Realismi, linguaggio e gioco. Intervista a Mario De Caro

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© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 N. I , 3, 2015 – Playing and Thinking

Mario De Caro Realismi, linguaggi e gioco Intervista a cura di Fabio Lusito1 Peer-reviewed Article. Received: September 16, 2015; Accepted: Juny 26, 2015

Abstract: In this interview, Mario De Caro discusses about most important problems of ‘Realism’: from linguistic and conceptual characterization just before the role where Realism takes on science and epistemology. In this case De Caro presents his idea of Liberal Naturalism. The issue of Realism is also engaged referring to artistic languages, especially the cinematographic one. In the second part, De Caro talks about ‘teaching philosophy’ and the importance which could performs in this topic the concept of ‘play’ and its practice. At the end, it is warded off the future horizon of ‘the end of philosophy’. In questa intervista, Mario De Caro discute alcuni dei problemi più rilevanti del ‘Realismo’ contemporaneo: dalla sua caratterizzazione linguistica e concettuale, sino al ruolo che il realismo riveste in ambito scientifico ed epistemologico. A riguardo De Caro espone l’idea di un ‘Naturalismo Liberalizzato’. La questione del Realismo è affrontata anche in riferimento ai linguaggi artistici, con particolare attenzione a quello cinematografico. Nella seconda parte dell'intervista, De Caro parla di didattica della filosofia e della importante rilevanza che in tal ambito possono ricoprire il concetto e la pratica del gioco. Viene, nel finale, scongiurata la visione di una possibile ‘fine della filosofia’. Keywords: Realism, Epistemology, Liberal Naturalism, Teaching Philosophy, Play Parole chiave: Realismo, epistemologia, naturalismo liberalizzato, didattica della filosofia, gioco. *** “Logoi” si presenta come una rivista incentrata sui vari linguaggi attraverso i quali si può fare filosofia. Tenendo salda questa indicazione, Le chiederei se la distinzione da Lei assunta nel saggio La duplicità del realismo in Bentornata Realtà2 (tra un realismo del senso comune ed un realismo scientifico) sia innanzitutto una distinzione avvertibile sul piano linguistico, oltre che concettuale. M. De Caro: Naturalmente, quando si discute di realismo, c’è un patrimonio concettuale che è condiviso dalle varie posizioni; innanzitutto porrei la questione più che altro in questi termini: quando si parla di realismo, non si può non tirare in gioco, di rimando, l’anti-realismo. Ad esempio si è realisti se si accetta la realtà in senso ontologico, o se si accetta la verità di certi enunciati (se si discute di realismo semantico); viceversa si è antirealisti nel momento in cui tali aspetti vengono negati. A tal riguardo, a me il realismo in senso ontologico appare come una questione abbastanza oziosa; sarei più propenso ad indirizzare la ricerca verso la specificità dell’esistenza di determinati tipi di ambiti, come ad Intervista avvenuta a Terlizzi (BA) il 12 Marzo 2015 in occasione della presentazione del testo Bentornata Realtà (Einaudi, Torino, 2012) presso l'associazione culturale Melkweg Terlizzi. 2 M. De Caro, La duplicità del realismo, in M. De Caro, M. Ferraris (a cura di), Bentornata Realtà, Einaudi, Torino, 2012, pp. 21-38. 115 1

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esempio l’esistenza di entità subatomiche, le entità sociali, quelle astratte, gli universali, o ad esempio entità sovra-individuali quali ‘la società’ o le multinazionali, o ancora entità come le streghe e i quark. Per me queste sono questioni più interessanti, inerenti al realismo, rispetto a quelle ontologiche. Detto ciò, si può dire senza dubbio che il vocabolario del realismo, oltre ad avere un livello linguistico (anche concettuale), sia un vocabolario condiviso, comune, che, però, in base ai diversi ambiti di cui si discute, manifesta diversificazioni relative all’apparato concettuale. La differenza che c’è linguisticamente e concettualmente tra realismo del senso comune e realismo scientifico nello specifico, ad esempio, riguarda la legittimità del linguaggio normativo: se il linguaggio normativo è autonomo ed irriducibile al linguaggio descrittivo delle scienze naturali, oppure se al contrario è possibile una riduzione. In questo modo, la questione diventa la seguente, ovvero se l’uso del linguaggio normativo, come pensano i realisti del senso comune, sia eliminabile o ineliminabile (anche se poi lo stesso linguaggio normativo si utilizza in entrambi i casi, sia per sostenere che sia eliminabile, sia per sostenere che non lo sia). Di fronte a linguaggi come quelli artistici e creativi (in ogni forma), come si pone il realismo? Ad esempio, di fronte ad un'opera cinematografica, qual è l‟approccio che il realismo deve intraprendere, che risposte può darci? M. De Caro: Come si diceva, esistono sensi diversi del termine realismo, anche in ambito estetico. Legando il termine alla tematica cinematografica, il Neorealismo dei vari Rossellini o De Sica non era tanto direzionato a discutere di specifiche entità, non si trattava di ontologia del mondo, ma, tra le cose, dei drammi sociali che affliggevano l’Italia post-bellica: era un riavvicinamento alla realtà in senso sociale; questo per quanto riguarda un discorso estetico strettamente cinematografico. Riferendoci ad un estetica prettamente filosofica, come ho recentemente sostenuto in altre occasioni, ritengo che l’arte in generale, ed il cinema in particolare, mostrino una caratteristica legata ad un’idea famosa di Wittgenstein, secondo cui esistono cose che si possono mostrare, ma non si possono dire 3. Il cinema, nello specifico, ma anche la letteratura o ogni altra forma di creatività, che possiamo trovare anche nelle arti visive, ha la capacità di mostrare cose che, se dette, spiegate, perdono tutta la loro forza. Mi piace ricordare il finale di Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, dove, negli ultimi tre minuti, a mio parere, vi è una delle più straordinarie esposizioni del pensiero anti-bellico, pur senza proferire alcuna parola. Direi dunque che è una sorta di realismo che riguarda l’ineffabile, è questa la mia posizione personale, di un’ineffabile vicino alla concezione wittgensteiniana nei riguardi di ciò che non è proferibile. È un tema che diventa importante, se collegato alla questione della scienza. Riferendosi alla problematica scientifica contemporanea, forse quest‟ultima è leggermente sottovalutata, da un punto di vista filosofico, nel panorama italiano, o è comunque da ritenersi ferma a posizioni teoriche ormai superate, soprattutto in ambito analitico. Lei, con David Macarthur, sostiene fortemente la posizione del naturalismo liberalizzato in Naturalism in Question, ma anche in altri luoghi4… M. De Caro: Il naturalismo liberalizzato, per come lo abbiamo definito io e David Macarthur, è l’idea che si possa avere una concezione compatibile con una visione Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, Routhledge and Kegan Paul, London 1961, tr. it. A. G. Conte, Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 2009, proposizione 6.522, p. 109 4 Cfr. M. De Caro, D. Macarthur, Naturalism in Question, Harvard University Press, Cambridge, 2008 e Id., Naturalism and Normativity, Columbia University Press, New York, 2010. 116 3

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scientifica del mondo, ma che quest’ultima non sia in grado di spiegare tutto. Allo stesso tempo, però, siamo dell’idea che la scienza possa porre in un certo modo dei vincoli nel delimitare l’esistente. È un tentativo, ritornando alla questione del realismo, di mettere insieme realismo del senso comune e realismo scientifico: un naturalismo ampio, tollerante, pluralistico e quindi in questo senso liberalizzato, che non sia un riduzionismo scientifico, come il naturalismo di Quine. Nel naturalismo scientifico contemporaneo, a cui ha appena fatto riferimento, c‟è senza dubbio una decisiva influenza proprio del discorso di filosofi come Quine e Sellars, e in generale di autori che si possono racchiudere sotto l‟etichetta (coniata da Richard Rorty) di neopragmatismi. Dal pragmatismo classico, o dal neopragmatismo successivo di pensatori come Donald Davidson ed Hilary Putnam, di cui lei è attento studioso, cosa può raccogliere ancora oggi il naturalismo liberalizzato? M. De Caro: Per quanto riguarda Davidson, posso subito dire che certamente sussistono elementi che lo possono coinvolgere in questa corrente, ma che sostanzialmente è da ritenersi un fisicalista, e quindi più distante dall’idea di un naturalismo liberalizzato. Al contrario Putnam accoglie il pragmatismo classico nella sua filosofia, e ci indica cosa sia da conservarsi di questa esperienza. Innanzitutto il pluralismo, un pluralismo che è poi epistemologico nell’interpretazione che si può avere della realtà. D’altra parte, la concezione per cui la Verità sia un concetto che vada abbandonato, così come quello di Realtà, con le dovute maiuscole, questa è senza dubbio un’interpretazione molto a la Rorty della filosofia. Tuttavia, a questo aspetto, che condivido con Putnam, aggiungerei che oggi ci sono tanti aspetti del realismo scientifico che vanno accettati, e che un pragmatista classico non avrebbe mai potuto concepire, e che per questo la via del naturalismo liberalizzato, che punta a tener insieme realismo scientifico e realismo del senso comune, è l’indirizzo più adeguato. Cambiando argomento, Lei che futuro intravede per la filosofia, in primis mantenendo centrale il problema del suo insegnamento e della sua didattica, tanto a livello accademico, quanto scolastico? Tenendo conto anche degli ancora recenti appelli per una difesa della filosofia e del suo insegnamento… M. De Caro: La situazione dell’istruzione italiana in generale a mio avviso non è buona, in ragione di alcuni elementi, primo fra tutti il forsennato taglio di fondi degli ultimi quindici anni; secondo, il burocratismo imperante, assolutamente assurdo ed insensato, per cui si è portati a spendere un immane numero di ore in riunioni di ogni sorta, e meno nella didattica effettiva e costruttiva; terzo, poi, una sorta di democraticismo deteriore, per cui sono diffusi gli stessi diritti tra chi è di ruolo e chi non lo è, non andando ad incentivare l’impegno meritevole di tanti docenti e studiosi che andrebbero a maggior ragione premiati, non con una conseguente umiliazione altrui, ma al fine di far svolgere meglio a ciascuno il proprio lavoro. Oggi credo serva una forza interiore notevole per lavorare in questo campo, data una tale situazione. Per quanto riguarda la filosofia, credo che la riforma Gentile abbia avuto una effettiva limitazione del valore delle scienze, ed è un limite ormai riconosciuto, con una sorta di privilegio delle discipline storiche e umanistiche; in verità, però, queste erano svolte molto bene, soprattutto la storia, ed era un fattore positivo della riforma Gentile, poiché gli alunni possedevano in modo molto chiaro il senso della storicità. Oggi questo si è perso, e allo stesso tempo non ci si rende conto che le due culture (scientifica e umanistica) sono molto vicine e che c’è la necessità di una cultura che riesca a tenerle insieme entrambe. La filosofia, in questo senso, andrebbe declinata come uno strumento utile alla comprensione del presente, e non esposta soltanto in modo storiografico, come nei Licei avviene. In 117

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fondo è sempre stato questo il senso della filosofia: non è mica accaduto che Aristotele o Hegel studiassero gli autori precedenti per collezionare teorie antiche, ma queste interessavano loro nella misura in cui si potessero servire per rispondere a domande davvero profonde e legate alla comprensione dei propri tempi. Direi che sarebbe auspicabile che nell’insegnamento della filosofia vengano mantenute e proposte le tematiche fondamentali di cui è composta, quali motivi di utilità per ognuno di noi, come il libero arbitrio, la responsabilità, il che cosa sia la coscienza, che rapporto ci sia tra mente e corpo o ancora quale idea di giustizia sia da preferirsi. Tra le ambizioni di “Logoi” vi è anche quella di esportare una idea originale, quale quella dell'insegnamento della filosofia tramite il gioco, per una proposta didatticamente innovativa. Cosa pensa dell‟applicazione di tale concetto all‟insegnamento? M. De Caro: In generale, nella scuola, il gioco è un elemento decisivo, ovviamente a partire già dalla scuola primaria. Credo che sia ascrivibile al gioco, in questo senso, anche la tradizione quodlibetale delle discussioni medievali. Mi capita spesso, infatti, di applicare questa tecnica con i miei studenti, affidando i compiti di difesa di certe tesi o il compito di attaccarne altre, cercando di argomentare nel modo più cogente possibile. Un’altra forma di gioco è utilizzata da un docente spagnolo, il quale, in tematica di libero arbitrio, è solito proporre la lettura di celebri brani riguardanti il tema senza svelarne l’autore, chiedendo poi agli studenti di definire di che tradizione o scuola si tratti: in questo modo c’è allo stesso tempo divertimento e apprendimento, e personalmente io credo che la filosofia possa e forse debba anche essere divertimento, per questo sono volentieri propenso ad uno stile didattico di tal tipo. Altra mia solita applicazione, e mi riferisco soprattutto alle forme di insegnamento che mi son concesse negli Stati Uniti, è quella dell'utilizzo di mezzi audio-visivi, quali proiezioni di filmati. Spesso è divertente mostrare in gioco agli studenti vere e proprie illusioni ottiche, come di solito mi è capitato quando è stato affrontato Cartesio, o sottoporre le problematiche ad indovinelli o esperimenti mentali sotto questa forma ludica. Passando dalla didattica alla teoria, veniamo ad una questione che ci sta particolarmente a cuore, quella appunto del gioco, tanto presente e determinante soprattutto nella filosofia continentale del Novecento. Pensiamo ai lavori del secondo Wittgenstein, o alle riflessioni gadameriane circa l‟ontologia dell‟opera d'arte tra le più importanti. Quale contributo potrebbe offrire il tema del gioco, secondo Lei, in ambito analitico? M. De Caro: Non sarei del tutto d’accordo nel definire Wittgenstein un continentale; preferisco vederlo più come una figura intermedia. Proprio per suo tramite, la riflessione sui giochi linguistici è passata ampiamente in ambito analitico. Certamente, però, il concetto di ‘gioco linguistico’ è metaforico, anzi, a rigore appare come una sineddoche: il gioco è l’esempio di un concetto, quello di gioco appunto, che è tale da poter essere applicato a molte attività umane. Infatti, nel caso di Wittgenstein, i giochi linguistici non sono da intendersi come una forma di divertimento. Per definire il concetto di gioco, non vi sono mai condizioni sufficienti e condizioni necessarie; non esistono condizioni in grado di concettualizzarlo una volta per tutte, e così è anche per la sua applicazione linguistica. Ritengo che, in fondo, l’applicazione migliore del gioco, in filosofia, la si possa porre sul piano della didattica, come è stato detto, perché quest’ultima ha l'esigenza di essere svecchiata, di fronte ad una generazione che è soprattutto visiva o uditiva, certamente in maggior misura rispetto alle precedenti abituate a classiche lezioni frontali. 118

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Con quanto si è sin qui sostenuto, in conclusione, sembra chiaro che la scienza sia in grado di proporsi ancora a lungo come dominante nella riflessione contemporanea, e però sembra esserci quasi una monologicità del discorso scientifico rispetto alle altre forme di linguaggi e di saperi. Fermandoci, tra questi linguaggi, a quello filosofico, Lei ritiene possibile che si giunga alla tanto proclamata „fine della filosofia‟, in quest‟ottica? M. De Caro: La fine della filosofia potrà avvenire soltanto nel momento in cui i governi smetteranno di farla insegnare, come temo possa prima o poi accadere in Italia. Ma in sé non c’è nulla che permetta l’avverarsi di tale prospettiva. La fine della filosofia è stata decretata diverse volte nel corso della storia, ma mi piace in tal caso citare Étienne Gilson, il quale si espresse dicendo che «la filosofia seppellisce sempre i suoi becchini». Certo, non sono stati pochi, lo stesso Hegel era convinto che la filosofia sarebbe terminata con lui, peccato che si sbagliasse. Anche nella mia esperienza personale, quando ero ancora studente, tra gli altri mi è capitato un docente che era convinto di aver sancito la fine della filosofia, facendo anche un utilizzo teorico spropositato di Putnam, in questo. Si deve fare, però, una precisazione: il Putnam a cui si faceva riferimento, intendeva per ‘fine della filosofia’, la fine del realismo metafisico, o la fine della filosofia dei sistemi tradizionali. E questa, come si diceva, è un’idea in comune anche con Rorty, il quale è ancora più estremo, in quanto totalmente anti-metafisico. Ma in ogni caso per loro a dover finire era un certo tipo di filosofia, quella della tradizione metafisica. Oggi, per intenderci, lo stesso Putnam ritiene che si possa tornare a parlare di metafisica, seppur in un senso nuovo, compatibile con il realismo, sempre fallibile e mai esaustivo.

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