “Maledetto il giorno che t’ ho incontrato” (1992) fino alla ricerca dell’ identità familiare in “Al lupo al lupo!”(1992) ,spesso commedie agrodolci ed eleganti, vicine a quelle degli anni ’50 ma con maggiori venature amaro-borghesi. Il suo miglior film resta “Compagni di scuola”(1988) , una commedia corale in cui il tema della festa viene

usato magistralmente dall’autore come specchio per i

fallimenti e tradimenti personali dei protagonisti. L’autore Verdone si è affinato negli anni e ha saputo raggiungere una maturità propria di chi è grande osservatore della realtà che gli ha permesso di passare dai primi lavori, commedie a storie parallele in cui l’attore prevale decisamente sul regista, alle commedie più sofisticate (Borotalco, Acqua e sapone) girate con una certa grazia, con un occhio alla commedia e uno ai telefoni bianchi. Sin dal suo primo esordio egli mette in scena “il malessere di una generazione incapace di costruirsi dei modelli di identità personale”36. 36

F. Montini, Carlo Verdone, Gremese, Roma, 1988, p.23

55

Quello di Verdone è un cinema trasversale a entrambi i territori politici, un territorio nel quale, in modo pirandelliano, i suoi personaggi arrivano a prendere il sopravvento sul loro stesso autore, arrivando a dire politicamente molto di più di quanto lo stesso autore non voglia riconoscere. Francesco Nuti da Prato, classe 1955, fa il suo esordio nel gruppo cabarettistico dei “Giancattivi”, al fianco di Atina Cenci e Alessandro Benvenuti, e con i film “Madonna che silenzio che c’è stasera” (1982) e “Io, Chiara e lo Scuro” (1983) in cui è interprete, si fa notare e apprezzare da critica e pubblico. Ha provato, riuscendoci soprattutto nella prima parte della sua carriera, a creare una sorta di romanticismo umoristico con qualche punta di surreale. I successivi lavori, in cui è anche regista di se stesso come “Casablanca Casablanca” e “Caruso Pascosky di padre polacco” non sembrano all’altezza del suo talento attoriale :“sembrano condurre Nuti a un’autoreferenzialità che diventa in alcuni momenti puro narcisismo antifemminista, in un contesto in cui, volendo forzosamente cercare delle tracce politiche, l’unico scontro tra ideologie è quello che avviene tra la dimensione autopiagnucolosa del maschio e l’universo insondabile della femmina (essere perciò superiore e irraggiungibile o semplicemente misterioso animale da sesso?) 37. La sua dipendenza da alcool e droga e un grave incidente lo portano al declino prematuro e al conseguente ritiro forzato dalle scene. Massimo Troisi, classe 1953, napoletano, fa il suo esordio nel gruppo teatrale “La Smorfia” , approdando con esso in televisione grazie a Non Stop nel 1978. La sua prima regia è il fortunato “Ricomincio da tre” (1981) che gli vale ampio successo, consenso di critica e pubblico. L’attore-autore napoletano rappresenta una pagina importante del cinema italiano degli anni ’80. “Nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna: qualità (…) che appartengono a un altro universo da quello del vivere”38 La leggerezza evocata da Italo Calvino appare fortemente aderente e rappresentativa della comicità originale messa in scena da Massimo Troisi. Egli ha saputo fare della 37

Ch. Uva, M. Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano: film e immaginario politico dagli anni ’60 al

nuovo millennio, edizioni Interculturali Uno, Roma, 2006, pag.149 38

I. Calvino, Leggerezza, Lezioni americane, Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano, 1993, pag.11

56

parola non solo il suo strumento espressivo ma anche l’oggetto stesso della sua ricerca artistica. L’uso costante del dialetto è una scelta precisa nei suoi film, in un percorso volto alla continua ricerca di nuovi modi di significazione “una nuova significanza che, rispetto all’universo degli schemi e delle frasi fatte, colloca Troisi già sempre in un altrove, in un oltre del senso e del significato. Una ricerca che lo costringe a frammentare il discorso, a romperlo continuamente. Discorso che risulta così rapsodico, sincopato, e che sembra non finire mai, non avere nessun senso”39. Per Pasolini il cinema può essere definito come “la lingua scritta della realtà” 40 ma come sottolineato da V. Ruffin e P. D’Agostino: “Anche quando abbia intenti naturalistici, il parlato cinematografico risponde a una struttura della comunicazione del tutto diversa da quella comune. Fra le pieghe di un di dialogo che si vuole il più possibile naturale e plausibile devono nascondersi tutte le informazioni (…) che è necessario far giungere allo spettatore. La lingua parlata reale è, insomma, un largo e tumultuoso fiume, ricco di diramazioni e affluenti, che, prima di confluire negli stretti e ben arginati canali del parlato filmico, lascia defluire per altre vie molta parte delle sue acque”41. Nell’opera filmica di Massimo Troisi, le continue ripetizioni e autocorrezioni abbinate alle pause, all’uso del dialetto a tratti criptico sono “indizio sensibile di crisi, come corrispettivo d’una situazione di rottura”42 . La scelta del dialetto, in particolare da parte dello stesso Troisi ha come prima conseguenza quella di “modificare l’intera struttura della conversazione, scegliere mezzi pragmatici idonei a conseguire lo scopo dell’interazione diversi da quelli che si sarebbero usati per la lingua italiana, significa cambiare registro e chiave linguistica. Non cambia solo il codice verbale: cambia lo stile comunicativo, del quale il dialetto è una delle componenti”43 Troisi è un comico di rottura, usa la parola per cambiare il mondo cercando di stravolgerne i modi di dire e le frasi fatte. Del resto, cosa c’è di più reazionario che l’immobilità del pregiudizio e del luogo comune? In questo senso il comico napoletano appare nella sua cifra come eversivo rispetto al cinema costituito perché sembra esibire sempre la difficoltà della comunicazione e con essa dell’integrazione sociale, del proprio essere al mondo. Il suo Ricomincio da tre (1981) ne è un esempio 39

M. Hochkofler, Massimo Troisi. Comico per amore, Marsilio, Venezia, 1998, p.177 P.P. Pasolini, Empirismo Eretico, Garzanti, Milano, 1991 41 V. Ruffin e P. D’Agostino, Dialoghi di regime, Bulzoni, Roma, 1997, pagg. 38,39 42 G.F. Contini, Varianti e altra linguistica, una raccolta di saggi (1938-68), Einaudi, Torino, 1979, pag.615 43 C. Grassi, A. A. Sobrero, T. Telmon, Fondamenti di dialettologia, Laterza, Roma-Bari, 1997, pag.227 40

57

lampante: racconta la storia di un giovane napoletano disoccupato che decide di viaggiare e partire per Firenze. Già nei tratti caratteristici tipici con cui la maschera del comico napoletano permea il suo personaggio, si capisce che il protagonista della storia, non rispecchia nei modi (timido, impacciato) e nel suo rapportarsi al mondo che lo circonda, lo stereotipo del maschio meridionale ormai consolidato, ma anzi, lo ribalta, fino a metterne in luce le fisime e la difficoltà ad imporsi, per chi, come il Gaetano del film, ha un modo tutto suo di approcciare alla vita, fatto di inciampi nei discorsi, che però sembrano essere sospesi a metà tra l’avere i piedi ben piantati sulle nuvole (come nei discorsi in cui crede di poter spostare gli oggetti con la forza del pensiero), e una forma di realismo mai cinico e pungente, pronto a sfatare luoghi comuni figli ormai di un tempo passato e a cui lo stesso Troisi non vuole arrendersi. Ecco che il suo essere napoletano, rimane tipico nella sua leggera indolenza, ma non risponde più ai canoni del maschio chiassoso e baldanzoso, spavaldo e tracotante. Il film forse più dichiaratamente politico di Troisi è “Le vie del Signore sono finite” (1987). Nel suo Oblomov partenopeo egli costruisce una commedia che parla di fascismo “inaspettatamente impegnata sul terreno politico-sociale”. 44Il periodo di ambientazione è il regime mussoliniano. Il protagonista del film, Camillo Pianese, è un uomo innamorato di una donna, un po’ indolente che crede d’esser affetto da una paralisi che in realtà è solo psicosomatica e con cui prova gusto a impietosire gli altri. Suo malgrado, nonostante il suo carattere remissivo e un po’ codardo, egli si ritroverà a essere un oppositore del fascismo e ne subirà le conseguenze venendo torturato e incarcerato. Ma sarà proprio questo a farlo guarire dalla sua malattia immaginaria. Lo stesso autore spiega i motivi della scelta dell’ambientazione così: “il fascismo mi serviva per varie ragioni. Una è che in quegli anni la dimensione provinciale era più forte e una vicenda di sentimenti mi pare più logico ambientarla negli anni Venti che ai giorni nostri. Un’altra è che la violenza pubblica che c’era dietro questo movimento politico poteva essere un modo per spiegare una sofferenza privata. Una terza ragione, poi, è che mio nonno e mio padre mi hanno sempre parlato del fascismo in maniera diversa: mio nonno era un anarchico che al fascismo si era opposto con una personale durezza, mio padre era un rassegnato che per non perdere lavoro e famiglia aveva finito con l’assoggettarsi al regime. Nel film ho voluto raccontare anche questo.”45 E’ dunque il suo continuo essere in bilico fra malinconia e umorismo a permettere a Troisi di esprimere compiutamente la grande 44 A. 45

Viganò, Commedia all’italiana in 100 film, Le Mani, Recco (GE), 1995, pag.179 M. Giusti, Massimo Troisi. Il mondo intero proprio, Mondadori, Milano, 1998, pag.158

58

ambivalenza a lui congenita e propria dei fenomeni comici. La leggerezza, intesa alla maniera di Italo Calvino, permea il percorso umano e artistico di questo singolare autore, permettendogli di distanziarsi dal particolare per cogliere la vastità del tutto.46 “Il Postino”(1994) , ultimo film co-diretto e interpretato da Troisi, rappresenta anche una sorta di testamento spirituale per l’artista napoletano. La pellicola, tratta dall’ adattamento del libro dello scrittore cileno A. Skermeta, racconta la storia dell’ amicizia tra Pablo Neruda, il grande poeta premio Nobel cileno, cantore del socialismo e il semi analfabeta pescatore di un’ isoletta del sud Italia, Mario Ruoppolo. E’ un tributo alla poesia e a come, anche gli ultimi possano servirsi di questa per trovare la loro metafora del mondo, conoscendo l’impegno civile e perché no anche l’amore. Roberto Benigni, comico originario di Arezzo, classe 1952, conosciuto nel mondo grazie al suo film premiato agli Oscar “La vita è bella” (1997). Il comico toscano è riuscito a coniugare cultura alta e popolare, dando vita a un percorso artistico che lo ha visto crescere sin dagli esordi come interprete in “Berlinguer ti voglio bene” (1977) di Giuseppe Bertolucci, esordendo alla regia con “Tu mi turbi”(1983), continuando sulla strada della commedia con grande successo di pubblico con le commedie “Johnny Stecchino” (1991) e “Il mostro” (1994) fino all’approdo oltreoceano con il suo film di maggior successo nel 1999. Un comico naif, che ha saputo parlare tutte le lingue del mondo pur senza aver bisogno di parlarne nessuna, riuscendo i suoi gesti, la sua voce e il suo sguardo a comunicare già da soli tutto il suo mondo, attraverso la sua maschera di clown universale. Alla maniera dei grandi comici universali, egli ha costruito una maschera comica capace di ballare sul mondo che ruota, essendo sempre in equilibrio su di esso, come l’eterno bambino di legno Pinocchio. Un concreto esempio dello sguardo eversivo e primordiale del primo Benigni, ancora giovane e pieno di energia è racchiuso nel modo di descrivere il comunismo, paragonandolo a un ragazzo, nel film di Giuseppe Bertolucci sopracitato: “il comunismo viene da sé, anche senza Berlinguer. Il comunismo è come prima di farsi la prima sega: si viene a letto da sé. Si fa: Dio bono, cosa mi è successo? Niente, o fanciullo, sei venuto. Quello che non funzionava ora funziona. Ecco il comunismo. Così è il popolo è come un ragazzo prima di farsi la prima sega. S’arriva la mattina da sé. Cosa è successo? Niente, o popolo, sei venuto. Quello che non funzionava ora funziona.”47 46 47

G. Sommario, Massimo Troisi. L’arte della leggerezza, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004 C. Borsatti, Roberto Benigni, Il Castoro, Milano, 2002 pag.62

59

Rispetto ai suoi primi lavori, in cui il Benigni autore – attore era libero e fuori dagli schemi, il comico toscano ha avuto un cambiamento a cui a certamente contribuito più di ogni altro il suo sceneggiatore, collaboratore di fiducia Vincenzo Cerami. Cerami ha cercato per sua stessa dichiarazione di “ far abbandonare a Benigni ogni riferimento ipertestuale. Ho cercato di trovare la purezza dell’attore e del comico. Gli ho tirato fuori gli aspetti più metafisici e non giocati sulla psicologia. Il comico ha delle leggi: i suoi bisogni devono essere quelli fondamentali e non deve avere psicologia.”48. L’irruenza primordiale e il talento del primo Benigni hanno dovuto subire una sorta di imbrigliamento, che decontestualizzati e resi assoluti hanno potuto portare la fortunata collaborazione tra Benigni e Cerami ad arrivare all’ Oscar per “La vita è bella”. In questo film, Benigni si cala nella più grande tragedia dell’umanità, l’Olocausto, dandone una lettura personalissima e a tratti struggente. Un padre imprigionato con suo figlio in un campo di sterminio, riesce attraverso il racconto di una bugia a fin di bene, a fargli credere che sia tutto un grande gioco, un concorso a premi, in cui vince chi fa più punti. In questo modo, il padre Guido va incontro alla morte con il sorriso, riesce a nascondere fino all’ultimo istante della sua vita l’orrore e la tragedia del campo di sterminio al figlio Giosuè, che alla fine del film si ricongiungerà con la madre, sano e salvo. Alla maniera di Chaplin, il comico toscano riesce a tracciare sentieri a tratti lirici, in cui il comico si mescola col tragico. Questa operazione, seppur fruttuosa in termini di resa artistica e professionale nel breve periodo, ha portato per certi versi a un indebolimento progressivo dell’ incisività e dello sguardo bambino della maschera messa in scena da Benigni stesso nei successivi lavori. La briglia rappresentata da una minore libertà espressiva sembra evidente nei due film che seguono “Pinocchio” (2002) e “La Tigre e la neve” (2005). Nanni Moretti è tra i giovani

autori il più politico e atipico di questa nuova

generazione degli anni Ottanta. Non ha mai gradito d’esser considerato un regista di ‘commedia’, e forse non a tutti i torti. Tuttavia, il taglio ironico conferito alla maggior parte delle sue produzioni lo rendono più avvicinabile a questo genere piuttosto che ad altri. Per quanto Moretti sia collocabile politicamente a sinistra, il suo cinema non può definirsi marxista, in quanto non orientato a ricercare ed evidenziare la disparità di accesso e distribuzione delle risorse materiali e culturali. Egli racconta prevalentemente la transizione tra la politica moderna e quella 48

Ibidem, pag.15

60

postmoderna, la crisi della sinistra incapace di rinnovarsi e contrastare l’avvento del Berlusconismo, che aveva saputo sostituire, in ottica Thatcheriana, la parola ‘uguaglianza’ con quella di ‘mercato’. L’ironia di Nanni Moretti è tragicomica, essenziale nell’uso del mezzo cinematografico, austera in taluni casi, ma sempre calibrata a voler ricercare un universo narrativo mai scontato, che non scende a patti con il cattivo gusto sguaiato e la faciloneria banale che attira spesso il grande pubblico al botteghino. Il regista, autore romano inizia a far parlare di sé grazie a un film indipendente interamente girato in presa diretta con una super 8 dal titolo “Io sono un autarchico” (1976). Il film diventa un caso nazionale. “Ecce Bombo” (1978) , secondo film del regista nato a Brunico, diventa molto discusso anche per via di una scena: il protagonista del film, un ex sessantottino, in un momento di esasperazione al bar, sbotta e si lamenta di un certo qualunquismo tipico italiano proferendo la famosa frase: “Ma dove siamo, in un film di Alberto Sordi?” e, dopo esser stato cacciato dal bar urla: “Ce lo meritiamo Alberto Sordi !”. Moretti si presenta critico nei confronti non dell’ attore Sordi in sé, ma di quello che egli ha incarnato dal Dopo guerra a oggi; l’ italiano che si arrangia, un po’ cinico, che non prende mai compiutamente una posizione e finisce per stare simpatico allo spettatore soprattutto per i suoi difetti. Con “Palombella rossa” (1989), Moretti racconta la storia di un funzionario del PCI che perde la memoria in seguito ad un incidente. La storia si sviluppa intorno ad una partita di pallanuoto in cui il protagonista del film cerca di ritrovare la memoria perduta attraverso un riaffiorare di ricordi confusi ed una realtà che non riesce a comprendere o nella quale non si riconosce. In quest’opera Moretti indaga la natura ambivalente del Partito comunista, che pretende di essere uguale agli altri ma allo stesso tempo differente, e con essa anche la sua personalità, lacerata dal conflitto tra il volersi fondere nella società e il volersi ripiegare su se stessa. Persino il cinema stesso, in ottica ambivalente, come visto dall’autore, appare scisso, biforcato. Nel film vengono infatti mostrate scene tratte dal film de “Il Dottor Zivago” di David Lean (film con alle spalle una grande produzione, capace di coinvolgere le masse) e del suo cortometraggio girato nel 1973 “La sconfitta”, opera girata con pochissimi mezzi e destinata al ristretto circuito dei circoli militanti. 49 Nello stesso anno, Nanni Moretti realizza (unico tra gli autori italiani) un documentario che rimarrà nella storia: “La Cosa”(1989): è un intenso viaggio tra le 49

J. A. Gili, Nanni Moretti, Gremese, Roma, 2006

61

sezioni di partito del PCI di diverse città italiane, da Nord a Sud, in cui l’autore si mette in ascolto dei vari dibattiti (non entrando mai in scena in prima persona), delle proposte, dei temi dei tanti militanti del PCI, disorientati in un momento storico, per cui, con la caduta del Muro di Berlino, finiva una lunga stagione e occorreva capire la strada futura da seguire, accompagnata, tra l’altro, dalla proposta di Occhetto di cambiare nome al partito. Rossana Rossanda, giornalista de Il Manifesto, reputò questo documentario un’ autentica lezione di giornalismo. Moretti, infatti, aveva messo la telecamera in ascolto non del chirurgo che opera il corpo malato, ma sul corpo malato, non quindi sui leader di partito ma sui militanti, donne e uomini comuni, con le loro speranze, le loro delusioni, la loro passione autentica. E’ curioso notare come l’unico documento storico di quell’intensissima stagione politica (in campo cinematografico/documentaristico) sia nato grazie a un autore molto spesso accostato al cinema di commedia. Non sembra essere una coincidenza, infatti, che autori come Nanni Moretti, siano riusciti a coniugare un cinema dal taglio fortemente ironico al terreno dell’impegno politico e sociale, al pari di altri autori appartenenti a un tipo di cinema solitamente considerato ‘più colto’. Anche se non appartiene alla filmografia da regista di Moretti, il film in cui egli è attore protagonista con Silvio Orlando, oltre che produttore, e diretto da Daniele Lucchetti, Il Portaborse (1991): è un chiaro termometro del clima politico in cui l’Italia versava alle soglie dello scandalo che di lì a pochi mesi avrebbe travolto un intera classe politica, Tangentopoli. Questa commedia rappresenta una sagace critica alla classe politica italiana e racconta la storia di un giovane e cinico ministro, disposto a tutto pur di fare carriera, fintamente colto, che trova in un timido e tranquillo professore di liceo (interpretato da S. Orlando) l’uomo giusto per scrivergli i discorsi da tenere in televisione e nelle interviste. Nel film ci sono chiari ed espliciti riferimenti alla corruzione del sistema politico che si riveleranno anticipatori di fatti reali, venuti a galla con l’inchiesta di Mani Pulite. “Caro Diario” (1993), è un film diviso in episodi, in cui l’autore mette in scena se stesso in tre differenti contesti: "In vespa", sul senso della scrittura cinematografica, "Isole", sulla messa in scena delle ossessioni e infine "Medici", sul mutuo scambio tra narratore/persona e personaggio/attore. Tre questioni fondamentali nell'opera del regista già presenti in altri film, ma qui affrontate nell'urgenza di un cambiamento, di un mutamento di rotta. Il film si snoda seguendo un percorso narrativo originale e inaspettato per lo spettatore: Dopo aver osservato delle coppie ballare il merengue, 62

incontra Jennifer Beals. Infine, egli visita il luogo dove è stato ucciso Pier Paolo Pasolini, con un viaggio in vespa da Roma fino ad Ostia, verso terre pasoliniane di periferia tanto da sembrare di nessuno, marginali appunto. E’ un chiaro omaggio all’autore e poeta Pasolini, amato e apprezzato dallo stesso Moretti. Nella seconda parte, Isole, la più disimpegnata e divertente, incontra un amico che non ama la televisione. Insieme girano le isole Eolie fino a quando la tranquillità e la solitudine non fanno esplodere l'amico, che si converte a Beautiful e a Chi l'ha visto? e fugge verso il continente. La terza parte, Medici, è invece la cronistoria, con una ripresa iniziale autentica, della lunga malattia che Moretti aveva contratto. Diagnosi e medicine sbagliate, medici poco disposti ad ascoltare. Poi il paradosso finale: quella che sembrava una malattia della pelle era un tumore benigno e i sintomi erano riportati da una semplice enciclopedia medica. Non mancano lungo il film chiari ed espliciti riferimenti al contesto sociale e politico italiano del periodo. In Aprile (1998), la sinistra è accusata di non avere leader carismatici e programmi in grado di contrastare l’ascesa politica di Silvio Berlusconi. Molto famosa è la scena del confronto televisivo in cui si sfidano Berlusconi e D’Alema, a cui lo stesso Moretti assiste nel film implorando sarcasticamente il leader di centrosinistra di “dire qualcosa di sinistra”. Un atteggiamento, quello denunciato dal regista capitolino, attinente a una certa mancanza di umanità, empatia con gli elettori, da parte della classe dirigente di centrosinistra e ribadito nel film stesso con l’esplicito riferimento ai fatti di Brindisi relativi all’affondamento di un barcone di profughi provenienti dall’ Albania, e sottolineando la latitanza politica e umana della classe dirigente di sinistra. Nel film Moretti legge una lettera alla sinistra extraparlamentare, scritta agli inizi degli anni Sessanta (mai spedita), nella quale accusa il comunismo italiano di essersi uniformato dapprima all’ Urss e poi alla Cina Maoista, invece di cercare una strada diversa, prettamente italiana.50 Moretti mischia vicende personali, come la nascita di un figlio a quelle politiche che il paese viveva, offrendo uno sguardo d’insieme critico ed estraniante per certi versi, in linea con lo spaesamento collettivo dell’ elettorato di sinistra, che non si riconosce più in chi rappresenta l’apparto. Il Caimano (2006), racconta la storia di un regista in declino che ha come carta da giocarsi per ritornare a lavorare un copione scritto da una giovane regista, intitolato Il Caimano, incentrato sul racconto della vita di Silvio Berlusconi. A questo Moretti, intreccia le vicende sentimentali del protagonista, in crisi con la moglie e indebitato 50

E. Mazierska, L. Rascaroli, Il cinema di Nanni Moretti: sogni e diari, Gremese, Roma, 2006

63

fino al collo con la sua casa di produzione. Alla fine, nonostante le ritrosie da parte dei produttori a realizzare la pellicole, il regista decide di impiegare gli ultimi soldi rimastigli per girare l’ultima scena del film, ambientata in tribunale, in cui lo stesso Moretti recita la parte di Berlusconi che viene condannato a sette anni di reclusione. Fatto curioso, a distanza di sette anni, lo stesso Berlusconi verrà effettivamente condannato a sette anni di reclusione per note vicende giudiziarie. Moretti non considera questo un film politico in senso proprio ma ha più volte detto di aver voluto piuttosto raccontare gli effetti negativi sulla società italiana del Berlusconismo, reo d’aver acuito le cattive abitudini e di essere associabile in generale a una visione prettamente consumista della società.

64

Conclusioni: Concludendo, riguardo all’antica diade tra destra e sinistra, Giancarlo Governi cita esplicitamente un episodio realmente accaduto che può essere di per sé fortemente esplicativo ed ermeneutico per fornirci un focus nell’ottica della nostra analisi: Un giorno, Nanni Loy , decise di affidare a Totò un ruolo per un suo film. Il regista sardo, per sua stessa ammissione era all’epoca intriso di cultura di sinistra, cominciò a spiegare a Totò il personaggio che avrebbe dovuto interpretare, fornendogli ogni piccolo dettaglio sulla condizione sociale e psicologica, sulle contraddizioni conflittuali del suo tempo che il personaggio stesso viveva. Totò di tutta risposta lo lasciò finire e chiese “Si sa com’è vestito?’’. Loy continuò la sua analisi del personaggio: “E’ inserito nel quadro complessivo della lotta di classe, talvolta apparentemente incoerente…’’. “Ma tiene fame o non tiene fame?’’, tagliò corto ancora una volta Totò. Sembra evidente lo scontro per certi versi emblematico tra facile e difficile, tra istinti basilari e rielaborazioni complesse della realtà tra il regista sardo e il principe della risata. Quest’ episodio di vita vera, rende ottimamente la diade tra cinema impegnato e cinema d’ evasione, tra la concretezza e la teoria. Ma siamo sicuri che il regista e l’ attore non stessero in fondo parlando delle stesse cose, come due sguardi che, seppur partendo da angolazioni diverse, inevitabilmente si incontrano? Lo stesso Loy, disse anni dopo a riguardo: “Ero imbevuto di tutta la cultura di sinistra dell’epoca che a sua volta considerava il comico un genere minore, non in grado di andare in profondità, ma non capivano che facendo ridere, si poteva toccare con maggior efficacia i temi più scottanti’’. I grandi maestri della “commedia all’italiana’’ hanno insegnato anche questo. C’è da dire che la commedia, già dal tempo del teatro greco, si trascinava dietro questo senso di inferiorità nei confronti del dramma. Il fatto di partire dalle viscere del personaggio, magari dalla sua fame, per arrivare a descrivere la realtà cercando il riso, senza pregiudizi concettuali della realtà, senza escludere dal proprio sarcasmo alcuno schieramento, alcuna parte politica, sociale e culturale è stato il modus operandi dei grandi maestri della “commedia all’ italiana’’. Nella commedia all’ italiana non accade nulla che non possa accadere nella realtà, i personaggi vivono una realtà che è specchio fedele della nostra, con i suoi limiti, i suoi sogni impossibili e le sue porte sbarrate. Sono uomini, non eroi. Ecco allora individuata la commedia: 65

come arte della misura, della moderazione, del possibile, dell’umano. Gli stereotipi di destra e sinistra si prestano ad entrare in azione lasciandosi dietro la domanda: Ridere è di destra? Essere seri è di sinistra? Sotto la tacita intesa che il dramma è superiore alla commedia, questa dicotomia si trasferì in guerra ideologica, politica. Non è un caso che l’ avvento di una nuova commedia cinematografica avviene con l’ arrivo sul grande schermo della cultura dei giornali satirici, dei rotocalchi e dei settimanali fotografici. Da quelle esperienze venivano nomi illustri come Cesare Zavattini, Marcello Marchesi e Achille Campanile, Ettore Scola, Federico Fellini, Steno, Ennio Flaiano e tanti altri. La commedia nuova si propone di contaminare, mescolare, facendo affiorare anche l’ottica politica dell’ uomo qualunque, senza mettere al bando le ambizioni di denuncia proprie del cinema impegnato. Anche agli attori si richiede una nuova modulazione espressiva che sappia rendere al meglio i personaggi, non più opachi e irriconoscibili dal punto di vista ideologico, non più battutisti apolitici ma uomini con le loro complessità e sfumature sociali. Il cinema della commedia all’ italiana cercava di rivolgersi alla realtà affondandovi dentro le unghie e, per questo, doveva mantenere anche un certo distacco. Si trattava di un cinema che poneva lo sguardo su un contesto socio culturale che era stato attraversato dal secondo conflitto mondiale, con le contraddizioni sociali degli anni della ricostruzione. Ma perché allora, grandi registi di sicuro impegno e non certo ‘qualunquisti’ come Monicelli, Germi e Risi non furono considerati da molti censori come “abbastanza’’ di sinistra? Forse perché rinnegavano quello stesso corporativismo politico criticandolo senza mezzi termini? O forse perché vivevano in prima persona quelle contraddizioni insanabili della sinistra nella vita reale di chi aderisce a un ideologia ma usufruisce di quegli agi che si sono sempre criticati nei valori di destra, rappresentandoli con sferzante e disillusa autoironia? Forse è proprio questo che certa intellighenzia non ha mai perdonato a Germi, Flaiano, Monicelli e Risi…il fatto di non aver escluso dalle loro “maschere’’ anche quella comunista gettandola nella mischia come le altre: trattandola come tutte le altre, da autentico comunista appunto.

66

BIBLIOGRAFIA o Argentieri M. , La cesura nel cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1974 o Argentieri M. , Storia del cinema italiano, Newton Compton Editori, Roma, 2000 o Aristarco G., L’utopia cinematografica, Sellerio, Palermo, 1984 o Bächlin P. , Il cinema come industria, Feltrinelli, Milano, 1958 o Bene C. , Opere, con l’autografia di un ritratto, Bompiani, Milano, 2002 o Bonazzi F. (a cura di), Itinerari di Sociologia delle Comunicazioni, Franco Angeli, Milano, 1999 o Boltanski L. , Chiapello E. , Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Parigi, 1999 o Borsatti C. , Roberto Benigni, Il Castoro, Milano, 2002 o Brunetta G. P. , Storia del cinema italiano 1895 – 1945, Editori Riuniti, Roma, 1979 o Calvino I. , Leggerezza, Lezioni americane, Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano, 1993 o Canova G. , L’ occhio che ride, editoriale Modo srl, Milano, 1999 o Contini G. F. , Varianti e altra linguistica, una raccolta di saggi (1938 – 68), Einaudi, Torino, 1979 o Fantoni Minnella M. , Non riconciliati, Utet Libreria, Torino, 2004 o Frusta D. , Ricordi di “uno della pellicola’’, Bianco e nero edizioni, Roma, 1952 o Garruccio L. , Italia senza eroi, Rusconi, Milano, 1980 o Giacovelli E. , La commedia all’italiana, Gremese Editore, Roma, 1995 o Gili J. A. , Arrivano i mostri. I volti della commedia italiana, Cappelli, Rocca San Casciano, Bologna, 1980 o Gili J. A. , Nanni Moretti, Gremese, Roma, 2006 o Giusti M. , Continuavano a chiamarli Franco e Ciccio, Mondadori, Milano, 2004 o Giusti M. , Massimo Troisi. Il mondo intero proprio, Mondadori, Milano, 1998 67

o Gramsci A. , Il materialismo storico, Editori Riuniti, Roma, 1971 o Gramsci A. , Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma, 1971 o Grassi C., Sobrero A. A., Telmon T., Fondamenti di dialettologia, Laterza, Roma-Bari, 1997 o Hochkofler M. , Massimo Troisi. Comico per amore, Marsilio, Venezia, 1998 o

Horkheimer M. e Adorno T.W. , Dialettica dell’Illuminismo, Biblioteca Einaudi editore, Torino, 1997

o James H. , La musa tragica, Einaudi, Torino, 1996 o Kracauer S. , ‘Da Caligari a Hitler’, una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau editore, Torino, 1966 o Mazierska E., Rascaroli E., Il cinema di Nanni Moretti: sogni e diari, Gremese, Roma, 2006 o Montini F. , Carlo Verdone, Gremese, Roma, 1988 o Olmi E. , Il sentimento della realtà, libro intervista di Daniela Padoan, San Raffaele, Milano, 2008 o Pasolini P. P. , Empirismo Eretico, Garzanti, Milano, 1991 o

Pasolini P. P. , Scritti Corsari, Garzanti, Milano, 1995

o Prolo M.A., Storia del cinema muto italiano, Poligono, Milano,1951 o Rondolino G., Un secolo di cinema italiano, Editrice il Castoro, Milano, 2000 o Ruffin V. e D’Agostino P. , Dialoghi di regime, Bulzoni, Roma, 1997 o Sommario G. , Massimo Troisi. L’arte della leggerezza, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004 o Sorlin P. , Sociologia del cinema, Garzanti, Milano, 1979 o Uva Ch, Picchi M. , Destra e sinistra nel cinema italiano: film e immaginario politico dagli anni ’60 al nuovo millennio, ed Edizioni Interculturali Uno, Roma, 2006 o Viganò A. , Commedia all’italiana in 100 film, Le Mani, Recco (GE), 1995

68

69

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.