Sguardo fotografico e Seconda coscienza

June 24, 2017 | Autor: Maurizio Guerri | Categoria: Aesthetics, Political Philosophy, Philosophy of Photography
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N. 11 Collana diretta da Caterina Resta Università degli Studi di Messina COMITATO SCIENTIFICO Gérard Bensussan (Università di Strasbourg) Gianfranco Dalmasso (Università di Bergamo) Günter Figal (Università di Freiburg i.B.) Eugenio Mazzarella (Università di Napoli) Giusi Strummiello (Università di Bari) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review Il secolo che da poco si è concluso non ci sta alle spalle, ma ci viene incontro, nel nuovo millennio che si annuncia, con l’onda d’urto delle questioni che in esso sono giunte a conflagrazione. Novecento non è solo il nome di un periodo storico segnato da eventi davvero dirompenti: l’affermarsi dei totalitarismi, Auschwitz, l’arma atomica, la cortina di ferro, il crollo del muro di Berlino, la globalizzazione, la crisi del Politico e il disastro della comunità, le sfide della tecnica e del post-umano, la devastazione ambientale, una costellazione cui, ancor prima di profilarsi all’orizzonte, con grande preveggenza, Nietzsche diede il nome di nichilismo, «il più inquietante degli ospiti». Novecento è il nodo inestricabile di tutti questi problemi, e di quelli ad essi strettamente intrecciati, in primo luogo la crisi irreversibile del Soggetto moderno, che oggi con urgenza chiedono di essere pensati, tornando a scandagliare quella che indubbiamente è stata una straordinaria stagione filosofica, di cui non possiamo non riconoscerci gli eredi e la cui potenza di interrogazione è ancora ben lungi dall’essersi affievolita. Novecento, dunque, non allude alla mera delimitazione di un arco temporale, ma a quel tempo non ancora passato perché aperte e ineludibili rimangono le sue domande, alle quali non solo la filosofia non può sottrarsi, ma cui ha il compito, per il tempo a venire, di tentare di trovare qualche risposta.

L’ECO DELLE IMMAGINI E IL DOMINIO DELLE FORME Ernst e Fredrich Georg Jünger e la visual culture A cura di Gabriele Guerra Sandro Gorgone

MIMESIS Novecento

© 2013 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana Novecento n. 11 Isbn: 9788857520841 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

INDICE

INTRODUZIONE ESTETICA DELLA FORMA. UNA LETTURA DI DER ARBEITER di Pierandrea Amato 1. Prologo 2. Estetica anestetica 3. Fattore B. 4. Contatto LO ‘STILE IMMAGINIFICO’ DI ERNST JÜNGER NEI DIARI (STRAHLUNGEN) TRA ‘SCRITTURA GEROGLIFICA’ E ‘NUOVA TEOLOGIA’ di Andrea Benedetti 1. L’autoformazione di Ernst Jünger (1920–1945) tra patristica, misticismo, mito e ‘nuova teologia’ 2. Realismo magico, sguardo stereoscopico, immagine 3. Plasticità iconica del linguaggio e Strahlungen: i ‘riflessi’ del divino e la lettura della Bibbia nello jüngeriano ‘servizio della parola’ 4. Scrittura e pittura: un excursus iconico tra Alfred Kubin, Rudolf Schlichter, Claude Joseph Vernet, Henri Rousseau, Jean Antoine Théodore de Gudin e Hieronymus Bosch

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DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

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5. Le illusioni della tecnica e la ‘nuova teologia’: ‘oscuramento’ e ‘luce’ nel ‘presente eterno’ IL RITIRO NELLA SELVA DEL SÉ. UNA LETTURA DEL TRATTATO DEL RIBELLE di Mario Bosincu 1. La via della salamandra 2. Il passaggio al bosco 3. La visione della tecnica

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LA VISIONE DELLA FORMA. PITTURA, FOTOGRAFIA E STEREOSCOPIA ERNST JÜNGER di Sandro Gorgone 1. La passione della visione 2. La pittura della catastrofe 3. Lo sguardo stereoscopico 4. La fotografia e la “seconda coscienza” 5. Irradiazioni e visione

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APOLLO E LA SIMMETRIA: ASPETTI DELLA VISIONE IN FRIEDRICH GEORG JÜNGER di Giuliana Gregorio 1. Lo sguardo di Apollo 2. La simmetria delle forme

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PROSPETTIVE SACRIFICALI. UNA TEOLOGIA POLITICA DELLO SGUARDO TRA LE DUE GUERRE IN ERNST JÜNGER di Gabriele Guerra 1. Introduzione. Forza del sogno, sogno della forza 2. Kunstreligion. Estetico e Politico tra le due guerre 3. Conclusioni. La Visual culture della Neue Sachlichkeit

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SGUARDO FOTOGRAFICO E SECONDA COSCIENZA di Maurizio Guerri 1. Il dolore come pietra di paragone 2. Fotografia e Seconda coscienza 3. Vedere come «atto di aggressione» 4. Sguardo fotografico e imperialismo 5. Fotografia, «mezzi totali» e «anestesia»

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ERNST JÜNGER E L’IMMAGINE DEL CORPO TRA ORGANICO, MECCANICO E POSTORGANICO di Valentina Menesatti 1. Introduzione 2. La costruzione organica 3. Il corpo anestetizzato 4. Perfezione e perfezionamento 5. “Mondo nuovo, corpo nuovo”. Conclusioni

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ELENCO DELLE IMMAGINI

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NELL’OPERA DI

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INTRODUZIONE

Quello della visual culture è uno specifico settore delle Kulturwissenschaften in continua ascesa, il cui ruolo va ben al di là di una ricognizione iconografica o iconologica intorno al ruolo delle immagini nella storia della cultura, o di una indagine più o meno filologica circa il ruolo delle immagini nella letteratura; si tratta invece di una vera e propria istanza filosofica, dalle coordinate ampie e in parte ancora imprecisate, volta a illuminare il cuore segreto che lega indissolubilmente parola e immagine. In particolare, una visual culture applicata alla letteratura ha il merito di proporre uno sguardo analitico diverso rispetto al testo ed ai suoi “dintorni”1, che permette così un approccio differenziato, articolato ed interdisciplinare all’oggetto letterario. Ancora più interessante, poi, si rivela un approccio visuale nello specifico alla letteratura, allorché si tratta di affrontare autori ed epoche in cui il dominio dell’immagine non appare così prepotente come nella nostra, almeno in prima istanza; è il caso di Ernst Jünger e del suo rapporto con la visualità, che trova in questo volume una prima ricognizione, articolata e sfaccettata nelle sue molteplici direttrici interpretative, ma legata proprio a quell’istanza filosofica alla base del rapporto tra parola e immagine. Oggetto di questi saggi, infatti – a loro volta il prodotto di un seminario tenutosi il 13 aprile 2012 presso l’Università degli Studi di Roma Tre, che ha visto incontrarsi giovani studiosi in una cornice non istituzionalizzata quale quella della forma-convegno – è infatti la ricerca di possibili risposte all’interrogativo circa l’esistenza di una vera e propria visual culture all’interno della produzione letteraria e filosofica dei due fratelli Jünger. Se dunque la visual culture si articola essenzialmente intorno alla produzione ed alla gestione di veri e propri “regimi scopici”2, tale definizione va assunta 1 2

Il riferimento è ovviamente a G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, tr. it. di C. M. Cederna, Einaudi, Torino 1989. Cfr. M. Jay, Scopic Regimes of Modernity, in Vision and visuality, a cura di H. Forster, Bay Press, New York 1988, pp. 3-23.

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L’eco delle immagini e il dominio delle forme

nel nostro caso alla lettera: nel caso dei fratelli Jünger, cioè, il termine “regime scopico” può essere assunto sia nei termini quasi letterali di una sorta di “forma di governo dello sguardo” nella produzione di entrambi, che allo scopo ad esempio di rileggere alla luce di queste recenti acquisizioni iconologiche lo “sguardo stereoscopico” jüngeriano3. Convincimento di tutti i partecipanti al seminario è infatti il fatto che parlare di una cultura visuale nell’ambito del pensiero e della produzione dei fratelli Jünger pare del tutto legittimo ed anzi centrale nei loro testi; e stupisce che nella critica e nella ricerca, specie in quella di lingua tedesca, tale aspetto non abbia ancora trovato un congruo sviluppo, almeno nel senso di una sua stretta interconnessione con i temi propri della visual culture4. Eppure il tema delle immagini appare centrale in Ernst Jünger (ma anche nel fratello Friedrich Georg e nella sua percezione del mito, come ci rivela il saggio di Giuliana Gregorio), sia nella sua declinazione più latamente concettuale e soggettiva (il tema dell’osservatore, la centralità dello sguardo e della visione e, a livello quasi metodologico, il concetto di “sguardo stereoscopico” – solo per citare alcuni dei temi e motivi che affiorano nella sua opera), che nella sua articolazione più strettamente iconografica o storico-artistica: è proprio quest’ultimo aspetto al centro delle ricognizioni di Andrea Benedetti e Sandro Gorgone, che, ricostruendo l’universo visuale dello scrittore tedesco, declinato attraverso le sue passioni artistiche o i suoi legami con pittori o quadri della storia dell’arte, restituiscono la dimensione più strettamente filosofica del suo dispositivo vi3

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«Lo sguardo stereoscopico è l’unico metodo che ci è dato seguire nella “pratica” di visione; essa mira, con successivi tentativi di collimazione dello sguardo ad aprire un varco nella superficie riflettente dei fenomeni e, attraverso la potenza, in sé ambivalente, dei simboli, a lasciar scorgere la trasparenza e la profondità armonica della struttura cristallina della realtà». (S. Gorgone, La visione, l’enigma e la morte, in S. Gorgone - P. Amato, Tecnica lavoro resistenza. Studi su Ernst Jünger, Mimesis, Milano 2008, p. 117). Cfr. anche Svend Buhl, Der Mythos der Bilder. Ernst Jünger als Wanderer zwischen den Welten, in “Mythen. Jünger-Studien”, 3 (2007), pp. 256-266. Se si eccettuano gli studi che si dedicano esplicitamente ai Bilderbücher (tematizzati da Maurizio Guerri nella sua postfazione a Die veränderte Welt, libro di immagini e commenti ad opera dello stesso Ernst Jünger; cfr. M. Guerri, La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger, in E. Jünger - E. Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, Mimesis, Milano 2007), si può solo segnalare il fatto che vi siano pagine stimolanti in tal senso – tra gli altri – in J. Encke, Augenblicke der Gefahr. Der Krieg und die Sinne. 19141934, Fink, München 2006; R. Zuch, Kunstwerk, Traumbild und stereoskopischer Blick. Zum Bildverständnis Ernst Jüngers, in Ernst Jünger, Politik, Mythos, Kunst, a cura di L. Hagestedt, de Gruyter, Berlin 2004, pp. 477-496.

Introduzione

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suale (come nel caso di Gorgone) o quella più strettamente inerente alla strategia letteraria quale si rintraccia dentro le costruzioni diaristiche jüngeriane della seconda guerra mondiale (come nel caso di Benedetti). Come detto, è lo stesso Ernst Jünger, coerentemente con la sua innata “passione visiva”, a tematizzare esplicitamente il suo interesse per il ruolo delle immagini, ad esempio in un testo tratto dalla sua raccolta de Il cuore avventuroso (e che ha fornito anche il titolo al convegno ed al presente volume): in esso Jünger sostiene che «con lo sguardo profondo e gioioso che rivolgiamo alle immagini, noi offriamo un sacrificio, e ogni volta siamo esauditi secondo il valore della nostra offerta»5. Un testo che si offre dunque alla riflessione come una sorta di Konzept fondamentale circa il tema “Ernst Jünger e le immagini”, e che presenta subito, nella forza datagli dal suo carattere aforismatico, una sistematica connessione con la sfera religiosa. Tale sfera, indagata anche da Andrea Benedetti, costituisce un riferimento decisivo per l’analisi che compie Gabriele Guerra nel suo contributo scritto; prendendo spunto da un altro testo tratto dalla medesima raccolta jüngeriana, Guerra si concentra su quello che viene definito il passaggio dalla “metafisica del segreto” – iconicamente espressa nelle dettagliate analisi jüngeriane dei Traumbilder – al “segreto della metafisica”, con cui Jünger, dalla fine degli anni Trenta, ritraendosi da una dimensione più propriamente politico-attivistica, intenderebbe avviare un processo di ricognizione di quel fondo religioso-teologico da cui indagare la dimensione onirica dell’interiorità. Un altro aspetto assai importante all’interno della produzione jüngeriana è il suo interesse per le immagini colte nel loro ruolo mediale, che proprio negli anni ’20 e ’30 del Novecento comincia ad acquisire l’importanza e la centralità che oggi senza dubbio riveste; è il caso cioè dei molti Bilderbücher di cui Ernst curò la pubblicazione, come anche il loro commento letterario. Su di essi, e sul significato politico-estetico che essi hanno nella produzione dell’immaginario dell’epoca – come anche, soprattutto, nel loro carattere in qualche modo profeticamente anticipatore – si sofferma estesamente Maurizio Guerri nel suo contributo. Strettamente connesse a questi aspetti specificamente bildwissenschaftlich della produzione jüngeriana sono anche, come appare evidente, le dimensioni più moderne e recenti della questione: vale a dire le nuove percezioni e rappresentazioni di una corporeità “post-umana”, cui oggi Jünger guarderebbe senza dubbio con interesse, che Valentina Menesatti tratteggia 5

E. Jünger, Das Abenteuerliche Herz (1938), in Sämtliche Werke, Bd. 9; tr. it. e cura di Q. Principe, Il cuore avventuroso. Figurazioni e capricci, Guanda, Parma 1986, p. 175.

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L’eco delle immagini e il dominio delle forme

nel suo saggio; o quelle, legate ad un contesto apparentemente diverso – perché maggiormente debitore al dispositivo morfologico spengleriano e, più in generale, alla costruzione “antica” di corpi e saperi – ma altrettanto connesse a questi specifici aspetti della riflessione, quali vengono sviluppati da Mario Bosincu nel suo lavoro; o, infine, la questione assolutamente cruciale del nesso tra estetica e politica nel “secolo breve” del totalitarismo, al centro del contributo di Pierandrea Amato – che in esso dialoga esplicitamente tra l’altro con un filosofo contemporaneo all’autore dell’Arbeiter, da lui separato da una traiettoria intellettuale ed esistenziale assolutamente antitetica, ma che la critica recente e recentissima, specialmente quella italiana6, tende a considerare come un vero e proprio “interlocutore segreto” dello Jünger più attento al mondo dei media ed alle riflessioni che da essi scaturiscono, ovvero Walter Benjamin. La figura tormentata del filosofo ebreo-tedesco, morto suicida sul confine franco-spagnolo per sfuggire alla barbarie nazista, autore – oltre che di una recensione molto negativa ad un volume di scritti della cerchia jüngeriana7 – del celebre saggio dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica8, si mostra in effetti come una figura che per le sue articolazioni filosofiche e concettuali ben si presta a fungere da interlocutore critico di alcuni tra i più stimolanti dispositivi intellettuali jüngeriani. Due profili, quindi, quelli di Ernst Jünger e di Walter Benjamin, che ci accompagnano nel nostro attuale XXI secolo, alla ricerca di nuove possibili interpretazioni del nesso tra parola e immagine. Gabriele Guerra, Sandro Gorgone, luglio 2013

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È stato soprattutto Giovanni Gurisatti ad affrontare in chiave sistematica il nodo della possibile relazione concettuale tra Walter Benjamin ed Ernst Jünger, anche al di là di un quadro filologico che obiettivamente offre pochi appigli per un confronto sistematico: cfr. G. Gurisatti, Tecnica (Benjamin e Jünger), in Id., Costellazioni. Storia, arte, e tecnica in Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 283-326; Id., Divergenze parallele. Appunti su guerra e tecnica fra Benjamin e Jünger, in La mobilitazione globale. Tecnica Violenza Libertà in Ernst Jünger, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2012, pp. 91-117. Cfr. W. Benjamin, Theorien des deutschen Faschismus. Zu der Sammelschrift »Krieg und Krieger«. Herausgegeben von Ernst Jünger (1930), tr. it. di. A. Marietti Solmi, in Id., Opere complete. Scritti 1930-1931, Einaudi, Torino 2002, pp. 203-213-. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1991.

Introduzione

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Nota dei curatori Le opere di Ernst Jünger vengono citate dall’edizione italiana, ma, ogni volta, si rimanda all’edizione compresa nelle opere complete, Sämtliche Werke, pubblicata in 22 volumi presso la casa editrice Klett-Cotta di Stoccarda a partire dal 1978. Nel testo verrà utilizzata la sigla SW seguita dal numero del volume.

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PIERANDREA AMATO

ESTETICA DELLA FORMA. UNA LETTURA DI DER ARBEITER Ogni autentica interpretazione deve tentare di cogliere ciò ‘che non c’è’. M. Heidegger L’aura è il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina essa sia. W. Benjamin

1. Prologo La tesi che guida la composizione di queste pagine, dedicate allo statuto della forma (Gestalt) nel capolavoro di Ernst Jünger, Der Arbeiter (1932), ha come presupposto storico-filosofico una circoscritta definizione del nichilismo: è il fenomeno che ritrae l’età in cui l’abrasione del senso incide la legittimità di qualsiasi forma in grado di garantire un senso alle cose. In realtà, proprio questo processo di disfacimento, produrrebbe le condizioni – Der Arbeiter rappresenta una conferma eccellente di questa ipotesi – perché il problema della forma penetri in una dimensione in cui la sua tradizionale struttura metafisica sperimenta inedite soluzioni. Non è difficile verificare che proprio lì dove più acuta appare la diagnosi del nichilismo, nella filosofia di Nietzsche, tanto più intensa si rivela la ricerca per conferire una forma all’assenza di forme. È quindi in un orizzonte di origine nietzscheana che si colloca l’ipotesi teorica intorno a un carattere di Der Arbeiter che qui si intende documentare: l’implicazione tra densità ontologica e sedimentazione estetica nella concezione jüngeriana della forma1. 1

La letteratura critica su Der Arbeiter è da tempo fuori controllo. Un buon punto di partenza, allora, rimane la sezione che la bibliografia di Nicolai Riedel dedica all’opera principale di Jünger: Ernst Jünger-Bibliographie 1928-2002, Metzler, Stuttgart 2003. Più recentemente, un riferimento utile, sia per la ricognizione che propone dei temi principali dell’opera del ’32, sia per l’aggiornamento bibliografico, è la ricerca di L. Caddeo, L’operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica, Mimesis, Milano 2012. Vedi inoltre G. Raciti, La forma della conchiglia, in E. Jünger, Viaggi in Sicilia, tr. it. a cura di G. Raciti, Sellerio, Palermo

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È con Nietzsche – in particolare con la filosofia del giovane Nietzsche – che l’arte diventa un prisma destinato a travalicare qualsiasi limite estetologico e ad alimentare la sussistenza della forma nell’epoca in cui la sua validità trans-fisica è sfigurata. Non costituisce, cioè, né l’occasione per formulare una teoria estetica né un viatico per l’elevazione dello spirito, ma riguarda – lo dico qui molto forse troppo semplicemente – un’istanza ontologica, dal momento che le si attribuisce la capacità di inventare le forme destinate a frenare la dissoluzione generale del senso. È con Nietzsche che la filosofia, senza mezzi termini, per sopravvivere alla propria crisi trascendentale, tende ad assumere un’inclinazione artistica legata a quella che Deleuze e Guattari considerano la sua attitudine essenziale: la creazione di concetti2. Non è forse neanche il caso di notare che il momento propulsore della consistenza estetica della filosofia nietzscheana è La nascita della tragedia; il cui progetto fondamentale consiste nella rifondazione del problema della forma nel momento in cui si affievolisce qualsiasi legalità logica e trascendentale per la filosofia. L’incarico che La nascita della tragedia affida alle immagini apollinee è analgesico: salvaguardare, attraverso l’illusione dell’arte, ciò che è più vero della verità. Il fatto, cioè, semplice e inquietante, che l’uomo non può abitare la verità (si rivela un’eccedenza dionisiaca: «l’eccesso si svelò come verità»3). Un congedo dalla verità, cui soltanto l’arte sarebbe in grado di corrispondere con la produzione di forme capaci di essere all’altezza di quella che Nietzsche considera la scoperta essenziale dei Greci: la terribile bellezza della vita. L’apollineo nelle mani di Nietzsche esprime il coraggio di una lontananza; allude allo scarto che è necessario tollerare per custodire la differenza – il divenire – della verità. La vita, secondo Nietzsche, si salva da se stessa, dalla sua costitutiva irrappresentabilità, nell’immagine; nell’illusione che salvaguarda il vero mediante la menzogna. Che cosa esattamente si conserva nell’immagine apollinea? Che cosa Apollo, tramite un gioco di maschere, trattiene di Dioniso? Nell’immagine che cattura il divenire, l’eccedenza dionisiaca sopravvive. La tragedia attica costituisce una produzione di forme in cui l’impulso estetico dionisiaco, non è soffocato, ma può affiorare

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1993; C. Cases, La fredda impronta della forma. Arte, fisica e metafisica, in Ernst Jünger, La Nuova Italia, Firenze 1997. G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?; tr. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e ssg., vol. III, t. I (1972), p. 38.

P. Amato - Estetica della forma. Una lettura di Der Arbeiter

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all’improvviso. Dunque, per quanto il giovane Nietzsche sia imbevuto di letture platoniche, La nascita della tragedia è un testo radicalmente antiplatonico: consegna un primato ontologico e conoscitivo all’arte perché l’arte avrebbe la forza di restare a distanza dalla verità pur avendo accesso al suo segreto dionisiaco. Una delle più celebri sentenze de La nascita della tragedia – «solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati»4 – non soltanto potrebbe riassumere per intero l’esperienza di pensiero di Jünger, ma più nello specifico, è lo sfondo ontologico non tematizzato della trama filosofica di Der Arbeiter. La nozione jüngeriana di Mobilitazione totale – l’indice spirituale che presiede alla cattura dell’uomo da parte della tecnica – potrebbe rivelarsi, infatti, una sollecitazione estetica della totalità degli enti in cui la creazione artistica coincide con l’eclissi di qualsiasi creatività. Jünger, in questa maniera, raccoglierebbe il problema estetico schiuso da Nietzsche, ma tenderebbe a distorcerne il nucleo fondamentale perché concepirebbe una definizione della forma che preclude qualsiasi liceità del momento creativo/dionisiaco. Si tratta allora di mostrare che la logica interna che governa l’imperturbabile staticità dell’operaio, è un esercizio ostile all’esperienza dell’arte occidentale come sintomo di una determinata concezione dell’essere. Nell’operaio, in questo senso, sarebbe in gioco un’intensità elementare e preistorica dell’arte che precede ed eccede ogni storia – nel senso della sua evoluzione – dell’arte. Per quanto vi sia tra Nietzsche e Jünger una differenza nella concezione dell’arte: l’operaio si colloca agli antipodi dell’eccedenza dionisiaca, va detto anche che questa dissonanza potrebbe presentare contorni meno marcati, se si rammenta che il giovane Nietzsche, sulla scia del magistero wagneriano, non esalta l’artista – chi ostacola l’annichilimento della forma – come un soggetto determinato. È bene tenere presente un dato cruciale dell’estetica nietzscheana: «l’individuo che vuole e promuove i suoi scopi egoistici, può essere pensato solo come avversario, non come origine dell’arte»5. L’artista per Nietzsche è l’esito di forze che lo attraversano e fe4

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Ivi, p. 45. Jünger attinge a piene mani dalla metafisica dell’arte che alimenta l’aspirazione wagneriana del giovane Nietzsche. Disposizione cui Jünger in fondo resta fedele per un ampio arco della sua produzione. Ad esempio, ancora nel 1964, nel volume che accompagna la seconda edizione di Der Arbeiter, le cose non cambiano: «l’arte non è una potenza anti-storica bensì sovrastorica, vive di ciò che è senza tempo» (E. Jünger, Maxima – Minima. Adnoten zum »Arbeiter« (1964), in SW8; tr. it. di A. Iadicicco, Maxima – Minima. Annotazioni su L’operaio, Guanda, Parma 2012, p. 16). F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 44.

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L’eco delle immagini e il dominio delle forme

condano. Il sogno apollineo e l’ebbrezza dionisiaca sono dimensioni extraindividuali dell’esistenza, indipendenti dalla volontà dell’artista, cui l’artista cerca di corrispondere. In Der Arbeiter, allo stesso modo, la questione estetica, come contrappunto della metafisica del lavoro, muove dal presupposto che l’individuo-artista-borghese sia svanito tra le rovine della prima guerra mondiale. L’operaio, più precisamente, revoca la validità di qualsiasi gesto singolare in grado di infrangere la faglia dell’essere. La sua attività non presenta nulla di speciale. Non ha alcuna ambizione a eccedere ciò che è; tanto meno a sperimentare ciò che non c’è come più genuina forma di creatività estetica. 2. Estetica anestetica L’operaio di Jünger non rappresenta una classe sociale. Non è una figura economica né politica. Non incarna lo spirito di una nazione. La sua natura, piuttosto, è definita dalla compenetrazione tra la vita e la tecnica. Questa fusione ha una matrice metafisica e avviene attraverso la mediazione della forma. La vita dell’operaio, in questo modo, coincide pienamente con il lavoro; per questa ragione non vi è alcuna traccia di alienazione nella sua attività. Per lui, l’officina è ovunque. Ventiquattro ore su ventiquattro si rende disponibile per la produzione di lavoro. Il tempo libero svanisce; esiste soltanto il tempo di lavoro. Ciò che l’operaio produce, combacia con la trama della sua esistenza. Tutto ciò, secondo la diagnosi jüngeriana, crea le condizioni per una vera e propria rivoluzione antropologica, il cui esito estremo sarebbe la fine di qualsiasi distinzione tra ciò che organico e ciò che non lo è. L’irruzione dell’elementare – il dolore, la morte – nella vita quotidiana è ciò che segna il destino del borghese; l’individuo incapace di comprendere e gestire l’implicazione che il dominio della tecnica impone tra organizzazione sociale e pericolo; tra necessità e libertà; tra ordine e anarchia. Al contrario, l’operaio nel suo rapporto diretto con l’elementare rintraccia la fonte della sua energia vitale. La forma, dicevamo, è la maniera con cui Jünger concepisce il legame esistenziale tra la vita e la tecnica. La forma è indipendente dal tempo. La storia non produce forme, ma si modifica grazie ad esse6. La forma non ha volontà. Non prende decisioni. L’operaio incarna tutte le forme di vita possibili nell’unica disponibile nell’età della tecnica: il lavoro. 6

M. Guerrieri, Anestesia, in Ernst Jünger. Terrore e libertà, Agenzia X, Milano 2007, pp. 129-184.

P. Amato - Estetica della forma. Una lettura di Der Arbeiter

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Potrebbe essere utile, per orientarsi intorno allo statuto della forma che determina l’operaio jüngeriano, stabilire un rapido accostamento con Essere e tempo. Der Arbeiter, infatti, può essere interpretato anche come un tentativo ambizioso di rispondere alla catastrofe della prima guerra mondiale in un senso radicalmente opposto alla logica che governa il capolavoro di Heidegger del ‘27. Der Arbeiter si rivela un rovesciamento sistematico dell’idea che organizza l’intrigo ontologico di Essere e tempo: l’esistenza come aver da essere. Il Dasein si determina esclusivamente nell’esperienza; nell’apertura contingente del mondo. L’operaio jüngeriano, al contrario, non può fare esperienza dell’esperienza. La sua vita non possiede e sprigiona alcuna particolare potenza perché si risolve compiutamente nella pura forma. Adottando la prospettiva di Essere e tempo, si potrebbe dire che l’operaio non può in alcun modo angosciarsi perché non è chiamato ad alcuna decisione sulla propria esistenza. Non deve prendere nessuna risoluzione che riguardi sé e il mondo in cui abita. La sua forma di vita è la pura necessità di essere in vita così come è. L’operaio non può essere; è. Resta saldo nella propria forma; nel suo essere senza divenire e storia. In quanto pura forma, ha ampiamente risolto l’angoscia che dovrebbe scuotere chi avverte la propria abissale finitezza. Per questa ragione, in fondo, dal punto di vista ontologico che Heidegger assume negli anni Venti per determinare lo statuto dell’umano, non sarebbe azzardato considerarlo un animale (chi è povero di mondo)7. Questa ipotesi, d’altronde, sarebbe indirettamente confermata dalla principale scoperta di Jünger nelle trincee della prima guerra mondiale: la relazione essenziale tra modernità e barbarie; tra tecnica dei materiali e bestialità. Ma non è tutto: se non è sbagliato pensare a Essere e tempo anche come un trattato sul primato assoluto dell’azione rispetto alla stabilità dell’essere, e il poter essere potrebbe implicare un’idea dell’esistenza come un’inedita forma di politicità, l’operaio jüngeriano, invece, considera la sua stessa esistenza una nuova e rivoluzionaria forma di ordine: «ciò che è veramente nuovo non ebbe bisogno di manifestarsi attraverso la rivolta. La sua maggiore pericolosità consiste semplicemente nella sua esistenza»8. Lasciando adesso da parte il fugace riferimento a Essere e tempo, ciò che è in gioco nella relazione strutturale tra la vita e il lavoro in Der Arbeiter, è 7 8

Sulla divisione ontologica tra l’uomo e l’animale in Heidegger, prima della Kehre, vedi il corso universitario del ’29, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, tr. it. P. Coriando, il melangolo, Genova 1999. E. Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (1932), in SW8; tr. it. di Q. Principe, L’operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991, p. 17.

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la filigrana di una condizione metafisica in cui non è possibile contemplare alcuno scarto tra l’essere e il divenire. La messa a punto di una metafisica del lavoro, in altre parole, avviene su un piano in cui né la dimensione ideale né trascendentale della forma presenta alcuna particolare legittimità. Per questo motivo, a mio avviso, il problema della forma in Der Arbeiter causa un disorientamento teorico che merita di essere approfondito e indagato secondo una prospettiva in grado, al di là probabilmente delle intenzioni dello stesso Jünger, di svelarne le proprietà essenziali. Si avanza l’idea, in particolare, che sia possibile orientarsi con successo intorno alla questione della forma in Jünger, individuando nell’economia del suo pensiero degli anni Trenta una determinata e per certi versi occultata componente estetica. Per verificare il rilievo che assume l’arte nell’opera di Jünger a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, è giusto, come da tempo la critica non si è lasciata sfuggire, collocare la sua produzione nell’ambito, intricato e vastissimo, delle avanguardie estetiche del primo Novecento. Nello specifico, a un livello più spirituale che squisitamente stilistico, Jünger sembra partecipare sia della serie di tensioni che compongono la poetica della Neue Sachlichkeit – vedi in questo caso la pubblicazione nel 1929 del volume composto da brevi, folgoranti capitoli, Il cuore avventuroso – sia della lirica surrealista9. La posizione di Jünger, più precisamente, è fortemente contagiata dalla propagazione di un brutalismo estetico in cui sarebbe all’opera una sintesi vorticosa tra primitismo artistico e sviluppo tecnologico iper-moderno. È sua intenzione, in questo modo, prendere commiato da qualsiasi tentazione psicologica e moraleggiante – si tratta di farla finita, almeno idealmente, con l’Io – e di riuscire, invece, a corrispondere nella scrittura all’essenzialità metallica della tecnica. I diari di guerra, primo fra tutti il più importante, Nelle tempeste d’acciaio (prima edizione 1920), in questo senso rappresentano il repertorio sintomatico di questa ambizione estetica: fornire la massima oggettività eliminando qualsiasi tossina patetica nella descrizione della carneficina. Come se la scrittura potesse diventare uno strumento, alla stregua di una macchina fotografica, in grado di registrare oggettivamente l’orrore. In realtà, se è corretto stabilire un nesso tra la produzione jüngeriana tra le due guerre e alcuni compiti estetici delle avanguardie novecentesche, tuttavia forse non è sufficiente, almeno in termini squisitamente teoretici, 9

È un capitolo corposo della critica la verifica della posizione di Jünger nello spettro delle avanguardie storiche. Fa il punto sulla questione A. Benedetti, Rivoluzione conservatrice e fascino ambiguo della tecnica. Ernst Jünger nella Germania weimeriana: 1920-1932, Pendragon, Bologna 2008.

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limitarsi a una ricostruzione storiografica per valutare il peso dell’arte nell’economia del pensiero jüngeriano. La questione è al contempo più complicata e rilevante di una semplice e probabilmente inevitabile condivisione di temi e atteggiamenti estetici. Piuttosto, per vederci più chiaro sul valore che l’arte assume nel pensiero di Jünger, probabilmente vale la pena riferirsi direttamente, prendendo quest’attività filosoficamente sul serio, al suo impegno come curatore e promotore nei primi anni Trenta di cinque album fotografici10. La fotografia sarebbe in grado di certificare la metamorfosi antropologica indotta dalla mobilitazione totale e di documentare l’ingresso in un’età in cui spadroneggia la serialità e l’anonimato. L’archetipo fotografico documenta la polverizzazione dell’individualità e l’affiorare di un nuovo Tipo umano definito dalla logica del lavoro totale. In effetti, è possibile attribuire a Jünger non soltanto la capacità di mettere a fuoco il processo che conduce la fotografia a diventare un mezzo estetico, ma di riconoscere il momento epocale in cui l’arte in generale diventa comprensibile soltanto secondo un paradigma fotografico. La fotografia, secondo Jünger, è uno strumento democratico11: cancella le differenze e impone una visione (apparentemente) oggettiva della realtà. L’associazione tra la fotografia e la democrazia fornisce un elemento probabilmente decisivo per delineare la natura della società che Der Arbeiter descrive. Ci permette di desumere, dal momento che la fotografia incarna la manifestazione estetica della metafisica del lavoro, che nell’ottica di Jünger la realtà del lavoro totale è un mondo dove, contro il principio di ogni differenza, domina un’uguaglianza assoluta – un’uguaglianza stabilita prima di qualsiasi legalità sociale e fondata sull’assenza preliminare di qualsiasi differenza. Infatti, secondo Jünger, dove comanda la forma, ciò che non si altera e muta, evidentemente non è possibile stabilire alcuna differenza e gerarchia. La mancanza di qualsiasi principio trans-fisico di legittimazione del divenire, che il dominio della tecnica comporta, crea le con10

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La sequenza delle pubblicazioni fotografiche di Jünger è intensa: nel 1930 compaiono L’aviazione è necessaria e Il volto della guerra mondiale. Esperienze sul fronte dei soldati tedeschi; nel 1931, Qui parla il nemico. Esperienze di guerra dei nostri avversari e L’attimo pericoloso. Una raccolta di immagini e resoconti. Nel 1933, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo. Per un inquadramento di questa produzione jüngeriana, nel complesso della sua visione del rapporto tra tecnica e lavoro, vedi almeno M. Guerri, La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger, in E. Jünger – E. Schultz, Die veränderte Welt. Eine Bilderfibel unserer Zeit (1933); tr. it. di M. Guerri, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, Mimesis, Milano 2007, pp. 69-79. E. Jünger, Introduzione, in Il mondo mutato, cit., p. 9.

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dizioni per un’anarchia ontologica che promuove una democratizzazione antropologica sul piano formale la cui manifestazione plastica si incarna nell’attività fotografica. Non sarebbe scorretto pensare, a questo punto, che il fondamento democratico della società del lavoro totale, una volta sbriciolate le tradizionali fonti di mediazione tra la vita e il potere, è di natura estetica (un’estetizzazione ostile a qualsiasi concezione politica della democrazia). Nella concezione estetica dell’operaio, la democrazia è una condizione in cui chiunque può fotografare ed essere fotografato12. La visione meccanica allude a un’obiettività il cui esito è la possibilità di lanciare uno sguardo verso il Tipo umano. Lascia intravedere la sua forma. L’immutabile che lo costituisce. Senza l’apparato estetico della tecnica sarebbe arduo cogliere la mutazione antropologica che la stessa tecnica provoca. Ciò avviene perché la fotografia sarebbe in grado di filtrare il divenire e fissare un nucleo immobile dell’esistenza nel più generale processo di accelerazione. La fotografia elude l’ecceità individuale nella sensibilità; come se il suo compito principale fosse un assalto al nucleo etimologico/essenziale dell’estetica (aistetikos: sensibile), lasciando evaporare ciò che fa di un’esperienza un’esperienza: la sua unicità13. Maneggiando gli album fotografici curati da Jünger, non è difficile scoprire che se Der Arbeiter può essere letto in molti modi, uno di questi, e probabilmente non uno dei più futili, è considerarlo come un’introduzione, ad esempio, a uno dei libri fotografici più espressivi tra quelli cui Jünger offre 12

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È possibile pensare che Heidegger alludesse proprio a questo principio antropologico della democrazia, che la fotografia metterebbe in luce da un punto di vista estetico, formulando un giudizio apparentemente paradossale su Der Arbeiter: «L’operaio di Ernst Jünger è la metafisica del ‘comunismo’ correttamente inteso» (M. Heidegger, Ernst Jünger, tr. it. di M. Barison, Ernst Jünger, Bompiani, Milano 2013, p. 63). Lo statuto dell’esperienza è questione talmente ampia – si intreccia, a ben vedere, per intero con il destino della filosofia moderna – che qui è necessario limitarsi a documentare in che modo opera nella trama di questo mio contributo dedicato all’estetica filosofica di Jünger. L’esperienza è ciò che è raro e singolare; un’infrazione del corso normale del tempo che per quanto non sia ostile alla storia si colloca oltre la storia. Tutto ciò, ad esempio, è facilmente rintracciabile in chi forse per primo tematizza sistematicamente la distruzione dell’esperienza come motivo innanzitutto estetico – la perdita della capacità di narrare – nell’età della tecnica: Walter Benjamin. Di Benjamin, a questo proposito, vedi almeno Esperienza e povertà, tr. it. di E. Ganni, in Opere complete, V. Scritti 1932-1933, Einaudi, Torino 2003, pp. 539-544; e il saggio del ’36 Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, tr. it. di R. Solmi, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, pp. 247-274. Inoltre, sulla stessa linea, vedi G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 1978.

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il proprio contributo: Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo (1933)14. Più che altrove emerge qui un principio dell’estetica di Jünger: la fotografia non si limita a documentare la natura metallica del primo conflitto mondiale, ma contribuisce a mettere a fuoco momenti della vita quotidiana governati dal dominio della tecnica. Istanti apparentemente banali che diventano oggetto della penetrazione della fotografia proprio per la loro apparente insignificanza. Ciò accade perché la fotografia, sospendendo sia l’emergenza del vissuto individuale sia le tracce della storia, cattura una forma del tempo senza tempo; una sua epifania. Evita qualsiasi canonica narrazione della quotidianità e arresta ciò che essa manifesta/ nasconde di essenziale. La fotografia monta la realtà e in questo modo, mediante il potere dell’immagine, accede al suo nucleo fondamentale. È bene non lasciarsi persuadere dalla prima impressione: gli album fotografici jüngeriani non rappresentano dei semplici reportage; al contrario, costituiscono delle prese di distanza dalla mera evidenza di ciò che vediamo, in modo da cogliere l’essenziale della storia che la storia non lascia vedere. Nel volume del ’33, in particolare, la fotografia non è un semplice mezzo destinato a testimoniare un evento, ma diventa essa stessa, per la qualità dello sguardo che diffonde, l’esperienza epocale che Jünger intende esibire: l’integrazione tra il pericolo e l’ordine; tra l’oggettività e la perdita dell’individualità. La fotografia, quindi, non è semplicemente un dispositivo tecnico, ma contribuisce a promuovere la rivoluzione antropologica dell’operaio, alterando la natura dello sguardo e di conseguenza la realtà che ci circonda. Valutando con attenzione il lavoro che Jünger dedica alla fotografia, è forse possibile rovesciare una posizione critica a tal punto consolidata da non essere generalmente nemmeno discussa: non sono gli album fotografici destinati a confermare le ipotesi teoriche del volume del ’32, ma, al contrario, è Der Arbeiter che costituisce una sorta di contraccolpo di quanto Jünger mette a punto accumulando una serie di immagini del suo tempo. Nei confronti dell’immagine fotografica Der Arbeiter potrebbe rappresentare una sorta di supplemento; un’integrazione linguistica di una visione epocale. Per intenderci, mentre Der Arbeiter senza Il mondo mutato non riuscirebbe a caratterizzare plasticamente il senso della rivoluzione antropologica che pretende di annunciare, la collezione di fotografie, invece, è in grado di esprimere autonomamente ciò che la prima guerra dei materiali scatena: la compenetrazio14

Il mondo mutato è composto da otto sezioni: Il crollo degli antichi ordinamenti; Il volto mutato della massa; Il volto mutato del singolo; Politica interna; Economia; Nazionalsocialismo; Mobilitazione; Imperialismo.

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ne tra il lavoro e l’esistenza. La raccolta del ’33, dunque, non costituisce semplicemente un commento visuale del capolavoro del ’32, ma, lasciando divampare un nuovo statuto dell’immagine (uno statuto tecnico), dimostra che la tecnica (fotografica) è un mezzo esistenziale. Soltanto tenendo conto della potenza produttrice della fotografia, è concepibile l’idea che, per quanto la sua natura sia estranea alla formulazione di un vero e proprio gesto estetico, l’operaio possa essere l’interprete di «un’attività creativa» (die schöpferische Leistung)15. Com’è possibile attribuire un’attitudine creativa a chi è inchiodato alla mera ripetizione automatica di qualsiasi prestazione? Qual è, allora, la natura della creatività cui fa riferimento Jünger? Evidentemente bisogna riferirsi al tipo di lavoro che la fotografia riesce a mettere in campo. La creatività qui non ha più nulla a che fare con il gesto unico, solitario, irripetibile. Arte e invenzione prendono strade diverse nell’età del lavoro, perdendo valore qualsiasi forma di creatività legata all’attività individuale. Al contrario, è nell’immagine riproducibile che risiede la profondità estetica nell’età della tecnica. Nell’universo dell’operaio jüngeriano, dove non si stabilisce più alcuna differenza tra la realtà e la sua rappresentazione, non c’è spazio per lo spazio della creazione. Non esiste il vuoto, la faglia indispensabile perché un gesto qualsiasi sia in grado di fare ciò che non c’è. Tuttavia, proprio nella prestazione anonima e riproducibile, si incarnerebbe l’inquietudine cultuale della tecnica che le permette di sprigionare un’energia in grado di modificare la natura umana. Questo processo darebbe corpo, secondo Jünger, a una figura estrema di nichilismo – o sarebbe meglio dire: il compimento del nichilismo come assenza del problema del valore – che soffoca qualsiasi ambizione catartica dell’arte: Lo stretto rapporto del tipo umano con il numero e la quantità, la severa e chiara univocità del suo tenore di vita, sembrano separare drasticamente il suo mondo da quell’altro mondo, ispirato alle muse in cui l’uomo partecipa della «superiore nobiltà della natura». La costituzione metallica della sua fisionomia, la sua predilezione per le strutture matematiche, l’assenza di distinzioni e diversità psicologiche tra i vari esponenti del tipo, e infine la sua buona salute, corrispondono assai poco alle rappresentazioni che ci è fatti portatori di energia creativa. L’elemento tipico vale come figurazione dell’elemento civilizzatore, la quale si differenzia sia dalle figurazioni naturali sia da quelle della cultura e della civiltà: elemento distintivo è l’assenza di valori16. 15

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E. Jünger, L’operaio, cit., p. 208. È bene tenere presente che secondo Jünger, l’operaio, nella società del lavoro totale a pieno regime, non rappresenta una figura della distruzione e per questa ragione appare in grado di una prestazione, per quanto particolare, creatrice. Ivi, p. 203.

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L’idea che sta al fondo di Der Arbeiter, detto molto semplicemente, è che il tramonto della creazione si rivela una forma anodina di prestazione estetica. Farla finita con l’arte, in altri termini, è un gesto esteticamente definitivo che schiude all’arte un altro mondo in cui l’artista, il soggetto-genio, romantico, borghese, decadente, scompare. Tutto ciò, però, piuttosto che pietrificare il mondo, è, per Jünger, il presupposto del suo incantamento permanente. Nel senso che nell’età della tecnica vivremmo in una dimensione in cui si impone un dominio assoluto dell’immagine. Vale a dire, che la rigida composizione d’acciaio della realtà della tecnica, in fondo, non è altro che una rappresentazione spettacolare del dominio delle macchine e dell’automatismo estremo. Jünger non potrebbe dunque approvare la tesi di Benjamin sull’esaurimento dell’aura nell’età in cui domina una forma d’arte tecnicamente riproducibile. Se per Benjamin l’aurea termina perché non è possibile fare alcuna effettiva esperienza dell’arte, per Jünger, che condivide con Benjamin l’idea che la tecnica ispira una rivoluzione estetica, la tecnica provoca una situazione estrema: la fine dell’esperienza. L’arte, cioè, darebbe vita a una situazione paradossale: il congelamento del tempo. Questo tramonto, però, lungi dal comportare una desacralizzazione del mondo, stimola un diverso incantamento collegato all’energia ieratica che la tecnica è in grado di sprigionare. Tralasciando adesso il confronto tra la posizione estetica di Jünger con quella di Benjamin, su cui pure tra breve sarà necessario ritornare, adesso vale la pena ribadire che per Der Arbeiter la fotografia e il cinema sono i linguaggi che definiscono i paradigmi estetici della società del lavoro totale. Due performance in cui l’esperienza insolita smarrisce qualsiasi senso e rilevanza. L’attore cinematografico, ad esempio, è strutturalmente estraneo al valore del gesto unico. La sua prestazione lavorativa è consegnata a una ripetizione senza alcuna differenza incarnata dal montaggio in cui la causalità temporale perde di valore. L’attore rappresenta l’evidenza elementare nel riproducibile. Più precisamente, non sarebbe altro che un operaio della tecnica; chi compie la corretta gestualità nell’universo amministrato dalle macchine. Per questo motivo, con un’intuizione succosa, Jünger può notare che a rigor di logica per il cinema non esiste alcuna première. Der Arbeiter dedica ampio spazio alla trasformazione dell’arte nella realtà dell’operaio (vedi la sezione, L’arte come raffigurazione del mondo del lavoro). Jünger, in particolare, allestisce una ricognizione della natura dell’arte dal punto di vista del nuovo principio metafisico che governa nell’età della tecnica la relazione tra le cose: il lavoro. Evidentemente anche qui il lavoro non è una funzione economica ma rappresenta un princi-

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pio unitario dell’essere della vita. Tenendo presente che per Der Arbeiter il lavoro non è un’attività tecnica, ma un modo di vivere, si dovrebbe comprendere perché la fotografia sia in grado di provocare il Tipo umano: «nella fotografia risulta chiaro il fatto che essa offre una rappresentazione del tipo umano, non dell’individuo»17. Il lavoro in Der Arbeiter non è più semplicemente l’attività che media la relazione dell’uomo con il mondo, ma rappresenta il centro di gravità della sua esistenza; una forza in grado di omologare qualsiasi cosa alle proprie esigenze. È in questo contesto teorico, nella tramatura di un’antropologia filosofica che descrive la fisionomia di una rivoluzione, che la fotografia e il cinema si dimostrano disponibili alla rappresentazione del Tipo umano: l’estetica dell’elementare; il tramonto del valore dell’unicità. Il ruolo strategico che riveste la fotografia nella filosofia jüngeriana del lavoro è confermato anche dal terzo contributo che, con Die totale Mobilmaching e Der Arbeiter, compone il trittico sull’interpretazione del valore metafisico della tecnica. È assai indicativo, almeno per l’economia del nostro discorso, che in uno dei momenti filosoficamente più cristallini della sua produzione, quando nel saggio sul dolore del 1934, Über den Schmerz, Jünger è alle prese con una descrizione esistenziale della rivoluzione antropologica che la tecnica impone, ricorra alla fotografia (un «fenomeno rivoluzionario»18). Il saggio sul dolore conferma, su un piano esistenziale, la dissoluzione dell’individualità nella società del lavoro totale. Il dolore, infatti, costituisce un sismografo formidabile per valutare la qualità della metamorfosi antropologica che si determina con l’irruzione dell’elementare nella vita quotidiana. Se è vero, come scrive Jünger, che attraverso il rapporto che instauriamo con il dolore, scopriamo chi siamo, allora, se l’operaio è indifferente al dolore (l’operaio non soffre; piuttosto, lavora; al massimo può smettere di funzionare), evidentemente nulla di preciso si può dire del suo carattere. Nulla, cioè, lo specifica da un altro lavoratore. Il tipo di rapporto che l’operaio stabilisce con il dolore, in sostanza, è la mancanza di qualsiasi rapporto; d’altronde, è privo di qualsiasi sensibilità fisica e psicologica in grado di determinare una relazione effettiva con un’esperienza destinata a definire la nostra individualità. Sia ben chiaro, però, se l’operaio prende le distanze dal dolore, ciò accade perché nell’età della tecnica vivere in quanto tale è dolore (il dolore, si potrebbe dire, diventa un trascendentale concreto). Si soffre talmente tanto che si impone un 17 18

Ivi, p. 117. E. Jünger, Über den Schmerz (1934), in SW7; tr. it. di F. Cuniberto, Sul Dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 175.

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processo di immunizzazione che coincide con un programma di anestesia totale; vivere vuol dire essere costantemente esposti all’elementare sino al punto da rendere indiscernibile la soglia che divide la vita e il dolore. Ciò che incarna materialmente, secondo Jünger, l’indifferenza dell’operaio nei confronti del dolore, è l’occhio artificiale della fotografia; il suo pathos della distanza. Il suo sguardo «insensibile e vulnerabile». Lo scatto fotografico testimonia un impulso all’indifferenza capace di trasformare il volto individuale in una maschera archetipica. Provocando una nuova logica dello sguardo, favorisce processi di oggettivazione perché sarebbe in grado di bloccare il corso lineare del tempo. Attenzione, però, ciò non significa che la fotografia sia uno strumento neutrale; anzi. Piuttosto, secondo Jünger, è un’arma al servizio delle esigenze del Tipo umano. La sua funzione, in particolare, risiede nella capacità di lasciare svanire la singolarità dell’avvenimento che ritrae a favore della sua smaterializzazione: ciò che accade, avviene esclusivamente per essere rappresentato; cioè, amputato della propria singolarità. C’è da chiedersi, a questo punto, come sia materialmente possibile un processo di estirpazione della sensibilità e una tendenziale oggettivazione psichica dell’io? Immaginando una seconda coscienza: Se si dovesse definire con una parola il Tipo che vediamo prendere forma ai nostri giorni, si potrebbe dire che una delle sue caratteristiche salienti è il possesso di una “seconda” coscienza. Questa seconda coscienza, più fredda, si annuncia nella crescente capacità di vedere se stessi come un oggetto. Ma non bisogna confondere tale facoltà con l’auto-contemplazione operata da una psicologia di vecchio stampo. La differenza tra la psicologia e la seconda coscienza sta nel fatto che psicologia elegge come oggetto delle sue osservazioni l’uomo sensibile, mentre la Seconda coscienza è rivolta a un uomo che è ormai estraneo alla sfera del dolore19.

La seconda coscienza testimonia la pietrificazione dell’io. Un esodo totale da sé. Uno scollamento che non presenta una valenza psicologica (nell’universo di Der Arbeiter non esiste l’interiorità), ma riguarda la capacità/necessità di estraniarsi da sé; di concepirsi come un oggetto. L’operaio, in questa maniera, perde qualsiasi effettivo rapporto con il dolore, con se stesso, e diventa un Tipo. Jünger, per esemplificare questa alterazione antropologica, ricorre alla fotografia. La fotografia, infatti, «è esterna alla zona della sensibilità»20, dal momento che il nostro occhio si confonde con la macchi19 20

Ibidem. Ivi, p. 176.

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na; assume una densità automatica. Tutto ciò, evidentemente, produce una radicale desoggettivazione dell’esperienza e, al contempo, un processo d’indifferenza estetica in grado di favorire la generazione del Tipo umano. 3. Fattore B. Sostenere che lo statuto della forma in Der Arbeiter sottintenda un campo di tensioni di natura estetica, la cui materializzazione è la produzione d’immagini, pone una serie di problemi21. La questione più macroscopica riguarda la possibilità di attribuire all’operaio una complicità con l’arte quando, secondo Jünger, l’arte nell’età della tecnica coincide con la fine della condizione ontologica che concede la disponibilità di praticare qualsiasi creatività estetica. Nell’età del lavoro totale, quando l’essere dell’ente, secondo un’intuizione jüngeriana che Heidegger sistema sul piano ontologico, si dà nella forma della sostituibilità, la creazione non può avvenire22. Non può accadere, più in generale, alcuna esperienza singolare; è ontologicamente preclusa qualsiasi differenza dell’essere perché anche le forme nell’eccedenza sono catturate nell’ordine della tecnica. Ma non è tutto: ci si dovrebbe chiedere come sia possibile che la serialità dell’arte, con la perdita di qualsiasi unicità e originalità, possa suscitare, secondo Jünger, diversamente da quanto sostengono, da prospettive diverse, Max Weber e Benjamin, un incantamento del mondo? Vale a dire, dove si conserva il carattere magico, rituale, cultuale dell’arte, se la logica della riproducibilità impedisce l’emergere di qualsiasi stupore nei confronti dell’incommensurabilità del mondo? Per fornire dei materiali in grado di contribuire ad accumulare elementi utili per verificare la possibilità di orientarsi intorno ai quesiti che sorgono ponendo il problema dell’arte in Jünger, conviene, per quanto assai brevemente, e come preannunciato, proporre un riferimento al laboratorio di Benjamin, coevo a quello jüngeriano che qui ci interessa, e che si rivela intrecciato alle questioni sollevate da Der Arbeiter in ambito estetico.

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Che il tipo e la forma per Jünger non rientrino nel tradizionale campionario della metafisica, ma nel più sulfureo orizzonte di una filosofia delle immagini, non è un’ipotesi ermeneutica ma un dato di fatto che conferma lo stesso Jünger (E. Jünger, Typus Name Gestalt (1963), in SW13; tr. it. di A. Iadicicco, Tipo Nome Forma, Herrenhaus, Seregno 2001, p. 41). M. Heidegger, Seminari, tr. it. di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, pp. 141-142 (il riferimento preciso è un seminario privato tenuto a Le Thor in Francia nel 1969).

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La prossimità concettuale tra Jünger e Benjamin è testimoniata, innanzitutto, dall’interesse che entrambi ripongono nella fotografia come medium rivoluzionario23. Da parte di Benjamin, è in un saggio del 1931, dedicato alla fotografia, che si presenta in maniera pressoché compiuta – successivamente sistematizzata nel celebre saggio del ’36 sulla riproducibilità dell’opera d’arte nell’età della tecnica – la sua celebre tesi sulla fine dell’aura associata all’opera d’arte come sintomo del processo di secolarizzazione governato dalla tecnica. Non si tratta, sia chiaro, per Benjamin di negare all’opera d’arte il suo valore e la sua autonomia; la questione concerne il valore da attribuire all’azione creativa. La riproducibilità tecnica comporta l’eclissi dell’unicità; erode la legittimità dell’esperienza singolare a favore di un generale processo di automatizzazione. Benjamin, a questo proposito, verifica come lo sguardo fotografico si scolli da quello dell’uomo vivificando uno spazio che si compone inconsciamente; cioè, senza sottostare all’ordine di un’idea. In questo modo, polverizzando la ieratica nobiltà che tradizionalmente l’arte consegna alle cose, le immagini fotografiche, secondo Benjamin, con un riferimento specifico all’opera di Atget, «risucchiano l’aura dalla realtà»24. L’estinguersi dell’aura rappresenta una sorta di prossimità; vuol dire avvicinare ciò che appare irripetibile: «la distruzione dell’aura, è il contrassegno di una percezione in cui la sensibilità per tutto ciò che nel mondo è della stessa specie, è così cresciuta che essa riesce a reperire questa uguaglianza anche nell’irripetibile»25. Non c’è dubbio che le tesi benjaminiane sull’arte nell’età della produzione industriale sono consegnate al massimo livello di elaborazione teorica al saggio del ’36, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Non è mia intenzione, peraltro, qui descrivere neanche fuggevolmente il valore e le motivazioni teoriche dell’ipotesi benjaminiana. È cosa troppo nota per essere documentata soltanto tangenzialmente. Si tratta, piuttosto, di rievocare, più modestamente, il nucleo dell’argomentazione per stabilire un confronto con la posizione di Jünger.

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24 25

La fotografia è l’arte del mondo nuovo, contro il sistema di segni borghesi, perché cancella le tracce della storia. Annichilisce, cioè, loosianamente l’ornamento come fattore essenziale del vissuto. Cfr. B. Werneburg, Ernst Jünger, Walter Benjamin und die Photographie. Zur Entwicklung einer Medienästhetik in der Weimarer Republik, in AA.VV., Ernst Jünger im 20. Jahrhundert, a cura di H.-H. Müller e H. Segeberg, Fink, München 1995, pp. 39-57. W. Benjamin, Breve storia della fotografia, tr. it. di E. Ganni, in Opere complete, IV, cit., p. 485. Ivi, p. 486.

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Nel ‘36 Benjamin, elaborando i criteri di una nuova estetica materialista, riconosce che l’arte tecnica – in particolare, come accade in Jünger, grazie alla fotografia e al cinema – è una presa di congedo dalla creatività e una dispersione dell’incantesimo legato tradizionalmente al gesto dell’artista. La riproduzione tecnica sarebbe in grado di scalfire la supremazia della rarità dell’evento unico e distante e in questa maniera di provocare una profanazione del culto (estetico) dell’autenticità. Ma non è tutto; è un’arma contro l’ordine causale del tempo: Ciò che viene meno è quanto può essere riassunto con la nozione di “aura”; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’“aura” dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe riformulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il prodotto26.

È chiaro che Benjamin assegna un valore politico alla metamorfosi estetica che si genera con la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Non soltanto perché ciò permette di corrodere l’autorità che abitualmente si attribuisce a un’opera d’arte. Ma, più radicalmente, perché la riproduzione tecnica favorisce una scomposizione del tempo, un’infrazione della continuità cronologica, nella quale Benjamin intravede la possibilità di ostruire il movente profondo della logica dell’oppressione e quindi la ragione ontologica che presiede alle sconfitte storiche di chi non ha. In questa rapida evocazione della posizione benjaminiana sull’arte riproducibile, tangenziale alla prospettiva jüngeriana e gestita alla luce in particolare del problema del tempo storico, forse lo snodo concettuale più prezioso non è il tema, peraltro assai abusato, della fine dell’aura. È probabilmente più conveniente un riferimento a un’altra nozione capitale benjaminiana: l’immagine dialettica. Ciò dovrebbe, infatti, dimostrare come la posta in gioco estetica in Benjamin riguardi sostanzialmente una vicenda connessa a un’altra logica del tempo rispetto a quella che determina la visione tradizionale della storia (una forma del tempo in grado di scompaginare l’ordine della storia). Il quaderno N dei Passages – il fascicolo che andrebbe sempre maneggiato in contrappunto con le Tesi sul concetto di storia – è la miniera da 26

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1991, p. 23.

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cui risalire ai lineamenti della Dialektisches Bild benjaminiana. L’immagine dialettica è una cesura storica. L’evento che si sprigiona nelle saturazioni d’inquietudini temporali contraddittorie. Definisce un’arte del montaggio come calco di un pensiero in grado di schiudere a un oggetto storico la propria temporalità elettiva. Nell’immobilità lineare del tempo, l’immagine è la differenza storica della storia. Il montaggio, allora, determina una serialità imprevedibile d’immagini; una dissonanza tipologica del medesimo. L’immagine dialettica mette a soqquadro la relazione tra il passato e il presente. Arresta il tempo e il pensiero «in una costellazione satura di tensioni», implicando ciò che è stato con l’adesso: «immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immaginare è la dialettica nell’immobilità. Poiché mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, quella tra ciò che è stato e l’adesso è dialettica: non di natura temporale, ma immaginale»27. Ciò che è stato diviene improvvisamente intelligibile, lì dove rinviene l’ora della sua visione. L’immagine dialettica è la composizione inattesa del tempo che scuote il già stato e lo conduce nel presente alla sua effettiva attualizzazione. Contro la sovranità del presente, ostile a una visione cristallizzata della tradizione, l’immagine dialettica scuote il passato e ne fa un lacerto del presente. È probabilmente la visione cinematografica, come tecnica del montaggio più precisamente, l’esempio più conveniente per illustrare lo statuto dell’immagine dialettica: la produzione di uno spazio altro e di un tempo differente, composto da una serie di discontinuità. Il montaggio produce un’inedita orientazione della storia la cui sostanza sembra smarrire qualsiasi riferimento allo sviluppo lineare del tempo. Anche la fotografia, tuttavia, come il cinema, incarna la logica dell’immagine dialettica benjaminiana, trasportando oltre il suo contesto storico un evento; porta il tempo fuori dal tempo. Sospende, senza cancellare, la realtà consegnandole un altro indice di storicità rispetto a quello in cui concretamente accade. Non è difficile capire perché, in questo contesto teorico, la funzione dell’arte implicata con il progresso della tecnica, custodisca per Benjamin una determinata valenza politica di cui l’immagine dialettica è un fattore cruciale: l’arte tecnicamente riproducibile è il luogo in cui si con27

W. Benjamin, I «Passages» di Parigi, tr. it. di E. Ganni, in Opere complete. IX, cit., 2000, p. 518. Per un’introduzione alla complessa struttura benjaminiana dell’immagine dialettica, vedi la ricca presentazione di A. Hillach, Dialektisches Bild, in AA.VV., Benjamins Begriffe, a cura di M. Opitz e E. Wizisla, Erster Band, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2000, pp. 186-229.

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suma materialmente l’infrazione della sovranità lineare del tempo. Il corso del tempo, più precisamente, perde qualsiasi necessità. Ciò significa per Benjamin, come chiariranno le Tesi sul concetto di storia, che ciò che è stato non è il campo dell’ineluttabile. Infatti, soltanto se si pensa che ciò che è stato poteva andare altrimenti, cioè se il passato è privo di qualsiasi giustificazione, e quindi può essere redento, è possibile concepire l’evento della rivoluzione: non rappresenta esclusivamente l’esito delle sconfitte passate, ma una rottura effettiva del corso del tempo in grado di alterarne la direzione. L’arte fa giustizia dell’originale. La cui funzione, nell’età della tecnica, si rivela esclusivamente negativa: è ciò che risulta più lontano dalla realtà rispetto a quanto viene riprodotto. Per questa ragione, e Benjamin lo spiega bene, l’arte, nell’epoca della sua riproducibilità, distrugge la configurazione canonica della storia, infrangendo la regalità dell’origine28. Benjamin ha un peso notevole nell’economia di un discorso sull’arte in Jünger perché riconosce nella riproducibilità tecnica delle immagini il segno di una trasformazione della visione e del valore del tempo. Maneggia, in questo modo, una concezione di rivoluzione che instaura con la storia un rapporto assai più problematico di quanto generalmente dovrebbe fare un pensatore marxista. Nell’arte tecnica scorge l’occasione di un’infrazione della tradizione come capitolazione dell’autorità. Si dissolve un’idea dell’arte legata all’irripetibile e affiora, invece, il dominio di ciò che è riproducibile. La fine dell’irripetibile, nella diagnosi di Jünger e Benjamin comporta il rovesciamento della logica che sottende tradizionalmente la teoria estetica: un’esperienza eccezionale. In fondo ancora Nietzsche, quando implica una relazione radicale tra la verità e l’arte ne La nascita della tragedia, lo fa secondo la logica dell’eccesso. Dioniso è il nome dell’eccedenza dell’esperienza estetica come occasione per catturare una forma della verità che schiva qualsiasi dimensione oggettiva/scientifica29.

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La riflessione estetica di Benjamin interseca quella jüngeriana nell’ipotesi, di derivazione nietzscheana, che nell’età della tecnica svanisca l’origine metafisica dell’origine. Cfr. B. Stiegler, Die Zerstörung und der Ursprung: Ernst Jünger und Walter Benjamin, “Les Carnets. Revue du Centre de Recherche et Documentation Ernst Junger”, 1, 1996, pp. 51-74. Per la critica della creatività da parte di Jünger e Benjamin, attitudine dilettante e borghese, vedi M. Großheim, La cultura come peso. Il motivo jüngeriano dell’alleggerimento del bagaglio culturale nel contesto della storia dello spirito, in AA. VV., Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di L. Bonesio, Herrenhaus, Seregno 2002, in part. pp. 298-309.

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Per quanto probabilmente sia un’osservazione un po’ scontata, vale comunque la pena notare che riconoscere un’affinità tra Jünger e Benjamin intorno alla relazione tra arte e tecnica, non comporta necessariamente una sottovalutazione delle differenze; invero, profonde. Se non bastassero i differenti destini biografici a testimoniare la divaricazione tra scelte politiche e teoriche inassimilabili, si potrebbe ottenere anche una controprova filologica, se fosse esatta la supposizione che la famosa postilla al saggio del ‘36 – laddove Benjamin contrappone all’estetizzazione della politica di stampo fascista, il cui carattere principale sarebbe un’esaltazione della guerra, una radicale politicizzazione dell’arte – costituirebbe anche una risposta alle tesi estetico-metafisiche di Jünger30. In realtà, senza adesso valutare il rovescio politico delle scoperte di Jünger e Benjamin (insisto: non perché la questione sia irrilevante, ma perché è talmente lampante da non destare un particolare interesse almeno su un piano teoretico), è possibile verificare già a livello estetico una divaricazione cruciale che poi, evidentemente, si riverbera sul piano politico. Se Jünger, infatti, nell’arte riproducibile non intravede un’infrazione della potenza incantatrice dell’arte, fedele alla sua più generale interpretazione della tecnica come forza metafisica, Benjamin, al contrario, come si diceva, nella riproducibilità tecnica dell’arte saluta la dissipazione della dimensione rituale e magica del gesto. Senza l’annichilimento della sua liturgia, secondo Benjamin, non sarebbe d’altronde possibile immaginare un’inclinazione politica dell’arte come contributo al logoramento della logica dell’oppressione31.

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È Giovanni Gurisatti a sospettare, probabilmente non a torto, che la postilla del saggio benjaminiano sull’opera d’arte possa essere anche una risposta alle tesi estetiche di Der Arbeiter. Vedi G. Gurisatti, Tecnica (Benjamin e Jünger), in Id., Costellazioni. Storia, arte, e tecnica in Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 283-326. Gurisatti è ritornato sulla questione anche in Divergenze parallele. Appunti su guerra e tecnica fra Benjamin e Jünger, in La mobilitazione globale. Tecnica violenza libertà in Ernst Jünger, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2012, pp. 91-117. È noto che Benjamin fosse informato dei lavori di Jünger dei primi anni Trenta; lo testimonia in particolare una sua assai polemica recensione della silloge curata da Jünger nel 1930, Krieg und Krieger, al cui interno compare per la prima volta il fondamentale saggio jüngeriano, Die totale Mobilmachung. Benjamin, in sostanza, non può certo rimproverare a Jünger l’incapacità di cogliere il dominio della tecnica, e quindi l’alterazione della natura della guerra, piuttosto critica aspramente l’attribuzione anche al conflitto dei materiali di una potenza cultuale. (W. Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, tr. it. di E. Ganni, in Opere complete, IV. Scritti 1930-1931, cit., 2002, pp. 203-213).

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4. Contatto Associare il nucleo della metafisica della forma jüngeriana a un principio di provenienza estetica, impone di fare maggiore chiarezza su quale concezione dell’arte sorregge questa ipotesi ermeneutica. È giunto, cioè, il momento di approfondire la qualità estetica della filosofia di Jünger perché questo risultato potrebbe schiudere delle prospettive inattese sulla fisionomia del lavoratore totale. È indispensabile, a questo proposito, esaminare accuratamente un luogo strategico di Der Arbeiter. Piega del testo che paradossalmente, per quanto decisiva nell’economia della visione jüngeriana, è rimasta per lo più inesplorata o comunque non interrogato per quanto avrebbe meritato. Mi riferisco al settimo capitolo di Der Arbeiter in cui Jünger, per indicare il rapporto che l’operaio stabilisce con la storia – la condiziona ma non ne è condizionato («una forma è, e nessuna evoluzione la accresce o la diminuisce»32) –, deve sbarazzarsi, per pensare il nesso tra la forma e la materia, del paradigma di qualsiasi verticalità: il principio di causa ed effetto. Immagina, al contrario, per definire le caratteristiche della forma, eludendo qualsiasi astrazione per concepire la sua natura, il rapporto che si instaura tra il sigillo e l’impronta: Nel regno della forma la regola non distingue tra causa ed effetto, bensì tra sigillo e impronta, ed è un regola di tutt’altra natura. Vedremo che nell’epoca in cui stiamo entrando l’impronta dello spazio, del tempo e dell’uomo va ricondotta a un’unica forma, cioè a quella dell’operaio33.

La relazione metafisica che impregna il cosmo del lavoro totale è quella tra sigillo (Stempel) e impronta (Prägung). Non c’è dubbio che si nasconde nella trama di questo legame l’ambizione jüngeriana di promuovere la fine di qualsiasi trascendenza senza, però, smarrire una tensione magicospirituale nel mondo della tecnica. La natura di questo rapporto, lo dico subito, evoca una concezione dell’arte che ribalta ogni storia dell’arte; che si scaglia contro, cioè, il tipo di razionalità estetica fondata sulla tripartizione imitazione/creazione/invenzione. Vale a dire, una fisionomia dell’arte, quella occidentale-umanistica, basata su una programmatica diffidenza nei confronti di qualsiasi virtù della riproduzione materiale. 32 33

E. Jünger, L’operaio, cit., p. 75. Ivi, p. 31. Nell’impronta si nasconde la differenza dell’operaio dal borghese. La sua diversità rispetto all’idea umanistica che l’uomo, l’individuo, sia di per sé un valore.

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Prima, però, di proporre un’ipotesi estetico-ontologica, non sarebbe sbagliato verificare la consistenza di una referenza filosofica consolidata per la metafisica della forma in Jünger: l’istanza platonico-aristotelica. Il nome di Platone, in particolare, ha un sostenitore prestigioso: nell’economia della sua interpretazione di Der Arbeiter, come incarnazione antropologica della volontà di potenza nietzscheana, è Heidegger a individuare una provenienza platonica nella Forma jüngeriana. Heidegger, dopo aver dedicato sin dai primi anni Trenta una sistematica attenzione all’opera di Jünger, in un saggio del 1955, Sulla linea (Über «Die Linie»; dal 1956, Zur Seinsfrage), iscrive l’intera parabola jüngeriana all’interno dell’inconsapevolezza metafisica della questione del niente e indica in Platone l’assicurazione filosofica della forma dell’operaio: L’«idea» è qui intesa nel senso moderno della perceptio, del rappresentare ad opera di un soggetto, mentre la forma rimane anche per lei ciò che è accessibile solo in un vedere. Si tratta di quel vedere che i Greci chiamano ἰδεῖν, parola di cui Platone si serve per designare uno scorgere che non scorge il mutevole, percepibile con i sensi, ma l’immutabile, l’essere, l’ἰδεα. Anche lei connota la forma come «essere in quiete»34.

La forma jüngeriana, estranea alla mutevolezza del divenire, sarebbe una figura della trascendenza trans-fisica. Un’alterità però, secondo Heidegger, che non andrebbe considerata nel senso di una separazione assoluta, ma nella logica della produzione; a questo proposito, per mettere in chiaro l’implicazione platonica nella forma antropologica della volontà di potenza, Zur Seinsfrage rimanda a un passo del Teeteto in cui questa relazione è concepita secondo la figura dell’impronta (τύπος35). Heidegger riconosce che l’impianto platonico dell’operaio si presenta in una versione

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M. Heidegger, La questione dell’essere, tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, in E. Jünger – M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 1998, p. 124. In occasione dei sessant’anni di Heidegger, Jünger compone un saggio, Über die Linie (Oltre la linea), dedicato alla questione del nichilismo e a una presa di distanza assiologica dalle tesi di Der Arbeiter. Nel 1955, per celebrare i sessant’anni di Jünger, Heidegger risponde e fa i conti con la sua lunga frequentazione del pensiero jungeriano, rivelando pubblicamente quanto la concezione della metafisica del lavoro di Der Arbeiter avesse influenzato la sua visione della tecnica (il saggio heideggeriano Über «Die Linie», dal 1956 ha un nuovo titolo: Zur Seinsfrage). Teeteto (192a): «Cosa che uno conosce perché ne ha l’impronta nell’anima, ma presentemente non sente, codesta cosa è impossibile egli creda sia un’altra di quelle che conosce perché anche di questa ebbe il ricordo, ma che presentemente non sente».

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rovesciata: si installa nella piega schiusa nella storia della metafisica dalla filosofia di Nietzsche. Quando, secondo il classico schema ermeneutico heideggeriano, l’intera filosofia moderna diventa un’antropologia la cui risoluzione è l’iper-soggetto nietzscheano della volontà di potenza36. La referenza platonica, in realtà, forse è troppo artificiosa, dal momento che sembra incapace di corrispondere alla complessità e alla novità del gesto jüngeriano, puntando eccessivamente sulla sovrapposizione concettuale di idea e forma. L’altra pista filosofica per orientarsi nella metafisica di Der Arbeiter, allora, potrebbe essere l’eredità aristotelica; naturalmente si dovrebbe volgere l’attenzione all’integrazione tra la forma e la materia che Aristotele adotta per superare la difficoltà platonica di comporre la relazione tra le idee e le cose. Non è qui peraltro possibile, come pure sarebbe il caso di fare, neanche ipotizzare di condurre un’indagine introduttiva nella metafisica aristotelica in modo da scovare l’orizzonte della posizione jüngeriana. Tuttavia è forse sufficiente, almeno per il nostro obiettivo, una didascalica citazione dal libro Z della Metafisica (1035a-1036a), quando Aristotele è impegnato a distinguere tra la forma, la materia e la composizione di forma e materia (il sinolo che individua la forma). L’operaio jüngeriano, da questa prospettiva, sarebbe l’incarnazione sintetica d’intelligibile e sensibile, la cui specificità si realizza nella tipizzazione dell’individuale. In questa maniera si dovrebbe comprendere perché l’essenza dell’operaio coincide con la sua esistenza: la sua forma penetra aristotelicamente la materia37. Se non è di per sé scorretto riconoscere un’insistenza platonico-aristotelica nella filettatura di Der Arbeiter, tuttavia la sensazione è che resti un fondo inesplorato; una falda non testimoniata. Come se la referenza ermeneutica platonico-aristotelica fosse eccessivamente generica – e forse un po’ “barbara”: avremmo a che fare con un Platone e un Aristotele eccessi36

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L’operaio di Jünger, nell’interpretazione heideggeriana, è l’esito estremo dell’umanesimo moderno; il compimento del suo progetto antropologico. Evidentemente, nell’ipotesi in cui la logica dell’impronta che domina in Der Arbeiter rintracciasse nella parabola estetica una specie di validazione, le cose andrebbero considerate diversamente. Separare l’operaio dalla logica della poiesis, ossia allontanare la sua forma di vita dalla volontà, e quindi dividere il suo destino da quello della volontà di potenza nietzscheana, impone di pensare la condensazione del lavoro totale in un’epoca in cui l’emersione di una nuova umanità, in realtà, coincide con una cristallizzazione dell’essere in cui la stessa logica del moderno più che trovare il proprio compimento sembra assaporare la propria dissipazione. Sul nesso Aristotele-Jünger sono assai stimolanti le considerazioni di F. Leoni, Ontologia del dolore. Intorno alla concezione del corpo in Ernst Jünger, in La mobilitazione globale, cit., in part. pp. 159-164.

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vamente stilizzati – e incapace di esaurire la specificità che ci consegna la posta in gioco della questione dell’impronta in Der Arbeiter. Forse non è da escludere, per quanto lo stesso Jünger prenda le distanze da un’interpretazione del genere, che nel tentativo di concepire la forma dell’operaio compaia un’indicazione metafisica che nasconde un’ascendenza platonicoaristotelica attendibile38. Nondimeno, l’impressione è che lo snodo cruciale del nesso tra il sigillo e l’impronta, come soluzione speculativa per eludere la tradizionale conformazione trans-fisica della metafisica della forma, non possa essere ridotta a un generico riferimento alle diverse strutture della concezione classica dell’essere. Di fronte al magma teorico che schiude l’implicazione tra sigillo e impronta in Der Arbeiter, è forse per me oggi possibile, dopo che in precedenza la mera referenza filosofica lasciava sedimentare un non detto, provocando una sorta d’insoddisfazione speculativa, individuare l’indicatore segreto della forma in Jünger39. La cosa riguarderebbe la tramatura estetica del legame ontologico tra il sigillo e l’impronta in quanto occasione per “organizzare il caos”. Segnalatore determinante per questa operazione, vera e propria epifania teorica che affiora da un altro cosmo concettuale rispetto a quello consolidato delle referenze jüngeriane, è la contro/anti-storia dell’arte che George Didi-Huberman, uno dei più anomali e notevoli filosofi dell’immagine contemporanei, affida, in un volume recente, La somiglianza per contatto (2008), alla natura problematica dell’impronta nella sua costituzione di «immagine dialettica». La somiglianza per contatto dovrebbe assicurare una leva per decifrare la natura estetica dell’ontologia in gioco nella sequenza jüngeriana tra il sigillo e l’impronta. La filosofia delle immagini di Didi-Huberman, la sua controstoria dell’arte, dovrebbe consegnarci un accesso per rintracciare la sofisticata provenienza metafisica dell’operaio come un dato di natura estetica antitetico a qualsiasi elaborazione umanistica/idealistica/anti-materica dell’arte. 38

39

È lo stesso Jünger, ad esempio in una lettera dell’autunno 1980, a respingere sia l’ipotesi, più volte avanzata dalla critica, di una filiazione della forma dell’operaio dall’Urpflanze goethiana, sia l’indicazione heideggeriana che, attribuendo all’operaio un solido legame con lo Übermensch nietzscheano, stabilisce indirettamente una relazione con la teoria delle idee platonica (E. Jünger, Aus der Korrespondenz zum »Arbieter«, in SW8, p. 395). Una certa afasia concettuale di fronte al tema della forma in Jünger è riscontrabile sia nel mio primo lavoro jüngeriano: Lo sguardo sul nulla. Ernst Jünger e la questione del nichilismo (Mimesis, Milano 2001), sia nella sezione di un altro volume (scritto con Sandro Gorgone) in cui mi occupo della questione, Tecnica Lavoro Resistenza. Studi su Ernst Jünger, Mimesis, Milano 2008, in part. pp. 33-55.

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Vorrei quindi dare credito a una proposta che, almeno indirettamente, potrebbe permettere di decifrare un’istanza estetica nella forma jüngeriana, ammesso che si sia disposti a ribaltare il tavolo su cui si è snodata la storia dell’arte in Occidente come disposizione della poiesis nell’ottica del progetto (l’arte come manifestazione di un’idea che si realizza attraverso un forma) e concepire un altro paradigma dell’immagine peraltro generalmente screditato. La somiglianza per contatto è un’analisi storico-concettuale dell’impronta attraverso le molteplici logiche che sottende il valore di ciò che è riproducibile. Verifica, da questa prospettiva, la consistenza di un’altra genealogia dell’arte in grado di eludere la fondatezza idealistico-formale della tradizione umanistica fondata sulla sovranità della creazione che, si potrebbe pensare, istituisce una corrispondenza conforme all’immagine trascendente del divino. L’impronta diventa l’occasione di una riflessione intorno alla chance dell’esperienza nell’età della sua fine. Evoca, in altre parole, una posta in gioco cruciale nell’economia del nostro discorso perché la manipolazione estetica dell’impronta sperimenta la possibilità di una cerniera tra l’esperienza e la riproducibilità; tra la differenza e l’automatismo. La somiglianza per contatto è un libro stratificato, complesso, ambizioso. L’impiego che qui ne viene fatto, al contrario, è assai limitato e, per certi versi, metodologicamente ingenuo: rappresenta una griglia che indica analogicamente la qualità dell’impronta in Der Arbeiter in modo da fornire un’angolazione preziosa sulla natura dell’impianto metafisico che lo governa. La tesi di Didi-Huberman muove da un’osservazione elementare: l’impronta è una procedura (artistica) non creativa. È una tecnica di produzione d’immagini che non scaturisce da esplicite motivazioni estetiche. La sua specificità, d’altronde, è di essere una forma generata per contatto. L’impronta è vicinissima all’origine e tuttavia conserva uno scarto rispetto alla logica tradizionale dell’arte come proliferazione di forme originali. L’impronta, sulla soglia dell’origine, elude la logica dell’originalità. Non semplice modello dunque, ma esito di un’aderenza prepotente: «la riproduzione per impronta fa del risultato ottenuto una “copia”, che è figlia carnale, tattile, e non un pallido riflesso del suo “modello”, o meglio della sua forma generante»40. Nel calco dell’impronta l’arte è una riproduzione. Una riproduzione, più precisamente, negativa che emerge per contatto.

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G. Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, tr. it. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 49.

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L’impronta è estranea a un’elaborazione estetica che individua nell’idea la sua fonte di legittimazione fondamentale. Confonde i termini di un’opposizione classica: quella tra il progetto e la sua realizzazione. Al contrario, con l’impronta, mediante la sua capacità di mettere in consonanza forma e materia, la forma ottenuta «trascina la somiglianza verso la morte dell’arte»41. L’impronta, cancellando la sovranità del disegno, logora qualsiasi valore della creazione come fabbricazione. Annichilisce l’idea. L’originale è “condannato a morte”. Il calco proviene dalla materia che eccede la legittimità ontologica di qualsiasi progetto e invenzione. Diversamente dalla dialettica umanistica dell’imitazione, che prevede una distanza, che impone una certa lontananza, l’impronta, al contrario, emerge per contatto; presume la fine di qualsiasi mediazione spaziale. L’impronta diffonde un paradosso estremo: risulta sia eccessivamente prossima all’origine sia, però, in questo modo, irrimediabilmente lontano da una rappresentazione genetica dell’origine. Insomma, probabilmente se l’impronta decompone il mito di un’origine collocata prima di ogni origine storica, non è, invece, estranea a una sua versione, cruciale ad esempio nel pensiero di Benjamin, in cui la forma non affiora dalla pura inesistenza ma come un turbine inarrestabile. L’impronta, ci lascia vedere Didi-Huberman, è sostanzialmente lavoro in atto; una forma, cioè, prodotta per contatto. Il modo più elementare per concepire una forma. Tuttavia ciò non significa che l’impronta non presenti un indice estetico. Infatti, per quanto sia collocata al di là di ogni ambizione creativa in senso stretto, lascia comunque emergere un’immagine. Nell’impronta, in effetti, ciò che resta è la forma; è ciò che perdura nel movimento delle immagini riproducibili. Una forma che non presenta una vigenza trans-fisica né una valenza tradizionale per la storia dell’arte perché affiora direttamente nella materia. Da materia a materia nella modalità dell’assenza. L’impronta sprigiona un contatto con un’assenza: vi è una traccia prodotta ma da parte di un’assenza che tocca. Ci troviamo quindi di fronte, secondo un’annotazione di matrice warburghiana di Didi-Huberman, a una forma anacronistica di sopravvivenza42.

41 42

Ivi, p. 113. La stratificata frequentazione dell’Atlante warburghiano da parte di Didi-Huberman, è testimoniata da un libro composito la cui posta in gioco è l’idea che l’immagine è ciò che del passato sopravvive: L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, tr. it. di A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

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Il lavoro in atto è un lavoro in cui l’idea non gioca alcun ruolo. La forma che affiora nel processo di impronta, secondo un’intuizione di Didi-Huberman, che in questo caso adopera le tesi cardine di Heidegger sull’essenza della tecnica, non è fabbricata, ma semplicemente prodotta. Si potrebbe dire, per intenderci e in modo da iniziare a considerare direttamente il senso di questo discorso per la filosofia di Der Arbeiter, che si tratta della figura paradossale di un lavoro senza lavoro (se nell’impronta manca la separazione tra il progetto e la sua esecuzione, in Jünger la forma non stabilisce alcuna discrepanza tra il lavoro e l’esistenza). O meglio: è un’opera cristallizzata. Il lavoro nell’impronta è mera riproduzione che concepisce la forma senza alcuna attività. Il lavoro che produce un’impronta, quindi, è di fatto un non lavoro. Nell’impronta la forma si dà come controforma: in una maniera in cui la forma è assente perché, in realtà, risulta sempre uguale a se stessa. La matrice nell’impronta permette alle cose di aderire alla propria traccia. Ciò comporta, di fatto, che la forma si dà come il proprio rovescio; ossia, un’immagine dialettica43. Dal punto di vista tecnico, la forma, come modello, matrice, stampa, è una contro-forma: dà forma a qualcosa d’altro rispetto alla forma/sigillo e tuttavia rimane il suo identico riflesso. Per questo motivo l’immagine qui penetra in un orizzonte post-estetico nel quale rappresenta l’indice di una sopravvivenza. La forma è un sigillo (una matrice, uno stampo); ossia, «una forma in negativo del risultato desiderato»44. Materialmente la forma nell’impronta non c’è e tuttavia la forma, come un’assenza, sopravvive alla (sua) sparizione. In questa maniera l’impronta instaura una curiosa relazione con il tempo – un’assenza di storicità: una temporalità antiquata – e lascia intendere quale sia il potenziale tecnico – il gesto dell’impronta – della potenza del negativo: «Il fatto che l’impronta sia il contatto di un’assenza spiegherebbe la sua potenza del suo rapporto con il tempo, che è la potenza fantasmatica di “ciò che ritorna”, della sopravvivenza»45. Facendo slittare adesso, senza particolari cautele, la documentazione di Didi-Huberman sul carattere dell’impronta nel campo jüngeriano, si potrebbe pensare che la società del lavoro totale a pieno regime, l’epoca della per43

44 45

Nell’impianto teorico allestito da Didi-Huberman il calco, l’impronta, in effetti, rimanda a un tipo di cornice concettuale benjaminiana/warburghiana cui già in precedenza si faceva riferimento: l’immagine dialettica. Cfr. A. Barale, La malinconia dell’immagine. Rappresentazione e significato in Walter Benjamin e Aby Warburg, FUP, Firenze 2009. G. Didi-Huberman, La somiglianza per contatto, cit., p. 50. Ivi, p. 43.

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fezione della tecnica, evochi la figura inaudita di una tecnica inoperosa (la perfezione dell’automatismo). Non perché sia una forma della pura potenza, ma, al contrario, perché nella mera attualità formale produce una stabilizzazione assoluta. Un’assenza d’opera che si impone per un eccesso di operatività (tutto si fa opera al punto che non si vede qui l'operare). Insomma, nel tema dell’impronta jüngeriano potrebbe affiorare una formulazione estetico-tecnica della forma in grado di svelare la natura al contempo iperstatica e arci-dinamica della società del lavoro totale. È possibile pensare che il ricorso al sigillo e all’impronta in Jünger dovesse ribadire l’idea che nella società del lavoro totale, il lavoro non è una semplice attività, ma una forma di esistenza nella quale nulla di nuovo può accadere. Ma ciò significa smarrire materialmente il senso del tempo. Un’impronta, infatti, stabilisce una relazione non lineare con il tempo. È sufficiente notare, a questo proposito, come fa Didi-Huberman, che dal punto di vista formale, il calco di una mano nel VI secolo a. C. e uno nel Rinascimento non esibiscono alcuna differenza. Come se passato e presente si confondessero fino a implicarsi materialmente. Per dirla in termini più tradizionali, almeno da un punto di vista filosofico, la fine della creazione artistica che si attua nell’impronta, conduce alla co-implicazione tra materia e forma; all’indistinzione tra l’origine e il divenire. Nell’impiego filosofico della funzione estetica dell’impronta, almeno in merito al pensiero di Jünger, è bene tenere presente che, da un lato, il contatto/conio garantisce l’unicità della forma (né trasformazione né copia); ma l’unicità qui presenta qualcosa di speciale: è riproducibile. In sostanza, il potere della forma/impronta, con la contiguità fisica, garantisce il suo dominio nella riproduzione. A ben vedere sono proprio questi i termini con cui Jünger, per schivare qualsiasi ingenuo platonismo della forma, determina i lineamenti dell’operaio come una figura con cui è possibile stabilire un legame fisico: Considerata nella pienezza del suo essere e nella forza [Gewalt] del sigillo che da poco l’ha segnata, la forma dell’operaio appare in sé ricca di contraddizioni e di tensioni, ma anche di mirabile unità e di fatale compiutezza. Così, a tratti, in momenti in cui nessuna finalità e nessuna intenzione turbano la coscienza, essa si manifesta come energia [Macht] costante e predeterminata. Così talora, quando all’improvviso viene a tacere l’uragano di martelli e di ruote che ci circonda, ci sembra di venire quasi a contatto corporeo con la quiete che si nasconde dietro l’eccesso di movimento46.

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E. Jünger, L’operaio, cit., p. 42.

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Didi-Huberman non fatica a riconoscere un paradosso nello statuto dell’impronta: il contatto-conio garantisce l’unicità e non una trasformazione-falsificazione come nel caso dell’imitazione; dall’altro lato, però, questa unicità si può riprodurre in modo illimitato. D’altronde è proprio questa tensione estetica nella riproducibilità ad assicurare la permanenza dell’aurea. Il conio, quindi, non è una semplice copia. Didi-Huberman non si lascia persuadere dalla posizione benjaminiana: Ecco forse ciò che Benjamin non è stato in grado di cogliere nel suo celebre testo sulla riproducibilità delle immagini: ossia che l’elemento del contatto rimane una garanzia di unicità, di autenticità e di potere – dunque di aura – al di là della sua stessa riproduzione. Non è la riproduzione di per sé a far “scomparire” l’aura, come si dice troppo spesso; è piuttosto la perdita di contatto che presuppone una ripetizione senza matrice e senza processo di impronta47.

L’impronta non disperde alcuna magia; al contrario, l’aderenza stabilita per contatto suscita un potere che si diffonde tramite l’immagine riprodotta. La disseminazione di ciò che è singolare, allora, sembra diventare il compito iperbolico di una metafisica della forma che si coagula mediante una contiguità immanente con la materia. Impiegando la grammatica di Der Arbeiter, si potrebbe dire che ciò che si salva con la dissoluzione degli antichi valori, è la forma; ciò che sopravvive. Resiste l’elementare. Ciò che precede la storia; ciò che informa di sé la storia. Prendendo di nuovo in prestito la costellazione teorica che fiorisce, mediante la mediazione di Warburg, in Didi-Huberman, per pensare un segmento fondamentale di Der Arbeiter, l’operaio, in quanto forma, sembra effettivamente incarnare una sopravvivenza. Una sopravvivenza dopo la fine dell’uomo. Uno scarto antropologico anacronistico del mondo dominato dalla tecnica. Ciò che permane, quando l’uomo, come Dio, svanisce. La tesi occulta e mesmerica di Der Arbeiter potrebbe essere questa: soltanto l’arte è in grado di favorire una condizione in grado di resistere alla fine dell’arte; cioè, al tramonto di qualsiasi processo creativo che non sia la 47

G. Didi-Huberman, La somiglianza per contatto, cit., pp. 67-68. Didi-Huberman, relativizzando il discorso sulla fine dell’aura, non manca di notare come la distinzione benjaminiana tra aura e traccia, in realtà, presenta dei problemi, se si pensa, ad esempio, alle grandi reliquie cristiane che costituiscono proprio una modello di aurizzazione della traccia (ivi, p. 75). Non bisogna dimenticare, però, anche per rendere giustizia alla complessità del discorso benjaminiano, che la fine dell’aura in Benjamin non è un giudizio definitivo. Se, infatti, tramonta una dimensione cultuale, l’aura si riversa nell’esponibilità dell’opera il cui indice esemplare, sarebbe, secondo Benjamin, proprio la fotografia.

P. Amato - Estetica della forma. Una lettura di Der Arbeiter

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mera riproduzione/rappresentazione di ciò che è e alla polverizzazione della legittimità della forma. A questo punto, se è chiaro che ci troviamo in un altro universo rispetto a quello che orienta l’estetica moderna, per quanto possa apparire un azzardo ermeneutico, non è forse sbagliato considerare l’operaio jüngeriano un artista senz’opera (o meglio: un’opera senza artista); un artista del nulla: chi imprime la propria forma alle cose scomparendo, però, come individuo-artista. L’artista-operaio è senza nome. O meglio forse: adotta tutti i nomi. Li altera e confonde. Non è un soggetto individuale e fa perdere le proprie tracce nel vortice del mondo della tecnica. L’inoperosità dell’operaio potrebbe essere l’altra faccia di una stessa medaglia: la sua esistenza è la pura attualità della forma perché in Jünger non si consuma alcuno scarto tra dynamis ed energheia. Non c’è dubbio che l’ipotesi che la forma in Der Arbeiter nasconda uno spessore estetico, il cui centro d’irradiazione sia la fisionomia dell’impronta, non si può limitare a una mera allusione concettuale e meriterà quindi una più acuta messa alla prova. Tuttavia non soltanto sperimentare un’ipotesi concettuale significa probabilmente proprio tastare un terreno lasciando tutto ancora aperto. Ma inoltre sin da ora emerge che la costellazione estetica forse è in grado, al di là delle intenzioni delle stesso Jünger, di lasciare affiorare una densità filosofica di Der Arbeiter per molti versi inattesa ma capace probabilmente di delineare una grammatica ontologica che cattura la sua trama, favorendo un sofisticato gioco teoretico tra immanenza e trascendenza nell’opera della tecnica. Vale a dire che, in opposizione al gesto platonico, l’impronta potrebbe rappresentare il paradigma della forma in Jünger. In tal caso sarebbe riqualificato il tessuto metafisico di Der Arbeiter, giacché la sua tensione morfologica slitterebbe in un dominio estetico che si colloca oltre qualsiasi forma di sensibilità e dimensione creativa.

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ANDREA BENEDETTI

LO ‘STILE IMMAGINIFICO’ DI ERNST JÜNGER NEI DIARI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE (STRAHLUNGEN) TRA ‘SCRITTURA GEROGLIFICA’ E ‘NUOVA TEOLOGIA’

Il 16 settembre 1942 Ernst Jünger appunta nel suo diario parigino la seguente annotazione: Sul lavoro creativo: i miei libri sulla prima guerra mondiale, il Lavoratore, la Mobilitazione Totale e in parte anche il Saggio sul Dolore compongono il mio Vecchio Testamento, al quale non mi è più consentito di aggiungere altro. Sono su altri piani. Considero la Lettera siciliana all’uomo della luna come un’anticipazione importante. A partire da questo punto ho capito che la conoscenza non va scartata ma rifusa: queste pagine mi indicano la via, sia pure con un linguaggio figurato. Conducono a una di quelle più segrete officine dove raramente penetra la coscienza. E le considero anche come ricordo di quel momento che non seguì soltanto un distacco ma una scelta: quando sarei potuto entrare nella strada del romanticismo o del realismo, nella strada a un solo binario, «non stereoscopica». Così gli artisti si scindono in pittori e in disegnatori. Mentre la penna deve fare anche da pennello1.

Questa annotazione sintetizza perfettamente la parabola artistica di Ernst Jünger nel corso di circa un venticinquennio, dagli anni turbolenti della repubblica weimariana a quelli della seconda Guerra mondiale, e consente nel contempo di centrare la nostra analisi, in primis, sul rapporto tra scrittura, immagine e progressivo avvicinamento (Annäherung) alla divinità; un avvicinamento, in cui la problematica e procrastinata, piena ‘adesione’ alla fede deve sempre essere preceduta da un’indagine conoscitiva razionale sulla stessa.

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E. Jünger, Das erste Pariser Tagebuch (1949), in SW2; tr. it. di Henry Furst, Irradiazioni. Diario 1941-1945, Guanda, Parma 19952, pp. 130-131 [d’ora in poi citato come IrrB]. Il passo è stato in realtà eliminato dall’ultima edizione tedesca dei diari: cfr. E. Jünger, Das erste Pariser Tagebuch, in SW2, 19982, pp. 223-406. Qui cfr. pp. 377-379.

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Più nello specifico, il presente contributo si propone di analizzare la valenza simbolica e immaginifica della ‘scrittura geroglifica’ di Ernst Jünger nei diari della seconda guerra mondiale quale effetto della sua capacità di ‘vedere’ forme (Gestalten), e di porla in rapporto alla ‘svolta teologica’ dell’autore tedesco dal Vecchio al Nuovo Testamento. L’intervento prenderà le sue mosse dall’analisi di alcuni passi centrali della pubblicistica weimariana, della Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna (1930) e della prima e seconda versione del Cuore avventuroso (1929 e 1938), focalizzando la sua attenzione sul nesso tra scrittura e immagine nei diari del secondo conflitto mondiale. All’interno di questo contesto, particolare importanza rivestirà l’illustrazione delle ragioni e dei momenti che conducono l’autore tedesco a un progressivo riposizionamento estetico-ideologico, sulla scia in particolare dei suoi rapporti con il fratello Friedrich Georg, Hugo Fischer, Alfred Kubin e Rudolf Schlichter. Detto riposizionamento, che si configura tanto come un distacco dal ‘fascino irresistibile’ esercitato dalle rappresentazioni dello sfacelo borghese, quanto come abiura delle ‘illusioni della tecnica’ e del suo substrato nichilista, si delinea come effetto di un processo di autoformazione che poggia sull’approfondimento della patristica e del mito e, come testimonia la stessa citazione sopra presentata, su una presa di distanza dal carattere regressivo del romanticismo, con la sua tipica e pericolosa tendenza a rifugiarsi nella dimensione del passato e di una fantasia auto poietica2. Infine, anche in conformità con gli esiti del convegno entro il quale questo mio scritto si inserisce, converrà altresì precisare che le specificità dell’opera letteraria jüngeriana vanno considerate all’interno del più generale ambito degli studi sulla cultura visuale. In essa, come si analizzerà qui di seguito, lo sguardo va anzitutto inteso come una pratica culturale volta all’interpretazione. Pratica, di cui l’immagine pittorica e fotografica rappresentano solo due tra le numerose componenti. L’immagine, in questo ben preciso contesto di analisi, è linguaggio che, nella sua interazione con il corpus sociale, instaura un ben preciso rapporto tra sapere, vedere e potere3. Prima di occuparci di tutto ciò, passiamo velocemente in rassegna alcune tappe centrali della biografia intellettuale di Ernst Jünger fino al 1945. 2

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Cfr. IrrB, pp. 122 (19.08.1942); 425 (28.05.1944); E. Jünger, Die Hütte im Weinberg. Jahre der Okkupation (1958), in SW3, 19982; tr. it. di Alessandra Iadicicco, La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione, 1945-1948, Guanda, Parma 2009, p. 185 (02.11.1945) [d’ora in poi citato come IrrC]. Per considerazioni di ordine generale su questo punto, rimando a: C. Demaria, Cultura visuale, in Dizionario degli studi culturali, a cura di M. Cometa, Meltemi, Roma 2004, pp. 151-158.

A. Benedetti - Lo ‘stile immaginifico’ di Ernst Jünger

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1. L’autoformazione di Ernst Jünger (1920–1945) tra patristica, misticismo, mito e ‘nuova teologia’ Prima di affrontare nello specifico i testi jüngeriani e per poter meglio comprendere i presupposti spirituali più reconditi della sua produzione, facciamo qui anzitutto riferimento a quel processo di autoformazione sui generis intrapreso dal giovane autore Jünger, attraverso il determinante influsso del fratello Friedrich Georg (1898-1977) dall’inizio degli anni ’20; in esso colpisce anzitutto la peculiare volontà di esplorare territori artistici autonomi4. Entro questo quadro di formazione e alla luce del presente contributo diventa decisivo osservare come la nozione del meraviglioso e mistico si saldi nell’autore di Heidelberg alla lettura dei Padri della Chiesa. Essa viene fortemente stimolata dal menzionato fratello soprattutto a partire dall’estate del 19275 e collegata all’approfondimento del mito anche attraverso la centrale lettura (1928-1929) dell’Introduzione del filosofo Alfred Baeumler (1887-1968) agli scritti dell’antropologo svizzero Johann Jacob Bachofen (1815-1887). Infine, la necessità di un riorientamento determinato dalla situazione politica dopo il 1933, implica nello scrittore tedesco anzitutto una progressiva ritirata dalla vita pubblica e dall’ambito del politico, che ha il suo primo centrale caposaldo nel ‘romanzo a chiave’ Auf den Marmorklippen (Sulle scogliere di marmo, 1939), da molta critica considerato come una delle migliori testimonianze letterarie della innere Emigration. Ad esso si salda un ulteriore avvicinamento alla patristica, attorno al 1933 – 1934, indotto ora anzitutto dall’amico filosofo Hugo Fischer (1897-1975)6. È in questo contesto che Jünger intende affrontare anche in senso ‘teologico’, attraverso il suo saggio Über den Schmerz (Sul dolore, 1934), la decisiva questione attorno alla condizione di interregno nichilista dell’uomo moderno. 4 5

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Cfr. H. Schwilk, Ernst Jünger. Ein Jahrhundertleben. Die Biographie, Piper, München/Zürich 2007, pp. 200-282. Cfr. in particolare la lettera di Friedrich Georg Jünger a Ernst Jünger del 12.08.1927 e quella di Ernst Jünger a Friedrich Georg Jünger del 22.08.1927, rispettivamente in P. Trawny, Die Autorität des Zeugen. Ernst Jüngers politisches Werk, Matthes & Seitz, Berlin 2009, p. 79 e p. 80. Sulla progressiva presa di distanza di Ernst Jünger rispetto agli iniziali propositi nutriti da Friedrich Georg circa un utilizzo in senso nazionalista dei riflessi politico-teologici della patristica stessa e sulle sue ripercussioni sullo Arbeiter, cfr. P. Trawny, Die Autorität des Zeugen, cit., pp. 81-99. Cfr. in particolare le seguenti lettere: A) Hugo Fischer a Ernst Jünger del 25.07.1933, 01.10.1933 e 24.05.1934; Ernst Jünger a Hugo Fischer del 10.02.1934: cfr. P. Trawny, Die Autorität des Zeugen, cit., p. 73. B) Ernst Jünger a Friedrich Georg Junger del 19.01.1934: cfr. P. Trawny, Die Autorität des Zeugen, cit., pp. 150-151.

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Condizione che, come già il pubblicista weimariano Jünger chiariva nel 1929, non si fondava su una fede autentica, bensì su una condizione di ‘fede nella fede’, su una volontà di fede7. Essa, come testimoniano i diari della seconda Guerra mondiale Strahlungen (Irradiazioni, 1939–1948) dell’ufficiale della Wehrmacht Jünger, conduce così infine alla ridiscussione capitale sulla necessità di una nuova teologia. Essa deve mostrarsi capace di ricostituire nuove e più solide basi morali nell’uomo contemporaneo, per tentare di ‘superare’ l’agghiacciante e mortifero automatismo della tecnica, e la sua estrinsecazione storica nell’olocausto, attraverso il richiamo a un ethos imperniato sull’«immane responsabilità del singolo in questo tempo»8 e la continuativa lettura della Bibbia vissuta come sempre problematica e razionalmente mediata ‘adesione’ alla fede e al divino. 2. Realismo magico, sguardo stereoscopico, immagine Ora, è dal riorientamento intellettuale e ideologico che Jünger esperisce sino a partire dalla seconda metà degli Anni ’20, dapprima nella pubblicistica weimariana, poi nella prima versione del Cuore avventuroso (1929) e infine nella Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna (1930), che si enucleano i 7

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Cfr. l’articolo La santa in automobile, pubblicato in “Der Tag” del 14.04.1929: «[…] Viene così a crearsi un singolare stato di smania: una volontà di credere che non può tuttavia ritrovare la fede, né può rimpiazzarla con altro. In Il cuore avventuroso ho cercato di tracciare i contorni delle sue moderne forme di manifestazione. L’uomo dotato di una volontà di credere, l’uomo che, per così dire, crede alla fede, cercherà di accostarvisi di nuovo – come colui che, privo di un calore proprio, vada in cerca del calore di una fiamma. Anzitutto sentirà il bisogno di sedare il dubbio, e di ricondurre la propria responsabilità dall’assoluto a una condizione segnata da vincoli. Qualsiasi dubbio può essere domato quando, con l’intento di discacciarlo, lo si porti entro i confini di un dogma, sebbene esso cercherà di travalicarne il dominio. Assai più difficile è mettere in salvo in un riparo inattaccabile la responsabilità, l’intima inquietudine, vera sorgente di ogni dubbio» (E. Jünger, Ernst Jünger. Politische Publizistik 1919-1933 (2001), raccolti e commentati da Sven Olaf Berggötz; tr. it. di A. Iadicicco, prefazione di Quirino Principe, Scritti politici e di guerra 1919-1933. Vol. I, 1919-1925, vol. II, 1926-1928, vol. III, 1929-1933, LEG, Gorizia, rispettivamente 20031, 20041, 20051 [d’ora in poi indicato come Spg, cui segue l’indicazione del volume in numeri romani], qui Spg III, p. 43. Cfr. anche A. Benedetti, «Wir müssen glauben, daß alles sinnvoll geordnet ist»: ‚Glaube an den ‚Glauben‘ und moderne ‚Sehnsucht nach Ganzheit‘ des metapolitischen Nationalismus beim frühen Ernst Jünger (1920 - 1932), “Studi germanici”, n. s., 46/3, 2008, pp. 563–574. IrrB, p. 347 (11.10.1943). Cfr. anche IrrB, pp. 395-397 (07.03.1944).

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requisiti estetici di base di quel «realismo magico»9 che poggia in primis su una compresenza del piano immanente e trascendente, di fisica e metafisica10, di finito e infinito11. Una condizione possibile grazie al momento epifanico dello stupore (consapevole)12, il quale consente la ritraduzione magica nell’opera d’arte della percezione (sensoria) analitico-razionale dell’occhio da parte dell’«occhio interiore»13. Una compresenza di (razionale) «comprensione realistica e […] incanto magico della realtà»14, grazie alla quale l’oggetto trasmuta la sua qualità empirica in una trascendente15. Ci troviamo con ciò al centro di quel tentativo di riformulazione simbolica nell’ambiguità del moderno dell’(impossibile) sintesi, presente e archetipica insieme, di ragione e cuore, intelligenza tecnica e ardore bellico, primitiva forza della campagna e intelletto metropolitano16, cui perviene solo chi, con un atteggiamento del tutto antiromantico, riconosca «che ogni superficie possiede la sua profondità, così come ogni profondità ha anche 9 10

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Spg II, p. 171. Nella Premessa a Foglie e pietre (1934), Jünger commenterà retrospettivamente in questo modo la visione magica della Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna (1930): «[…] Per la durata di un decimo di secondo mi fu chiaro che ci stiamo avvicinando di nuovo a un punto a partire dal quale fisica e metafisica coincidono» (E. Jünger, Brief an den Mann im Mond, in SW9; tr. it. di F. Cuniberto, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 19971, p. 14). Cfr. Spg II, pp. 62; 99-100; 127. È lo stupore di una nuova topografia, di una più elevata trigonometria, di una contemplazione riflettente la prospettiva ‘esterna al mondo’, a partire dalla quale l’autore vorrebbe ‘rileggere’ il reale, facendo affidamento sulla sensibilità stereoscopica al magico: cfr. E. Jünger, Das abenteuerliche Herz. Aufzeichnungen bei Tag und Nacht (1929), in SW9, pp. 90-93 e E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, cit., in particolare pp. 101-103; 108-109. Cfr. anche Spg II, pp. 19, 169170; 172; E. Jünger, Das abenteuerliche Herz. Aufzeichnungen, cit., pp. 58-59; 102; 176. Cfr. infine M. Meyer, Ernst Jünger, DTV, München 1993, p. 124. E. Jünger, Das abenteuerliche Herz. Aufzeichnungen, cit., p. 56 (tr. it. di A.B. Dove non diversamente indicato, tutte le traduzioni in italiano qui presentate sono da considerarsi opera dell’autore del presente contributo). Cfr. G. Loose, Ernst Jünger Gestalt und Werk, Klostermann, Frankfurt a. M. 1957, p. 244: «Der ‘magische Realismus’ gestaltet zwei Wirklichkeiten zu gleicher Zeit – die des sinnlichen und des inneren Auges – und erhebt sie im Kunstwerk zur Kongruenz» [«Il ‘realismo magico’ dà forma contemporaneamente a due realtà – quella dell’occhio dei sensi e quella dell’occhio interiore – e le innalza a una più elevata congruenza nell’opera d’arte»]. V. Katzmann, Ernst Jüngers Magischer Realismus, Georg Olms, Hildesheim 1975, p. 97. Cfr. G. Loose, Ernst Jünger, cit., p. 73. Cfr. il saggio Metropoli e campagna (Spg II, pp. 91-97), pubblicato in “Deutsches Volkstum” dell’agosto 1926. Qui cfr. p. 95.

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una sua superficie, e quel che conta non è dividerle, bensì comprenderle nella loro divina totalità»17. Questa «sensibilità stereoscopica»18 verso il magico sotteso al reale, questa capacità di fissare organicamente, vale a dire gestalticamente, con uno sguardo stereoscopico la totalità che cade sotto l’indagine dell’occhio, attraverso un caratteristico doppio movimento di avvicinamento e presa di distanza dall’oggetto percepito, consente così, a livello del testo, di realizzare quella coincidenza del piano delle immagini del mondo razionale e degli oggetti, da una parte, e di quello mitico-irrazionale, dall’altra19. È esattamente questa coincidenza che conduce così a sua volta, in quel sintetico e conchiuso testo della seconda versione del Cuore avventuroso (1938) che è «L’eco delle immagini»20, a enfatizzare la più profonda realtà che le immagini21 del caleidoscopio metropolitano acquisiscono, allorquando la volutamente ambigua prospettiva di analisi del mondo si muova, nel flaneur Jünger, tra sogno e veglia. Qui e solo qui l’autentica conoscenza si prospetta come una rammemorazione platonica (anamnesis)22. 17 18

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Cfr. Superficie e profondità (Spg II, pp. 60-64), in “Standarte” del 06.05.1926, qui trad. da p. 63, ed E. Jünger, Das abenteuerliche Herz. Aufzeichnungen, cit., pp. 34-35; 92-93. E. Jünger, Das abenteuerliche Herz. Aufzeichnungen, cit., p. 83. Essa viene da Jünger definita come capacità di «acquisire contemporaneamente due qualità sensorie dalla percezione del medesimo oggetto, e ciò – questa la cosa fondamentale – mediante un unico organo di senso. Tutto questo è possibile solo in quanto un senso, oltre alla propria funzione, assume in questo caso anche quella di un altro» (E. Jünger, Das abenteuerliche Herz. Aufzeichnungen, cit., ibidem). Cfr. S. Buhl, Der Mythos der Bilder. Ernst Jünger als Wanderer zwischen den Welten, “Jünger-Studien”, vol. 3, 2007, pp. 256-267, qui pp. 261-262. Cfr. E. Jünger, Das abenteuerliche Herz. Zweite Fassung. Figuren und Capriccios (1938), in SW9; tr. it. di Quirino Principe, Il cuore avventuroso, Guanda, Parma 1995, pp. 174-175. Recentemente Rainer Zuch ha, tra gli altri, analizzato la centralità dello sguardo stereoscopico nell’opera di Ernst Jünger principalmente sino al 1945, e ha giustamente enfatizzato come questo sguardo consenta una visione distaccata, sincronica ed a più prospettive dell’oggetto considerato. In tal modo, essa rende possibile la riflessione (distaccata) sull’oggetto osservato che, con ciò, si fa Bild, immagine. Cfr. R. Zuch, Kunstwerk, Traumbild und stereoskopischer Blick. Zum Bildverständnis Ernst Jüngers, in Ernst Jünger. Politik, Mythos, Kunst, a cura di L. Hagestedt, De Gruyter, Berlin 2004, pp. 477-496. «Solo nel tardo pomeriggio mi destai come da un sogno nel quale avevo dimenticato di mangiare e di bere, e sentivo che lo spirito cominciava ad affaticarsi sotto la profusione delle immagini. Eppure non riuscivo a separarmene, e mi comportavo da spilorcio col mio tempo. Senza concedermi sosta svoltai in strade e piazze sempre nuove. Ma presto mi parve che i miei passi divenissero più leggeri e che

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3. Plasticità iconica del linguaggio e Strahlungen: i ‘riflessi’ del divino e la lettura della Bibbia nello jüngeriano ‘servizio della parola’ Questa riconduzione al mito greco si salda così, nei diari della seconda guerra mondiale, con il significato ultimo del termine Strahlung, irradiazione (o irraggiamento). Come l’autore tedesco spiega nella sua Prefazione ai diari bellici, pubblicata per la prima volta in edizione tedesca nel 194923, il vocabolo ‘Strahlung’ (‘irradiazione’) va inteso a un doppio livello, fisico e metafisico, e nell’ottica di una vicendevole interazione. Esso è, per un verso, «l’impressione che il mondo e i suoi oggetti hanno provocato sull’autore, il sottile intreccio di luci e di ombre che questi oggetti formano»24. Per altro verso, esso va inteso come un processo, il cui effetto viene portato avanti dall’autore sul lettore, in maniera che l’opera del primo sia in grado di portare a superficie «luce», «suono» e «vita nascosta nelle parole. Una trama metafisica nel variare delle similitudini: l’ordine degli oggetti visibili secondo il loro rango invisibile»25. Dunque, in questa seconda accezione, il termine ‘irradiazioni’ rimanda intenzionalmente all’immagine mentale di una superiore forza ed energia ‘divina’ che, innestandosi su una concezione olistica di fondo dell’esistenza, pervade, a gradi e secondo modalità diverse, l’intero universo26, poiché per Jünger «l’enigma del mondo è l’immagine riflessa dell’enigma della vita»27. Come si vede, lo scrittore si prefigge qui di educare il lettore alla dimensione polisensoriale del reale e lo fa servendosi di uno stile immaginifico della scrittura28, alla cui base sta un inedito linguaggio basato su un proce-

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la città mutasse aspetto, stranamente. Nello stesso tempo, mutò il mio modo di vedere: mentre fino a quel momento avevo dissipato gli sguardi nella visione del nuovo e dell’ignoto, ora le immagini penetrarono in me senza sforzo. Ora, poi, mi erano note; mi sembrarono ricordi, composizioni di me stesso. Strumentai il mio umore a piacere, come uno che vada a passeggio con la sua bacchetta direttoriale e, gesticolando con essa in questa o in quella direzione, faccia musica col mondo»: E. Jünger, Il cuore avventuroso, cit., pp. 174–175. Cfr. E. Jünger, Strahlungen, Heliopolis-Verlag, Tübingen 1949. IrrB, p. 5. Cfr. anche IrrB, p. 19 (07.03.1941) e p. 41 (19.07.1941). Tutte e tre le citazioni sono contenute in IrrB, p. 6. Cfr. IrrB, p. 221 (24.02.1943). IrrB, p. 128 (14.09.1942). Cfr. E. Jünger, Gärten und Straßen. Aus den Tagebüchern von 1939 und 1940 (1942), in SW2, 19982; tr. it. di Federico Federici, Giardini e strade. Diario di Ernst Jünger, Bompiani, Milano [1943]2, pp. 31 (18.04.1939) [d’ora in poi citato come IrrA cui segue l’indicazione della pagina]; 42-43 (17.05.1939); IrrB, p. 159 (15.11.1942).

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dimento sinottico29 e combinatorio degli oggetti, delle loro qualità e della loro forma (Gestalt). In questo senso, l’abbondante utilizzo della sinestesia come mediatrice tra sensi e ottica sinottica30 mira a fare del linguaggio, appunto, quello strumento capace di penetrare gli oggetti, rendere ‘trasparente’ la luce che essi ‘irradiano’ e, con ciò, rendere visivamente evidente la loro unitaria essenza, contemporaneamente fisica e metafisica31. Come ben si evidenzia dalla lettura dei diari, quest’educazione mantiene tuttavia caratteristici tratti volutamente e ambiguamente iniziatici. La programmatica intenzione jüngeriana è infatti di fare del testo la risultante di «‘Passeggiate metagrammaticali’»32, in virtù delle quali in esso si realizzi uno stile che sia il frutto del collegamento tra i sensi nell’ottica del potenziamento della plasticità iconica del linguaggio. Una plasticità stereoscopica che intenderebbe pervenire a nuovi suoni e colori della lingua33, sbarazzandosi della volgarità logica che l’ha profanata e recuperando quella mitica ed originaria potenza dell’immagine contenuta nel segno linguistico, come mostrano i geroglifici egizi, nei quali si realizza l’immediata visualizzazione di ciò che viene denominato34. L’eterno avvicinamento all’enigma del mondo e della vita, appena sopra menzionato, mostra tuttavia come Jünger resti per un verso impigliato nelle maglie della creazione di un inedito linguaggio e di una corrispondente scrittura, la cui carica metaforico-simbolica, semiotica e semantica viene alla fine sempre ricondotta a un oscuro, indeterminato senso recondito e ultramondano degli oggetti. L’autore resta dunque in una certa misura invariabilmente vittima di quella tendenza volta ad annunciare al lettore con toni iniziatici il significato e l’interpretazione delle immagini che lui stesso, l’autore, ha posto in essere e che il lettore, in virtù di questo atteggiamento, dovrebbe necessariamente condividere come prodotto di una realtà superiore, ‘altra’35. 29 30

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Cfr. IrrB, pp. 270-271 (23.05.1943). Cfr. tra gli altri: «L’ora del caffè nella capanna, durante la quale scrivo il diario. Una candela di cera della landa di Lüneburg, che, fondendosi, ha irretita di fili gialli una vuota bottiglia azzurrina di zenzero, sulla quale è fissata. La fiamma bluastra è contornata da un’aureola gialla, un pulviscolo luminoso, in cui si disperde la materia»: IrrA, p. 88 (05.01.1940). Cfr. S. Buhl, “Licht heißt hier Klang”: Synästhesie und Stereoskopie als bildgebende Erzählform in den Tagebüchern Ernst Jüngers, Nenzel, Bonn 2003, pp. 122-132. IrrB, p. 292 (17.07.1943). Cfr. «[…] Per giungere a nuovi suoni, a nuovi colori, bisognerebbe poter forzare le parole con altri mezzi, che direi chimici […]» (IrrB, p. 141 [05.10.1942]). Cfr. in particolare IrrA, pp. 85-86 (26.12.1939); IrrB, pp. 304-305 (06.08.1943). Cfr. S. Buhl, “Licht heißt hier Klang”, cit., pp. 132-139.

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Ciò detto, si nota d’altronde anche, e a ciò dà particolare risalto l’impostazione euristica di questo saggio, che in questa educazione polisensoriale al reale risiede il substrato fortemente etico di quello che, con un’evidente metafora bellica, Jünger definisce come il «servizio […] della parola»36, su cui si insiste più volte nel corso del testo. Esso, come si vedrà, va inteso, per un verso, sia come «il mio contributo intellettuale alla seconda guerra mondiale, per quanto riguarda l’attività di scrittore», afferma l’autore, sia come «una specie di ‘allenamento alla giustizia’»37, come un impegno al rispetto della libertà e della dignità umane38, nell’ottica della resistenza spirituale alla barbarie nazista. Una resistenza «sull’estremo limite del nulla»39, concepita ‘a dispetto di tutto’. Un atteggiamento che, per quanto rischi di scadere a volte in certe ‘pose’40 eroiche, ripresentando così alcune delle tipiche aporie della posizione estetica jüngeriana ampiamente osservabili nei suoi scritti sulla Grande guerra, qui interessa evidenziare in un’accezione costruttiva, come frutto cioè dell’introiezione del nietzschiano modello dell’‘aristocratismo dello spirito’, in base al quale l’artista ‘lavora’, letteralmente, alla sovversione del reale41. Per altro verso, il substrato etico dei diari va interpretato come un’eterna tensione volta alla scoperta del senso recondito del testo sacro per eccellenza della cultura occidentale, la Bibbia (‘libro dei libri’)42, e, in questa prospettiva, come un continuo approssimarsi (sich annähern) alla verità più profonda della ‘parola divina’ nell’era del vuoto nichilista.

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IrrB, p. 295 (18.07.1943). Entrambe le citazioni sono contenute in IrrB, p. 7. Cfr. IrrB, pp. 53 (23.11.1941); 54 (03.12.1941); 97 (05.06.1942); 174 (09.12.1942); 332 (12.09.1943). IrrB, p. 104 (09.07.1942). Cfr. «Il mio posto è in capo a un ponte, che si getta su una corrente oscura. L’esistenza su questo arco avanzato si fa di giorno in giorno più insostenibile: il pericolo di precipitare si fa più minaccioso; a meno che dalla parte opposta non gli venga incontro, a completarlo, l’altra parte. Ma l’altra sponda è avvolta da una densa nebbia; e soltanto a tratti dall’oscurità giungono luci e suoni. Questa è la situazione teologica, psicologica[,] politica» (IrrB, pp. 411-412 [22.04.1944]). Cfr. in merito anche IrrB, pp. 84 (08.03.1942); 94 (21.05.1942); 469 (14.11.1944). Cfr. IrrB, p. 4; R. Wilczek, Nihilistische Lektüre des Zeitalters. Ernst Jüngers Nietzsche-Rezeption, WVT, Trier 1999, pp. 151–152; M. Meyer, Ernst Jünger, cit., p. 194. Ernst Jünger inizia la lettura della Bibbia il 03.09.1941 e completa la prima lettura integrale di essa il 28.05.1944: cfr. IrrB, pp. 245 (17.04.1943); 328 (09.09.1943); 424 (28.05.1944).

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Ecco perché qui Jünger, entro una ben determinata ottica dello scrittore che pensa per immagini43, sofferma il suo occhio ‘clinico’ particolarmente su quella Verità superiore, all’uomo sempre inconoscibile, che si lascia perennemente cogliere, nella natura, solo come riflesso [Abglanz], secondo l’immagine capitale con cui si chiude l’atto primo del Faust II di Goethe44. È per la stessa serie di ragioni che l’opera Irradiazioni insiste, tra gli altri, anche sull’inesauribile molteplicità delle divine forme della natura, in particolare sugli insetti45 e i fiori come veri e proprio ricettacoli della luce naturale e divina. Questa molteplicità s’impernia sulla prospettiva di un ‘panteismo spinoziano’ d’intonazione goethiana, in cui si realizza un continuo gioco di rimandi e rifrazioni tra natura naturans e natura naturata, i quali poggiano sulla riconduzione dell’infinita varietà della seconda all’unitarietà onnicomprensiva della prima46. 43

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Cfr. IrrB, p. 263 (07.05.1943): «Chi pensa per concetti e non per immagini, tratta la lingua con la medesima crudeltà di colui che vede soltanto le categorie sociali e non gli uomini. La strada che porta a Dio si perde, nel nostro tempo, in una smisurata lontananza, come se l’uomo si fosse smarrito negli spazi sconfinati, che il suo stesso ingegno ha escogitato. Vi è quindi un grande merito anche nel più piccolo avvicinamento. Ma anche questo non può riuscire senza aiuto divino. Dio deve essere nuovamente concepito. In questo stato di cose l’uomo è capace, per quello che riguarda l’essenziale, di raggiungere soltanto risultati negativi: può rendere puro il calice che incarna. E ne varrà bene la pena per lui: acquisterà così nuovo splendore e più diffusa letizia. Tuttavia, anche la regola più elevata che egli può darsi si effettua nello spazio ateo, svuotato di Dio, che è più spaventoso di quello senza Dio. Può darsi, però, che un giorno, dopo anni magari, Dio risponda: sia che si avvicini lentamente quasi con le sensibilissime antenne dello spirito, sia che si riveli nella folgore. Ci siamo messi in contatto radio con una stella, ed essa ha mostrato di essere abitata. In questo si cela una delle più grandi bellezze del Faust di Goethe: nella descrizione del quotidiano, instancabile affannarsi verso mondi superiori, e nell’entrare improvvisamente nelle loro leggi». Cfr. anche IrrB, pp. 46 (25.10.1941); 68 (27.01.1942). «E allora, che il sole mi resti alle spalle! […] Ma come da questa tempesta sgorga sovrano e si volge / l’arcobaleno immobile cangiante, […]. / È una figura dell’agire umano. Medita su di esso e meglio capirai: / soltanto nei colori del suo riflesso [Abglanz] ci è dato / possedere la vita»: J. W. Goethe, Faust, a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1998, vol. 2, vv. 4715; 4721-4722; 4725-4727, pp. 436-437. Su Goethe e la teoria dei colori nei diari della seconda guerra mondiale: cfr. IrrB, p. 241 (13.04.1943). Cfr. IrrB, pp. 84 (08.03.1942); 425 (29.05.1944). Cfr. IrrB, p. 450 (24.08.1944): «La varietà e i suoi sistemi: come, per esempio, quella degli insetti, di cui ho acquistato esperienza. Il fascino sta nell’ottica che si sprofonda attraverso le infinite sfaccettature della natura naturata nell’abisso della natura naturans. I raggi sono quelli del prisma rovesciato: rilucono dapprima nello splendore dell’iride, ritornando poi a un colore solo. Nell’ambito variopinto

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In ultima analisi ciò che qui Jünger basilarmente fa è dunque rileggere in chiave moderna il mito platonico della caverna, nel senso cioè che l’uomo deve, perché può, trarre dalla propria interiorità solo i riflessi, i bagliori degli archetipi di quella vita più segreta e profonda che ha intuito. Di qui deriva il senso di quel continuo rinvio simbolico a una più profonda e autentica realtà, che costituisce uno dei topoi centrali della produzione dell’autore tedesco e che torneremo più tardi ad analizzare in riferimento alla pittura. Un rinvio simbolico che, come già acutamente osservato sin dal 1950 da Jürgen Rausch, si motiva dall’istanza religiosa alla base dell’attività artistica jüngeriana. Più precisamente, si ha qui a che fare con un’esigenza determinata dall’ambigua condizione dell’autore quale moderno intellettuale dell’‘interregno’ nichilista, la cui più elevata, trigonometrica ottica stereoscopica rappresenta la sempre imperfetta risposta estetica di chi cerchi, con gli strumenti dell’arte, di riempire di senso quel fondamentale, incolmabile divario tra sapere e fede47. Negli scritti jüngeriani qui analizzati si sviluppa dunque quella compenetrazione tra «religione» ed «arte»48 che, a sua volta, ha il suo diretto risvolto nella ben nota pratica scrittoria ed esegetica delle varianti (Fassungen), ossia in quella a volte maniacale tendenza alla rielaborazione successiva di uno stesso testo, indotta dal mutato rapporto tra posizione estetica dell’autore e il suo tempo storico. Ciò detto, la pratica scrittoria, che Jünger definisce come il «mio lavoro sulla lingua»49, si delinea qui dunque sì come perenne riconfi-

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predomina la sorpresa; nel bianco, invece, una gioiosa e presaga inquietudine. Lo spirito si sprofonda nella volta del tesoro, dove si trova il grande sigillum, il prototipo di ogni conio». In questo senso si vedano le interessanti osservazioni formulate da Sandro Gorgone sul rapporto tra «forme», «immagini» e «colori» della natura nell’ottica di un’analisi degli scritti diaristici jüngeriani analizzati a partire dalla «prospettiva geofilosofica» di un’«etica del paesaggio». Su di essa dovrebbe imperniarsi una riconfigurazione del rapporto tra paesaggio e comunità, che si realizzi come intangibilità dell’originaria relazione tra natura e identità culturale di un dato territorio: cfr. S. Gorgone, Die Ethik der Landschaft bei Ernst Jünger, “Les Carnets Ernst Jünger”, n. 11, 2011, pp. 119-140. Letto in quest’ottica, si riconferma ulteriormente quell’ethos del ‘servizio della parola’, attraverso il quale nelle Strahlungen acquisiscono un senso ancora più magicamente profondo le affascinate osservazioni di Ernst Jünger sull’arcano linguaggio cosmico racchiuso nei fiori: cfr. tra gli altri IrrB, pp. 6; 26 (17.05.1941); 105-106 (16.07.1942); 247248 (19.04.1943); 275 (16.06.1943); 506 (23.02.1945); IrrC, pp. 14-15 (14.04.1945); 36 (08.05.1945); 105 (05.08.1945); 173-174 (15.10.1945). Cfr. J. Rausch, Ernst Jüngers Optik, “Merkur. Deutsche Zeitschrift für europäisches Denken”, a. 4 (1950), pp. 1069-1085. Qui in particolare, pp. 1078-1080. Entrambe le citazioni sono contenute in IrrB, p. 308 (13.08.1943). IrrB, p. 274 (07.06.1943).

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gurazione del testo stesso, attraverso l’affinamento della parola e dello stile in vista del suo rapporto con il lettore ideale (il quale, per certi versi, deve essere ‘guidato’ nella lettura)50, ma, contemporaneamente e a un livello superiore, anche e soprattutto come riconfigurazione della relazione dello scrittore stesso con il più elevato, magico senso dell’esistenza, dunque in questi diari anzitutto con il ‘divino’. In questo ben determinato senso il testo (dello scrittore Jünger) si presenta, attraverso uno stile linguistico tanto affascinante quanto ambiguamente iniziatico e indeterminato, quale geroglifico divino, nel senso che i segni linguistici che lo compongono si condensano in una prosa, il cui sapore, come il vino, matura con il tempo, svelando così solo progressivamente la sua intima vita segreta, la sua più alta verità51. A tal proposito, l’intellettuale tedesco afferma che «venerabile non è la lingua, ma soltanto l’indicibile. Non si devono venerare le chiese, ma l’invisibile che vive in loro. A lui, l’autore si avvicina con le parole, senza mai raggiungerlo. La sua meta sta al di là del linguaggio, che non la afferra mai.»52. 4. Scrittura e pittura: un excursus iconico tra Alfred Kubin, Rudolf Schlichter, Claude Joseph Vernet, Henri Rousseau, Jean Antoine Théodore de Gudin e Hieronymus Bosch Esattamente questa indagine attorno al senso superiore e magico del reale dà conto dello strettissimo rapporto statuito nei diari tra scrittura e pittura. La grande forza simbolica e la simultaneità, con cui gli oggetti rappresentati si fanno metafore dell’esistenza umana nell’immagine pittorica53, oltre a evidenziare una maggiore immediatezza della pittura rispetto alla letteratura, rendono ancora più plasticamente evidente la capacità dell’immagine pittorica di ricollegarsi alle immagini originarie (Urbilder) che, come le idee plato50 51

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Cfr. IrrB, pp. 68 (28.01.1942); 75 (17.02.1942); 262 (05.05.1943); 268 (15.05.1943); 281-282 (26.06.1943); 288 (10.07.1943); 291 (15.07.1943); 474 (28.11.1944); 510 (09.03.1945). Non è certo che un caso che, nei diari, Jünger faccia tra gli altri riferimento, in questo contesto, rispettivamente alla «scrittura figurata» (IrrB, p. 159 [15.11.1942]) dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1986) e all’«attitudine geroglifica» (IrrB, p. 335 [17.09.1943]) del linguaggio sintetico–iniziatico del mistico pre-sturmeriano Johann Georg Hamann (1730-1788). IrrB, p. 482 (14.12.1944). Cfr. anche IrrB, pp. 69 (30.01.1942); 94 (22.05.1942); 228 (14.03.1943); 239 (11.04.1943); 357 (26.10.1943). In questo senso, Jünger enfatizza la forza visionaria ed anticipatrice della pittura di Pablo Picasso (1881-1973): cfr. IrrB, pp. 108-109 (22.07.1942); 344 (04.10.1943).

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niche, determinano secondo Jünger la realtà sensibile e il corso della storia54. Oltre a questa serie di proprietà, Jünger riconosce nell’arte di alcuni suoi amici pittori una particolare qualità onirica55, mediante la quale si attua quel potenziamento del reale come passaggio all’‘altra parte’. Sono precisamente queste le peculiarità che lo Jünger weimariano aveva riconosciuto tra l’altro all’amico disegnatore e scrittore Alfred Kubin (1877-1959)56. Nel suo romanzo Die andere Seite (L’altra parte, 1909), l’autore di Heidelberg aveva celebrato la «natura profetica», sismografica, che procedeva nella direzione dell’imminente, e da Jünger agognato, «tramonto del mondo borghese»57. In un contesto ideologico e intellettuale mutato, Kubin viene indicato nei diari jüngeriani con l’appellativo «mago» e ironicamente ricordato per la scarsa leggibilità della ‘scrittura geroglifica’ delle sue lettere58; a lui viene tuttavia riconosciuta la potenza delle «visioni apocalittiche»59 e la «profonda osservazione indirizzata verso il mondo della volontà e del destino»60 che promana dalle sue più recenti opere grafiche, in particolare Entführung (Rapimento, 1938. Figura n. 1) e Der Pflanzer (Il latifondista, 1939. Figura n. 2)61. Lo stesso fascino per la decadenza imminente – «il lutto di fronte alla morte e allo splendore»62 – costituisce dunque il motivo dominante che Jünger ri54 55 56 57 58 59 60

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Cfr. IrrB, pp. 88 (28.03.1942); 123 (26.08.1942); 129-130 (16.09.1942); 169-170 (30.11.1942). Come nel caso della pittura di Georges Braque (1882-1963): cfr. IrrB, pp. 341 (30.09.1943); 343 (04.10.1943). Cfr. anche IrrB, p. 21 (24.04.1941). Sulla pittura di Giorgio de Chirico (1888-1978): cfr. IrrB, pp. 107-108 (21.07.1942). Cfr. R. Zuch, Rainer: Kunstwerk, Traumbild, cit., p. 488. Entrambe le citazioni sono contenute in Spg III, p. 26. Cfr. IrrB, pp. 241 (13.04.1943); 281 (25.06.1943). IrrB, p. 371 (21.12.1943). Trad. dalla lettera di Ernst Jünger ad Alfred Kubin del 01.06.1943: cfr. E. JüngerA. Kubin, Eine Begegnung. Acht Abbildungen nach Zeichnungen und Briefen von Ernst Jünger und Alfred Kubin, Propyläen, Frankfurt a. M./Berlin/Wien 1975, pp. 74-76. Qui trad. da p. 75. Cfr. la missiva di Ernst Jünger ad Alfred Kubin del 24.04.1942 e quella di Kubin a Jünger del 14.06.1943: cfr. E. Jünger-A. Kubin, Eine Begegnung, cit., rispettivamente pp. 70-71; 78. La genesi delle due opere è ulteriormente avvalorata da una comunicazione elettronica indirizzata all’autore di questo intervento da parte della Dr.ssa Annegret Hoberg, direttrice del Kubin-Archiv presso la Städtische Galerie im Lenbachhaus (Monaco di Baviera), in data 25.10.2013. Le due opere citate, in riferimento alle quali non è stato possibile reperire informazioni più dettagliate su caratteristiche tecniche e attuale collocazione, sono riprodotte in A. Kubin, Abenteuer einer Zeichenfeder, a cura di Max Unold, Piper, München 1941, rispettivamente p. 139, n. 54 e p. 119. n. 44. IrrB, p. 69 (28.01.1942).

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conosce anche nell’opera Emir Musa in Betrachtung der Messingstadt (Emir Musa mentre contempla la città d’ottone, 1941. Figura n. 3) del pittore e amico Rudolf Schlichter (1890-1955). Un’opera che ebbe la sua genesi entro il ciclo di disegni destinati alla pubblicazione di una nuova edizione delle Mille e una notte e che certamente colpì Jünger anche per la distanza ‘stereoscopica’ dalla quale il protagonista, nell’immagine, contempla la città d’ottone, realizzando con ciò uno dei capisaldi del distaccato, clinico sguardo dello scrittore tedesco ammaliato dagli spettacoli della decadenza, della morte e dell’orrore63. Proprio acuendo quest’ambiguamente doloroso e voluttuoso fascino dello sfacelo storico contemporaneo sull’osservatore Jünger, i diari della seconda guerra mondiale mostrano come in essi si sviluppi progressivamente un chiaro parallelo simbolico tra il progressivo imbarbarimento nella relazione tra ordine statale e individuo (in primis in rapporto allo stato nazional-socialista), che culmina nella bestiale regressione della comunità allo stadio zoologico, da una parte, e l’intensificazione delle letture relative a naufragi, dall’altra, che l’autore tedesco approfondisce dall’autunno del 1944. Una relazione che tra l’altro si era andata sviluppando sulla scia del fondamentale confronto tra lo scrittore di Heidelberg e Carl Schmitt (1888-1985) attorno al Leviatano (1651) di Thomas Hobbes e agli scritti dello stesso Schmitt sullo stato ‘totalitario’ del presente64. 63

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Cfr. K. H. Bohrer, Die Ästhetik des Schreckens. Die pessimistische Romantik und Ernst Jüngers Frühwerk, Hanser, München/Wien 1978; H. Lethen, Verhaltenslehren der Kälte. Lebensversuche zwischen den Kriegen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 19941; R. Zuch, Kunstwerk, Traumbild, cit., pp. 479-488, 495; la lettera di Ernst Jünger ad Alfred Kubin del 24.04.1942: cfr. E. Jünger-A. Kubin: Eine Begegnung, cit., p. 71. Cfr. in particolare IrrB, pp. 498-499 (26.01.1945): «Avanti con i Naufragi. Nel corso della lettura mi si sono presentati alcuni pensieri di carattere generale. Così la nave rappresenta l’ordine, lo stato, lo status; nel naufragio si dissolvono col fasciame anche questi legami. Le relazioni umane cadono su un piano elementare; divengono di natura fisica, zoologica o cannibalesca. […] Il naufragio pone la questione se vi sia un ordine superiore a quello statale. Soltanto quello può portare salvezza […]». Cfr. anche: IrrB, pp. 81 (03.03.1942); 92-93 (18.05.1942); 125 (31.08.1942); 172 (06.12.1942); 275 (07.06.1943); 458 (20.10.1944); 479 (11.12.1944); 487-488 (29.12.1944); 493 (07.01.1945); 493-494 (08.01.1945); 494-495 (09.01.1945); 495 (10.01.1945); 500 (29.01.1945); 501-502 (07.02.1945); 508 (27.02.1945); IrrC, pp. 171 (10.10.1945); 190 (13.11.1945). Cfr. in merito anche la missiva di Ernst Jünger a Carl Schmitt del 10.02.1945, in E. Jünger–C. Schmitt: Ernst Jünger-Carl Schmitt: Briefwechsel, a cura di H. Kiesel, Klett-Cotta, Stuttgart 1999, pp. 187-188; Ernst Jünger. Leben und Werk in Bildern und Texten, a cura di H. Schwilk, Klett-Cotta, Stuttgart 1988, p. 198; H. Kiesel, Ernst Jünger. Die Biographie, Pantheon, München 2009, pp. 502-503; R. Wilczek, Nihilistische Lektüre des Zeitalters, cit., pp. 163-166.

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Questa tendenza trova così la propria più evidente manifestazione nella puntuale descrizione di due quadri osservati nel corso di una visita di Jünger al Museo nazionale della Marina di Parigi, dei quali egli riferisce in una lunga nota del 29 agosto 1943. I quadri, tutt’ora presso la stessa sede, si fanno anzitutto vere e proprie metafore dell’esistenza umana, con un palese richiamo al contesto storico contemporaneo. La prima opera alla quale si fa riferimento è il dipinto dal titolo La Madrague ou La Pêche du Thon vue du Golfe de Bandol (La tonnara, ovvero la pesca del tonno vista dal golfo di Bandol, 1755. Figura n. 4) di Claude Joseph Vernet (1714-1789), un famoso pittore di marine, in particolare di naufragi, e paesaggista francese del 1700, particolarmente attento a cogliere nella pittura di marine la drammaticità dell’impari lotta dell’uomo con gli elementi e caratterizzato da uno stile sostanzialmente decorativo-descrittivo65. Il dipinto, nel quale uno studioso ottocentesco vedeva predominare la «curiosità» dei personaggi rappresentati e l’«entusiasmo» con cui il quadro intendeva celebrare questa «festa del mare»66, faceva parte di un ciclo di ventiquattro viste di porti francesi realizzate tra il 1753 e il 1762, commissionate a Vernet, su ordine del re Luigi XV (1710-1774), da parte del marchese di Marigny, Abel-François Poisson de Vandières (1727-1781)67. Jünger, interpretando evidentemente in chiave fortemente psicologica la rappresentazione pittorica alla luce della più generale situazione storica e spirituale del secondo conflitto mondiale68, concentra qui la sua attenzione sul 65

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Cfr. V. Pomarède, Il paesaggio romantico francese: metamorfosi del Classicismo e del Realismo attraverso la passione della natura, in Romanticismo: il nuovo sentimento della natura, a cura di G. Belli, A. O. Cavina, F. Rella, P. Rosenberg, P. Schiera, Electa, Milano 1993, pp. 181–197; cfr. inoltre pp. 205–207 e p. 465. Cfr. P. A. M. Miger, Les ports de France, peints par Joseph Vernet et Huë, chez l’éditeur Saint – Lazare […], Paris 1812, pp. 75-78. Cfr. tra gli altri L. Lagrange, Joseph Vernet, sa vie, sa famille, son siècle, d’après des documents inedits, Labroue, Bruxelles 1858, p. 57 nota 1, pp. 75; 98; L. Lagrange, Joseph Vernet et la peinture au XVIIIe siècle, Paris 18642, in part. pp. 13; 70-88; 113. È esattamente questa anche l’ottica interpretativa che si evidenzia in una lunga e particolareggiata descrizione jüngeriana del dipinto La Guerre (La guerra, 1894 circa. Figura n. 5), oggi conservata presso il Musée d’Orsay di Parigi, del pittore dell’avanguardia francese Henri Rousseau (1844-1910). In esso risalta la contrapposizione tra i colori sgargianti del cielo e il predominio del nero (il lutto) e del rosso (il sangue) del cavallo e del terreno quali possibili riferimenti al conflitto franco-prussiano del 1870, al quale Rousseau prese parte per un breve periodo nell’estate dello stesso anno, alla Comune del 1871 e alle guerre coloniali della Terza Repubblica. In questa maniera acquista ancora maggiore densità drammatica il contrasto tra la visione onirica e fiabesca della pittura atemporale di Rousseau, che prepara le atmosfere del ‘realismo magico’ e del surrealismo, e la crudez-

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fascino che lo spettacolo sanguinario della tonnara produce invariabilmente su tutti gli spettatori rappresentati nel quadro, indipendentemente dalla loro appartenenza sociale, enfatizzando allo stesso modo la ‘meccanica innocenza’ con cui è perpetrato il massacro dei pesci. In questo senso la lunghezza dei loro corpi, simili a quelli di un uomo, e la loro rigidità paiono qui, con tutta evidenza, alludere a figure umane sulle quali s’infierisca bestialmente. Poi alla mostra della marina, organizzata, per alcune settimane, nei locali inferiori del museo. Accanto a numerosi modelli di navi, armi, strumenti nautici, clessidre e documenti, vi è anche una raccolta di quadri; fra l’altro varie vedute di porti e di città marinare del pittore Joseph Vernet. Il primo piano di Bandol, [sic] è ravvivato da una scena di pesca del tonno. Le barche dei pescatori, sulle quali in gran daffare si compie la strage, sono circondate da pompose galere: da esse un pubblico elegante assiste alla carneficina. Fra le creste spumeggianti delle onde e le grosse maglie delle reti, alcuni giovani pescatori mezzi nudi sono alle prese con pesci della lunghezza di un uomo e stranamente rigidi. Essi, dopo averne trafitto le branchie con ramponi, li tirano a sé o li stringono con le braccia; poi con lunghi coltelli li trafiggono mortalmente alla gola: fanciulli assassini coi loro giocattoli. I cittadini sono come affascinati dalla sanguinaria festa; le donne si coprono gli occhi o, già quasi svenute, protendono le braccia come per difendersi da questa ridda d’immagini cruente: i cavalieri le sostengono, cingendo loro la vita. Si capisce che queste tonnare offrono un sanguinoso spettacolo, come dimostra la bella descrizione di Cetti69.

Il secondo quadro menzionato da Jünger è il dipinto dal titolo L’incendie du Kent (L’incendio del ‘Kent’, 1827. Figura n. 6) di Jean Antoine Théodore de Gudin (1802–1880), pittore del romanticismo francese noto soprattutto per le sue scene navali. Gudin viene nominato pittore ufficiale della Marina nel 1830 e lavora alla corte dei Re francesi Luigi Filippo I (1773-1850) e Napoleone III (1808-1873). Il soggetto della composizione, che riscosse grandi lodi nel corso dell’esposizione del Louvre (Salon) del

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za iconoclasta delle immagini di violenza e morte nel quadro (l’angelo della discordia e i corvi che si nutrono dei cadaveri rappresentati), inserite in una quiete agghiacciante. Tutti elementi che ‘fotografano’, secondo l’ottica di Ernst Jünger, la crudeltà del proprio presente. Per questa ragione l’autore tedesco può affermare: «Vedo in questo quadro […] una delle grandi visioni del tempo: dà anche un’idea della necessità pittorica, in contrapposizione alla caleidoscopica dei soggetti. […] Alla carica elementare del contenuto sta in stringente contrasto una specie di fascino del terrore o di decorativa rigidità […]»: cit. da IrrB, p. 354 (19.10.1943). Sulla pittura di Henri Rousseau, cfr. Rousseau, a cura di D. Specchiarello, Rizzoli/Skira, Milano 2004; in particolare, pp. 23; 34-35; 49-50; 90-91. IrrB, p. 320 (29.08.1943).

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1827, fa riferimento all’incendio scoppiato sul ‘Kent’, vascello della Compagnia inglese delle Indie, il 28 febbraio 1825, mentre la nave, in viaggio verso il Bengala, si era ritrovata in mezzo ad una violenta tempesta nei pressi del golfo di Guascogna. L’intervento del brigantino inglese ‘Cambria’, salpato con un piccolo gruppo di minatori a bordo per esplorare delle miniere messicane abbandonate dagli spagnoli e allertato dalla bandiera di soccorso del ‘Kent’, aveva consentito alla prima imbarcazione di avvicinarsi alla seconda. La rappresentazione si concentra proprio sulle concitate operazioni di salvataggio e di trasbordo dell’equipaggio, dei soldati e dei civili prima che l’incendio sul ‘Kent’ raggiungesse il deposito delle polveri, con conseguente esplosione del vascello. Al nucleo drammatico si lega così uno stile, particolarmente evidente nell’opera menzionata, caratterizzato da un audace impiego della luce e degli effetti di colore all’interno di una composizione pittorica attenta a rappresentare con fedeltà e grande forza espressiva il moto tempestoso delle onde; intento riuscito anche grazie al sapiente impiego della tecnica a impasto nella pittura ad olio, come nel caso della tela qui presa in considerazione70. Jünger, senza dubbio memore dell’immagine del terribile, gigantesco e proprio per questo ammaliante vortice al centro del racconto di Edgar Alla Poe (1809-1849) A Descent into the Maelström (Una discesa nel Maelström, 1841), nel passo di Strahlungen sintetizza visivamente nello spaventoso gorgo al centro del dipinto l’essenza della catastrofe storica in fieri; egli evidenzia così il senso di vertigine che colpisce colui il quale contempli il quadro, interiormente scosso dai disperati quanto inutili tentativi di sottrarsi al vortice stesso da parte della massa di gente rappresentata. Un quadro, dipinto da Gudin intorno al 1828, mi ha reso per la prima volta evidente un naufragio e oltre a ciò la densità di contenuto e il significato della catastrofe che compendia una immensa ricchezza pittorica. Chi osserva il quadro, anche soltanto nelle sue linee generali, prova subito un senso di mancamento e di vertigine. Si vede una grande nave in mezzo a un mare spaventosamente agitato, coperto di nuvole scure e velato di pioggia. La posizione di questa nave è tale, che poggia quasi verticalmente sulla prua, mentre, simile a un troncone di legno o a una trave, viene trascinata in una spirale nell’abisso da uno spaventoso vortice. E dall’abisso emergono soltanto la vasta arcaccia della nave, sulla quale si può decifrare la parola Kent, e una parte della murata, dai portelli e dagli oblò della quale escono fumo e vampe. Su questo vasto tavolac70

Cfr. A. L. Palmer, Historical Dictionary of Romantic Art and Architecture, Scarecrow, Plymouth 2011, p. 117; Les annees romantiques: la pittura francese dal 1815 al 1850, a cura di J. Isabelle, J. Lacambre, S. Boyer, Electa, Milano 1996, pp. 174; 367-368.

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cio coperto in parte dal fuoco rosseggiante, dal fumo giallastro e dalla bianca schiuma, c’è una massa di gente addossata, grappolo umano dal quale ogni tanto si stacca qualcuno che precipita nell’abisso o che tenta di aggrapparsi alle funi. A una drizza sta sospesa sopra il ribollente abisso una donna con un bimbo, che si vuol calare in una scialuppa di salvataggio. C’è quasi da stupirsi che in questo spaventoso tumulto si possa ancora pensare a tali tentativi di salvezza; tuttavia, in mezzo al gruppo di gente, si vede dominare una figura dal cappello alto e col braccio palesemente imperioso, che pare impartisca ancora ordini. La carcassa della nave è circondata da barche sovraccariche, che lottano con le onde; da una di esse si vede appunto respingere col remo un nuotatore che tenta di avvicinarsi. In mezzo al vorticoso spumeggiare, le acque si appianano in un morbido verde, dal quale sembra emanare un potere narcotico. Vi si vedono uomini che si aggrappano a rottami, e altri già annegati che vengono trascinati nel gorgo; sembrano dormire, ancora visibili nei loro colori, ma già adagiati sul verde letto, sul cristallo verde-azzurro71.

In entrambi i quadri risulta dunque del tutto palese, tra l’altro, la svalutazione del corpo come puro oggetto, alla quale viene ridotto l’essere umano. In quanto tale, entrambi i dipinti possiedono, come spesso si osserva circa la potenza rappresentativa propria della scrittura jüngeriana, una terribile forza anticipatrice. Essa prepara pienamente gli ‘spettacoli’ apocalittici della ‘morte seriale’ dell’olocausto nazista e si ricollega in Strahlungen a quell’aspetto contemporaneo del «cannibalismo accentuato» che l’intellettuale tedesco vede anticipato con straordinaria lucidità «nei grandi quadri di Bosch[, nei quali] strani demoni tagliano e sezionano gli uomini con i loro strumenti, dopo averli trascinati via nudi»72. L’inaudita forza espressiva della pittura di Hieronymus Bosch (1450 circa-1516) e l’inesauribile molteplicità di motivi e di possibili interpretazioni della sua opera, unite ad una spesso inestricabile difficoltà oggettiva di datazione delle sue opere, contribuiscono in maniera determinante ad accentuare il fascino della sua produzione iconografica. Ciò detto, si possono comunque qui individuare alcuni punti fermi della sua produzione. La presenza di un’oscura visione dell’umanità, della sua degenerazione e corruzione seguite al peccato originale. Lo sviluppo di una tecnica pittorica caratterizzata da una magistrale perizia ed imperniata sul principio del 71 72

IrrB, pp. 320-321 (29.08.1943). Sul racconto di Poe, cfr. IrrA, p. 63 (19.08.1939); IrrB, pp. 4; 50-51 (18.11.1941); 283 (03.07.1943); IrrC, pp. 143-145 (14.09.1945). Entrambe le citazioni sono contenute in IrrB, p. 389 (16.02.1944). Sul rapporto tra i lemuri nazionalsocialisti e i dipinti di Bosch e Lucas Cranach il Vecchio (1472– 1553), cfr. la lettera di Ernst Jünger a Friedrich Georg Jünger del 20.02.1941 (Epistolario Ernst Jünger-Friedrich Georg Jünger: Deutsches Literatur Archiv Marbach am Neckar–Germania [DLA]: D: Friedrich Georg Jünger).

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contrasto tra virtù e peccato; un’opposizione raggiunta attraverso una contrapposizione, volutamente bizzarra e agghiacciante assieme, interna sia allo stesso consesso umano, sia relativa al rapporto tra piano umano e piano naturale. In questo senso va considerata l’opposizione tra i volti sereni e fermi degli eremiti e quelli furibondi e crudelmente ghignanti dei farisei e degli scribi. I primi sono frutto di un autocontrollo che, imitando il Cristo della Passione, si affida ad una saggezza etica e pratica in senso stoico. Questa, intesa secondo l’ottica umanistica e borghese del primo Millecinquecento, deve guidare il pellegrinaggio terreno del singolo individuo credente e la sua laboriosità verso una continua e cauta ricerca che consenta la riconquista della virtù, sottraendosi in tal modo alle tentazioni terrene. Da ultimo, l’eterno scontro tra autocontrollo dell’uomo (cultura) e spontanea liberazione delle forze e degli istinti, anche in senso sessuale, della natura, si traduce attraverso l’antica tradizione dei bestiari nell’esorbitante repertorio di stravaganti, enigmatiche e spaventose immagini di mostri, distruzioni, contadini, reietti, diavoli e formazioni vegetali fantastiche73. Tutti questi elementi vanno qui presi in considerazione per meglio comprendere gli accenti con i quali Jünger celebra, attraverso tre successivi rimandi, l’immediatezza profetica degli enigmatici e sovraccarichi quadri di Bosch, in cui il dipinto si fa ‘specchio’ dei propri tempi. Il primo riferimento è relativo all’impietosa durezza e concisione del quadro oggi comunemente noto come Il venditore ambulante (databile attorno al 1494-1505. Figura n. 7), in cui si sintetizza il doppio riferimento alla parabola biblica del figliol prodigo e alla figura del pellegrino. Nell’opera, attualmente presente presso il Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, Jünger legge l’icona del male giunto sino al nucleo delle cose74 e certamente ne coglie in chiave po73 74

Cfr. Bosch, a cura di F. Varallo, Rizzoli/Skira, Milano 2004; in particolare, pp. 25-77. Cfr. IrrA, p. 43 (17.05.1939): «Parlammo poi di Breughel [sic Brueghel] e del ‘Figliuol prodigo’ di Bosch. Il quadro, che potemmo osservare da vicino anni fa a un’asta, fece su entrambi grande impressione. Si vede che il Figliuolo, con i capelli bianchi, sfinito nell’anima e nel corpo, non potrà mai giungere fino a casa; e qui il pittore supera in crudeltà il testo biblico. Nello sfondo il malo mondo, raffigurato come una tribù d’imbroglioni e ciarlatani, davanti al quale un avvinazzato urina, mentre una meretrice spenzola il seno dal balcone. Da molto tempo colui che perdette eredità, onore e salute è dimenticato. Il male è giunto fino alle ossa. Orribile in questo quadro è il condensarsi, in una prospettiva istantanea, di tutta la vita sprecata. La pittura è, in concezioni come questa, superiore a tutte le altre arti». Cfr. qui anche la lettera di Ernst Jünger a Carl Schmitt del 20.11.1943, in E. Jünger - C. Schmitt: Briefwechsel, cit., p. 172. Per datazione, caratteristiche e interpretazioni dell’opera, cfr. Bosch, cit., pp. 73-76; 124-125.

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tenzialmente autobiografica il rimando a quella circospetta e ininterrotta ricerca del divino nel mondo, di cui si è fatta menzione poco sopra. Il secondo e il terzo riferimento mostrano in che misura Jünger riconosca nelle opere di Bosch l’annunzio delle sventure delle orge della tecnica, come si evince dai passaggi diaristici relativi al Trittico del Giudizio di Vienna (databile attorno al 1482–1504. Figura n. 8), oggi conservato presso la Gemäldegalerie der Akademie der bildenden Künste di Vienna, e al Trittico del Giardino delle delizie (detto anche Il Millennio, databile attorno al 1480-1490. Figura n. 9), situato presso il Museo del Prado di Madrid75. 5. Le illusioni della tecnica e la ‘nuova teologia’: ‘oscuramento’ e ‘luce’ nel ‘presente eterno’ I diari bellici concentrano infine prevalentemente la loro attenzione sul rapporto tra le ‘illusioni della tecnica’ e la necessità di «una nuova teologia»76. In questo contesto dobbiamo anzitutto riallacciarci allo strettis75

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Cfr. IrrB, pp. 376-377 (04.01.1944): «In mattinata allarme aereo, com’è ormai quasi regolamentare. L’ho utilizzato guardando ‘l’Altare col giudizio universale’ apparso recentemente nel libro di Baldass su Hieronymus Bosch che ho ricevuto in dono dal dottor Göpel. Da queste grandi tavole, simili a disegni a sorprese terrorizzanti affiorano sempre nuovi spaventosi particolari. Bosch differisce da tutti gli altri pittori per l’immediatezza dell’immagine, che Baldass definisce il suo carattere profetico. La profezia consiste nella sua conoscenza dei più profondi valori, in cui si specchiano e si ritrovano i secoli; come oggi il mondo della tecnica con i suoi particolari. Infatti, da queste tavole si possono presagire le forme delle bombe degli aerei e le forme dei sottomarini e in una di esse, mi pare nel Giardino delle libidini, si trova anche il pauroso pendolo di E. A. Poe, uno dei grandi simboli del ritmico mondo della morte. Bosch è il veggente di un aeon, come Poe lo è di un saeculum. Calzante è pure l’immagine dell’uomo nudo, che si aggira come uno scoiattolo in una ruota ricoperta di spine, per far muovere macchine strane». A questo proposito va chiarito che Jünger in questo passo si riferisce allo storico dell’arte tedesco Erhard Göpel (1906-1966), il quale aveva regalato a Jünger la monografia su Bosch dello storico dell’arte austriaco Ludwig von Baldass (1887-1963), ossia L. v. Baldass, Hieronymus Bosch, Schroll, Wien 1943. Cfr. in merito anche Irr B, p. 361 (10.11.1943). Sugli altri riferimenti a Bosch nelle Strahlungen, cfr. anche IrrB, pp. 24-25 (01.05.1941); 192 (22.12.1942); 476 (05.12.1944); R. Zuch, Kunstwerk, Traumbild, cit., pp. 488491 e p. 496; R. Wilczek, Nihilistische Lektüre des Zeitalters, cit., pp. 167-169. Per datazione, caratteristiche e interpretazioni delle due opere, cfr. Bosch, cit., rispettivamente p. 46, pp. 59-62, pp. 92-95 (Trittico del Giudizio di Vienna) e pp. 24-25; 84-91 (Trittico del Giardino delle delizie). IrrB, p. 5. Cfr. anche IrrB, p. 86 (11.03.1942).

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simo rapporto tra Ernst e Friedrich Georg Jünger e all’approfondimento della lettura dei Padri della Chiesa dal cuore degli Anni Venti, cui abbiamo fatto riferimento all’inizio di questo contributo. Ernst Jünger enfatizza nei diari la necessità di una nuova teologia come unica valida possibilità, capace di tentare in qualche modo il ‘superamento’ o quanto meno il ‘contenimento’, nel petto del singolo, degli effetti catastrofici del nichilista automatismo tecnico del mondo contemporaneo77, fondato su quel pensiero scientifico per il quale, come Friedrich Georg aveva già pronosticato nella sua Die Perfektion der Technik78 (La perfezione della tecnica, 1939), «Il mondo è una macchina, l’uomo un automa»79. Per evitare che il mondo sfoci nel più completo e catastrofico sfruttamento e consumo sia dell’uomo che della natura80, nel quadro di uno stato burocratizzato ridotto ad enorme apparato automatico81, Friedrich Georg aveva dunque già lucidamente preso le distanze, con un atteggiamento tipicamente kulturkritisch, dalla grande utopia tecnica dello Arbeiter (l’Operaio, 1932) del fratello, affermando tra le altre cose che la quantità di lavoro è continuamente aumentata, non diminuita, dallo sviluppo tecnico. Un’affermazione che dunque relegava indirettamente l’utopica fiducia in un controllo della tecnica planetaria dall’esterno, presente nell’Operaio, sostanzialmente al rango di una delle tante pie illusioni della tecnica82, prodotto della società del moderno. Una

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Cfr. IrrB, p. 97 (06.06.1942) e la contestuale lettera di Ernst Jünger a Friedrich Georg Jünger del 08.06.1942 (Epistolario Ernst Jünger-Friedrich Georg Jünger: DLA: D: Friedrich Georg Jünger). Più nello specifico, si rimanda anche alle seguenti note: IrrA, pp. 152 (27.05.1940); 162 (06.06.1940); 201 (25.06.1940); IrrB, pp. 2425 (01.05.1941); 119-120 (13.08.1942); 198-199 (31.12.1942); 249-250 (21.04.1943); 280 (25.06.1943); 307-308 (11.08.1943); 351-352 (16.10.1943); 420 (17.05.1944); 499 (26.01.1945). Si vedano inoltre le lettere di Ernst Jünger a Friedrich Georg Jünger del 02.02.1940, 22.07.1940, 11.09.1941 e 21.07.1943 (Epistolario Ernst Jünger-Friedrich Georg Jünger: DLA: D: Friedrich Georg Jünger). Cfr. F. G. Jünger, Die Perfektion der Technik, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 19461, pp. 4-5 e pp. 39-40. F. G. Jünger, Die Perfektion der Technik, cit., p. 150. Cfr. F. G. Jünger, Die Perfektion der Technik, cit., in particolare pp. 9; 14; 18; 2021; 71-75; 123; 136; 141; 155. Cfr. F. G. Jünger, Die Perfektion der Technik, cit., in particolare pp. 15; 22-23; 63; 68-71; 83-84; 157 e le missive di Friedrich Georg Jünger ad Ernst Niekisch del 19.04.1946, 04.08.1946, 24.08.1947 e 12.12.1947, in F. G. Jünger, “Inmitten dieser Welt der Zerstörung”. Briefwechsel mit Rudolf Schlichter, Ernst Niekisch und Gerhard Nebel, a cura di U. Fröschle e V. Haase, Klett-Cotta, Stuttgart 2001, rispettivamente pp. 88; 97; 111-112; 115. Cfr. F. G. Jünger, Die Perfektion der Technik, cit., pp. 4-8 e pp. 48-49.

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serie di considerazioni che condurranno il fratello Ernst a rettificare in Strahlungen le sue precedenti posizioni in merito83. Ora, questo mutamento di prospettive si osserva già nell’iconica evidenza, con la quale nei diari ci si allontana progressivamente dalle iniziali speranze di vivere mediante la guerra «spettacoli nuovi di una specie ignota»84, passando a un impotente disagio85, a una presa di distanza86 e a un disgusto sempre più evidenti rispetto alle immagini belliche, dominate da un freddo demonismo, violento ed orribile, del conflitto mondiale come nichilistico scannatoio87. Il prevalere di una cupa ottica, di un «oscuramento»88 che involve l’ethos dell’intero genere umano fa così il paio con quel sottile intreccio di luci e ombre già menzionato in relazione alla Prefazione dei diari bellici e sfocia nel completo sovvertimento del positivo simbolismo della luce prima analizzato, sintetizzandosi nei ‘raggi radioattivi’ impliciti nella catastrofica apoteosi cosmica delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki dell’agosto 194589. A sua volta, infine, quella stessa trama di luci e ombre viene ripresa nella parte conclusiva delle Strahlungen, con specifico riferimento ai lavori preparatori al romanzo Heliopolis (1949), in una direzione programmaticamente aperta a sempre nuove ridiscussioni, in virtù delle quali il testo-tableau, come qualsiasi opera d’arte, è suscettibile di ‘pennellate’, di ritocchi contenutistici e di stile, in vista della sua (utopica) perfezione. Questo orientamento sembra confermare l’impianto euristico del presente contributo, in base al quale la scrittura si configura come perenne scrutinio interiore e ricerca intellettuale in relazione al divino, e ricollegarsi perfetta83

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Cfr. IrrB, pp. 117 (09.08.1942); 119-120 (13.08.1942); 196 (28.12.1942); 212 (09.02.1943); 224 (05.03.1943); 228 (17.03.1943); 256 (30.04.1943); 348-349 (16.10.1943); 364 (20.11.1943); 397 (11.03.1944); 477 (07.12.1944); 480 (13.12.1944); 483 (15.12.1944). IrrA, p. 74 (10.10.1939). Quello stesso morbidamente voluttuoso spettacolo di distruzione dalla «tremenda bellezza» descritto nella cosiddetta Burgunderszene, o ‘scena del Borgogna’: cfr. IrrB, p. 424 (27.05.1944). Sul nesso tra toni estetizzanti e motivi erotici della scena si rimanda a: T. Wimbauer, Kelche sind Körper. Der Hintergrund der “Erdbeeren in Burgunder”-Szene, in Anarch im Widerspruch: Neue Beiträge zu Werk und Leben der Brüder Ernst und Friedrich Georg Jünger, a cura di T. Wimbauer, Eisenhut Verlag, Hagen-Berchum 20102, pp. 25-76. Sulle immagini belliche di Strahlungen, cfr. S. Buhl, “Licht heißt hier Klang”, cit., pp. 139-144. Cfr. IrrA, p. 201 (25.06.1940). Cfr. IrrB, p. 188 (20.12.1942). Cfr. IrrB, pp. 198-199 (31.12.1942); 323 (01.09.1943). IrrB, p. 200 (01.01.1943). Cfr. IrrC, p. 107 (10.08.1945).

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mente alla citazione del passo di diario proposto in apertura di questo nostro scritto. Ecco, dunque, cosa afferma l’autore di Heidelberg, riguardo al rapporto tra tecnica e progresso moderno: Non sarà, forse, che la meta di questo processo corrisponda a un’unione di romanticismo e utopia in un reciproco approfondimento stereoscopico? Questo, tra l’altro, ricondurrebbe in modo attendibile nel nostro mondo degli elementi teologici. Anche certi esperimenti della pittura tendono alla stessa meta. Gli atelier assomigliano a laboratori in cui si tentano innumerevoli leghe prima di ottenere una soluzione convincente. Se un quadro riuscisse già perfetto in questa fase, sarebbe il segnale della rassegnazione di un artista che rinuncia alle estreme possibilità90.

Sulla base di queste considerazioni e alla luce di quell’etica della responsabilità precedentemente analizzata, Ernst Jünger, persegue, quale autore del moderno e figlio del positivismo ottocentesco, un percorso di avvicinamento sui generis al divino, cercando cioè sempre di sfuggire al solipsismo moderno e mediando, per così dire, tra le ‘ragioni del cuore’ e quelle del ‘raziocinio’, tra Dio e il libero arbitrio, tra le istanze del suo presente e il retaggio biografico (la figura del padre e la formazione in quanto scienziato a Lipsia e Napoli negli Anni Venti). Questo avvicinamento si realizza, dunque, non come il ‘salto nel buio’ di un’incondizionata adesione alla fede rivelata, ma deve semmai sempre essere mediato dalla conoscenza; mediato dunque per eccellenza, come visto, dalla lettura ed esegesi dei testi sacri. Ecco perché egli afferma: «Così avviene anche che il mio modo di arrivare alla teologia passi attraverso la conoscenza. Io devo convincermi di Dio prima di credere in lui. Cioè devo ripercorrere la medesima strada, nel ritorno, che ho percorso quando l’ho abbandonata.»91. Ciò detto, è attraverso l’ausilio della preghiera – la «preghiera come sola via di salvezza»92 – oltre che della scrittura intesa come una comunicazione con il divino e ‘decifrazione’ di quel superiore mistero rappresentato con immediata evidenza nel campo dell’arte dai quadri e in genere dalla pittura, che, dalla fase distruttiva dell’automatismo tecnico, si potrà secondo l’autore ricominciare a ricostruire su più solide basi il futuro, all’inter-

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IrrC, pp. 235-236 (02.01.1947). IrrB, p. 294 (18.07.1943). Sullo stesso tema: cfr. IrrB, pp. 127 (10.09.1942); 486 (23.12.1944). IrrB, p. 139 (02.10.1942). Cfr. anche IrrB, pp. 319 (28.08.1943); 451 (29.08.1944); 461 (01.11.1944).

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no di una rinnovata visione organica del mondo. Un mondo, a sua volta, dominato da quel puro essere come totalità, in cui l’autore, dopo essere passato attraverso l’esperienza, privata93 e pubblica94, del dolore e della morte95, identifica il vertice della sua ricerca interiore: «Pensiero: passato e futuro sono due specchi: tra essi riluce, impenetrabile ai nostri occhi, il presente, che solo è reale, come centro del tempo. Nel morire però tutto si cambia: gli specchi cominciano a offuscarsi e sempre più puro si fa avanti il presente, fino a che, nell’attimo della morte, si fa uno con l’eternità. La vita divina è il presente eterno. E vita è soltanto là dove qualche cosa di divino è presente»96.

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Come nel caso della morte del figlio Ernstel (1926-1944), morto poco tempo prima a Carrara, le cui immagini sono copia, sedimentata dal tempo, delle «irradiazioni» della sostanza dell’essere umano in quanto tale. Cfr. IrrB, p. 498 (24.01.1945): «Spesso in questi giorni ho guardato le fotografie di Ernstel, riflettendo sulla fotografia, che non può mai competere con un buon quadro, nel campo del quale l’arte regna e dove idee e consapevolezza sono dominanti. Però alle fotografie appartiene un’altra, più oscura qualità: esse sono propriamente ombre. Riproducono qualcosa della sostanza dell’uomo, delle sue irradiazioni; ne sono una copia. In questo senso vi è tra fotografia e scrittura un intimo legame. Quando vogliamo ricordare, sfogliamo lettere e fotografie. Ottima è allora la compagnia del vino». Sul ‘sacrificio’ della morte del figlio Ernstel, inscritta all’interno di un superiore disegno divino: cfr. sopratutto IrrB, pp. 495 (12.01.1945); 496 (14.01.1945); 512 (15.03.1945). Sulla superiorità dei dipinti rispetto alla fotografia, cfr. IrrB, p. 254 (27.04.1943). Cfr. IrrB, pp. 29-31 (29.05.1941). Vissuta come mistica totalità: cfr. IrrB, pp. 76 (22.02.1942); 78 (23.02.1942); 85 (10.03.1942); 102 (02.07.1942); 103 (07.07.1942); 107 (19.07.1942); 114 (02.08.1942); 146-147 (14.10.1942); 230 (21.03.1943). IrrB, p. 261 (05.05.1943).

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MARIO BOSINCU

IL RITIRO NELLA SELVA DEL SÉ. UNA LETTURA DEL TRATTATO DEL RIBELLE Salvatico è quel che si salva1. Leonardo Da Vinci

1. La via della salamandra In Der Untergang des Abendlandes (1918-1922) Spengler osserva che due temi centrali di Also sprach Zarathustra (1883-1885) sono «il dolore di vedere un’umanità che non è quella che si desidererebbe, come pure lo zelo, affatto non-antico, di consacrare la propria vita per trasformarla»2. Nei termini della «storia della soggettività»3 delineata da Foucault si potrebbe perciò affermare che nell’opera di Nietzsche emerge secondo Spengler il passaggio dalla cura sui4 antica al moderno progetto pastorale secolarizzato di riplasmare l’umanità tutta5. Non a caso, qualche pagina più avanti, Spengler scrive che «ogni etica antica che ci è dato concepire intese a formare l’individuo singolo immobile, concepito come corpo fra i

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Leonardo da Vinci, Leonardo prosatore. Scelta di scritti vinciani, Società Editrice Dante Alighieri, Milano-Roma-Napoli 1915, p. 334 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, tr. it. di J. Evola, rivista da F. Jesi, Guanda, Parma 1991, pp. 510-511. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (19811982), tr. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 13. La cura di sé consisteva «nelle azioni esercitate da sé su di sé, quelle attraverso le quali ci si fa carico di sé, quelle per mezzo delle quali ci si modifica, ci si purifica, ci si trasforma» (ibidem). «Si può dire senza dubbio […] che il pastorato inizia con un processo preciso che è assolutamente unico nella storia e di cui senza dubbio non si trova alcun altro esempio in nessun altra civiltà: un processo tramite il quale una religione, una comunità religiosa si costituisce in una chiesa, ossia in una istituzione che avanza la pretesa di governare gli uomini nella loro vita quotidiana col pretesto di guidarli verso la vita eterna dell’altro mondo, e questo avviene non solo in relazione ad un gruppo determinato, ad una città o uno Stato, ma all’intera umanità» (M. Foucault, Sicherheit, Territorium, Bevölkerung. Geschichte der Gouvernementalität I., Suhrkamp, Frankfurt a. Main 2004, p. 218).

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corpi»6, laddove il «monoteismo etico»7 moderno, tipico, per esempio, del socialismo, non concentra i suoi sforzi sull’Io, come si proponeva di fare Epicuro alla ricerca dell’apatheia, ma mira a «riformare l’umanità»8. La filosofia dell’epoca ellenistica era dunque contraddistinta da un movimento di «introversione»9 [Innenwendung] poiché, nella forma della «psicagogia»10 [Seelenleitung], aspirava ad incidere sulla forma d’esistenza del singolo insegnandogli «atti psico-ascetici»11 o, per usare l’espressione di Hadot, esercizi spirituali12, ed a promuovere così un preciso lavoro del sé su di sé. In questo senso, scrive Rabbow, «ci troviamo di fronte ad un fenomeno storico che fu ed è di enorme significato per la formazione dell’umanità antica, cristiana e moderna»13. Non sembra tuttavia possibile accettare la tesi spengleriana della scomparsa dell’antica «etica di sé»14 in epoca moderna. Foucault riteneva che un leitmotiv del pensiero del XIX secolo fosse stato proprio il tentativo di ripristinare una simile etica15, e si può aggiungere che non sono mancati tentativi di fare tesoro dell’eredità costituita dalle antiche tecnologie del sé. Nel 1881 lo stesso Nietzsche definì le scuole filosofiche dell’antichità le «sedi di esperimenti, in cui una serie di espedienti della saggezza di vita [Kunstgriffe der 6 7 8 9 10 11 12

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O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, cit., p. 519. Ivi, p. 511. Ivi, p. 510. P. Rabbow, Seelenführung. Methodik der Exerzitien in der Antike, Kösel Verlag, München 1954, p. 17. Ivi, p. 16. Ivi, p. 15. «Designo con questo concetto pratiche che possono essere di carattere corporeo, come il modo di alimentarsi, discorsivo, come il dialogo e la meditazione, o intuitivo, come la contemplazione, e che mirano tutte ad operare una modificazione e trasformazione nel soggetto» (P. Hadot, Wege zur Weisheit oder Was lehrt uns die antike Philosophie?, Eichborn Verlag, Frankfurt am Main 1999, p. 20). Influenzato da Hadot, Foucault chiama tecnologie del sé le tecniche «che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima – dai pensieri, al comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità» (M. Foucault, Tecnologie del sé (1982), in Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, tr. it. di S. Marchignoli, a cura di L. Martin, H. Gutman, P. H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 13). P. Rabbow, Seelenführung, cit., p. 16. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (19811982), cit., p. 221. Ibidem.

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Lebensklugheit] fu messa scrupolosamente in atto e pensata sino in fondo»: un’eredità, questa, da non smarrire, dato che «tutte le loro esperienze ci appartengono»16 e che ci è dato appropriarci sia delle strategie stoiche che di quelle epicuree. Lo stoicismo, per esempio, ha mostrato come l’uomo sia in grado di dotarsi di «una pelle più coriacea»17. Del resto, secondo María Zambrano, molti spiriti turbati dai cataclismi del XX secolo fecero appello proprio alla lezione etica degli stoici, come se «un palinsesto celato al di sotto della nostra angoscia»18 si fosse improvvisamente rivelato al loro sguardo19. Uno di questi uomini fu Ernst Jünger. Il suo breve trattato intitolato Der Waldgang20 (1951) rientra infatti a pieno titolo in quella «strategia e tattica del comportamento nelle posizioni perdute»21 tipica, secondo Schwarz, delle riflessioni sviluppate nel periodo compreso tra la Seconda Guerra Mondiale e gli anni ad essa successivi ed alimentate dal confronto con la tradizione stoica. Certo, l’esperienza del primo conflitto aveva già rappresentato uno spartiacque sul piano esistenziale. Come si legge nell’introduzione ad un volume collettaneo intitolato Sul pericolo (Einleitung: Über die Gefahr, 1931), «la guerra mondiale fa l’effetto di un grande segno rosso tracciato per chiudere l’era borghese»22 perché «tra i segni dell’epoca di cui abbiamo varcato la soglia rientra una maggiore irruzione del pericolo nello spazio vitale»23. Di qui la necessità di riforgiare se stessi in una nuova forma antropologica, poi16 17 18 19

20 21 22 23

F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1880–1882, in SW9, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1988, pp. 654–655. Ivi, p. 655. M. Zambrano, Seneca. Con i suoi testi scelti dall’autrice, tr. it. di C. Marseguerra, Mondadori, Milano 1998, p. 4. Secondo Frank Pauly «molti autori del XX secolo mostrano una notevole affinità con la Stoa e ne evocano il patrimonio intellettuale quale risorsa per orientarsi nelle epoche buie della minacciosa perdita di senso» (F. Pauly, Vom Überleben in heillosen Zeiten. Stoizismus in der Weltliteratur vom Fin de siècle bis zur Gegenwart, in B. Neymeyr, J. Schmidt, B. Zimmermann, Stoizismus in der europäischen Philosophie, Literatur, Kunst und Politik, Bd. 2, Walter de Gruyter, Berlin-New York 2008, p. 1203). E. Jünger, Der Waldgang (1951), in SW7; tr. it. di F. Bovoli, Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano 1990. H.-P. Schwarz, Der konservative Anarchist. Politik und Zeitkritik Ernst Jüngers, Rombach & Co, Freiburg im Breisgau 1962, p. 138. E. Jünger, Einleitung: Über die Gefahr, in Politische Publizistik 1919-1933, Klett-Cotta, Stuttgart 2001; tr. it. di A. Iadicicco, Introduzione: del pericolo, in Scritti politici e di guerra 1929–1933, vol. III, LEG, Gorizia 2005, p. 226. Ivi, p. 223. Lo stesso Jaspers parlò dell’«atmosfera del pericolo» [Stimmung der Gefahr] quale tratto distintivo del suo tempo. Cfr. K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1998, p. 15.

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ché nel nuovo rischioso scenario potranno muoversi solo coloro che sono passati «attraverso la scuola del pericolo come una salamandra»24, ossia che si sono adeguatamente temprati. Non sorprende, quindi, il riemergere di quest’ultima immagine in Strahlungen (1949). Riflettendo sulla ricezione di Der Arbeiter (1932) Jünger osserva il 30 aprile 1943: Rappresenta per me la mia presa di posizione di fronte al mondo della tecnica. Vi sono passato attraverso come nel mezzo di violente battaglie, e in questo senso il libro dà un esempio della impossibilità di staccarsi da questo mondo. Vi è, in questo, una sola strada, quella della salamandra, che attraversa le fiamme. Dobbiamo pagare lo scotto25.

Nel Trattato del Ribelle tale via è teorizzata nel quadro dell’esposizione delle strategie esistenziali necessarie per far fronte alle minacce del mondo sorto sulle rovine della guerra, ma non per questo meno pericoloso. «Come si comporta l’uomo di fronte e in mezzo alla catastrofe? È questo il tema che diventa ogni giorno più assillante»26, si chiede infatti Jünger. E più avanti precisa meglio il tema del suo scritto: «gli argomenti che ci premono sono […] i pericoli che corre il singolo, e la sua paura»27. Essa è strettamente legata ad una visione terrifica tipica dello «stile che l’angoscia cosmica adotta oggi»28: la tecnica rivelatasi mortifera già in un episodio paradigmatico avvenuto nel cuore della belle époque ebbra dei sogni del progresso: Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic. Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l’aspetto di un incidente stradale. È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore29.

Affiorano così due temi strettamente legati e formulati insieme in un quesito centrale: «è possibile attenuare il terrore […] e conservare la nostra 24 25 26 27 28 29

E. Jünger, Introduzione: del pericolo, cit., p. 226. E. Jünger, Strahlungen, Heliopolis-Verlag, Tübingen 1949; tr. it. Irradiazioni. Diario 1941-1945, tr. it. di H. Furst, Guanda, Parma 1993, p. 256. E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 57. Ivi, p. 68. Ivi, p. 46. Ivi, p. 45.

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autonomia di decisione – ossia non soltanto preservare, ma addirittura rafforzare le radici che ancora affondano nel suolo originario?30» In altre parole per Jünger si tratta di elaborare una psicagogia che permetta di recuperare la sovranità su se stessi, la libertà di decidere di lavorare su stessi per vincere la paura della tecnica: la libertà per l’askēsis31. In questo senso il Trattato del Ribelle va collocato nel più ampio contesto della teoria di un’«ontologia della contro-paura»32, indicata da Nebel come «il complesso di atti tramite i quali ci si apre un varco oltre la paura o la si supera»33. Sviluppando le sue riflessioni sulla ‘via della salamandra’ Jünger osserva inoltre che «le catastrofi portano alla ribalta figure che si dimostrano capaci di tenere loro testa» e che una di esse è quella del Lavoratore, che «ancora rifulge nella luce incerta dei Titani»34 e che appare come il vessillifero della volontà di potenza estesa a tutto il pianeta tramite la tecnica. Accanto ad essa emergono altre due figure: il «Milite Ignoto, il Senza Nome», degno «discendente della cavalleria occidentale»35, ed il «Ribelle» [Waldgänger]: Chiamiamo […] Ribelle chi nel corso degli eventi si è trovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all’annientamento. Ma questo potrebbe essere il destino di molti, forse di tutti – perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione: il Ribelle è deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo 30 31

32 33 34

35

Ivi, p. 46. Come ha chiarito Foucault, l’askēsis greco-romana non va identificata con una «morale della rinuncia», ma con un «esercizio di sé su di sé, attraverso cui si cerca di elaborare se stessi, di trasformarsi e di accedere a un certo modo di essere» (M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà (1984), in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), tr. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998, p. 274). G. Nebel, Ernst Jünger. Abenteuer des Geistes, Marées-Verlag, Wuppertal 1949, p. 67. Ivi, p. 66. E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 35. Ancora nel 1995 Jünger espresse tale convinzione: «Con il ventunesimo secolo noi entreremo in una nuova era dei Titani che sarà caratterizzata dallo sprigionamento di un’immane quantità di energia. Penso in primo luogo all’energia atomica. Ma anche a quanta energia sarà necessario produrre per soddisfare i bisogni di una popolazione mondiale in crescita costante. Il pianeta sarà sottoposto ad una accelerazione a cui l’umanità dovrà adeguarsi trasformando se stessa. Il vecchio dovrà cedere il posto al nuovo. Ecco perché il Lavoratore rimarrà la forma d’uomo adeguata alla nuova realtà» (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 105). Del resto già nell’intervista concessa a Moravia nel 1983 dichiarò che «Nietzsche esige un Tipo all’altezza di essa» [della catastrofe, M.B.] (E. Jünger, Siebzig Verweht III, in SW20, Klett-Cotta, Stuttgart 2000, p. 281). E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., pp. 35-36.

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rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo36.

Il Ribelle è dunque la forma umana che si costituisce mediante la decisione37 di resistere alla modernità tecnologica e, di conseguenza, di lavorare su di sé operando su di sé «esperimenti temerari»38 assimilabili a quelli compiuti, secondo Nietzsche, dai seguaci delle scuole filosofiche antiche. Il primo passo è rappresentato dall’appello alle risorse spirituali del passato. La «riflessione» si traduce infatti nel «riconoscimento che i valori correnti sono ormai inadeguati» ai fini della «resistenza» alle sfide del presente, che richiede, pertanto, il «ricordo» e con esso il «riferimento ai Padri e alle loro gerarchie più vicine alle origini» con l’obiettivo di una «restaurazione conservativa»39. Tale dinamica può essere accostata al concetto nietzschiano della rivalutazione ‘monumentale’ della storia. Nella seconda Unzeitgemäße Betrachtung: Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben (1874) Nietzsche introduce infatti l’idea del bisogno della storia, nella convinzione che essa serva «per vivere e per agire»40, ossia per soddisfare alcuni bisogni esistenziali e per disporre di punti di riferimento per poter operare nel mondo. Questa «considerazione monumentale del passato»41 [monumentalische Betrachtung der Vergangenheit] si concretizza perciò nella ricerca di quanto può essere utile nel presente, poiché, «la storia appartiene soprattutto a colui che è attivo e potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha necessità di modelli, insegnanti, consolatori e che non riesce a trovarli tra i suoi contemporanei e nel presente»42. Non potrebbe esserci una descrizione migliore del Ribelle che, nella forma dell’«indi-

36 37

38 39 40 41 42

Ivi, pp. 41-42. Sul pathos esistenzialistico del tema jüngeriano della decisione cfr. questo passo del Trattato del Ribelle: «Quanto al crimine, esso rappresenta, accanto alla scelta morale autonoma, la seconda via che si può percorrere per conservare la sovranità in mezzo al disfacimento, allo sgretolamento nichilistico dell’essere. Lo hanno capito bene gli esistenzialisti francesi. Il crimine non ha nulla in comune con il nichilismo, anzi rappresenta il rifugio di chi vuole scampare all’erosione nichilistica che ha intaccato la coscienza di sé, al deserto che essa crea» (ivi, p. 117). Ivi, p. 42. Ivi, p. 55. F. Nietzsche, Unzeitgemäße Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben, in SW1, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1988, p. 245. Ivi, p. 260. Ivi, p. 258.

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viduo assediato» ed in conflitto col «mondo della collettività tecnica»43, consapevole dell’inefficacia delle risorse spirituali del presente, «nel mezzo dei labirinti […] scruta le stelle»44 e cerca punti di riferimento nel passato. «Ci sono opere che appena oggi siamo in grado di leggere», scrive Jünger nella prefazione ad Irradiazioni, perché «somigliano a quelle pagine le cui parole si possono decifrare soltanto alla luce del fuoco»45: per lo scrittore e pensatore tedesco questo ‘testo’ da rileggere e ripensare fu rappresentato dalla tradizione antica delle tecnologie del sé. 2. Il passaggio al bosco Entro questa prospettiva si comprende perché Jünger parli esplicitamente di un «esercizio spirituale» richiesto dall’età della tecnica e consistente nell’«avere davanti agli occhi la catastrofe, e il modo in cui potremmo esservi coinvolti» al fine di «mitigare la paura – primo importante passo verso la sicurezza»46. Il Ribelle deve quindi ricorrere all’antico esercizio della praemeditatio malorum adattato alle catastrofi incombenti sul mondo postbellico e teorizzato dai filosofi antichi quale strumento offerto al singolo affinché questi immaginasse «nei momenti di felicità le vicissitudini e le avversità della vita» allo scopo di «prevenire la perdita dell’equilibrio interiore nel caso in cui esse avessero fatto la loro comparsa»47. Nello stesso spirito Jünger consiglia di «non perdere mai di vista il necessario» per «non smarrirsi […] nel mondo delle illusioni»48 ed aggiunge: 43 44 45 46 47

48

E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., pp. 42-43. Ivi, p. 44. E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 4. E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 57. P. Rabbow, Seelenführung, cit., p. 160. Cicerone osservò a questo proposito: «Perciò il riflettere in anticipo sui mali che verranno rende meno doloroso il loro arrivo, perché la loro venuta è stata prevista molto tempo prima. […] Dunque almeno un punto è indubbio, che tutto ciò che si considera male è più grave se imprevisto. Ne consegue che, pur non essendo questo l’unico aspetto che procura la massima afflizione, tuttavia, se la previsione e la preparazione dello spirito contribuiscono molto a diminuire il dolore, gli uomini dovrebbero meditare sempre su tutti gli eventi umani. E senza dubbio proprio in questo consiste la sapienza superiore e divina: raggiungere, attraverso un’indagine rigorosa, la conoscenza approfondita delle vicende umane, non meravigliarsi di nessun evento quando accade e, prima che avvenga, credere che non c’è nulla che non possa avvenire» (Cicerone, Tuscolane, tr. it. di L. Zuccoli Clerici, BUR, Milano 1996, p. 295. E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 64.

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«per diminuire la paura basta che l’uomo sappia in anticipo quale parte gli spetta in caso di catastrofe. È necessario esercitarsi in vista della catastrofe, così come prima di ogni traversata si prova il naufragio»49. In questo modo sarà possibile «accumulare una riserva di sicurezza»50, parte integrante del bosco: «il secondo regno è il porto, il paese natio, la pace e la sicurezza che ciascuno porta dentro di sé. Noi lo chiamiamo bosco»51. Risulta perciò chiaro il senso di questa precisazione: «il passaggio al bosco [Waldgang] non va inteso come una forma di anarchismo rivolto contro il mondo delle macchine»52. ‘Passare al bosco’ significa infatti praticare una forma moderna di askēsis per inoltrarsi in quella selva interiore53 in cui è dato conquistare la sicurezza, un concetto, questo, tratto dalla tradizione stoica, in cui designava «l’essere libero dalle passioni suscitate dalla convinzione ingiustificata della presenza di determinati mali»54. Non a caso Seneca scrisse a Lucilio (ep. XXIV, 2):

49

50 51 52 53

54

Ivi, p. 108. Sui naufragi quali paradigma dell’avvenimento imprevisto e catastrofico per eccellenza cfr. il seguente passo dei diari: «Avanti con i Naufragi. Nel corso della lettura mi si sono presentati alcuni pensieri di carattere generale. Così la nave rappresenta l’ordine, lo stato, lo status; nel naufragio si dissolvono col fasciame anche questi legami. Le relazioni umane cadono su un piano elementare; divengono di natura fisica, zoologica o cannibalesca» (E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 498). E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 67. Ivi, pp. 53-54. Ivi, p. 60. Sul bosco quale dimensione interiore cfr. questo passo: «Socrate chiamava il suo demone questo luogo segreto da dove una voce, che era già al di là delle parole, lo consigliava e lo guidava. Potremmo chiamarlo anche il bosco» (ivi, p. 79). Ancora più significativo questo brano: «Il bosco è segreto. Heimlich, segreto, è una di quelle parole della lingua tedesca che racchiudono in sé anche il proprio contrario. Segreto è l’intimo, ben protetto focolare, baluardo di sicurezza. Ma nello stesso tempo è anche ciò che è clandestino, assai prossimo in quest’accezione all’Unheimliche, l’inquietante, il perturbante. Quando ci imbattiamo in radici simili a questa, possiamo essere certi che vi risuona un’eco della grande antitesi e dell’equazione ancora più grande di vita e morte, alla cui soluzione si dedicano i misteri» (ivi, p. 73). In Zahlen und Götter (1974) si leggono, inoltre queste parole: «Eppure la tristezza resta nel bel mezzo delle immani collettività e delle loro opera titanica. Avere a che fare con esse è fonte di pericolo; d’altra parte è impossibile sottrarvisi. Come sia possibile vivere in esse ed insieme, tuttavia, nel bosco: questo è uno dei problemi che si pone ad ognuno» (E. Jünger, Zahlen und Götter, in SW13, Klett-Cotta, Stuttgart 1981, pp. 324-325). I. Hadot, Seneca und die griechisch-römische Tradition der Seelenleitung, Walter de Gruyter, Berlin 1969, p. 128.

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Ma io voglio condurti alla tranquillità [securitatem] per un’altra via: se vuoi liberarti da ogni preoccupazione, pensa che accadrà in ogni caso ciò che temi, e, qualunque sia quel male, misuralo con te stesso e valuta il tuo timore: comprenderai certamente che ciò che temi o non è grave o è di breve durata55.

A ragione, dunque, Schwarz ha definito il Trattato del Ribelle un «breviario filosofico» consistente in «una serie di vecchie ricette di provenienza stoica»56, ma è doveroso aggiungere che queste ‘ricette’ altro non sono che esercizi spirituali stoici riattualizzati nel contesto di una moderna etica di sé. Si comprende allora l’insistenza da parte di Jünger sulla funzione centrale dell’interiorità. Nelle sue riflessioni giocano un ruolo decisivo l’«animo di ciascun individuo»57 come pure il momento in cui «l’uomo […] cerca consiglio in se stesso»58 e «l’immagine dell’uomo che incontra se stesso»59. Sono tutte espressioni tipiche del «linguaggio dell’interiorità»60 inventato principalmente da Seneca, secondo Alfonso Traina, ed articolato, come ha osservato Foucault, in una serie di espressioni volte a chiarire la dinamica della cura di sé. Un linguaggio che, tuttavia, essendo riproposto in una temperie del tutto moderna, è di fatto risemantizzato. A dimostrazione di ciò prendiamo in esame un passo centrale del Trattato del Ribelle: Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto di55

56 57 58 59 60

L.A. Seneca, Lettere a Lucilio, in Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, tr. it. e cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 733-734. Nella novantaduesima lettera Seneca osserva, inoltre: «Che cos’è la felicità? Sicurezza e tranquillità duratura, che ci sarà data dalla grandezza d’animo e dalla continuità dei buoni propositi» (ivi, p. 905). Quanto a Cicerone, nel suo trattato Sui doveri si legge: «Quelli poi che si dedicano alla vita politica, non meno che i filosofi, e forse più, devono essere forti d’animo ed avere disprezzo per le cose umane, e sicurezza e tranquillità, se vogliono non essere ansiosi per l’avvenire e vivere con fermezza e costanza» (M. T. Cicerone, I doveri, tr. it. di A. Resta Barile, BUR, Milano 1998, p. 139). H.-P. Schwarz, Der konservative Anarchist, cit., p. 141. E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 28. Ivi, p. 49. Ivi, p. 95. «Comunque sia, il linguaggio dell’interiorità, che è forse il maggior contributo di Seneca alla terminologia filosofica dell’occidente, confluisce soprattutto per tramite di Agostino nell’esperienza cristiana: noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat ueritas» (A. Traina, Lo stile ‘drammatico’ del filosofo Seneca, Pàtron, Bologna 1995, pp. 21–22).

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venta semplice. Abbiamo visto che la grande esperienza del bosco è l’incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l’essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Anche sul piano morale, questo incontro così importante sia nel guarire sia nel fugare la paura ha un valore altissimo. Porta verso quello strato sul quale poggia l’intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a ogni comunità. E verso quell’essere umano che costituisce il fondamento di ogni elemento individuale e da cui s’irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza: qui c’è l’identità. È questo che si profila nel simbolo dell’abbraccio. L’io si riconosce nell’altro – secondo la formula antichissima: «Tu sei quello!». L’altro può essere la persona amata, e anche il fratello, il dolente, lo sprovveduto. L’io che gli porge aiuto s’innalza nell’imperituro. Qui si consolida la struttura che è a fondamento del mondo61.

Occorre sottolineare, prima di tutto, che il Ribelle, alla luce di quanto è stato già detto, è una versione moderna della figura ascetica antica rappresentata da colui che ‘si volge’ e ‘rientra’ in se stesso62 per fare appello a risorse spirituali introiettate, ossia a tecnologie del sé apprese e fatte proprie, quali, per esempio, l’esercizio della praemeditatio malorum. Proprio il nuovo carattere assunto da tale ritiro [anakhōrēsis] in se stesso merita però la massima attenzione. Come ha chiarito Rabbow, «l’antico esercizio del ritiro consiste nel richiamare alla mente e nel prestare ascolto ai pensieri che possono essere d’aiuto per ritirarsi dalla vita nel mondo nella sfera etica e rinnovare la vita interiore»63. In questo senso il ritiro è «un esercizio di anacoresi intramondana»64 nella «solitudine della propria anima» [die Abgeschiedenheit der eigenen Seele], in cui è dato ritrovare «i pensieri che possono fornire soccorso [Hilfsgedanken] spesso sperimentati e di continuo messi in atto; […] oppure i modelli di eroi etici; o i principi centrali della dottrina»65 nel corso di un processo di Selbstverinnerlichung66 in cui si manifesta «il senso duale dell’essere col quale l’uomo di Epicuro, l’uomo della Stoa […] risiedono nel ‘mondo’: avviluppati nell’intrico della vita, e tuttavia […] sempre al di sopra di essa, volti verso la verità e la libertà di un mondo superiore»67. Questa tecnologia del sé ebbe molta fortuna anche nella tradizione ascetica cristiana, come è dimostrato dalla sua co61 62 63 64 65 66 67

E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., pp. 114-115. Per questa serie di espressioni usate nell’antichità per caratterizzare la cura sui cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (19811982), cit., pp. 75-76. P. Rabbow, Seelenführung, cit., p. 100. Ivi, p. 92. Ivi, p. 93. Ivi, p. 13. Ivi, p. 99.

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dificazione quale elemento costitutivo dell’itinerario spirituale proposto da S. Francesco di Sales nella sua Introduzione alla vita devota (1609), un vero e proprio ‘manuale’ in cui sono illustrate le «pratiche di vita» cui dedicarsi per conquistare quella devozione indicata come «l’amore reso capace dalla Grazia divina di compiere il bene attentamente, frequentemente e prontamente»68. Più precisamente S. Francesco di Sales esorta il suo lettore a rinnovare la sua vita spirituale con queste parole: «Ritirati quindi, di tanto in tanto, nel tuo cuore, dove, separato da tutti gli uomini, potrai parlare con familiarità con Dio della tua anima e della tua salvezza e dirai con Davide: Ho vegliato e sono stato simile al pellicano nella solitudine», proprio come era solita fare S. Caterina, a cui Dio suggerì di «farsi un piccolo oratorio spirituale nella propria anima, nel quale, ritirandosi mentalmente, pur in mezzo a tutte le occupazioni quotidiane, poteva dedicarsi a questa santa solitudine mentale» e, chiusasi «nella sua cameretta interiore», restare in compagnia «del suo celeste sposo»69. Proprio il confronto con la tecnica della solitudine70 cristiana del ritiro in se stessi consente di far luce sugli aspetti moderni dell’askēsis jüngeriana. Il Ribelle vive infatti nel mondo sdivinizzato in cui è in atto un processo nichilistico di secolarizzazione71 i cui sintomi sono analizzati in Über die Linie (1950), in cui si legge che un suo «tratto fondamentale» è quello della «riduzione», sicché si può dire che «il mondo nichilistico è per sua essenza un mondo ridotto e che sempre più si va riducendo»72. Tale riduzione può essere «spaziale, spirituale, psichica» ed è percepita sempre come uno «svanimento»73. Questa diagnosi è ripresa con accenti di maggiore desolazione nel Trattato del Ribelle, in cui Jünger sottolinea «il grigiore e il senso di disperazione» dell’uomo moderno, irretito nel processo di svanimento e smarrito in «un mondo di larve umane come quello che 68 69 70 71

72 73

AA.VV., Christian Spirituality. The Classics, Routledge, London-New York 2010, p. 236. St. Francis de Sales, An Introduction to the Devout Life, M. H. Gill and Son, Dublin 1885, p. 65. Cfr. per questa espressione T. Macho, Mit sich allein. Einsamkeit als Kulturtechnik, in AA.VV., Einsamkeit. Archäologie der literarischen Kommunikation VI, a cura di A. e J. Assmann, Wilhelm Fink, München 2000, p. 28. Da intendere, seguendo la diagnosi di Voegelin, come una rottura totale col Sacro in nome della rivendicazione di un’autonomia assoluta da parte dell’uomo. Cfr. E. Voegelin, Die Krise. Zur Pathologie des modernen Geistes, Wilhelm Fink, München 2008, p. 29. E. Jünger, Über die Linie (1950), in SW7; tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, Oltre la linea, Adelphi, Milano 1998, p. 74. Ibidem.

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Kafka ha descritto nei suoi romanzi»74. A quest’uomo, dunque, non è dato ritirarsi nei penetrali dell’anima per entrare in contatto con Dio, ma, come il saggio idealizzato dalla filosofia antica, raccogliersi nella solitudine di un Io depositario di strumenti spirituali ed insieme, tuttavia, connotato modernamente in senso individuale. La «grande esperienza del bosco», scrive infatti Jünger, «è l’incontro con il proprio io», il che dimostra come l’ascetica jüngeriana si situi pienamente nel contesto della moderna «rivoluzione espressivistica»75, per usare un concetto coniato da Charles Taylor. Nel suo studio sulla genesi della concezione moderna della soggettività questi ha osservato che il sorgere alla fine del XVIII secolo dell’idea della natura peculiare di ogni individuo ebbe come conseguenza la nascita dell’imperativo che imponeva di essere fedele ad essa e di conferirle la massima espressione76. Fedele a tale monito, Jünger fa dunque del ritiro in se stessi la via d’accesso a quel sé individuale, unico ed irripetibile al quale in Der Arbeiter (1932) aveva contrapposto la maschera rigida e stereotipata del Lavoratore deprecando ogni lamento ulteriore sulla «perdita dell’individualità»77. Siamo dunque lontanissimi dall’esaltazione cristiana sia della solitudine orante in presenza di Dio sia dell’alienazione euforica nelle sue profondità. «La mistica», ha scritto Emil Cioran, «oscilla tra la passione dell’estasi e l’orrore del vuoto»; entrambi gli stati «presuppongono un’ardua volontà di fare tabula rasa», poiché «l’anima […] si innalza fino alla cancellazione totale» finché la «coscienza spossessata di tutte le immagini» vive nell’estasi un’«invasione di essere nell’assenza assoluta»78. La conclusione tratta da Cioran circa la situazione dell’uomo moderno è lapidaria e feroce: «A che pro disfarsi di Dio per ricadere in se stessi? A che pro questa sostituzione di carogne?79» Il testo di Jünger documenta pertanto quale effetto del processo della secolarizzazione ed insieme della rivoluzione espressivistica proprio questo subentrare a Dio dell’Io individuale quale unico interlocutore della propria solitudine. Nel segno del moderno individualismo, del resto, si colloca anche la rilettura

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E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 91. C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it. di R. Rini, Feltrinelli, Milano 1993, p. 474. Ivi, p. 375. E. Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (1932), in SW8; tr. it. di Q. Principe, L’Operaio. Dominio e Forma, Guanda, Parma 1991, p. 135. E. M. Cioran, Lacrime e santi, tr. it. di D. Grange Fiori, Adelphi, Milano 1990, p. 45. E. M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, tr. it. di C. Rognoni, Adelphi, Milano 1993, p. 73.

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del detto di Biante80 (omnia mecum porto mea) e della concezione eraclitea del daimon che identifica i beni interiori inalienabili con la propria individualità: Ciascuno, nel compilare il proprio inventario, dovrà stabilire quali sono le cose che non meritano alcun sacrificio e per quali altre vale invece la pena di lottare. Sono questi i beni inalienabili, la proprietà vera. O anche i beni che ci si porta sempre appresso, secondo l’esempio di Biante. Ovvero, come dice Eraclito, quelli che fanno parte della natura profonda dell’uomo, in quanto costituiscono il suo demone81.

Risulta perciò evidente che uno degli aspetti più significativi della Wende di Jünger è la sua conversione a quella che potrebbe essere definita un’etica del sé individuale consistente nell’incoraggiare una cura sui volta a promuovere l’accesso del soggetto ad un’individualità pienamente sviluppata. La conseguenza logica di questa svolta etica è la presa di distanza dall’esaltazione dell’irregimentazione spersonalizzante proposta ne L’Operaio. In An der Zeitmauer (1959), non a caso, si leggono queste parole: «qualsiasi dottrina affermi che l’uomo “a priori” nasce per lo Stato o per la società è una falsa dottrina. L’uomo nasce per vivere il proprio destino. E procede su questa via. “Così devi essere, non puoi sfuggire a te stesso”»82. E questa svolta di pensiero culmina persino nell’esaltazione della figura dell’anarchico alimentata anche dall’ostilità allo Stato ripresa da Nietzsche83: L’anarchico non conosce tradizione né alcuna forma di distinzione. Egli non vuole che lo Stato e i suoi organi avanzino pretese su di lui o lo mettano al loro servizio; non lo si può immaginare come cittadino di uno Stato, né come mem80

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Cfr. a proposito di questo exemplum anche l’ep. IX di Seneca: «Costui [Stilpone, M.B.], dopo che la sua città fu presa, perduti i figli, perduta la moglie, uscendo solo e tuttavia felice dall’incendio generale, a Demetrio, soprannominato Poliorcete per le città che aveva distrutto, che gli domandava se avesse perduto qualcosa, rispose; “Ho con me tutti i miei beni”. Ecco un uomo forte e valoroso! “Non ho perduto nulla”: costrinse il nemico a dubitare d’aver davvero vinto. “Ho con me tutti i miei beni”: giustizia, virtù, saggezza, e la certezza che non è un bene ciò che può esserci tolto» (L.A. Seneca, Lettere a Lucilio, cit., pp. 706-707). E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 126. E. Jünger, An der Zeitmauer (1959), in SW8; tr. it. di A. La Rocca e A. Grieco, Al Muro del Tempo, Adelphi, Milano 2000, p. 62. Alla luce di queste frasi si comprende anche il senso della rivalutazione dell’astrologia: «Se l’astrologia servisse anche solo ad affinare lo sguardo nei confronti dell’insopprimibile peculiarità dell’uomo, ciò sarebbe già molto in un’epoca in cui tale peculiarità viene cancellata, occultata, degradata come non mai» (ivi, p. 35). «Nietzsche vide nello Stato il drago, il mostro dalle mille scaglie, il Leviatano di Hobbes» (ivi, p. 252).

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bro di una nazione. Le grandi istituzioni, come la chiesa, la monarchia, le classi, i ceti, gli risultano estranee e ostili; egli non è né soldato, né operaio84.

Pur sottolineando, quindi, per mezzo della formula vedica ripresa da Schopenhauer85, anche la dimensione sovrapersonale «da cui s’irradiano le individuazioni», Jünger pone l’accento sulla necessità di coltivare e preservare l’individualità minacciata dalle pressioni alienanti dell’epoca moderna, come aveva già fatto nella prefazione ad Irradiazioni: In un mondo in cui la tecnica si associa allo stato, non soltanto le divagazioni musiche e metafisiche, ma perfino la pura gioia di vivere è minacciata di confisca. Sono oltrepassati da molto i tempi in cui la proprietà si considerava un furto; oggi è un lusso anche la pretesa di essere se stessi, che Eraclito chiama il demone dell’uomo. La lotta per salvare questo, per difendere questo, è uno dei grandi, uno dei tragici temi del nostro tempo86.

Ed è singolare, a questo proposito, anche l’enfasi con cui è sostenuta la tesi della necessità dell’«aiuto del pensatore, del saggio, dell’amico, dell’amante»87 ai fini dell’individuazione. Ancora nell’opera dell’estrema vecchiaia intitolata Die Schere (1990) Jünger assegna al filosofo «il compito di rendere il singolo certo del proprio rango»88. Nel Trattato del Ribelle egli invoca proprio il maestro di questa cura sui individualistica che aiuti l’uomo ad assurgere al rango di individuo, ma soprattutto assume egli stesso tale ruolo affidando alla scrittura l’esercizio spirituale del raccoglimento nel nucleo individuale del sé ed indicando così al lettore la via dell’individuazione e dell’opposizione al livellamento. La svolta di 84 85

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E. Jünger, Der Weltstaat. Organismus und Organisation (1960), in SW7; tr. it. di A. Iadicicco, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione, Guanda, Parma 1998, pp. 74-75. Sulla ‘conversione’ all’etica schopenhaueriana della compassione durante la Seconda Guerra Mondiale si legga il seguente passo: «La vecchia cavalleria che dette nobiltà alla potenza nelle guerre napoleoniche, e perfino nella guerra mondiale, è finita per sempre. Le guerre sono dirette dai tecnici. L’uomo ha raggiunto quello stadio lungamente previsto, che Dostoevskij ha descritto in Delitto e castigo. Considera i suoi simili come pidocchi, come schifosi insetti. La sola cosa da evitare per non finire classificati anche noi tra gli insetti. Per l’uomo come per le sue vittime vale ancora l’antico terribile detto: “Questo sei tu!”» (E. Jünger, Irradiazioni, cit., pp. 198-199). Ivi, p. 11. E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 51. E. Jünger, Die Schere (1990), in SW19; tr. it. di Q. Principe, La Forbice, Guanda, Parma 1996, p. 153.

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Jünger appare dunque segnata non solo dal ritorno alla tradizione antica delle tecnologie del sé, ma soprattutto dall’assunzione del nuovo ruolo di uno scrittore-psicagogo che per mezzo di una «scrittura ethopoietica»89 fornisce ai suoi lettori gli esercizi spirituali modernizzati necessari per lavorare su se stessi e fare di sé i soggetti capaci di resistere alle sfide del loro tempo. L’etica del sé individuale svolge quindi la funzione di un’etica della resistenza ethopoietica alla modernità. Vediamo come il Ribelle si converte ad essa: «in questo mondo», osserva Jünger, «noi riconosciamo la libertà del singolo nel suo passaggio al bosco. E non si può non descrivere altresì la difficoltà, anzi il merito di essere un singolo in questo mondo»90. Per raggiungere questo scopo urge compiere una scelta: «se avere ancora un proprio destino o essere considerato un numero: è questa la decisione che oggi sta di fronte a tutti, ma che ciascuno deve prendere da solo»91, e questa decisione per l’individualità, questa decisione di profilarsi come un individuo staccandosi dalle «masse gerarchizzate»92 coincide di fatto con la scelta di ribellarsi alla coercizione livellante dello Stato: il Ribelle «diventa così l’antagonista del Leviatano, o addirittura il suo dominatore, il suo domatore»93. Per Jünger, dunque, l’individuazione e l’assunzione del ruolo di oppositore dell’«universo controllato e dominato dalla statistica»94 sono strettamente legate ed il ‘passaggio al bosco’ segna la rottura di livello esistenziale che conferisce l’accesso sia all’individualità che alla libertà.

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Nel saggio intitolato La scrittura di sé Foucault chiarisce lo scopo di questa forma antica di scrittura con queste parole: «La scrittura costituisce una tappa essenziale nel processo a cui tende tutta l’askēsis: cioè l’elaborazione dei discorsi ricevuti e riconosciuti come veri in principi razionali di azione. Come elemento della formazione di sé, la scrittura ha, per utilizzare un’espressione di Plutarco, una funzione ethopoietica: è un operatore che trasforma la verità in ethos» (M. Foucault, Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, cit., p. 204. Esemplari a questo proposito le seguenti parole di Seneca nell’ottava lettera a Lucilio: «Mi sono allontanato non tanto dagli uomini quanto piuttosto dalle cose, e soprattutto dai miei affari: mi occupo degli affari dei posteri. Scrivo cose che possano loro giovare; affido agli scritti consigli salutari, come se fossero ricette di medicine utili; ne ho sperimentato l’efficacia sulle mie ferite, che, pur non essendo completamente guarite, tuttavia hanno cessato di estendersi» (L.A. Seneca, Lettere a Lucilio, cit., p. 703). E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 29. Ivi, p. 50. Ivi, p. 30. Ivi, p. 50. Ivi, p. 26.

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3. La visione della tecnica Torniamo ora al tema della tecnica. «La grande solitudine dell’individuo è uno dei segni che contraddistinguono il nostro tempo», scrive Jünger, aggiungendo che questi «è circondato, anzi assediato dalla paura che lo stringe sempre più da presso come una parete»95. Tale paura «assume sempre la maschera, lo stile dei tempi»: L’oscura cavità dei cieli, le visioni degli eremiti, le creature larvali dei Bosch e dei Cranach, gli sciami di streghe e demoni del Medioevo sono tutti anelli dell’eterna catena di angoscia da cui l’uomo è legato come Prometeo al Caucaso96.

E soprattutto tali terrori, nella varietà delle loro forme, assomigliano sempre ad «interrogativi» cui l’uomo non può esentarsi dal «rispondere»97. Jünger traspone perciò la situazione storico-politica dell’uomo dell’epoca della Guerra fredda, dei regimi totalitari e delle democrazie di massa nella situazione esistenziale del singolo che deve rispondere alle domande con cui «gli organi del potere ci interrogano senza posa»98 ed a cui consiglia di fare proprio l’esercizio spirituale dell’apokrinesthai [“rispondere”]. Esso consisteva nell’atto mediante il quale l’uomo forniva la giusta ‘risposta’ alle «domande sofistiche» rivoltegli dalle «cose ingannevoli o dalle loro rappresentazioni»99 ricorrendo ai «principi della sua dottrina salvifica»100. Richiamandosi implicitamente a tale tecnologia del sé, Jünger descrive con queste parole la condizione esistenziale dell’uomo moderno: 95 96 97 98 99 100

Ivi, p. 80. Ivi, p. 74. Ivi, p. 80. Ivi, p. 10. P. Rabbow, Seelenführung, cit., p. 349. Ivi, p. 195. Epitteto descrive tale esercizio con queste parole: «Come ci alleniamo per far fronte alle domande sofistiche, così dovremmo allenarci ogni giorno anche nei confronti delle rappresentazioni; anch’esse, infatti, ci pongono delle domande. “È morto il figlio di Tizio.” Rispondi: non dipende dalla scelta morale, non è un male. “Il padre ha diseredato Caio. Che cosa ti sembra?” Non dipende dalla scelta morale, non è un male. “Cesare l’ha condannato.” Non dipende dalla scelta morale, non è un male. “Egli ne ha provato dolore.” Dipende dalla scelta morale, è un male. “Ha sopportato nobilmente.” Dipende dalla scelta morale, è un bene. Se ci abitueremo ad agire così, progrediremo; perché non daremo mai il nostro assenso ad altro che a ciò di cui abbiamo una rappresentazione catalettica» (Epitteto, Diatribe, in Diatribe. Manuale. Frammenti, tr. it. di C. Cassamagnago, Rusconi, Milano 1982, pp. 333-334).

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Qual è dunque la terribile domanda che il nulla pone all’uomo? È l’antico enigma della Sfinge che interroga Edipo. L’uomo è interrogato riguardo a se stesso: conosce il nome di quello strano essere che si muove attraverso il tempo? Dipende dalla sua risposta se sarà divorato o incoronato. Il nulla vuole accertarsi che l’uomo sia in grado di reggere la prova, vuole sondare se in lui vivono elementi che mai il tempo potrà distruggere101.

Anche l’uomo del nostro tempo si vede confrontato con questo interrogativo formulato dalle «cose ingannevoli», che ora, tuttavia, hanno assunto la forma dell’arsenale tecnico. «Frattanto si moltiplicano gli apparecchi», si legge infatti nel testo, e «premono da vicino […] perché all’uomo viene posta ancora una volta l’antichissima domanda»102. Nel cuore della più profonda solitudine, in netto contrasto col contemporaneo «culto della comunità»103, il Ribelle assediato deve quindi fare appello a principi metafisici o religiosi per resistere alla domanda del Nulla e ribaltare il suo rapporto di sudditanza psicologica nei confronti della tecnica privandone l’apparire della sua aura terrifica104: «se l’uomo risponde correttamente, gli apparecchi perdono ogni magico fulgore e obbediscono alla sua mano»105. 101 102 103 104

E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., pp. 83-84. Ivi, p. 84. Ibidem. Lo shock provocato dall’ostentazione delle nuove armi a fini propagandistici è descritto da Jünger in una pagina di Irradiazioni: «Durante il documentario la sala rimase illuminata, probabilmente per evitare manifestazioni. Poi furono mostrate le offensive in Africa, in Serbia e in Grecia. La sola vista dei mezzi di distruzione provocò grida di terrore. La loro automaticità: quello scivolare dei cingoli di acciaio dei carri armati, il modo nel quale i nastri di proiettili vengono divorati nel fuoco. Gli anelli, le cerniere, le strette aperture per l’osservazione, gli arti blindati, un arsenale di forme di vita che si induriscono come crostacei, tartarughe, coccodrilli e insetti, come li ha già visti Hieronymus Bosch. Da studiare: i modi per cui la propaganda finisce in terrore» (E. Jünger, Irradiazioni, cit., pp. 25-25). Anche in Oltre la linea si legge: «Con il terrore esterno gli Stati si minacciano l’un l’altro; ciò che conta per loro è produrre l’effetto della Gorgone, suscitare quel bagliore funesto che riluce dalle armi fatte balenare da lontano, o meglio, lasciate soltanto presentire. Anche qui si fa assegnamento sulla paura, la quale deve crescere fino a produrre visioni apocalittiche» (E. Jünger, Oltre la linea, cit., p. 55). 105 E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 84. Sugli «esercizi di visione jüngeriani» cfr. P. Amato, S. Gorgone, Tecnica – Lavoro – Resistenza. Studi su Ernst Jünger, Mimesis, Milano 2008, p. 134. Cfr. inoltre le seguenti considerazioni di L. Bonesio: «Portare l’uomo nella giusta posizione di fronte all’universo è dunque il compito più importante, cui le ‘contemplazioni’ di Jünger contribuiscono in modo ineguagliato nel Novecento. L’inattuale scrittura jüngeriana è la via per apprendere di nuovo lo sguardo sulle cose» (L. Bonesio, C. Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, Mimesis, Milano 2000, p. 145).

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Il conseguimento della securitas coincide quindi col ripristino della sovranità spirituale dell’uomo sulla tecnica. Emerge così una questione che attraversa in modo ossessivo gli scritti di Jünger. Questi scoprì sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale che ormai l’umanità aveva fatto il suo ingresso nell’«era titanica della tecnica»106 allorché si vide faccia a faccia con la morte in veste tecnologica. Memore della figura hegeliana del signore e del servo, osservò perciò in Feuer und Blut (1925): Qui scopre le sue carte l’epoca da cui proveniamo. Si rivela il dominio [Herrschaft] della macchina sull’uomo, del servo [Knecht] sul signore [Herr], ed emerge anche nelle battaglie un profondo conflitto che aveva iniziato a sconvolgere gli ordinamenti economici e sociali già in tempo di pace. Qui si palesa lo stile di una stirpe materialista, e la tecnica celebra un sanguinoso trionfo107.

Questo confronto con una tecnica rivelatasi onnipotente e mortifera ebbe profonde ripercussioni psicologiche. Nel saggio intitolato Über zwei Typen der Kriegshysterie (1916) Sandor Ferenczi interpretò infatti la cosiddetta ‘isteria di guerra’ come l’effetto di «una ferita dell’Io», di «una ferita dell’amore di sé»108 inferta ai soldati dalle macchine. Secondo lo psicoanalista ungherese la lotta, rivelatasi impari, con «una forza così potente» avrebbe «scosso nel modo più grave il loro amore di sé»109. Nel caso di Jünger il trauma costituito da questa ferita narcisistica si riverberò talmente in profondità da alimentare da allora lo strenuo tentativo di sanarla ripristinando il primato dell’uomo sulla macchina. Ed è proprio alla luce di questa reazione post-traumatica che è dato comprendere il significato ultimo dell’esercizio dell’apokrinesthai. Come pure delle considerazioni seguenti: Catturati nel gioco di potenti illusioni ottiche, siamo abituati a considerare l’uomo, se confrontato con le sue macchine e con l’arsenale della sua tecnica, un granello di sabbia. Ma queste illusioni sono e rimangono i fondali di una immaginazione gregaria. Come l’uomo le ha costruite così le può demolire, ovve106 E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 91. Ancora nel 1995 Jünger dichiarò: «Il vero grande motivo di interesse, per me, è stata la tecnica, la cui potenza si è manifestata in modo impressionante nella guerra mondiale del 1914-18, la prima “guerra di materiali”. Fu un conflitto profondamente diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto, perché lo scontro non fu solo fra eserciti, ma fra potenze industriali» (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, cit., p. 21). 107 E. Jünger, Feuer und Blut, in SW1, Stuttgart, Klett-Cotta 1978, p. 450. 108 S. Ferenczi, Über zwei Typen der Kriegshysterie, in Hysterien und Pathoneurosen, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Leipzig-Wien 1919, p. 77. 109 Ibidem, p. 72.

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ro le può inserire in un nuovo ordine di significati. I vincoli della tecnica si possono infrangere, e a farlo può essere proprio il singolo110.

Ancora una volta si tratta infatti di restaurare narcisisticamente la sovranità esercitata sulla tecnica dall’uomo, vera scaturigine della sua potenza: «le nuove luci, i nuovi soli sono protuberanze fuggevoli che si staccano dallo spirito, e mettono alla prova l’uomo sul suo assoluto, sul suo mirabile potere», che si rivela immensamente superiore quando questi, nel segno di un trionfo assoluto del narcisismo, «incontra di nuovo se stesso nella sua sostanza indivisibile e indistruttibile. Infrange il gioco degli specchi e si riconosce in tutta la sua potenza»111. Un’analoga strategia mentale di derealizzazione degli spauracchi tecnologici è al centro di questo passo: Nell’epoca del nichilismo, la nostra epoca, si è diffusa l’illusione ottica per cui il movimento sembra acquistare importanza a spese dell’immobilità. In realtà tutto il potere tecnico dispiegato oggi altro non è che un effimero bagliore dei tesori dell’essere. L’uomo che riesce a penetrare nelle segrete dell’essere, anche solo per un fuggevole istante, acquisterà sicurezza: l’ordine temporale non soltanto perderà il suo aspetto minaccioso, ma gli apparirà dotato di senso112.

Di nuovo si rivela preziosa la «disciplina del giudizio»113 ripresa dalla tradizione stoica e consistente nel negare l’assenso alle valutazioni non aderenti alla realtà perché condizionate da «passioni e convenzioni umane»114. In un contesto del tutto moderno, tuttavia, l’esortazione a formulare correttamente i propri giudizi si intreccia con gli sforzi di «una stirpe umana» in110 111 112 113

E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 52. E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., pp. 72-73. Ivi, pp. 57-58. P. Hadot, Die innere Burg. Anleitung zu einer Lektüre Marc Aurels, Eichborn, Frankfurt am Main 1997, p. 150. 114 P. Hadot, Philosophie als Lebensform. Antike und moderne Exerzitien der Weisheit, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main 2002, p. 88. Si legga il seguente passo di Marco Aurelio in cui è illustrato tale esercizio: «Non dire a te stesso niente di più di quello che ti annunciano le rappresentazioni immediate. Ti è stato riferito che il tale parla male di te. Ti è stato riferito questo, non che ne hai subito un danno. Vedo che il bambino è malato. Vedo questo, non vedo che il bambino è in pericolo. Così rimani sempre alle prime rappresentazioni, senza aggiungere nulla di tuo dall’interno, e non ti succederà niente; meglio: aggiungi pure, ma come chi sa riconoscere ogni singolo evento nel cosmo» (Marco Aurelio Antonino, A se stesso (pensieri), tr. it. di E. V. Maltese, Garzanti, Milano 1993, pp. 155156). In questo contesto è estremamente significativo il fatto che Jünger in Irradiazioni si richiami esplicitamente a tale tradizione: «Il mondo è opinione, dice Marco Aurelio» (E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 151).

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debolita, sul piano metafisico e teologico, «nella sua forza elementare»115, cui non resta, pertanto, che fare appello all’«idealità vuota»116 di non meglio precisate «segrete dell’essere» per ridurre la tecnica ad un suo «effimero bagliore». Jünger svela dunque al lettore le strategie necessarie per «liberare […] dal timore» l’uomo nell’occhio del «vortice»117 scatenatosi nella modernità tecnologica e sottolinea esplicitamente il carattere psicagogico della sua scrittura: «ogni autentica guida spirituale si riferisce a questa verità: sa condurre l’uomo al punto in cui egli riconosce la realtà»118 purificandone lo sguardo velato dalle illusioni.

115 Ivi, p. 294. Nel suo diario Jünger scrive queste parole emblematiche: «Il mio posto è in capo a un ponte, che si getta su una corrente oscura. L’esistenza su questo arco avanzato si fa di giorno in giorno sempre più insostenibile: il pericolo di precipitare si fa più minaccioso; a meno che dalla parte opposta non gli venga incontro, a completarlo, l’altra parte. Ma l’altra sponda è avvolta da una densa nebbia; e soltanto a tratti dall’oscurità giungono luci e suoni. Questa è la situazione teologica, psicologica politica» (ivi, pp. 411-412). 116 Quest’espressione è stata coniata da Hugo Friedrich per riferirsi all’incapacità dell’epoca moderna di credere ad una trascendenza dai contorni ben definiti, che resta quindi, quale mero oggetto di un’aspirazione perennemente frustrata, ‘vuota’. Cfr. H. Friedrich, Die Struktur der modernen Lyrik. Von der Mitte des neunzehnten bis zur Mitte des zwanzigsten Jahrhunderts, Rowohlt Taschenbuch Verlag, Hamburg 1996, pp. 48-49. Cfr. il seguente passo di Irradiazioni: «Malinconia. Il bisogno metafisico è oggi degno di particolare stima, perché tutta l’educazione sin dall’inizio tende al suo annientamento, all’estirpazione dei germogli migliori. Forse gli si rivelano anche nuovissime, ignote costellazioni, come a chi ha raggiunto la vetta, scalando una parete ritenuta insuperabile. Ci si deve col proprio sangue incollare alla roccia» (E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 478). 117 E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 48. 118 Ivi, p. 76.

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SANDRO GORGONE

LA VISIONE DELLA FORMA. PITTURA, FOTOGRAFIA E STEREOSCOPIA NELL’OPERA DI ERNST JÜNGER 1. La passione della visione È indubbio che Ernst Jünger avesse una vera e propria passione per i fenomeni visuali che lo attiravano incomparabilmente di più di ogni altra manifestazione sensoriale. I suoi scritti sono, infatti, intessuti di descrizioni e riflessioni che concernono il mondo della vista e frequenti sono le meditazioni su colori, forme ed immagini. Lo incantava quella parvenza apollinea che già Nietzsche aveva esaltato nei Greci: «Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla pelle, adorare la parvenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo della parvenza! Questi Greci erano superficiali – per profondità!»1. Si tratta in Nietzsche – come in Jünger – di una superficialità che non è da confondersi con l’apparenza illusoria, ma va intesa, piuttosto, come schermo fenomenico di trasparenza ed affioramento di una profondità complessa e stratificata che si annuncia in immagini molteplici e simbolicamente intrecciate tra loro. Tutta l’opera jüngeriana è, in effetti, attraversata dallo sforzo continuo, perseguito con implacabile rigore, di cogliere «la fisionomia e il senso di questa profonda realtà della vita»2 per mezzo di una paziente ed instancabile pratica di osservazione della parvenza esteriore, di un’analisi appassionata della «scorza del mondo accesa dai colori dell’arcobaleno, la cui vista ci commuove con ardente intensità»3. Per sondare tale profondità, Jünger impiega una vera e propria teoria ottica che egli sviluppa a partire dai concetti di “stereoscopia” e di “ottica fredda” [Optik der Kälte], la cui applicazione è rivolta soprattutto all’analisi della pittura, arte visiva per eccellenza, e della fotografia, cioè di quella ‘nuova’ arte dell’immagine che coniuga in modo emblematico tecnica e visione4. 1 2 3 4

F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1993, p. 35. E. Jünger, Das abenteuerliche Herz (1938), in SW9; tr. it. di Q. Principe, Il cuore avventuroso, Guanda, Parma 1994, p. 8. Ibidem. Sul rapporto tra E. Jünger e il visuale in riferimento soprattutto alla pittura moderna e contemporanea, cfr. R. Zuch, Kunstwerk, Traumbild und stereoskopischer

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2. La pittura della catastrofe Per tutta la vita Jünger intrattenne intensi rapporti personali con i pittori del suo tempo, confrontandosi assiduamente con le loro opere, forse più che con quelle della pittura classica. Gli artisti che più vengono citati nei suoi scritti sono Bosch, Brueghel e Goya e tra i contemporanei Kubin, Braque, Picasso, Ensor, van Gogh e Schlichter5. Particolarmente significativo è, per il nostro percorso, il duraturo rapporto che Jünger ebbe con quest’ultimo pittore. Nel novembre 1935 Jünger gli fa visita e riceve in regalo il disegno Atlantis vor dem Untergange6, che appende nel suo studio dove resterà, per più di sessant’anni, fino alla sua morte. L’importanza di questo disegno, che, secondo lo stesso Jünger7 avrebbe perfino influenzato la composizione di Auf den Marmorklippen, viene ribadita più volte nei diari. Esso raffigura in primo piano una terrazza su più livelli, presumibilmente il tetto di un tempio, su cui si intrattiene un gruppo di uomini e donne, verosimilmente un collegio sacerdotale o un gruppo di persone eminenti, che contemplano il paesaggio che si profila dinnanzi a loro: un’ampia valle con a lato dei templi su un altopiano ed in fondo una città. In un cielo inquieto si staglia il disco luminoso di una cometa con una lunga scia, chiaro presagio dell’imminente rovina della città. Accanto a questo disegno di Schlichter, altre due illustrazioni vanno citate per rendere conto dell’interesse di Jünger per questo artista; esse fanno parte del ciclo che Schlichter dedicò ai racconti della tradizione di Mille e una notte e si riferiscono alla storia dell’emiro Musa che scopre la città di rame, straordinariamente bella e ricca, i cui abitanti, però, vengono ritrovati inspiegabilmente tutti morti. La prima delle illustrazioni di questo episodio8, che ritrae i visitatori su un’altura di fronte alla città, ripropone lo stessa schema pittorico di Atlan-

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Blick. Zum Bildverständnis Ernst Jüngers, in L. Hagestedt (Hrsg.), Ernst Jünger: Politik, Mythos, Kunst, Walter de Gruyter, Berlin 2004, pp. Rudolf Schlichter (1890-1855), pittore, autore soprattutto di ritratti ed illustrazioni, uno dei più rappresentativi esponenti della Neue Sachlichkeit, vicino agli ambienti comunisti degli anni Venti, attirato dai bassifondi delle grandi città, ritrattista di intellettuali di sinistra tra cui Brecht e Döblin, realizzò una sorta di espressionismo metropolitano condiviso da altri pittori quali George Grosz, Otto Dix e Heinrich Davringhausen. Come Jünger, anch’egli alla fine degli anni Venti prese distanza dall’impegno politico attivo. Illustrazione n. 3. Cfr. E. Jünger, Auf den Mormorklippen (1939), in SW15; tr. it. di A. Pellegrini, Sulle scogliere di marmo, Guanda, Parma 1988. Illustrazione n. 4.

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tis vor dem Untergange: degli osservatori che da una prospettiva distaccata contemplano la scena densa di infausti presagi simboleggiati, qui, dai foschi uccelli neri che sorvolano la città. La seconda1 ritrae l’emiro che ha fatto ingresso con alcuni accompagnatori nella città ed ora osserva da vicino la scena surreale degli scheletri degli abitanti, apparentemente colti dalla morte in modo così improvviso che sembra non abbiano avuto nemmeno il tempo di dismettere le loro posture abituali ed accasciarsi a terra. Queste illustrazioni di Schlichter descrivono differenti sguardi sulla rovina a cui sono destinati ineluttabilmente i fasti, la potenza e la gloria del mondo. Uno sguardo sulla catastrofe che Jünger rintraccia come tratto dominante e caratteristico della produzione pittorica più significativa del primo Novecento2. Nella stessa prospettiva va inserita la predilezione di Jünger per le illustrazioni della torre di Babele, in particolare le celebri raffigurazioni di Brueghel, la piccola e la grande torre3. In quest’ultimo dipinto, risalente al 1563, lo sviluppo della civiltà è strettamente connesso con il crescente pericolo della rovina: quanto più in alto procede la costruzione della torre, che simbolicamente rimanda all’erezione di ordinamenti e strutture socio-politiche, tanto più incombono regressioni e crolli, conseguenza dell’emergere mai definitivamente arginabile della potenza elementare, le cui tracce si indovinano già nelle crepe dei muri alla base della torre. Brueghel ritrae, dunque, contemporaneamente, la costruzione e la rovina, il costituirsi della civiltà e il suo inevitabile declino; quest’ultimo non viene connesso da Jünger in primo luogo con il peccato di hybris dell’uomo, ma con il rapporto indissolubile tra la civiltà ed il fondo elementare da cui essa sorge differenziandosi. Da tale ‘pericoloso’ legame che tuttavia permane sempre e che il mondo borghese ha tentato invano di esorcizzare e rimuovere, scaturiscono non solo rovine, ma anche salutari rivolgimenti da cui periodicamente si rigenera la storia umana. È, dunque, essenziale che il contatto con questo fondo originario non vada perduto: «Le catastrofi provano fino a quale profondità uomini e popoli sono radicati nel terreno originario. È importante che almeno un fascio di radici attinga ancora direttamente a quel terreno – poiché è da questo che dipendono la salute e le prospettive di sopravvivenza anche oltre la civiltà e le sue rassicurazioni»4.

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Illustrazione n. 5. Cfr. E. Jünger, Die Staub-Dämonen (1931), in SW9; tr. it. di F. Cuniberto, I demoni della polvere, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 93. Illustrazioni n. 12 e 13. E. Jünger, Der Waldgang (1955), in SW7; tr. it. di F. Bovoli, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 1990, pp. 40-41.

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Un altro fondamentale motivo di interesse per Jünger del quadro di Brueghel, così come di quelli più volte citati di Hieronymus Bosch, è la raffigurazione ante litteram della connessione tra catastrofe e automatismo della tecnica che, attraverso la decisiva esperienza della Grande Guerra, e, poi, l’affermarsi della figura dell’Arbeiter, sarebbe stato al centro della fenomenologia jüngeriana dell’epoca del lavoro totale. A differenza della città gotica che si può scorgere sullo sfondo, la torre rappresenta, inoltre, il mondo perennemente in fieri dell’attivismo tecnico, la costitutiva incompiutezza della mobilitazione che, nietzscheanamente, non è mai paga del grado di potenza raggiunto e tende sempre a potenziarsi ulteriormente. Nel cantiere di lavoro della torre distinguiamo nettamente tutti i segni dell’attività industriale: macchine da costruzione, ponteggi, operai al lavoro. Ciò che descrive Brueghel – e che affascina Jünger – non è, dunque, soltanto la parabola biblica dell’uomo, accecato dalla hybris, che crede di potersi avvicinare a Dio grazie alla sua potenza tecnica; qui egli ammira una vera e propria Weltlandschaft a cui si rivolge per cogliere “a volo d’uccello” la forma di un “mondo mutato”5 attraverso l’osservazione pan-ottica di attività ed eventi stratificati in differenti livelli iconici. Nella pittura di Brueghel, Cranach e Bosch, Jünger, infatti, ritrova una inquietante commistione tra diversi strati della realtà che rimandano in trasparenza al “reticolo fondamentale” dell’esistenza; questi pittori visionari ritraggono, in modo agli occhi di Jünger esemplare, quel rapporto elementare tra esistenza e dolore, tra vita e potenza demoniaca della tecnica6 che 5

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È questo il titolo del più significativo libro fotografico curato da Jünger insieme con Edmund Schulz, pubblicato nel 1933 ed ora disponibile anche in traduzione italiana (E. Jünger - E. Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, a cura di M. Guerri, Mimesis-MētisPresses, Milano 2007); in esso vengono raccolte e commentate le più emblematiche immagini relative alla trasformazione della guerra, della politica, della società, dell’individuo e della massa ad opera dell’affermarsi su scala planetaria della tecnica. Sul carattere demoniaco della tecnica così si esprime il fratello di Ernst, FriedrichGeorg Jünger: «Il demoniaco occupa tutto l’ambito lavorativo della tecnica e vi si sviluppa con una forza costante e crescente. […] La stessa Ratio tecnica, che va intesa come accordo del pensiero causale e teleologico, è la porta di accesso del demoniaco. La sua vera forza si mostra nella coercizione dell’organizzazione, nelle forze elementari assoggettate attraverso la macchina, dunque nella rivalsa che questa violenza ha e che si indirizza direttamente contro l’uomo. […] Il carattere titanico della tecnica ricorda la rappresentazione di un enorme animale la cui struttura ha, complessivamente, qualcosa di strano e di conturbante. L’osservazione dell’apparecchiatura risveglia ricordi del modo di vivere nel periodo terziario, del mondo dei dinosauri, e tutto ciò risveglia una sensazione sconosciuta, ostile. […] Il rapporto dell’uomo con una realtà conforme all’apparato, si mostra in rap-

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si manifesta pienamente nell’imporsi della Forma del lavoro attraverso il Tipo dell’Arbeiter. Così leggiamo nel saggio sul dolore: Metafore superbe di come la vita sia accerchiata e trasformata dal dolore le abbiamo anche nei grandi quadri di Hieronymus Bosch, Brueghel e Cranach […]. Questi quadri sono assai più moderni di quanto non si creda, e non è un caso che in essi la tecnica svolga un ruolo così importante. Molti quadri di Bosch con i loro fuochi notturni e le loro fucine infernali assomigliano a paesaggi industriali in piena attività, e il grande Inferno di Cranach, che abbiamo a Berlino, contiene uno strumentario tecnico completo. Uno dei motivi più ricorrenti è una tenda mobile dalla cui apertura spunta un grosso coltello luccicante. La vista di queste macchine suscita un tipo particolare di spavento: sono simboli di un’aggressione travestita in forme meccaniche, la più fredda e la più insaziabile7.

Le opere di Bosch, in particolare, sembrano rappresentare per Jünger, nella maniera più visionaria, la connessione inquietante tra tecnica, catastrofe e terrore la cui drammatica realizzazione storica egli, di lì a qualche anno, presagirà e metterà in scena in Auf den Marmorklippen. In questo senso è emblematico il celebre trittico Il giardino delle delizie, in particolare l’ala destra, il cosiddetto Inferno musicale8, in cui, tra i vari dettagli di torture e di terrore, compare di nuovo il coltello luccicante a cui fa riferimento Jünger; in esso, infatti, egli scorge una metafora del carattere terrifico e violento non soltanto delle macchine, ma della tecnica stessa intesa come il linguaggio universale freddo ed altamente funzionale con cui la forma dell’Operaio mobilita il mondo9.

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presentazioni centauriche. Mi vengono in mente descrizioni di corpi umani con protesi d’acciaio, nel viso hanno, al posto degli occhi, un meccanismo d’orologio, o invece del naso un becco d’acciaio. Si può anche ricordare la vita dei sogni dell’uomo del nostro tempo, in cui tutte queste immagini si presentano tormentose e perturbanti» (F.G. Jünger, La perfezione della tecnica, tr. it. di M. De Pasquale, Settimo Sigillo, Roma 2000, pp. 157-158). E. Jünger, Über den Schmerz (1934), in SW7; tr. it. di F. Cuniberto, Sul dolore, in Foglie e pietre, cit., pp. 141-142. Illustrazione n. 11. Che la posizione di Jünger non sia da confondere con una ripresa in chiave antimoderna del luddismo è confermato dal seguente passo in cui viene relativizzata la centralità della macchina rispetto alla potenza ‘metafisica’ rappresentata dalla tecnica: «La tecnica è il modo e la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo. […] [La] tecnica è padronanza del linguaggio valido nell’ambito del lavoro. Questo linguaggio è non meno significativo, non meno profondo di qualunque altro, poiché ha in sé non solo una grammatica ma anche una metafisica. In tale contesto, la macchina, così come l’uomo, ha un ruolo secondario, poiché è soltanto uno degli organi che permettono di parlare quel linguaggio» (E. Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (1932), in SW8; tr. it. di Q. Principe, L’operaio. Dominio e forma, Guanda,

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La forza visionaria di Bosch consisterebbe, inoltre, nell’aver previsto le “orge di massacri”10 delle guerre mondiali e l’inquietante monotonia11 ed omologazione del mondo delle macchine e del lavoro totale. La subdola assuefazione alla freddezza metallica dei meccanismi e dei processi tecnico-lavorativi rende ‘naturale’ la convivenza con la distruzione e la catastrofe, anestetizzando ogni sensibilità per il dolore e prendendo così congedo definitivamente da ogni età – come quella rappresentata nell’Atlantide di Schlichter – in cui ancora potevano sussistere gerarchie di valori e destini individuali. 3. Lo sguardo stereoscopico Ma l’interesse di Jünger nell’osservare la “pittura della catastrofe” si concentra soprattutto, conformemente alla sua ispirazione filosofica fondamentale, su tutti quei dipinti in cui si percepisce all’opera uno sguardo capace di rivelare la Gestalt di un determinato fenomeno; quello stesso sguardo che Jünger chiama “stereoscopico” e che consente di cogliere sincronicamente una pluralità di prospettive visive e semantiche: la par-

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Parma 1991, p. 140). Sul carattere metafisico della tecnica si veda L. Caddeo, L’operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica, Mimesis, Milano-Udine 2012. Cfr. SW3, p. 208. Decisivo è a tal proposito il riferimento anche all’opera grafica di Alfred Kubin, cui Jünger dedica particolare attenzione. Relativamente alle sue opere, così egli scrive: «La monotonia rotatoria della tecnica viene espressa da paesaggi caotici, pieni di orologi o di mulini» (E. Jünger, I demoni della polvere, cit., p. 95). Jünger ritrova, inoltre, in Kubin, i segni del disfacimento e dell’irreparabile decadenza del mondo borghese associati ad uno spettrale attivismo onirico che fa assomigliare gli ingranaggi tecnici rappresentati ad inquietanti “giocattoli rotti”: «Che il simbolismo in questione sia un simbolismo di morte risulta non solo dalla decrepitezza del suo mondo, dalla rovina irreparabile dei suoi mobili tarlati. Quel mondo possiede una sua vita animale e vegetale che ha un chiaro rapporto con la decadenza e la fine. […] La vita degli esseri umani è colta nell’attimo onirico; rivela un attivismo demoniaco o un ottuso, vegetale imbozzolarsi. Emergono figure la cui apparizione sorprende come qualcosa di spettrale […]. Ciò che vediamo qui riflessa è la fine della vecchia Austria […]. Ma questa fine non è descritta là dove appare sullo scenario della storia universale, là dove è sancita sui campi di battaglia. […] È molto più sconvolgente il fatto che la rovina, l’aggressione implacabile del tempo vengano colte in luoghi minimi e nascosti: là dove si ode il ticchettio dell’orologio della morte, dove la muffa lentamente si allarga e le tarme rodono i tessuti. […] Nella fine del mondo borghese, alla quale assistiamo da spettatori attivi e passivi, Kubin riconosce i segni della distruzione organica, i cui effetti sono più sottili e più radicali di quelli provocati dagli eventi tecnico-politici in superficie» (ivi, pp. 95-98).

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venza sensibile delle cose acquista, infatti, agli occhi esercitati dalla pratica stereoscopica, una singolare trasparenza e lascia intravedere il livello nascosto della profondità, tanto che si potrebbe affermare che tutti gli sforzi di visione jüngeriani tendano alla hegeliana “manifestazione della profondità” [Offenbarung der Tiefe]12. Questo fondo misterioso, celato allo sguardo analitico del sapere scientifico, costituisce la trasparenza elementare della realtà, quella profondità cristallina che non si manifesta se non nella superficie fenomenica. Lo sguardo stereoscopico di Jünger mira a cogliere attraverso la superficie tale profondità13, ovvero, platonicamente, a rintracciare nella forma il senso unitario della molteplicità fenomenica. In una pagina de Il cuore avventuroso, Ernst Jünger ci svela quel segreto della sua scrittura, che costituisce anche il distillato stilistico delle sue osservazioni stereoscopiche: «Mi sembra – scrive Jünger – di aver imparato, negli ultimi anni, qualcosa di quella capacità, propria dell’arte del linguaggio, che rischiara la parola fino alla trasparenza. Giudico tale capacità, più di ogni altra adatta a risolvere un dissidio che sovente ci turba con violenza – il dissidio tra la parvenza esteriore e la profonda realtà della vita»14. Tutti gli sforzi dello Jünger osservatore del mondo della natura e degli uomini e dello Jünger scrittore e diarista sono tesi a rivelare, attraverso tale visione stereoscopica, l’invisibile ed abbagliante emergere della Forma dall’abisso della Vita, da quel sostrato inconcepibile e magmatico che Jünger nomina con l’espressione di indistinto [das Ungesonderte]15. Da tale fondo primordiale ed elementare scaturisce ogni ispirazione artistica così come ogni parola poetica; la pittura trae da esso perenne alimento: «Ogni immagine – scrive Jünger – nel suo linguaggio figurativo e simbolico, rappresenta un’apparenza, una specificazione, una delimitazio-

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Sulla stereoscopia jüngeriana mi sono diffusamente soffermato nel mio studio Cristallografie dell’invisibile. Dolore, eros e temporalità in Ernst Jünger, Mimesis, Milano 2002, pp. 11-28, a cui mi permetto di rimandare. Per Jünger il senso delle cose riposa nella loro intima “connessione con la profondità”. Su questo tema cfr. V. Katzmann, Ernst Jüngers Magischer Realismus, Georg Olms, Hildesheim-New York 1975, pp. 50 sgg. E. Jünger, Il cuore avventuroso, cit., p. 8 (corsivo mio). «L’indistinto non è […] il nuovo, bensì, piuttosto, l’immemorabile; è in ogni luogo e in ogni tempo. Laddove si presenta, ripete l’origine […]. In quanto tale, esso torna sempre a suscitare, nell’arte come in natura, lo stupore, la meraviglia. Questo stupore resta in tutti i tempi uno solo e lo stesso, come pure il suo autentico oggetto, e cioè l’indistinto, resta sempre lo stesso» (E. Jünger, Typus, Name, Gestalt (1963), in SW8; tr. it. di A. Iadicicco, Tipo Nome Forma, Herrenhaus, Seregno 2001, p. 69).

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ne dell’indistinto. […] Dietro l’immagine vi è l’indistinto nella sua pienezza»16. L’opera in cui si affaccia per la prima volta l’idea della visione stereoscopica e che, come lo stesso Jünger ci conferma, costituisce un decisivo spartiacque della sua vita di scrittore, è il breve testo del 1930 Lettera siciliana all’uomo della luna17, frutto di un viaggio in Sicilia compiuto da Jünger insieme al fratello Friedrich-Georg all’inizio del 1929. La questione fondamentale di tale scritto concerne la possibilità-necessità di comporre la contrapposizione tra considerazione magica e considerazione scientifica del mondo, tra atteggiamento estetico e atteggiamento razionale in una superiore visione, esemplificata dallo sguardo di un immaginario uomo che si trova sulla superficie lunare. Nella profonda solitudine e desolazione della lontananza lunare, che richiama l’inquietante deserto nietzscheano del nichilismo, questo immaginario spettatore delle vicende umane osserva il nostro mondo da una prospettiva perturbante e inedita: «Mute e immobili le cose apparivano nella luce estranea come creature marine scorte sul fondo di un tappeto di alghe. Non sembravano enigmaticamente mutate? E non è la metamorfosi la maschera dietro cui si nasconde il mistero della vita e della morte?»18. Colpiti dalla luce ‘desolante’ del saturnino splendore lunare, nel «gioco di luci e ombre fatto di pianure e montagne, di mari prosciugati e crateri di vulcani spenti»19, le cose mostrano contemporaneamente la loro facies nichilistica e la loro tensione gestaltica. Questa luce indiretta non è quella dell’idea platonica che regola e consente la conoscenza essenziale dell’intera tradizione filosofica; eppure, lo splendore lunare condivide con la luce immateriale del mondo platonico la capacità di rivelare un’enigmatica uni-

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Ivi, p. 119. Sizilischer Brief an den Mann im Mond, apparso per la prima volta nel 1930 e poi ripreso nella raccolta di saggi Blätter und Steine, Hanseatische Verlags-Anstalt, Hamburg 1934 ora in SW9 (tr. it. di F. Cuniberto, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, in Foglie e pietre, cit.). Questa metafora è stata ripresa da Hans Blumenberg, che si è a lungo confrontato con l’opera di Jünger proprio a partire da questa figura enigmatica della lontananza. Blumenberg sostiene che tutta l’opera jüngeriana fa riferimento a questo accompagnatore invisibile a cui lo stesso Jünger sovente si rivolge: «Egli è il testimone che vede ed ascolta, ma a cui deve essere spiegato ciò che vede. Nella sua marcia attraverso le lande infernali degli appostamenti, Jünger è un nuovo Virgilio, che, invece di Dante, ha al suo fianco invisibilmente l’uomo muto della luna» (H. Blumenberg, L’uomo della luna. Su Ernst Jünger, tr. it. e cura di S. Gorgone, Mimesis, Milano 2012, p. 26). E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, cit., p. 100. Ivi, p. 102.

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tà nella molteplicità fenomenica20: «Ma non hai proprio tu quella dote magistrale di chi sa di porre ad arte i suoi enigmi? Quegli enigmi di cui solo il testo è comunicabile, ma non la soluzione […]? Quel che importa non è vedere la soluzione, ma l’enigma»21. Dalla distanza siderale della luna, anche l’accelerazione crescente del mondo dominato dalla tecnica e dal lavoro totale, l’accumularsi di forze organiche e di energie meccaniche e chimiche che minacciano gli equilibri geologici ed ecologici del nostro pianeta, assumono un altro e più pacato aspetto: «Le cose, per chi le sovrasta, non mutano nella sostanza ma mostrano un’altra faccia»22. Tende ad affiorare un sostrato nascosto che estende il suo domino su spazi ed epoche differenti e raccoglie in unità i fenomeni più disparati; nella visione stereoscopica, in grado di scorgere la profondità metafisica fondamentale, emerge la “struttura cristallina” del reale in cui precipita la materia prima, ossia la Forma stessa23. Alla luce oscura della luna, le cose e gli eventi del mondo acquistano una paradossale “inquieta calma”, in cui il movimento e le contrapposizioni reciproche sembrano sospese e la Forma sembra donare un senso inaudito ad ogni frammento di realtà: «Spettacolo inesausto e mirabile, come dalla varietà e dall’ostilità dei tempi e dei luoghi cresca forma su forma! È quella che chiamo la fraternità profonda della vita, in cui ogni ostilità viene assorbita e tolta. Quaggiù ci è concesso raramente di vedere il fine fondersi con il suo significato. Eppure il nostro sforzo supremo tende a quello sguardo stereoscopico che coglie le cose nella loro corporeità più segreta e più immobile»24. È proprio tale gravità segreta ed immota che si rivela nella “luce oscura” dei quadri più inquietanti della modernità pittorica; un senso insieme di enigmatica sospensione e di ‘sottile’ rivelazione. Il rapporto che Jünger instaura con queste immagini è, infatti, di tipo runico; esse sono portatrici di simboli il cui significato può essere solo presagito a partire dalla loro incombente consistenza materica, attraverso una percezione sinestetica rivolta alle irradiazioni provenienti dalla superficie pittorica in cui si compie lo sguardo stereoscopico: «Esistono segni, metafore e chiavi di vario tipo: 20 21 22 23 24

Cfr. V. Blok, Stereoskopie und Trigonometrie. Jüngers Methode im Licht des Sizilischen Briefes an den Mann im Mond, in Ernst Jünger – Eine Bilanz, hrsg. von N. Zarska, G. Diesener, W. Kunicki, Leipzig Universitätsverlag, Leipzig 2010, pp. 58-73. E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, cit., pp. 103-104. Ivi, p. 108. Sul fondamentale significato della figura del cristallo nell’opera di Jünger in connessione alla sua stereoscopia mi permetto di rinviare a S. Gorgone, Cristallografie dell’invisibile, cit. E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, cit., pp. 108-109.

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siamo come il cieco che non è in grado di vedere ma che riconosce la luce dalla sua qualità più opaca, il calore»25. Nel linguaggio runico della pittura, Jünger ritrova una conferma del fatto che ogni fenomeno reca in sé un seme di eternità, che il flusso temporale è inestricabilmente intessuto con una rete di significati e figure su cui il tempo non ha presa; un linguaggio in cui «ogni sillaba è al tempo stesso peritura e imperitura»26. L’osservazione stereoscopica consente, dunque, di scorgere nella pluralità fenomenica l’unità della Gestalt, ossia la totalità di senso che nel mondo storico e naturale si manifesta attraverso quei processi di tipizzazione esemplarmente descritti da Jünger nella sua fenomenologia del mondo dell’Arbeiter. Il Tipo, infatti, svolge l’essenziale funzione di lasciare apparire l’indistinto, l’ambito, cioè, da cui scaturiscono le forme, nella realtà fenomenica: «Nel tipo si rende visibile l’indistinto, e precisamente per il fatto che esso appare nell’oggetto – o in altre parole: nel tipo l’oggetto dichiara di contenere più della propria singolare apparenza»27. Soltanto attraverso tali processi di tipizzazione e riconoscimento, il singolo può accedere al “dominio della forma” e partecipare, così, della sua dimensione soprastorica ma creatrice di storia: «Forma è possesso anche del singolo, è il più alto e incancellabile diritto alla vita, che egli condivide con le pietre, le piante, gli animali e le stelle»28. Nella forma l’uomo scopre la propria dignità e il proprio destino, e questa scoperta gli consente di affrontare le prove più difficili fino al sacrificio estremo: la vita vale solo in quanto rinvio alla forma. Nella scoperta e nella raffigurazione della dimensione simbolica dell’esistenza e dell’universo consiste, secondo Jünger, il compito più grave e decisivo affidato all’uomo29; dalla complessità e chiarezza di tale linguaggio simbolico si misura, peraltro, il valore della pittura, così come di ogni arte: «I simboli sono segni del fatto che, nondimeno, la coscienza del nostro valore ci è data. Essi sono, da un lato, proiezioni di forme appartenen25 26 27 28 29

Ivi, p. 109. Ibidem. E. Jünger, Tipo Nome Forma, cit., p. 137. E. Jünger, L’operaio, cit., p. 34. Commentando un passo del Vangelo di Matteo, così si esprime Jünger: «I corpi sono calici; il senso della vita sta nel riempirli di essenze sempre più preziose, di balsamo per l’eternità. Se questo si effettua nella misura piena, non importa se essi si infrangono. […] Noi possiamo nel corso della nostra vita guadagnare o perdere sub specie æternitatis: questa è l’alta, terribile posta che è in gioco» (E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 261).

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ti a una dimensione nascosta, ma anche riflettori con cui lanciare i nostri segnali nell’ignoto»30. Lo scopo della visione stereoscopica è, dunque, da rintracciarsi nella progressiva costruzione di quella che Jünger chiama una «trigonometria superiore, il cui compito è la misurazione di invisibili stesse fisse»31. Essa soltanto è in grado di raggiungere quell’acume tipico dello sguardo infantile in grado di decifrare la scrittura primordiale delle rune e di cogliere la figura demonica di ogni luogo32. Si comprende, dunque, perché il “gesto” solitario della contemplazione stereoscopica delle forme possa costituire l’estrema modalità di resistenza interiore contro il totalitarismo prima politico e poi tecnico che Jünger sperimentò a partire dagli anni della seconda guerra mondiale. Non si tratta di una forma di sdegnosa autoaffermazione né, come è stato detto, di un “blindaggio dello sguardo” [Panzerung des Blicks]33 che consentirebbe una fredda ed indifferente considerazione degli accadimenti sottratta alla compassione, al dolore ed alla percezione della catastrofe. Ciò che Jünger ricerca è piuttosto una faticosa pratica di visione – esercitata soprattutto nelle “cacce sottili” – e di libertà spirituale con cui riconoscere nella realtà un orizzonte sopraindividuale e soprastorico che si identifica con il regno stesso delle forme. In ciò consiste, in effetti, il compito ‘metafisico’ del pittore, così come lo esprime lo stesso Schlichter in una lettera a Jünger del 25 luglio 1936: il pittore deve sforzarsi di raggiungere «un sapere magico ed una capacità originari ed immediati, una confidenza con le forme originarie nell’ambito dell’arte, una nuova comprensione del misterioso rapporto reciproco tra uomini e potenze». 4. La fotografia e la “seconda coscienza” Nel mondo della tecnica, l’arte che sembra aver assunto tale capacità di ritrarre le forme elementari del reale, tuttavia, non è più, secondo Jünger, la 30 31 32

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E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, cit., p. 109. Ibidem. È possibile individuare una sorta di “stereoscopia del paesaggio” in Jünger soprattutto a partire dalle osservazioni di viaggio; ho tentato di svilupparla nel mio: Die Ethik der Landschaft bei Ernst Jünger, “Les Carnets Ernst Jünger”, 11, 2011, pp. 119-140. Cfr. H. Lethen, Verhaltenslehren der Kälte. Lebensversuch zwischen den Kriegen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994.

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pittura ma la fotografia. Jünger non condivide, infatti, la classica tesi benjaminiana secondo cui la fotografia rappresenta quella forma di arte in cui, in modo esemplare, l’aura si ritira a favore della totale esposizione e disponibilità dell’oggetto raffigurato, esercitando soltanto un’ultima resistenza nei ritratti fotografici in cui essa sembra ancora emanare melanconicamente. Secondo Benjamin, infatti, «quando l’uomo scompare dalla fotografia, per la prima volta il valore espositivo propone la propria superiorità sul valore cultuale»34. Tuttavia Benjamin e Jünger concordano nel riconoscere alla fotografia la capacità di penetrare al di là della superficie ‘obiettiva’ del reale e riuscire a cogliere quello che il primo chiama l’“inconscio ottico”: La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, sia pure all’ingrosso, egli di certo non sa nulla del loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo. […] Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo35.

Anche per Jünger, l’obiettivo fotografico non si limita a riprodurre la realtà, ma agisce, piuttosto, come un filtro, «permeabile solo per uno strato di realtà molto ben determinato. È un rapporto questo che si rende oltremodo evidente nel mondo tecnico delle forme, come ad esempio nel caso della voce registrata, che non va considerata come una semplice riproduzione della voce umana, bensì come la sua traduzione in un medium del tutto particolare»36. La ‘ri-presa’ fotografica non va, cioè, intesa come uno strumento di documentazione neutrale; essa, piuttosto, possiede un potere rivelativo che va al di là della mera rappresentazione, in quanto non si limita a restituire all’occhio umano un’imitazione più o meno corrispondente della realtà fattuale, ma la costringe in modo forzoso e subdolo negli schemi della predeterminata ‘visione’ tecnica del mondo: «Già soltanto nell’atto dell’“inquadrare” si compie una valutazione, corrispondente a quelle con

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W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni, Scritti 1930-1931, vol. VI, Einaudi, Torino 2004, p. 281. W. Benjamin, Breve storia della fotografia, in Scritti 1930-1931, vol. IV, Einaudi, Torino 2002, p. 479. E. Jünger, Introduzione a E. Jünger - E. Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, cit., p. 8.

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cui, del tutto inconsapevolmente, si commisura ogni possibile fenomeno ai parametri di un determinato sistema spirituale»37. La fotografia – e, potremmo aggiungere, tutte le altre modalità di ‘visione’ tecnica tra cui in primis il cinema – costituisce per Jünger lo strumento per eccellenza con cui la tecnica produce la forma più plastica e funzionale di oggettivazione del mondo; collocandosi in un ambito che eccede la zona della sensibilità, essa intrattiene un rapporto strettissimo con il dolore e con la particolare esperienza che l’Operaio fa della sofferenza. La registrazione fotografica, infatti «possiede un carattere telescopico; ci si accorge, nel suo caso, che l’evento è osservato da un occhio insensibile e invulnerabile. La fotografia fissa tanto la pallottola nella sua traiettoria quanto l’uomo nel momento in cui viene dilaniato da un’esplosione»38. È questo, secondo Jünger, il «nostro modo specifico di vedere; e la fotografia non è altro che uno strumento di questa specificità»39. Ma tale modalità del vedere possiede, secondo Jünger, un carattere aggressivo in quanto mira ad appropriarsi rapinosamente della cosa rappresentata riconoscendone soltanto il suo valore oggettuale40. Come già accennato ne L’operaio, la fotografia è «un’arma al servizio del Tipo»41, che se ne serve per porre tra sé e la realtà quel distacco funzionale al suo dominio totale. Il suo imporsi è causa e sintomo ad un tempo dell’affermarsi del Tipo umano a discapito dell’individuo, intorno a cui si era messa in scena l’intera storia moderna e, in particolar modo, l’epopea borghese: «Nella fotografia risulta ancora più chiaro il fatto che essa offre una rappresentazione del tipo umano, non dell’individuo»42.

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Ivi, p. 9. E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 176. Ibidem. Nella stessa direzione vanno le analisi heideggeriane della preminenza filosofica attribuita da Platone in poi al senso della vista rispetto agli altri sensi ed in particolare al vedere rappresentativo ed oggettivante al centro delle strategie conoscitive del soggetto moderno. Cfr. tra l’altro M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1984. E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 176. Di seguito tale modo di vedere tipico dell’Arbeiter viene definito ‘crudele’ e la violenta appropriazione operata dalla fotografia viene messa in rapporto con la totale oggettivazione del reale: «La fotografia è dunque un’espressione del nostro modo di vedere, che è un modo di vedere crudele. In ultima analisi abbiamo qui a che fare con una variante del malocchio, una forma di appropriazione magica. […] In molti casi l’avvenimento stesso sparisce dietro la sua “trasmissione”, e diventa perciò un puro oggetto» (ivi, p. 177). Ivi, p. 117.

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Attraverso lo sguardo telescopico della fotografia, infatti, si afferma quell’atteggiamento anestetizzante e vivisezionatore tipico di ogni attività tecnico-processuale. A tal proposito Jünger parla di una “seconda coscienza”; essa «si annuncia nella crescente capacità di vedere se stessi come un oggetto»43. Ma non si tratta qui di una qualche particolare dotazione psicologica, dal momento che essa caratterizza un uomo che è ormai completamente estraneo alla sfera della sensibilità e quindi è già immune dall’attacco del dolore. La sofferenza, infatti, nel mondo tipizzato del lavoro totale, viene elusa tramite l’“uniforme della tecnica”44 che consente di oggettivare perfettamente la vita fino a rendere il corpo vivente [Leib] un semplice “avamposto” nella contrapposizione con il reale. Tale “corazzamento” contro il dolore mantiene, anche in tempi di pace, un carattere bellico. Al volto mutevole, sensibile e nervoso dell’individuo borghese si sostituisce il volto disciplinato del Tipo dell’Arbeiter «dallo sguardo fisso, univoco, oggettivo, rigido»45. L’affermarsi più o meno palese di norme e stili di comportamento massificati produce un’uniformizzazione delle reazioni dei singoli all’assalto del dolore e, conseguentemente, un mutare degli stessi tratti fisionomici che sfocia in un progressivo ed inquietante “indurimento del volto”. L’allontanamento dal reale è, infatti, funzionale al processo di crescente oggettivazione che è, al contempo, un processo di disorientamento, di perdita di ogni riferimento ad un possibile centro46. Tale inesorabile processo 43 44

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Ivi, p. 175. Sulla Seconda coscienza cfr. M. Guerri, Ernst Jünger. Terrore e libertà, Agenzia X, Milano 2007, pp. 138-144. La metamorfosi dell’individuo nel Tipo, dal punto di vista del dolore, si realizza come «un’operazione mediante la quale la zona della sensibilità viene estirpata dalla vita» (E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 156). In una prospettiva fisiognomica, ciò risulta evidente nella diffusione di massa dell’uniforme. Ciò che scrive Jünger nel 1934 non ha perso oggi di attualità: «Il ruolo svolto dall’uniforme è oggi ancora più notevole di quanto non lo fosse all’epoca della coscrizione obbligatoria. L’omogeneità dell’abito si estende non solo a tutte le età ma travalica anche le differenze di sesso […]. In ogni epoca l’uniforme ha come il carattere di un’armatura, la pretesa di essere corazza particolarmente efficace contro l’assalto del dolore. […] Nelle fotografie che riprendono dall’alto le gigantesche parate militari, i quadrati regolari e le colonne umane che avanzano appaiono in prospettiva come figure magiche il cui senso nascosto è di esorcizzare il dolore» (E. Jünger, Il dolore, cit., pp. 159-160). Analogamente si esprimeva Martin Heidegger in un testo coevo a quello jüngeriano sul dolore: «Un uomo senza uni-forme oggi fa già l’impressione dell’irreale, di qualcosa che “non c’entra” più» (M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 63). E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 159. «Sorge il quesito se questa Seconda coscienza che vediamo instancabilmente all’opera possieda poi anche un centro a partire dal quale la crescente pietrifica-

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conduce alla creazione sempre più sofisticata di una proiezione della realtà, antesignana dell’odierna “realtà virtuale”, che Jünger, già negli anni Trenta individua in modo esemplare nel mondo delle ‘proiezioni’ cinematografiche; esse configurano uno «spazio ulteriore […] inaccessibile alla nostra sensibilità»47. Tale fuoriuscita dalla sfera della sensibilità e dalla modalità tipicamente borghese di intendere l’individuo, si manifesta in maniera emblematica nell’ambito delle attività sportive; lo sport è, infatti, «una componente del sistema-lavoro, di cui anzi fornisce un’immagine molto nitida proprio per il suo carattere gratuito»48. La disciplina sportiva, che consente la realizzazione di sempre più audaci prestazioni, costituisce un modello di funzionamento per la Seconda coscienza che con i più diversi ausili tecnici presiede all’accertamento oggettivo del raggiungimento di ogni risultato. Il volto dello sportivo è l’emblema della tipizzazione fisiognomica dell’Operaio e del suo allontanamento dalla sfera della sensibilità in direzione di una sorta di “ascetismo tecnico”: «Questa carne, disciplinata e uniformata dalla volontà con cura tanto minuziosa, dà l’impressione di essere ormai diventata indifferente alle ferite. Se oggi siamo già di nuovo in grado di sopportare con maggiore freddezza la vista della morte, ciò dipende non in ultimo dal fatto che noi nel nostro corpo non siamo più di casa come prima»49.

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zione della vita possa ricevere un significato più profondo in grado di giustificarla» (ivi, p. 177). Tale distanziamento, cui conduce la Seconda coscienza, è tuttavia diverso dal distacco necessario per la visione stereoscopica, anche se tale differenza non è mai chiaramente precisata soprattutto dallo Jünger degli anni Trenta. A differenza della ripresa telescopica dell’obiettivo fotografico che rimuove progressivamente ogni orientamento spaziale e simbolico, il distacco stereoscopico ricorda, piuttosto, il dis-allonatanameno [Ent-fernung] che Heidegger considera come una componente esistenziale della spazialità, ovvero dell’essere-nel-mondo dell’esserci. Basandosi sulla struttura della parola tedesca, Heidegger dà al termine il significato di un’operazione per cui la lontananza degli enti consegue dai limiti che l’esserci incontra nell’avvicinarli: «Dis-allontanamento [Ent-fernung] significa far scomparire la distanza [Ferne] cioè la lontananza di qualcosa, significa avvicinamento. L’esserci è essenzialmente disallontanante e, in quanto è l’ente che è, lascia sempre che l’ente sia incontrato nella vicinanza. Il disallontanamento scopre la lontananza» (M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 137). E. Jünger, Sul dolore, cit., pp. 177-178. Ivi, p. 181. Ibidem. La trasformazione dei tratti fisiognomici del volto lo porta a divenire oggetto privilegiato della ripresa fotografica: «Il volto di tipo nuovo […] ha un aspetto diverso: senz’anima, come modellato nel metallo o intagliato in un legno speciale, esso possiede senza dubbio un autentico rapporto con la fotografia. […]

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La capacità della fotografia di cogliere la forma da cui proviene la tipizzazione dominante nel mondo del lavoro totale, viene ribadita in occasione del colloquio che Jünger intrattiene per diversi anni con il celebre fotografo Renger-Patzsch, di cui recentemente è stato edito il carteggio50, e che si concretizza nella pubblicazione di due libri fotografici51 corredati da un testo introduttivo di Jünger. Patzsch sostiene in una missiva a Jünger che «la fotografia si può attenere soltanto alla forma e – più fa ciò e meno devia nel dilettantismo»52. La disciplina a cui la fotografia deve sottostare per poter cogliere il fondo gestaltico del reale è del tutto paragonabile, come lo stesso Renger-Patzsch sottolinea, a quella, necessaria allo scrittore per conseguire quel distacco stereoscopico necessario per poter scorgere il fondo elementare del reale. Cercando di esprimere il senso della collaborazione con Jünger nella redazione del primo libro sull’albero, egli così si esprime in una lettera del 1961: «In un tempo in cui tutto è possibile e permesso, io vedo nella disciplina a cui si sottopongono lo scrittore e il fotografo, la caratteristica di questo libro»53. In riferimento al secondo libro dedicato al mondo delle pietre, il fotografo tedesco, in una lettera del 1962, arriva ad affermare che l’obiettivo delle sue rappresentazioni fotografiche è, analogamente al metodo jüngeriano delle osservazioni stereoscopiche, quello di cogliere «i fenomeni nella loro purezza»54. Il fotografo della superficie e lo scrittore della profondità si incontrano, dunque, nella convinzione comune che la Gestalt sia una legge che, pur provenendo dalla struttura fondamentale del reale, si mostra, come in trasparenza, nella chiarezza della superficie fenomenica, anche se essa si rifiuta ad una comprensione puramente oggettuale. Ciò che affascina il fotografo della Neue

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Lo sport è solo uno dei campi in cui è dato osservare l’indurimento e l’affinamento, o anche la galvanizzazione della figura umana. Non meno significativa appare la tendenza a vedere la stessa bellezza secondo criteri nuovi. Anche in questo caso c’è uno stretto rapporto con la fotografia, e in particolare con il cinema, che funziona addirittura come un nuovo paradigma» (ivi, pp. 180-181). E. Jünger - A. Renger-Patzsch, Briefwechsel 1943-1966, hrsg. v. M. Schöning - B. Stiegler - A. u. J. Wilde, Fink, München 2010. A. Renger-Patzsch, Bäume. Photographien schöner und merkwürdiger Beispiele aus deutschen Landen, Boehringer, Ingelheim am Rhein 1962 e Id., Gestein: Photographien typischer Beispiele von Gesteinen aus europäischen Ländern, Boehringer, Ingelheim am Rhein 1966. I testi di Jünger che accompagnano le due raccolte fotografiche sono: E. Jünger, Der Baum (1962) e Steine (1966), in SW12; tr. it. A. Iadicicco, L’albero. Quattro prose, Herrenhaus, Seregno 2003. E. Jünger - A. Renger-Patzsch, Briefwechsel, cit., p. 42. Ivi, p. 43. Ivi, p. 55.

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Sachlichkeit nello stile jüngeriano è, infatti, il suo caratteristico sforzo stereoscopico di esplorare un livello di senso che si sottrae ad ogni determinazione puramente visuale della realtà. Il fotografo è, tuttavia, consapevole che i limiti del visuale coincidono con i limiti stessi del mondo fotografico, oltre i quali si dischiude il mondo della conoscenza stereoscopica, dell’arte e della letteratura che, nella pluralità delle forme fenomeniche, si sforzano di rintracciare la radice profonda che le lega al sostrato elementare. 5. Irradiazioni e visione Nel mondo del lavoro totale che Jünger aveva in modo preveggente diagnosticato già all’inizio degli anni Trenta, tale radice elementare diviene sempre più sfuggente: il caos organizzato ma in-forme dell’attivismo tecnico, assume sempre più chiaramente i contorni del massimo pericolo in quanto minaccia di inceppare l’esercizio della visione stereoscopica, impedendo, così, l’emergere del regno delle forme. Una via di accesso privilegiata alla dimensione gestaltica della profondità è, tuttavia, sempre concessa dal sogno e dalle immagini oniriche che Jünger rintraccia anche nel mondo della veglia e che ricerca e colleziona nella pittura di ogni tempo. Già a partire dalla prima redazione del Cuore avventuroso del 1929 le illustrazioni di sogni occupano uno spazio molto ampio nella scrittura jüngeriana: il mondo onirico viene considerato la “chiave magica” per la conoscenza della realtà, dal momento che le sue immagini posseggono in modo emblematico una potenza simbolica e rivelativa che le fa diventare immediatamente metafore dell’esistenza umana. La pratica più promettente che ci consente, secondo Jünger, di attingere ad una riserva inesauribile di archetipi è, tuttavia, quella dell’osservazione della natura: «Se le fontane si disseccano si va al fiume. Là non è necessario credere: il prodigio è palese. Quando tutto è silenzio le cose cominciano a parlare; pietre, animali e piante diventano fratelli e sorelle e comunicano ciò che è nascosto. Un arcobaleno invisibile circonda quello visibile»55. Ed è proprio la visione di tale invisibile arcobaleno che circonda i fenomeni e da essi irraggia, che occuperà lo Jünger del secondo dopoguerra. Irradiazioni non è soltanto il titolo che egli assegna ai diari della seconda guerra mondiale, ma anche «l’impressione che il mondo e i suoi oggetti hanno provocato sull’autore, il sottile intreccio di luci e di ombre che que55

E. Jünger, Das Spanische Mondhorn (1962), in SW13; Lo scarabeo spagnolo, tr. it. di Q. Principe, in Il contemplatore solitario, Guanda, Parma 1995, p. 221.

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sti oggetti formano»56. La modalità di annunciarsi del reale è, adesso, quasi come nella tradizione neoplatonica, quella dell’irraggiare: ogni esistente, sia esso naturale o umano, è sorgente di irraggiamento: «anche il singolo proietta i suoi raggi, il vicino e il lontano, l’amico e il nemico. Chi conosce le conseguenze di uno sguardo che ci sfiora fugacemente, chi conosce l’effetto della preghiera che uno sconosciuto dice per noi?»57. La visione ha il fondamentale compito esistenziale di riconoscere una forma in tali raggi e consentire che essi assumano un carattere iconico sullo schermo stereoscopico del nostro occhio: «Siamo occupati, instancabili, a comporre le luci e i fasci di raggi, ad armonizzarli, a elevarli ad immagini. Vivere non significa altro. Dove è ordine supremo, raggi cosmici e terreni si intrecciano talmente da creare lo splendore di disegni suggestivi. Segno che la vita dell’uomo, la vita del popolo è riuscita. I fiori sono le immagini di questi disegni»58. La ‘raccolta’ visiva e sensoriale in genere di tali irradiazioni costituisce per Jünger l’accesso alla profondità gestaltica, il compito spirituale supremo, in quanto in tal modo si raccolgono quei semi di “senza tempo” che, con misteriosa abbondanza, sono disseminati nel tempo. La prima fase di ogni percorso iniziatico è, infatti, un “ammaestramento al vedere”. In una pagina del Cuore avventuroso, il maestro Nigromontanus insegna la “dottrina delle superfici”: La superficie, egli diceva, nel suo variopinto aspetto esteriore non manca mai di tenere in serbo segrete spiegazioni, come dal fogliame e dai fiori del terreno incolto si può capire se questo contenga nascoste vene d’acqua o giacimenti di minerale. Trasmettere ad altri la conoscenza di simili contatti tra il mondo dei sensi e le correnti più profonde era, nel suo intento, uno dei luminosi compiti a lui assegnati59.

L’intera realtà assume una forma enigmatica e simbolicamente pregnante per chi sa esercitare un tale sguardo stereoscopico: «anche il mondo, nella sua grandezza, è ordinato alla maniera di un rebus, […] i suoi misteri sono palesemente sciorinati sull’aperta superficie, mentre occorre soltanto un minimo adattamento dell’occhio per vedere la pienezza dei suoi tesori e delle sue meraviglie»60. 56 57 58 59 60

E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 5. Ibidem. Ivi, p. 6. E. Jünger, Il cuore avventuroso, cit., p. 107. Ivi, p. 110.

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Come in un rebus, il disvelamento degli enigmi e della profondità cristallina del reale è sorprendentemente vicina alla considerazione abituale; tuttavia è necessaria una radicale, se pure inappariscente, conversione dello sguardo per potere contemplare l’invisibile trama della realtà da cui scaturiscono tutte le forme del mondo naturale e storico. Ma la scuola di visione, a cui Jünger ci invita, ha anche come scopo quello di rafforzare la nostra capacità visiva nei confronti del chiarore accecante che proviene dalla superficie luminosa dei fenomeni, soprattutto dal chiarore delle manifestazioni abbaglianti dello splendore della natura. Come il prigioniero del mito platonico della caverna che, liberatosi dai ceppi ed uscito alla luce del giorno, per un certo tempo, fino a che i suoi occhi non si assuefanno, è abbagliato dai raggi solari, così il contemplatore stereoscopico è, da principio, abbagliato dall’abbondanza e dalla ricchezza fenomenica della natura e del reale in genere. La nostra contemporaneità fa esperienza soltanto in modo perverso e patologico di tale irraggiamento ipertrofico del visibile, reso ancora più estremo dalla virtualizzazione degli strumenti di comunicazione, con cui la tecnica ha superato la soglia del meccanico per proiettarsi in un ambito prettamente iconico-energetico. Per Jünger, tuttavia, l’ipertrofia dell’immagine non rimanda all’interpretazione tecnico-idolatrica del visuale, ma, piuttosto a quella iconica nel senso della tradizione cristiana delle icone, in cui al centro della raffigurazione sacra sta lo sguardo invisibile del santo o del Cristo che proviene dalla “gloria” della figura evidenziata dalla luminosità dello sfondo in oro. L’icona, cioè, costituisce l’accesso all’invisibile non per una deficienza di visibilità ma per un suo eccesso che supera ed invera la molteplicità delle determinazioni fenomeniche nell’unità inoggettivabile della forma, per la cui visione i nostri occhi sono uno strumento troppo debole61. Questa paradisiaca luminescenza della natura e del mondo che ci circonda, costituisce una sorta di orizzonte spirituale che si rivela soltanto in brevi attimi, e con particolare intensità in privilegiate epoche storiche. Nell’epoca della tecnica, questo alone iconico tende a svanire e le immagini del mondo – o meglio, come scrive Heidegger, il mondo ridotto a immagine62 – si limitano a rappre61

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Soltanto nel superamento della soglia estrema della morte sarà concesso di poter ammirare “faccia a faccia” tale abbagliante pienezza: «Gli occhi mortali, qualcosa di simile al nostro cordone ombelicale, si spegneranno e a noi sarà data una nuova iride. Così, come qui vediamo i colori nelle loro varietà, li vedremo allora, con più alto godimento, nella loro essenza, in una luce non più franta» (E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 230). Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit.

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sentare funzioni e relazioni astratte, non rimandando più ad alcuna profondità gestaltica. Scrive a tal proposito Jünger in una pagina de Il cuore avventuroso: Fosse pure soltanto per la durata di un batter di palpebre, l’occhio deve serbare forza sufficiente a vedere le opere della terra come il primo giorno, ossia nella loro divina magnificenza. Esistono epoche – e forse anche precise condizioni – in cui questo dono è elargito e sparso sugli uomini come la rugiada si posa sulle foglie e sui petali. In altre, invece, l’etere dorato che avvolge le immagini va dissolvendosi sempre più, e le cose si riducono alle loro pure e semplici forme intuite per astrazione. In questo caso, la visione immediata, quale potrebbe essere la poesia, può acquistar l’incommensurabile valore di una fonte che sgorghi nel deserto63.

La forza della visione è quella tipica della parola poetica che rischiara il reale fino a renderlo essenziale e trasparente. La visione che essa consente è qualcosa che contraddice quelle che filosoficamente vengono definite le “condizioni trascendentali”, ovvero condizioni di possibilità di ogni esperienza. Ne La forbice, scrive a tal proposito Jünger: «La visione contraddice l’esperienza; essa produce uno straniamento nella persona stessa che ne è colpita. Nella maggior parte dei casi il soggetto della visione cerca di rimuoverla, di ricondurla ad un’esperienza onirica. […] Si è percepita un’immagine, ma non la si è prodotta nella propria officina»64. La visione, cioè, consisterebbe nella percezione di un’immagine talmente ricca e potente da sconvolgere la stessa capacità ricettiva della nostra sensibilità e le facoltà produttive di forme e concetti del nostro intelletto, che, da Kant a Husserl, la modernità filosofica ha posto come centro e garante della conoscenza. Per descrivere una simile apprensione del reale, si potrebbe utilizzare il concetto di fenomeno “saturo” introdotto dal fenomenologo francese Jean-Luc Marion65. Si tratta di un fenomeno incondizionato ed irriducibile alle strutture trascendentali della soggettività, incommensurabile rispetto a qualunque predeterminato orizzonte di senso; eccedendo le categorie e i principi del nostro intelletto, esso produce una sorta di ipertrofia (o gloria) del visibile. L’esperienza del “fenomeno saturo” necessita di una particolare capacità di sostenere l’abbagliante pienezza di luce della visione. Secondo Jün63 64 65

E. Jünger, Il cuore avventuroso, cit., p. 87. E. Jünger, Die Schere (1990), in SW19; tr. it. di A. Iadicicco, La forbice, Guanda, Parma 1996, p. 28. Cfr. J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, tr. it. di R. Caldarone, SEI, Torino 2001 e Id., «Il fenomeno saturo», in Il visibile e il rivelato, tr. it. di C. Canullo, Jaca Book, Milano 2007.

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ger, è necessario riscoprire ed affinare un organo di senso primordiale che l’umanità ha ormai relegato nella sua infanzia mitica: la “seconda vista”. In quanto facoltà specifica di visione, essa ci permette di scorgere, senza tuttavia risolvere, gli enigmi dell’universo, configurandosi, il più delle volte, come una forma di pre-visione: il veggente, tuttavia, non predice semplicemente degli avvenimenti futuri, ma fa esperienza di un salto temporale, dislocandosi in una terra confinaria, alle sorgenti o alla foce del tempo stesso, là dove si annuncia, con angosciosi presagi, il passaggio ad un’altra configurazione di senso. Da queste soglie enigmatiche, che soprattutto la pittura moderna ha saputo magistralmente ritrarre, il veggente non accede ad alcuna rivelazione dispiegata; piuttosto riesce soltanto a cogliere qualche spiraglio, a intravedere, se pure lucidamente, soltanto degli scorci limitati: La visione non dischiude un’ampia prospettiva, come se con essa una cortina venisse squarciata: assomiglia piuttosto allo spiare attraverso il buco della serratura. Lo sguardo è limitato, cade per lo più su particolari accessori […]. Comunque, su tali dettagli, è perfettamente preciso. Si potrebbe pensare a un piccolo disturbo prodotto da una minuscola vite che, nell’intreccio del meccanismo della percezione, si allenta – grazie a Dio solo per un istante66.

In tali momenti di sospensione emerge la profondità cristallina del reale e, dal magma caotico del vivente, si annunciano le forme imperiture che di volta in volta delimitano e definiscono un’umanità storica ed il suo orizzonte di senso. Jünger non pensa, tuttavia, a nessuna fuoriuscita dal tempo o redenzione dalla finitezza: quel che importa è cogliere la tensione continua che attraversa e tormenta la finitezza stessa dell’esistenza e che espone il tempo al senza-tempo. Ciò che ci è concesso, in quanto finiti e mortali, è soltanto di poter soggiornare, per brevi istanti, ai limiti del tempo, e fare, così, esperienza del “limite” stesso, della sua prodigiosa potenza da cui scaturisce ogni terrena felicità. È alle soglie del tempo che si situa il significato ultimo del rilucere della Forma nelle visioni della natura e dell’arte. Nel Sanduhrbuch67, Jünger si sofferma su una particolare raffigurazione del tempo del destino che egli ritrova in una celebre incisione di Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavo-

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E. Jünger, La forbice, cit., pp. 28-29. E. Jünger, Sanduhrbuch (1954), tr. it. di a. La Rocca e G. Russo, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994.

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lo68. Il cavaliere che avanza con la visiera alzata e con andatura fiera nella gola perigliosa, seguito dalla morte che regge la clessidra e dal diavolo che lo minaccia, raffigura l’immagine dell’uomo che ha assunto su di sé il proprio destino e fiduciosamente gli si fa incontro, sicuro della propria interiore ‘salvezza’: il suo cammino si volge verso la Gerusalemme celeste, luminosa fortezza al di là del tempo, che raggiungerà dopo imprevedibili tornanti e nella cui quiete egli sembra già vivere nonostante i pericoli che su di lui incombono. Rispetto alle raffigurazioni di Schlichter, da cui abbiamo preso le mosse, lo sguardo stereoscopico del contemplatore solitario sembra qui cedere il passo ad una sorta di attraversamento iniziatico delle profondità elementari del pericolo e della morte: «Il cavaliere è – scrive Jünger – rappresentato mentre cavalca nelle profondità della terra. Le radici degli alberi sporgono all’altezza della sua testa. Egli procede come sul fondo di una tomba; gli zoccoli del cavallo sfiorano un teschio»69. Il percorso incerto ma orientato dalla lontana se pure ben distinguibile meta posta sull’altura luminosa, acquista, per lo Jünger ormai sottratto a qualunque tentazione attivistica, il significato esemplare di una estrema prova interiore, quasi un pellegrinaggio diretto verso il Muro del tempo i cui contorni enigmatici adesso si profilano nella luce iconica della città celeste. Così, infatti, conclude Jünger: «Non può che essere un bene per ognuno di noi trovarci di tanto in tanto così alle strette ed essere portati al cospetto dei signori del mondo e del tempo. È così che gli animi vengono messi alla prova»70.

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Illustrazione n. 13. Così Jünger commenta tale raffigurazione: «Vediamo il cavaliere procedere in una gola; dietro di lui è il diavolo con aspetto di demone. Accanto a lui, quasi volesse sbarrargli la strada, cavalca la morte, rappresentata come dio del tempo con le insegne della distruzione e del ritorno: il serpente e la clessidra. […] È curioso, in questa immagine, come il cavaliere non sembri prestare la minima attenzione né al diavolo né alla morte. Egli avanza per il cupo sentiero con la visiera alzata, immerso nei suoi pensieri. Dall’espressione è difficile capire se il suo stato d’animo sia di paura o di serenità. Si tratta in realtà di un evento interiore, di una radicale presa di coscienza del nostro ineluttabile destino, acquisita attraverso uno di quegli improvvisi presagi di morte che ci assalgono nel pieno della vita, quando il pericolo incombe o l’affanno ci opprime. […] A chi lo guarda il quadro comunica un senso di fiducia. Avvertiamo che il cavaliere è perfettamente all’altezza della situazione» (ivi, p. 211). Ibidem. Ivi, p. 212.

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GIULIANA GREGORIO

APOLLO E LA SIMMETRIA: ASPETTI DELLA VISIONE IN FRIEDRICH GEORG JÜNGER

Friedrich Hielscher, amico di Ernst e Friedrich Georg Jünger dagli anni berlinesi, racconta che un giorno, durante una gita in campagna nei pressi di Lipsia, era rimasto sconcertato dal comportamento dei due fratelli che, passeggiando, agitavano stranamente le mani in aria pronunciando parole latine; pensò che scherzassero, ancora in preda ai postumi della sbornia della sera precedente, «e invece facevano sul serio. Alcuni degli animaletti che incominciai solo dopo a vedere, mentre prima non li avevo assolutamente notati – perché entrambi gli Jünger sono occhi […] – venivano lasciati volar via, altri svolazzavano nella bottiglia dell’etere»1. Come nel caso di Ernst, anche in Friedrich Georg Jünger – definito lapidariamente da Karl August Horst «der Typus des Augenmenschen»2 – la dimensione dello sguardo, la sfera della visione, il coglimento visivo delle forme appaiono assolutamente primari e centrali. Se in Friedrich Georg non è presente una esplicita teorizzazione del vedere, se in lui non vi è traccia ad esempio, come nel fratello, di una «visione stereoscopica»3, ecc., il motivo è da ricercare nel differente strato sedimentario in cui si radica la sua personale e originale riflessione: l’ineliminabile sfondo mitico, la sua peculiare considerazione della mitologia greca. Per delineare i contorni teorici che la sfera della visione assume nell’opera di Friedrich Georg Jünger è quindi necessario partire dalla figura del mito che a tale sfera, eminentemente, presiede: il dio Apollo. 1 2 3

F. Hielscher, Fünfzig Jahre unter Deutschen, Rowohlt, Hamburg 1954; riportato in Ernst Jünger in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, a cura di K. Paetel, Rowohlt, Hamburg 1962, p. 41 (il corsivo è nostro). K.A. Horst, Kritischer Führer durch die deutsche Literatur der Gegenwart, Nymphenburger, München 1962, p. 185. Sul concetto di «stereoskopische Sicht» in Ernst Jünger, cfr. S. Gorgone, Naturphilosophie und stereoskopische Sicht bei Ernst Jünger, in Natur, a cura di G. Figal e G. Knapp, Jünger-Studien, Bd. 5, Attempto Verlag, Tübingen 2011, pp. 2139; si veda anche Id., Cristallografie dell’invisibile. Dolore, eros e temporalità in Ernst Jünger, Mimesis, Milano 2002, pp. 11 sgg.

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1. Lo sguardo di Apollo La descrizione della figura di Apollo compare nel volumetto del 1943 Griechische Götter4 ed è poi ripresa – non senza alcune differenze – nel più ampio Griechische Mythen del 19475. Occorre fare anzitutto una premessa sul modo della trattazione jüngeriana della mitologia greca. Andreas Geyer – in maniera credo piuttosto generica, per quanto, come si vedrà, non impropria – parla a tale proposito di «fenomenologia dei miti»6. Ora, prescindendo dall’abuso che troppo spesso si fa di questo termine, esso non appare qui inadeguato se pensato, ad esempio, in base alle indicazioni heideggeriane contenute nel celebre Methodenparagraph di Sein und Zeit. Se si intende cioè la fenomenologia come uno apophaínesthai tá phainómena, ovvero come un «lasciar vedere da se stesso ciò che si mostra, così come si mostra in se stesso»7, ciò può offrire – probabilmente al di là delle intenzioni di Geyer – una chiarificazione del peculiare approccio jüngeriano ai miti e, insieme, preziosi spunti di riflessione sul nostro tema specifico. Ernst A. Schmidt ha rilevato come, a differenza di quanto accade usualmente nelle esposizioni dei miti greci (da Moritz a Kerényi, a Graves8), in cui la narrazione è all’imperfetto, gli scritti mitologici di Friedrich Georg Jünger adoperino invece esclusivamente il tempo presente – tratto insolito che egli condivide con (e probabilmente trae da) Walter F. Otto9 e che è già 4

5 6 7 8

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Cfr. F.G. Jünger, Griechische Götter. Apollon – Pan – Dionysos, Klostermann, Frankfurt a. M. 1943 (la sezione su Apollo era stata in realtà già pubblicata nello stesso anno su “Die Neue Rundschau”: cfr. F.G. Jünger, Apollon, “Die Neue Rundschau”, 54, 1943, pp. 1-9). Cfr. F.G. Jünger, Griechische Mythen, Klostermann, Frankfurt a. M. 1947 (citiamo qui dalla terza edizione, rielaborata e riveduta, del 1957, ricordando tuttavia che l’ultima edizione dell’opera, la quinta, è del 2001). A. Geyer, Friedrich Georg Jünger. Werk und Leben, Karolinger Verlag, Wien und Leipzig 2007, p. 108. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), Gesamtausgabe, Bd. 2, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a. M. 1977; tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 55. Cfr. K.Ph. Moritz, Götterlehre oder Mythologische Dichtungen der Alten (1791), Insel Verlag, Frankfurt a. M. 1984; K. Kerényi, Die Mythologie der Griechen (1951-1958), a cura di M. Kerényi, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart 1997, 2 voll. (tr. it. di V. Tedeschi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Garzanti, Milano 1986, 2 voll.); R. Graves, The Greek Myths (1955), Penguin Books, London 1992 (tr. it. di E. Morpurgo, I miti greci, Longanesi, Milano 1983). Cfr. W.F. Otto, Die Götter Griechenlands. Das Bild des Göttlichen im Spiegel des griechischen Geistes (1929), Klostermann, Frankfurt a. M. 2002; tr. it. di G. Fede-

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parzialmente presente nel loro modello comune, la nietzscheana Geburt der Tragödie. Il verbo al presente, in particolare il presente del verbo essere – quello più frequente in Griechische Mythen – tradurrebbe secondo Schmidt l’aoristo greco delle narrazioni mitiche di Omero, di Esiodo, degli inni omerici e di Pindaro e verrebbe prescelto da Jünger per connotare le sue affermazioni quali «Wesensaussagen» (anche quello di Wesen è del resto un concetto che ricorre qui assai di frequente ed è anch’esso ripreso da Otto). Questo modo di narrare i miti al presente, la pressoché assoluta mancanza di riferimenti espliciti alle fonti (che cela in realtà una profonda conoscenza di esse e una grande precisione nel loro uso), la frequenza di espressioni quali «wir sehen», «sie erscheinen», del verbo “zeigen” («vediamo», «appaiono», «mostrare») marcano quella che Schmidt definisce «die durchaus heutige Wesenspräsenz der Jüngerschen Aussagen»10, producendo l’effetto inconsueto di un presentarsi ai nostri occhi delle figure mitiche nella loro immediata realtà, nella plasticità della loro diretta evidenza (anche se non si può parlare per Jünger di «teofanie» alla Otto: qui sono praticamente assenti concetti quali epifania, apparizione, manifestazione o rivelazione, e anche del termine «Gestalt» Jünger fa un uso estremamente parco, forse proprio per differenziarsi da Otto, in cui il termine è assunto quale concetto-guida della riflessione sul divino). Le divinità greche, attraverso le pagine di Jünger, mostrano-sé nella loro enigmatica presenza, nel duplice senso del loro essere anwesend e, in un certo senso, gegenwärtig. Jünger è certo chiaramente consapevole del fatto che il mondo greco e, con esso, gli dei greci possono essere oggi ancora presenti solo in quanto gewesen, per avvalerci ancora del lessico heideggeriano: «Il nostro pensiero – scrive – non è pensiero mitico, ma pensiero sul mito. Non pensiamo come pensavano i Greci, ma riflettiamo su [überdenken] quello che essi pensavano»11. Si tratta però di comprendere, quale «coincidenza il pensiero greco possieda per il nostro proprio pensiero»12, di cogliere le «corrispondenze» nascoste che sussistono tra il ‘passato’ mondo mitico e il nostro presente e il cui senso profondo sfugge alla moderna, lineare, percezione del tempo: «Nell’inizio è posta anche la fine e la fine

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11 12

rici Airoldi, a cura di G. Moretti e A. Stavru, Gli dèi della Grecia. L’immagine del divino nello specchio dello spirito greco, Adelphi, Milano 2004. E.A. Schmidt, Friedrich Georg Jünger, Griechische Mythen. Das Titanische und das Panische als Grund und Raum des Göttlichen im Sein des Menschen, in Mythen, G. Figal e G. Knapp, Jünger-Studien, Bd. 3, Attempto Verlag, Tübingen 2007, p. 19. F.G. Jünger, Griechische Mythen, cit., p. 9. Ibidem.

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pone di nuovo, a partire da sé, l’inizio. Può accadere che ripetiamo situazioni mitiche senza renderci conto di questa ripetizione»13. Ma in che modo mostra qui sé Apollo, per Otto «der gestalthafteste Gott», per Jünger il dio del puro presente, il «dio dell’essere», il «più plastico degli dei»14? In Griechische Götter e poi analogamente in Griechische Mythen (testo cui d’ora in poi faremo soprattutto riferimento) Apollo compare come il primo membro di una triade di divinità che ripete, modificandola, quella proposta da Otto nel suo libro del 1929. La triade di Die Götter Griechenlands, Atena-Apollo-Artemide, è qui infatti sostituita da quella Apollo-Pan-Dioniso. Discuteremo più avanti i motivi della scelta di Jünger, evidentemente non casuale se in lui, come già in Otto, le divinità greche appaiono, nella vivida realtà del loro presentarsi, quali vere e proprie determinazioni fondamentali dell’essere. Soffermiamoci adesso sui tratti distintivi dell’essenza di Apollo. Griechische Mythen si compone di tre parti: Titanen, Götter, Heroen15. La trattazione specifica della figura di Apollo è posta all’inizio della seconda parte, ma per coglierne interamente i contorni è necessario prendere le mosse dalla prima parte. La «Gestaltenwelt»16 degli dei olimpici, come già aveva visto Nietzsche, si staglia infatti solo a partire da e in contrapposizione con lo sfondo, lo Urgrund, titanico; solo rispetto a esso è possibile comprendere il loro specifico profilarsi: «Se non ci fosse il titanico, il dominio degli dei sarebbe costruito sul vuoto, non avrebbe alcuna stabilità e resistenza [Bestand und Widerstand] contro cui poter risaltare e acquisire forma [Gestalt]»17. Per comprendere il luminoso stagliarsi di Apollo, dio ordinatore che istituisce un regno spirituale, occorre allora partire dall’inizio, dal buio dell’origine, da Caos come assoluta assenza di ordine (da cui però solo tutti gli ordinamenti discendono), come assoluta oscurità, assenza di luce («un essere [Wesen] oscuro non toccato da alcun raggio di luce», an13 14 15

16 17

Ibidem. Su ciò si veda D. Koch, Philosophische Gedanken zum Göttlichen im Blick auf Friedrich Georg Jünger und Martin Heidegger, in Mythen, cit., pp. 184-200. F.G. Jünger, Griechische Mythen, cit., p. 188. Come si è in parte già accennato, si tratta di un’opera che parzialmente riprende – con qualche variazione –, assemblandoli, testi già pubblicati in precedenza: se nel 1943 era apparsa la prima versione della seconda parte (Griechische Götter. Apollon – Pan – Dionysos), l’anno successivo era stata infatti pubblicata la prima redazione della prima parte (cfr. F.G. Jünger, Titanen, Klostermann, Frankfurt a. M. 1944). Ernst Jünger definiva Griechische Mythen l’opera più importante tra quelle scritte dal fratello, nonché quella a lui più cara: cfr. A. Gnoli-F. Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 55. F.G. Jünger, Griechische Mythen, cit., p. 11. Ivi, p. 113.

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che se «la luce è inclusa in questa oscurità»18), come regno sotterraneo. In questo ambito originario le prime potenze mitiche non si distinguono ancora chiaramente dallo Urgrund, dal fondo originario dal quale sorgono; anche il loro profilo rimane affetto dall’in-forme, dallo Ungestaltete: non ci sono ancora Gestalten, né persone, né essenze distinte. Caos è l’indifferenziato, l’indistinto (è das Ungesonderte, il non ancora separato), e, in quanto tale, è al di fuori di ogni possibilità di rappresentazione, non è possibile farsene un’immagine: «Chaos west zwar, hat aber noch kein festes Wesen»19 – in qualche modo è possibile dire che ‘è’, ma il suo modo di essere non possiede ancora tratti saldi e definitivi. Caos non è un principio creatore, da lui semplicemente si distaccano ordinamenti, che non sembra né favorire né impedire. Ma, poiché tutto è in lui, in lui deve essere anche l’impulso a sottrarsi all’informe e ad assumere una figura, una Gestalt. Le prime figure distinte sono appunto i Titani, figure grandiose che non si staccano però completamente dal fondo da cui emergono: «Dietro di loro c’è oscurità, e quando essi entrano nella luce, vengono in luce, è come se provenissero direttamente dalla notte. Ciò è evidente perfino nel luminoso Helios»20. E proprio dal confronto con Helios, il suo simmetrico titanico (si ricordi la perfetta simmetria esistente tra il numero dei titani e quello degli dei olimpici), risalta più chiaramente la specificità divina di Apollo. Se «il titanico si solleva in Helios alla sua più alta forza luminosa»21, ciò che in lui vi è di radioso e solare è sempre tuttavia vincolato all’incessante e titanico movimento circolare, che lo connette a Oceano e alla notte, da cui sorge a Oriente e in cui torna a immergersi in Occidente: sul carro forgiato da Efesto egli ruota risplendente intorno alla terra, nel movimento circolare e sempre uguale che caratterizza tutti i Titani. Così, se nello splendore e nella luminosità di Helios (e del padre Iperione) si manifesta la vicinanza ad Apollo («l’occhio di Helios ha come quello di Apollo qualcosa di onnipenetrante, che tutto abbraccia; a Helios non sfugge nulla, nel suo moto circolare egli vede tutto. La sua testa rotonda, il suo volto è sempre rivolto a noi e non si distoglie mai da noi»22), non solo il carattere proprio dello splendore di Helios, legato all’oscurità da cui sempre emerge e in cui sempre di nuovo riaffonda, ma anche il genere del suo movimento lo differenziano radicalmente dal dio. In Helios tutto è mosso, da un movimento necessario cui il Titano non può sottrarsi, es18 19 20 21 22

Ivi, p. 16. Ibidem. Ivi, p. 35. Ivi, p. 40. Ivi, p. 41.

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sendovi essenzialmente vincolato; Apollo, al contrario, «si leva statuario, guarda a noi in perfetta quiete, ergendosi dal piedistallo della sua pacatezza contemplativa [Besonnenheit] in modo tale che intorno a lui è libero spazio e diviene percepibile come il dio stia al centro [Mitte], agisca a partire dal centro, ordini a partire dal centro»23. In Apollo si manifesta in piena luce la «possente pienezza dell’essere»24 che, come in Zeus, il dio che ha l’essere più ricco, è «quieta» [ruhende] pienezza di essere, che quietamente domina su tutte le cose. Il divenire [Werden] titanico lascia qui il posto a un Sichvollenden, o, meglio, a un compimento già sempre raggiunto. Il regno olimpico, di cui Apollo costituisce la figura più luminosa, è contraddistinto da perfezione [Vollkommenheit] e maturità [Reife], che nella compiutezza [Vollendung] delle sue figure [Gestalten], definitivamente staccatesi dal grembo oscuro di Gaia, si mostrano «come splendore [Glanz], brillio [Schimmer], luce più forte [stärkeres Licht]»25. Se, nella pienezza della sua maturità, Apollo è «centro», lo è infatti, dice Jünger, «bis zum Leuchtenden, bis zum höchsten Glanz»26, al grado supremo dello splendore. La chiarezza [das Luzide] del suo mondo emerge dal centro. E ciò non lo differenzia radicalmente solo da Helios, ma segna anche la sua contrapposizione nei confronti di Prometeo. Quel che in Prometeo è irrequietezza, divenire, tendere al nuovo, progettare, ha in Apollo i tratti di ciò che è compiuto, perfetto, riuscito. L’oscuro, selvaggio fuoco di Prometeo sta alla piena luce di Apollo come il nervoso, «muscoloso» spirito del titano sta al piede leggero e musico del dio27. Questi tratti preliminari della figura di Apollo vengono ripresi e approfonditi nella sezione della seconda parte di Griechische Mythen a lui intitolata. Apollo si presenta qui, innanzitutto, nel suo «puro e libero passo»28, come colui che guida il coro delle Muse; è il dio che ordina attraverso il canto e il suono della lira. Quest’ordine musico, che è condizione di ogni ordine, è profondamente connesso con la luce che pervade il dominio di Apollo. Tale dominio è «lichthell», come lo stesso Apollo, dio profetico cui nulla di presente o di futuro può restare nascosto. Da lui, cui appartiene l’oracolo delfico, «emana una luce [Licht] che diffonde chiarore [Helle] al di sopra dell’oscurità e che tramite questo chiarore crea ordine»29. All’interno 23 24 25 26 27 28 29

Ivi, p. 40. Ivi, p. 84. Ivi, p. 120. Ivi, p. 105. Cfr. ivi, p. 81. Ivi, p. 127. Ivi, p. 128.

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di esso tutto ciò che è acquista il suo chiaro profilo, le cose si separano, diventando «deutlich» (chiare e distinte), distinguendosi nettamente [scharf] le une rispetto alle altre; ed entro tale luce, che promana dall’interno del dio stesso, compaiono i confini e le misure. Legislatrice è la luce del dio, «nemico di tutto ciò che è offuscato, opaco, confuso», dio della de-cisione [Entscheidung] e della regola [Richtschnur], che si oppone a tutto ciò che è «in-deciso, ambiguo, esitante»30. Il suo creare ordine attraverso la luce, che diffonde un dorato chiarore nell’oscurità, rende in tal modo trasparente [durchsichtig], penetrabile dalla vista, tutto quel che appare cupo, pesante, opprimente. I foschi regni intermedi in cui sorgono le chimere gli sono estranei. Fondatore e legislatore del nuovo ordine che procede da Zeus, egli si contrappone all’antico ordine ctonio, agli oscuri mostri partoriti da Gaia. Uccisore di draghi, protettore di Oreste, grazie alla luminosa serenità [helle Heiterkeit] del suo occhio bene aperto [weitgeöffnetes Auge] libera dalle oscure angosce e dai cupi terrori che come nebbia si dissipano davanti al suo sguardo dissolutore di enigmi, definitivamente rischiarante. Per questo gli sono consacrati l’alloro, dalle solide e ben formate foglie, la cicala che canta nella luce il suo nitido [scharf] canto, il serpente che riposa al sole, lucente animale del mezzogiorno. È un dio purificante [reinigend] in quanto è il più puro [der Reinste], che, come tale, odia ogni confusa mescolanza, distingue e divide e, così facendo, risana. È risanante attraverso la sua stessa essenza, è heilsam in quanto heil, unverletz, intatto, guarisce «attraverso misura, ordine, conoscenza di sé. Sotto la sua protezione il malato guarisce perché trova accesso alla salute del dio […]. Apollo partecipa ai suoi protetti la propria chiarezza ordinatrice, la luminosità cristallina del suo spirito portatore di forme [Formen]. […] Egli apre l’occhio»31. Apollo parla attraverso forme e ama solo ciò che possiede una forma rigorosa. La sua forza lieve [leichte Kraft] allontana l’informe, il non formato, l’amorfo, le forme non riuscite, in cui è percepibile la pesantezza, il gravame che affetta il non compiuto: «La signoria di Apollo si mostra in ciò, che per lui non esiste nulla di pesante. In lui non c’è nessuno sforzo o tensione del volere […] e nessun fallire»32. Il suo occhio solare [sonnenhaft] predilige ciò che è compiuto, la sua Heiterkeit è «chiaro fuoco» [klares Feuer], non conosce nostalgia né mancanza, basta a se stessa. Il dio non conosce il sapere della perdita, né la distruzione può toccarlo; guarisce chi 30 31 32

Ibidem. Ivi, p. 137. Ivi, p. 130.

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soffre ma non ama la sofferenza: «Lo splendore [Glanz] che lo circonda mostra che egli è libero dal tormento del divenire e dal giogo del volere»33. Nel suo essere Mitte e Kreis, centro e cerchio, il suo spirito sereno ha il proprio baricentro in se stesso. Per questo è difficile accostarsi ad Apollo, la distanza che lo separa dall’uomo è insuperabile e mortale. Egli è der Fernhintreffende, il terribile arciere che da lontano colpisce con dardi implacabili. Non conosce misericordia: colui che trasgredisce ordine e misura viene da lui annientato. Là dove egli si avvicina all’uomo, «attraverso la vicinanza i confini divengono più distinti [deutlicher]»34. Proprio in quanto egli è il dio che traccia i confini, signore della misura e della distanza che viene fondata attraverso la misura, a colui che gli si accosta divengono percepibili i limiti posti a questa misura, i confini invalicabili che non si possono oltrepassare. […] Apollo rende gli uomini immuni dalla violazione del limite propria della mancanza di misura e della dismisura. Protegge l’occhio e conferisce il dono della visione [Anschauung]. La perfetta misura dell’opera d’arte greca è un dono del dio, che ha grandi occhi e uno sguardo esatto. Per questo è il dio della finitezza circonfusa di luce, in cui le cose si stagliano nella loro separatezza e l’uomo acquista coscienza di sé e dei suoi limiti. È chiaro presente [helle Gegenwart], essere risplendente [leuchtendes Dasein], che rende massimamente percepibile l’attimo [Augenblick]. Così egli porta luce nel rapporto delle cose, quale dominatore e legislatore35.

Jünger paragona il dio alle colonne dell’ordine dorico (rigorosamente apollineo), il cui «fusto rotondo, assottigliantesi, che sale leggero, stagliandosi separato, circonfuso di spazio luminoso e aereo […], mostra la forza di Apollo»36. A ciò si lega strettamente un altro suo tratto fondamentale: il suo essere, in quanto artista-architetto, fondatore di poleis, dio dello stato e delle costituzioni statali, colui che presiede alla legislazione e al diritto, che conosce il giusto e il vero e non è soggetto all’errore, che indica la giusta via ed è per questo protettore delle strade e guida sicura dei colonizzatori. La sua chiara visione [helle Einsicht] è conoscenza della misura e tale misura – che egli mostra all’uomo di stato, all’artista, all’artigiano e al pastore – è la misura del bello, che scaturisce dalla sua forza musica, musicalmente ordinatrice: «Il segreto e la forza del suo suonare la lira è che esso crea armonie, figure fondamentali [Grundfiguren] che sono parametri del 33 34 35 36

Ivi, p. 131. Ibidem. Ivi, pp. 131-132. Ivi, p. 132.

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bello». Egli comunica la «conoscenza che l’armonia è la conseguenza di un ordine secondo misura e che grazie all’assistenza del dio si riesce a far apparire ovunque questo ordine, nella costituzione statale, nella legislazione, nella costruzione di templi e nella singola figura plastica»37. La musica di Apollo ha dunque un diretto significato politico: «Dal nomos apollineo della musica scaturisce ogni nomos»38. Egli presiede alla chiara [klare] festosità della vita, la sua felicità musica si manifesta nell’alta luce che promana dalla vetta del Cinto, sull’isola di Delo. È un dio festoso, il dio dei giochi pitici, colui che assegna la vittoria nelle competizioni ginniche e musicali e che si mette lui stesso in gara. La sua forza «si manifesta soprattutto dove la vita viene portata in luce»39. Nel suo occhio senza nubi giace un’alta felicità, «libera da mutamenti, casualità e trasformazioni, uno stato durevole di felicità che riposa sulla visione [Einsicht], sulla chiarezza spirituale [geistige Helle], sulla sobrietà musica dello spirito»40. È un dio giovane, in cui rifulge la perfezione della giovinezza: «La sua Gestalt è archetipo del bello»41. Per questo non viene raffigurato seduto: «La cosa più bella è il dio nudo, ritto in piedi, che mostra nel modo più visibile la perfezione della sua costituzione [Bildung]»42. Con il suo lunghissimo collo, gli enormi occhi rotondi, appare, nel suo ergersi solenne, estraneo e inquietante: «Molto lontano egli sta lì, in uno spazio intoccabile»43. Con queste parole si chiudono le pagine jüngeriane dedicate ad Apollo, i cui tratti, come risulterà a questo punto evidente, non sono affatto inediti, ritrovandosi già tutti, senza eccezioni, in Otto44 e, prima ancora, in Nietzsche45. Se ciò non fa che confermare la continuità di una tradizione interpretativa, che risale in realtà a Winckelmann, quello che si tratta di evidenziare è la diversità – e quindi l’originalità – delle accentuazioni. Presentando la figura di Apollo, Walter F. Otto insiste in modo martellante sui concetti di virilità, 37 38 39 40 41 42 43 44 45

Ivi, p. 134. Ibidem. Ivi, p. 143. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 144. Ibidem. Cfr. W.F. Otto, Gli dèi della Grecia, cit., pp. 60-63, 68-86, 95, 235-238, 249, 251254, 291, 301-305. Cfr. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie (1872), Kritische Studienausgabe, Bd. 1, a cura di G. Colli e M. Montinari, DTV-de Gruyter, München-Berlin-New York 1999; tr. it. di S. Giametta, La nascita della tragedia, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III, t. I, Adelphi, Milano 1976, pp. 21-24, 26-34, 36-38, 61, 64, 70-71, 105, 110-111, 137, 141-146, 156, 161-162.

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maschilità, spiritualità, coscienza e conoscenza in quanto sovrana presa di distanza dello spirito (concetti ancora in parte presenti in Griechische Götter e poi cassati quasi del tutto in Griechische Mythen). Friedrich Georg Jünger sottolinea invece, come si è mostrato, tutto ciò che ha a che fare con il visuale, con la sfera della visione, della luce, delle forme. Torniamo per un momento a una questione lasciata prima in sospeso, ovvero l’inserimento di Apollo da parte di Jünger nella ‘strana’ triade ApolloPan-Dioniso. La stranezza sta nella presenza di Pan, che non è un dio olimpico, che è ignoto a Omero e a Esiodo e che, secondo alcuni interpreti46, avrebbe qui la funzione di termine medio che permetterebbe di integrare e conciliare definitivamente l’antitesi nietzscheana apollineo-dionisiaco (antitesi che Otto cerca di invece spezzare eliminando direttamente Dioniso dalla triade di Die Götter Griechenlands e dedicandogli un libro a parte47, ma che in realtà non è poi così ferrea, al di là della prima impressione, nemmeno nello stesso Nietzsche). Pan è una divinità centrale per Jünger in quanto colui che abita la Wildnis, la «terra selvaggia», l’origine48. Se Apollo è colui che istituisce misura, ordine e confini, poi travolti dall’irruzione di Dioniso che in qualche modo li riempie così di significato, impedendo che si irrigidiscano in una pura vuotezza formale, Pan è ciò che sta prima – all’origine – di misura, ordine e confini e, per questo, «in Pan l’apollineo e il dionisiaco sono ancora uniti»49. Il dominio musico di Apollo «trae in Pan la sua origine. Così anche il dionisiaco emerge dal panico, in modo che Dioniso non potrebbe sussistere senza Pan»50. Si rivela così, per Jünger, che «la contrapposizione in cui compaiono apollineo e dionisiaco conduce a una unificazione, visibile nella comunanza dei luoghi di culto [consacrati ai due dei]. […] Apollo non potrebbe esistere senza Dioniso proprio come Dioniso senza Apollo»51. Tale 46

47 48

49 50 51

Cfr. ad es. A.H. Richter, A Thematic Approach to the Works of F.G. Jünger, Peter Lang, Berne and Francfort/M. 1982, p. 13, e E.A. Schmidt, Friedrich Georg Jünger, Griechische Mythen. Das Titanische und das Panische als Grund und Raum des Göttlichen im Sein des Menschen, cit., p. 22. Cfr. W.F. Otto, Dionysos. Mythos und Kultus, Klostermann, Frankfurt a. M. 1933; tr. it. di A. Ferretti Calenda, Dioniso. Mito e culto, il melangolo, Genova 1993. Cfr. F.G. Jünger, Die Wildnis, in Anteile. Martin Heidegger zum 60. Geburtstag, [a cura di H.-G. Gadamer], Klostermann, Frankfurt a. M. 1950, pp. 235-244; tr. it. di G. Gregorio, La terra selvaggia, “Criterio”, anno XIII, n. 1-2, 1995, pp. 51-60. Su ciò mi permetto di rimandare a G. Gregorio, Wildnis e Lichtung: la “terra selvaggia” di Friedrich Georg Jünger, “Criterio”, anno XIII, n. 1-2, 1995, pp. 39-50; Ead., Imagines naturae bei Friedrich Georg Jünger, in Natur, cit., pp. 152-171. F.G. Jünger, Griechische Mythen, cit., p. 173. Ivi, p. 171. Ivi, p. 177.

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affermazione – che non è poi così distante dalla celebre frase di Nietzsche: «Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso»52 – vorrei piegarla in direzione della tesi, forse un po’ strumentale, che intendo qui osare, forzando quest’idea della coessenzialità di Apollo e Dioniso. Se comunemente si ritiene che sia Dioniso (pensato non più come dio del tragico, ma della trasformazione, della gioiosa ebbrezza, dell’incessante e feconda metamorfosi) la figura mitologica fondamentale per Jünger, così come per tutti gli autori della cosiddetta Rivoluzione conservatrice53, vorrei qui insinuare il sospetto che non solo Apollo sia per lui altrettanto fondamentale, ma che possa forse essere in fondo considerato come il vero nume tutelare dello Augenmensch Friedrich Georg Jünger. Cito due versi dalla poesia Der Taurus, che servono da passaggio alla seconda parte di questo scritto: «Immer hat mich das Sehen erfreut, und begierig nach Formen / Fand ich mein Auge [Sempre mi ha rallegrato il vedere, e bramoso di forme / Ho trovato il mio occhio]»54. 2. La simmetria delle forme In uno scritto del 1942 rimasto a lungo sconosciuto, Ordnung der Wirklichkeit55, Werner Heisenberg, alla luce delle profonde trasformazioni appor52 53

54 55

F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 145. Sul rapporto tra Friedrich Georg Jünger e la Rivoluzione conservatrice cfr. A. Mohler, Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1932. Ein Handbuch, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 19893 (tr. it. a cura di L. Arcella, La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1918-1932. Una guida, Akropolis/La Rocca di Erec, Firenze 1990); S. Breuer, Anatomie der Konservativen Revolution, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1995 (tr. it. di C. Miglio, La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, Donzelli, Roma 1995); A. Geyer, Friedrich Georg Jünger. Werk und Leben, cit., pp. 38-86, e soprattutto, U. Fröschle, Friederich Georg Jünger und der ‘radikale’ Geist. Eine Fallstudie zum literatischen Radikalismus der Znischenkriegszeit, Thelem, Dresden 2008. F.G. Jünger, Der Taurus. Gedichte, Klostermann, Frankfurt a. M. 1949, p. 63. Il testo, pubblicato postumo solo nel 1984, non fu probabilmente dato alle stampe da Heisenberg all’epoca della sua composizione (ma solo distribuito in copie manoscritte ad alcuni amici fidati) a causa di alcune prese di posizione polemiche nei confronti del regime nazionalsocialista – per quanto velate – in esso contenute: cfr. W. Heisenberg, Ordnung der Wirklichkeit (1942), in Gesammelte Werke, a cura di W. Blum, H.-P. Dürr, H. Rechenberg, Pieper, München 1984, CI, pp. 217306; tr. it. di G. Gregorio e C. Staiti, Ordinamento della realtà, in W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà, a cura di G. Gembillo e G. Gregorio, Guida, Napoli

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tate alla visione novecentesca del mondo dalla nuova fisica, tentava di formulare un nuovo ordinamento ascendente degli ambiti della realtà, sul modello di quello proposto da Goethe nella Farbenlehre. Alla suddivisione degli ambiti enunciata da Goethe: «Casuale, Meccanico, Fisico, Chimico, Organico, Psichico, Etico, Religioso, Geniale», Heisenberg sostituiva quella seguente: «Fisica, Chimica, Vita organica, Coscienza, Simbolo e forma, Le forze creative»56. Qualcosa di analogo, per quanto su scala ridotta, fa Friedrich Georg Jünger nel saggio del 1948 Über die Symmetrie57. In questo testo, dai tratti squisitamente apollinei, tanto che esso può essere letto come un’applicazione esemplificativa di quanto detto fin qui, anche Jünger propone una sorta di ordinamento ascendente della realtà, anzi, più precisamente, delle forme del reale, sulla base dell’idea-guida di simmetria. Prende le mosse dalla definizione matematica di asse: una linea retta intorno alla quale giace simmetricamente un insieme continuo o discontinuo di punti. Tutti i corpi regolari di forma simmetrica hanno un asse che, nel caso di corpi quali la sfera, è detto asse di rotazione. Tale è ad esempio l’asse celeste, i cui estremi sono il polo nord e il polo sud del cielo. L’asse terrestre è una parte dell’asse celeste, che è perpendicolare alla superficie dell’equatore e dei paralleli ed è quindi anche asse di questi ultimi. Da questo scenario cosmico preliminare si passa alla considerazione della simmetria all’interno della materia inorganica e, in particolare, al caso dei cristalli. Qui gli assi sono costituiti dalle linee rette tracciate per il punto medio di un cristallo, che collegano tra loro gli spigoli, il centro degli angoli o delle superfici, determinando, tramite la loro posizione e i rapporti tra le loro lunghezze, le diverse forme di cristalli. E qui compare un concetto assai caro a Jünger: «Già qui vediamo che al fondo di ogni simmetria sta la legge del ritorno [Wiederkehr]. Il singolo corpo ordinato simmetricamente la realizza nella regolarità della sua struttura, in cui ritornano parti uguali»58. Il ritorno è infatti sempre necessariamente, per essere

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20022, pp. 79-200. Su di esso cfr. C. Chevalley, Introduction, in W. Heisenberg, Philosophie. Le manuscrit de 1942, Éditions du Seuil, Paris 1998, pp. 17-245. W. Heisenberg, Ordinamento della realtà, cit., p. 101. Cfr. F.G. Jünger, Über die Symmetrie, in Orient und Okzident. Essays, Hans Dulk, Hamburg 1948, pp. 273-299 (il saggio non è più presente nella seconda edizione ampliata (!) dell’opera, Orient und Okzident, Klostermann, Frankfurt a. M. 1966, da cui viene anche escluso lo scritto Briefe aus Mondello, anch’esso presente nella prima edizione, ma già pubblicato separatamente presso Dulk nel 1943). Ivi, p. 276. Per il concetto jüngeriano di «Wiederkehr» cfr. soprattutto F.G. Jünger, Gedächtnis und Erinnerung, Klostermann, Frankfurt a. M. 1955, e Id., Nietzsche, Klostermann, Frankfurt a. M. 1949. Sulle critiche avanzate da Friedrich Georg Jünger nei confronti del concetto nietzscheano di «eterno ritorno» mi permetto di

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definibile come tale, ritorno di qualcosa di uguale. Così «soluzioni cristalline uguali producono sempre uguali forme cristalline […]. Ma come si forma incessantemente qualcosa di uguale, così in questo uguale ritornano sempre di nuovo lo stesso rapporto, le stesse proporzioni»59. Ma ciò che è presupposto dalla simmetria è sempre un centro [Mitte] a cui le parti uguali si riferiscono. Amorfo e asimmetrico è ciò in cui non è percepibile alcun centro: «Solo a partire dal centro la simmetria diviene percepibile per l’occhio. Le forme [Gebilde] simmetriche sono immediatamente riconosciute come tali dall’occhio in quanto è presente il riferimento delle parti al centro»60. La vista di un cristallo regolare, a differenza di un pezzo informe di pietra, risveglia in noi un’impressione di perfezione, attraendo la nostra attenzione e la nostra partecipazione, sintomatica del profondo significato che la simmetria ha per noi. A conclusione del processo di cristallizzazione, nel cristallo formato il rapporto di forze tra i movimenti e le parti che vi hanno cooperato giunge a uno stato di quiete. Il cristallo è compiuto [fertig] e non può essere ulteriormente perfezionato: «Esso è l’espressione di un equilibrio di forze che si impone subito all’occhio nell’ordine regolare delle parti»61. Si tratta qui di un equilibrio meccanico e funzionale, giunto alla sua più alta regolarità, che mostra lo stretto legame esistente tra simmetria e parallelismo. In ogni simmetria vi è qualcosa di parallelo, ossia «una concordanza del diverso, una corrispondenza regolare, un uno-accanto-all’-altro. Tratto distintivo di questo parallelismo è la simultaneità»62; ma tale simultaneità propria della simmetria ha a che fare con l’ordinamento spaziale, non con il succedersi temporale, la cui ritornante legalità, scrive Jünger, «chiamiamo ritmo. La rigida simmetria non è capace di evoluzione temporale; è un risultato, una fine»63, nel suo presentare una proporzionalità precisa, fissa e definitiva. Le cose cambiano se dagli enti inorganici si ascende agli esseri organici: qui si mostra una proporzionalità capace di mutamento. Se il cristallo è completamente determinato e definito dalla sua simmetria, non possedendo alcun tipo di individualità, nel caso degli esseri organici, coinvolti in un processo di crescita, compare l’individualità e la rigida simmetria si atte-

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rimandare a G. Gregorio, Die Zeitauffassung Nietzsches und Friedrich Georg Jüngers, in Autorschaft – Zeit, a cura di G. Figal e G. Knapp, Jünger-Studien, Bd. 4, Attempto Verlag, Tübingen 2010, pp. 110-137. F.G. Jünger, Über die Symmetrie, cit., p. 277. Ibidem. Ivi, p. 278. Ibidem. Ibidem.

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nua: «Dove ha inizio la crescita, la simmetria non regna più da sola, ora essa è sottoposta alla crescita»64. Per quanto grande sia la simmetria negli esseri viventi, essi, crescendo e sviluppandosi, obbediscono innanzitutto alle leggi di questo sviluppo e le loro proporzioni non si possono più racchiudere entro una simmetria rigida, incompatibile con il mutamento e il libero movimento. Se, dunque, nel caso del cristallo, forma di pura spazialità, non è percepibile alcuna dimensione temporale, tutto cambia nel caso degli esseri viventi. Così la pianta si distingue dal minerale in quanto, pur essendo vincolata al suolo, è capace di un movimento attivo indipendente, appunto la crescita: «Le simmetrie delle piante sono legate alla crescita»65. Sono soprattutto le parti pienamente sviluppate a mostrare rapporti simmetrici, come foglie, fiori, frutti, rami, ecc., ma simmetrie radiali, bilaterali, dorsoventrali si riscontrano anche nelle parti in corso di sviluppo. Salendo agli animali, Jünger osserva che i livelli inferiori di vita animale esibiscono simmetrie più rigide. Egli parte dalla considerazione degli invertebrati e, in particolare, dei radiolari, così chiamati proprio a causa della simmetria radiale che li caratterizza; i loro scheletri, costituiti spesso da acido silicico trasparente, si formano grazie a un processo simile alla cristallizzazione e le loro parti sono connesse con un rigore matematico, mostrando ancora una rigidità simmetrica, presente anche negli echinodermi, nei ricci di mare, dagli scheletri composti da placche calcaree, nelle lumache, a simmetria spiraliforme, nei molluschi. Se questi animali inferiori poco si distinguono ancora dal regno minerale66, salendo ai vertebrati si nota, scalino dopo scalino, come il collegamento della simmetria con rapporti rigidi vada decrescendo con il graduale aumento della libertà nella crescita e nel movimento. Ciò si nota nel modo più chiaro nell’uomo: «Se si schematizza la figura [Gestalt] umana sulla base di un canone, cercando di determinarne le simmetrie, si giunge rapidamente a quella rigidità in cui perdura l’arte egiziana»67. Jünger parla dei tentativi fatti nella storia di stabilire un canone perfetto della figura umana, da 64 65 66

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Ivi, p. 279. Ivi, p. 280. È tipica del pensiero di Friedrich Georg Jünger la convinzione dell’impossibilità di tracciare una linea netta di demarcazione tra il regno minerale (che si presume a torto composto da mera materia ‘morta’, inanimata) e i superiori regni vegetale e animale, che costituirebbero invece l’ambito del vivente: tra i tre regni esistono infatti, a suo avviso, ‘sottili’ corrispondenze, profonde e segrete affinità, punti di intersezione, intrecci nascosti e non appariscenti, movimenti metamorfici. Su ciò cfr. G. Gregorio, Imagines naturae bei Friedrich Georg Jünger, cit., pp. 161 sgg. F.G. Jünger, Über die Symmetrie, cit., p. 282.

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Policleto a Leonardo alla Divina proportione di Pacioli (1509), in cui a canone era elevata la sectio aurea; ma, egli si chiede, è davvero possibile ridurre la Gestalt umana a una simile suddivisione matematica di linee, a una legge così “misera”, facendone una chiave di comprensione del vivente? L’uomo, inoltre, non appartiene soltanto al regno naturale, che lavora per ripetizioni, ma anche, e soprattutto, alla storia. I nuovi pensieri cambiano anche i nostri corpi, le nostre posture, il nostro incedere: «Nemmeno la più precisa dottrina delle proporzioni basta a cogliere tutte le proporzioni del corpo umano, perché esse non consistono solo nelle relazioni e misurazioni quantitative del corpo»68. L’opera d’arte cui si attribuisce valore canonico, e che lo possiede solo in e per una determinata epoca storica, non indica altro se non il modo, storicamente sempre mutevole, in cui l’uomo desidererebbe essere: «Ogni simbolica della figura umana, ogni chiave proporzionale ha quindi un valore limitato. […] Per cogliere le più fini, più spirituali proporzioni [del corpo umano] è sempre servito, in tutte le epoche, un occhio altrettanto fine, spirituale, delicato, capace non solo di penetrare tessuti e muscoli, ma di cogliere la stessa crescita spirituale»69. Ciò non significa, tuttavia, negare ogni valore ai canoni; innegabile è l’immediatamente percepibile simmetria del corpo dell’uomo, caratterizzato – unico tra gli esseri viventi – da una peculiare simmetria verticale: «Ciò si misura già dall’alto rango che si attribuisce alla figura [Figur] nuda, eretta, che rende chiaramente visibile proprio questa simmetria verticale»70. Essa esprime quel più di crescita, di dispiegamento, di sviluppo che contraddistingue l’uomo. Un grande e maestoso albero, ad esempio, che pure si leva molto più alto dell’uomo, non ha in realtà, nella sua incapacità di muoversi, una vera simmetria verticale, bensì soltanto una simmetria circumcentrica: si dispiega intorno a un centro mostrandosi uguale in tutte le prospettive da cui lo osserviamo, non ha un davanti o un dietro. Nel regno animale, ascendendo dalle specie inferiori a quelle più alte, l’aumento della simmetricità verticale va di pari passo con la sempre maggiore libertà di movimento. Simmetria non significa infatti semplicemente il risultato finale di un movimento, un movimento giunto alla quiete. Se ciò è vero per le simmetrie rigide, in cui, ad esempio nella cristallizzazione o nei processi di congelamento, il risultato del processo non ha altra possibile evoluzione se non la distruzione (il cristallo di neve, una volta formatosi, non può fare nulla 68 69 70

Ivi, p. 284. Ibidem. Ivi, p. 285. Appare qui evidente un implicito riferimento all’iconografia apollinea.

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di più che sciogliersi), nei casi di simmetrie non rigide «il movimento si collega alla simmetria, la attraversa e continua ad agire in essa»71. Jünger fa l’esempio della danza, in cui la simmetria è di volta in volta prodotta dalla ritmicità dei movimenti, che pure non spezzano gli assi simmetrici. Tale «collegamento di ritmo e simmetria è collegamento di tempo e spazio, unità di svolgimento temporale e spaziale. Si potrebbe così chiamare la simmetria un ritmo in quiete, e il ritmo una simmetria in movimento. La simmetria riguarda lo spazio; il ritmo è il suo analogo nel tempo»72. Entrambi seguono la legge del ritorno, spaziale o temporale. La simmetria si connette così con la periodicità: «Questo è il segno distintivo di ogni musica, di ogni poesia di rango. L’alto momento storico non ha solo un significato temporale, esso tende anche a quella costellazione e configurazione che chiamiamo simmetria. Esso si cristallizza»73. Si ha «rango» là dove l’amorfo viene superato, dove l’agire contrario di forze centripete e centrifughe giunge a equilibrio in una configurazione simmetrica, che è sempre «centrale, omocentrica, tendente a un punto centrale [Mittelpunkt] e agente a partire da esso, a esso riferita, da esso ordinata»74. Jünger ricorda qui la simmetria riscontrabile negli edifici, soprattutto religiosi (dai cerchi di pietre dei Celti ai tempi buddhisti, alle cupole delle chiese e delle moschee), nei gioielli, sempre costruiti secondo una ordinata simmetria centrale, nelle feste, nei culti, negli atti statuali: «Sono tutti movimenti che tendono verso un centro, che si ordinano intorno a un centro. L’individuazione e la rappresentazione di un punto centrale appartiene sempre alle profonde esigenze dell’uomo»75. La percezione di tale centro, l’agire armonico di ogni simmetria quale concordanza, accordo del tutto in tutte le sue parti, suscita un sentimento di felicità: «Io percepisco il centro; io stesso sono centro»76. La simmetria è quindi connessa al bisogno di equilibrio e all’idea di compiutezza, di perfezione: «Il tendere alla perfezione è sempre un tendere alla simmetria. […] Assoggettare l’eccezione alla regola, stabilire ovunque una legge, creare ordine è il bisogno primario dello spirito umano. Che cos’è l’ordine se non l’istituzione della simmetria?»77. E se il cristallo ne è il simbolo, l’uomo, che è sempre alla ricerca di simmetrie, che le trova e le crea instancabilmente, passando di continuo da una 71 72 73 74 75 76 77

Ivi, p. 287. Ivi, p. 288. Ivi, p. 289. Ibidem. Ivi, pp. 289-290. Ivi, p. 291. Ivi, p. 292.

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simmetria a un’altra superiore, è come se producesse «più vive, più libere cristallizzazioni»78, sempre alla ricerca del suo centro. La simmetria si riscontra innanzitutto nella regolarità e legalità della natura, che produce infinite forme simmetriche, le quali manifestano innumerevoli concordanze, corrispondenze. Una delle vie seguite dall’uomo per giungere alla simmetria è così quella di imitare le simmetrie naturali, riproducendole artificialmente. Un’altra possibile via è quella di creare simmetrie inedite, non esistenti in natura, producendole attraverso ripetizioni. Jünger porta ad esempio il caleidoscopio, grazie a cui, con l’aiuto di specchi disposti in modo opportuno e di qualche pietruzza luccicante, siamo in grado di produrre sempre nuove e meravigliose simmetrie. Egli si spinge anzi a immaginare la suggestiva possibilità di una intera Spiegelwelt, di un mondo di specchi simmetrico e illusorio: Se vivessimo in un mondo di specchi, esso sarebbe ricolmo di forme regolari, simmetriche, di riproduzioni spaziali, così come le vediamo negli specchi d’aria e d’acqua – specchi e corpi che per la loro superficie liscia sono adatti alla produzione di immagini speculari. Il rispecchiamento è la riflessione regolare della luce. Un mondo di specchi sarebbe pieno di simmetrie. I suoi originali ritornerebbero sempre in immagini riflesse, in cui non sarebbe sempre facile stabilire che cosa è originale e che cosa immagine speculare79.

Non è tuttavia necessario servirsi di specchi per produrre simmetrie; quel che conta è creare ripetizioni, e l’uomo lo fa instancabilmente, modificando e trasformando radicalmente lo spazio in cui vive e configurandolo simmetricamente: «Così costruiamo ripetizioni ornamentali, plastiche, architettoniche nel paesaggio. Geometrizziamo tutti i rapporti spaziali attraverso ampi parallelismi, creiamo giardini ordinati in modo simmetrico, reti, cerchi, ellissi, strade, parchi e paesaggi ordinati radialmente»80. Ma l’impulso irrefrenabile a creare simmetrie è sempre accompagnato in noi dall’impulso alla libertà: è questo che ci spinge a superare e a distruggere ogni volta le simmetrie raggiunte e già irrigidite, sostituendole con simmetrie nuove, più libere. 78 79 80

Ibidem. Ivi, pp. 294-295. Ivi, p. 295. Proprio alla trasformazione dello spazio e alla simmetrizzazione artificiale del paesaggio naturale attraverso la realizzazione di parchi e giardini (e al differente ruolo della simmetria nelle diverse tipologie storico-geografiche di essi) Jünger dedica un ampio e interessante saggio, presente nella stessa opera: cfr. F.G. Jünger, Italienischer, französischer und englischer Park, in Orient und Okzident, Klostermann, Frankfurt a. M. 19662, pp. 34-80.

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Questo piacere nell’istituire simmetrie attraverso la ripetizione, visibile ad esempio anche nel caso della scrittura (soprattutto della scrittura a stampa, che esibisce una simmetria rigida attraverso il ritornare dei caratteri e di cui ogni manoscritto rappresenta solo una più o meno libera variazione), si arresta però nel caso particolare dell’opera d’arte, in cui l’esatta ripetizione e riproduzione istituisce semplicemente la differenza tra l’originale e la copia. A nessuno, osserva Jünger, verrebbe in mente di appendere accanto a un dipinto di Rubens una sua perfetta riproduzione per ottenere effetti simmetrici, né ci appagherebbe una accurata riproduzione dell’Acropoli in Nuova Zelanda o alle Azzorre81. In questo caso il carattere di simultaneità proprio della simmetria si mostra come non esauribile in rapporti puramente meccanici o funzionali, in quanto essa viene elevata alla storicità. Dobbiamo pertanto rinunciare a creare simmetrie attraverso ripetizioni là dove viene in primo piano la Einmaligkeit della situazione storica (qui l’unicità e insostituibilità dell’originario atto creativo). Occorre quindi fare attenzione a non abusare della nostra quasi illimitata capacità di produrre simmetrie. A un tale abuso, che ha esiti nefasti, è dedicata la conclusione del saggio. Esso è riscontrabile soprattutto dove la simmetria non è l’espressione diretta di forze e relazioni date, di una vitalità già presente, che agisce a partire dal centro. […] La simmetria non può essere ottenuta con la forza, prodotta violentemente. […] Quella partecipazione che essa suscita in noi riposa sul fatto che la sua vista ci mette al sicuro da tutto quel che è caotico. In essa è qualcosa che ci alleggerisce e ci rasserena, perché diviene visibile il potere della forma [Form]. Il caos viene ordinato, le rappresentazioni gravi ci abbandonano, ci viene tolto di dosso il peso opprimente della materia82.

Ma ciò non accade quando la ripetizione tramite cui creiamo la simmetria è «geistlos», ‘priva di spirito’, ovvero là dove essa «non esprime la regolarità delle cose disposte ordinatamente nello spazio»83.

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82 83

L’osservazione di Jünger, che aveva evidentemente per lui i caratteri dell’ovvietà, è stata purtroppo tristemente smentita, ad es., dalle celebri e spaventose ‘copie’ di Venezia, della Roma antica e delle piramidi egizie negli alberghi di Las Vegas o dalla recente costruzione, in Cina, di interi villaggi caratteristici che riproducono fin nei minimi dettagli famosi luoghi europei. F.G. Jünger, Über die Symmetrie, cit., p. 298. Ivi, p. 299.

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Qui affiorano dunque, ancora una volta, i due poli entro cui si gioca l’intera riflessione jüngeriana, tesa «zwischen Mythos und Maschine»84, tra mito e macchina. Il luminoso, ordinato regno delle forme apollinee non si contrappone affatto alla gioia dionisiaca della meta-morfosi, ma al fosco, sfigurato e meccanico paesaggio da officina, opera dell’uomo geistlos, accecato dallo s-misurato delirio prometeico85.

84 85

Cfr. W. Grenzmann, Friedrich Georg Jünger. Zwischen Mythos und Maschine, in Dichtung und Glaube. Probleme und Gestalten der deutschen Gegenwartsliteratur, Athenäum Verlag, Frankfurt a. M.-Bonn 1964. In Die Pefektion der Technik Jünger così descrive questo tetro paesaggio titanico, illuminato a tratti solo dal malvagio fuoco ciclopico o dalle livide luci delle metropoli moderne (e in tale descrizione ci sembra che sia chiaramente riscontrabile, punto per punto, la contrapposizione delle caratteristiche di questo paesaggio ai tratti propri del dominio apollineo): «Se ci guardiamo intorno abbiamo l’impressione di trovarci in una grande fucina, in cui si lavora instancabilmente e con un furore che dà al lavoro qualcosa di febbrile, di eccessivo. Il fuoco cresce e si gonfia, aumenta e si propaga, la brace ardente erompe ovunque a fiumi. È l’officina in cui lavorano i ciclopi. Il paesaggio industriale ha qualcosa di vulcanico, troviamo in esso tutti i fenomeni tipici delle eruzioni vulcaniche, lava, cenere, fumarole, fumo, gas, nubi nere illuminate dal fuoco e, in lontananza, un paesaggio devastato. Immani forze elementari riempiono fino allo stremo le macchine ingegnosamente inventate, che eseguono in modo automatico il loro monotono processo lavorativo. Esse si spingono nei tubi, nelle caldaie, negli ingranaggi, nelle condutture e nei forni, corrono attraverso il carcere dell’apparecchiatura che, come tutte le prigioni, è pieno di ferro e grate che servono a impedire la fuga dei suoi prigionieri. Ma chi non sente i sospiri e i lamenti di questi prigionieri, la loro agitazione e la loro ira, il loro furore insensato, se presta attenzione all’enorme quantità di nuovi e strani rumori suscitati dalla tecnica? La caratteristica di questi rumori è il collegamento del meccanico con l’elementare, essi sono provocati dal flusso di forza elementare e dal potere coercitivo della meccanica. Là dove appaiono ordinati ritmicamente, si riconosce che la loro periodicità è automatica e regolata dal tempo morto. Tutti questi rumori sono assolutamente malvagi, rintronanti, striduli, acuti, sibilanti, ululanti ed è evidente che essi divengono tanto più malvagi quanto più la tecnica avanza verso la perfezione, malvagi come le impressioni ottiche forniteci dalla tecnica, come la luce malata e fredda delle lampade a mercurio, al sodio e al neon, che illuminano di notte le nostre città» (F.G. Jünger, Die Perfektion der Technik (1946), Klostermann, Frankfurt a. M. 1993; tr. it. di M. De Pasquale, La perfezione della tecnica, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2000, pp. 156-157 – la traduzione è parzialmente modificata).

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GABRIELE GUERRA

PROSPETTIVE SACRIFICALI Una teologia politica dello sguardo tra le due guerre in Ernst Jünger

1. Introduzione. Forza del sogno, sogno della forza Nel marzo 1934, in una lettera all’amico Gershom Scholem – ormai da tempo residente in Palestina – il filosofo Walter Benjamin, che invece ha assistito in Europa alla presa del potere da parte dei nazionalsocialisti in Germania e ora, dopo un inquieto girovagare, si trova in Francia – che diventerà, per i pochi anni che gli resteranno da vivere, la sua terra d’esilio in qualche modo definitiva svolge una riflessione piuttosto interessante. Da Parigi dunque scrive all’amico: In questo periodo, in cui la mia fantasia deve occuparsi quotidianamente dei problemi più umilianti, di notte essa si emancipa invece sempre più spesso, e produce sogni che hanno quasi sempre un contenuto politico. Mi piacerebbe molto essere in condizione di raccontarteli, un giorno o l’altro. Rappresentano un atlante di immagini per la storia segreta del nazionalsocialismo1.

Il suggestivo e ambizioso progetto benjaminiano, di redigere «un atlante di immagini per la storia segreta del nazionalsocialismo [einen Bilderatlas zur geheimen Geschichte des Nationalsozialismus]» a partire dai sogni, è stato già in parte affrontato negli anni ’60 dalla psicologa tedesca Charlotte Beradt, che ha raccolto e catalogato una serie di sogni fatti da cittadini tedeschi nel periodo del “Reich millenario”2; e tuttavia resta largamente impregiudicata, dell’intuizione benjaminiana, la questione concettuale delle immagini di questo atlante. Da questo punto di vista, dunque, l’aspetto più importante e più fecondo è dato proprio dalla dimensione visuale di questa idea benjaminiana: a partire cioè dal fatto che quello a cui Benjamin pensa è in prima istanza un atlante di immagini (oniriche, la cosa ovviamente è importante) del nazionalsocialismo. In che sen1 2

W. Benjamin - G. Scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, tr. it. di A. M. Marietti, Einaudi, Torino 1987, pp. 117-118 (lettera del 3 marzo 1934). Cfr. C. Beradt, Das Dritte Reich des Traums, Nymphenburger Verl., München 1966; tr. it. di I. Harbach, Il terzo Reich dei sogni, Einaudi, Torino 1991.

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so allora – si potrebbe chiedere allargando il quadro – si dà una Bildergeschichte segreta della tirannide nazista? Come esprimere visivamente la malvagità, e contemporaneamente la sua “elaborazione” critica? Non è inutile, date queste premesse, sottolineare il potenziale euristico partendo da un’altra suggestione, il cui nucleo risale a cinque anni prima della lettera di Benjamin citata in apertura – ovvero il testo di Ernst Jünger tratto dalla raccolta Il cuore avventuroso noto come Die Klosterkirche, qui nella versione italiana di Quirino Principe, che traduce la seconda versione della raccolta jüngeriana edita nel 1938: La chiesa del convento. Eravamo riuniti nella chiesa di un antico convento, avvolti in splendide vesti ricamate di rosso e d’oro. Fra i monaci là adunati ve n’erano alcuni, fra i quali io stesso, che si davano appuntamento di notte nelle cripte. Appartenevamo a coloro che deviano dalla retta via poiché il sapore del potere li inebria come vino. Era nostra guida un uomo ancora giovane, con una veste più preziosa di quelle degli altri. Il luogo alto e spazioso, sotto le cui volte s’incrociavano variopinte travature ad arco e dai cui altari brillavano pietre e metalli, rendeva un’eco vibrante, come quando si picchia su un bicchiere di squisita fattura non ancora usato. Improvvisamente, colui che era nostra guida e ispiratore venne afferrato e trascinato con forza su una delle panche del coro. Vedemmo come dinanzi al suo volto alcuni tenessero due candele di cera dorata che bruciavano sprizzando scintille ed emanando un fumo che stordiva i sensi. Perse conoscenza, e fu portato di peso su uno degli altari. Un gruppo di monaci di basso rango, con volti d’incallita malvagità, circondò la figura posta a giacere. Ma ancor più freddi dei loro lucidi coltelli mi parvero gli sguardi dei gerarchi che stavano venendo dal chiostro, entrando dalla parte dell’altar maggiore, dal portale della sacrestia e dal reliquiario; essi contemplavano il gruppo degli altri monaci con gravità. Mi accorsi soltanto, con raccapriccio, che i monaci portavano alla bocca calici pieni di un liquido lattiginoso su cui s’increspava una schiuma sanguinosa. Tutto si compì molto velocemente. Gli spaventosi figuri fecero qualche passo indietro, e il torturato si levò lentamente in piedi. Leggemmo sul suo volto che egli non era consapevole di ciò di cui era stato protagonista. Era invecchiato, macilento, esangue e bianco come calce viva. Al primo passo che fece in avanti, cadde a terra morto. Questo esempio, che ristabilì irrevocabilmente l’antico ordine, mi empì di un’ansia indicibile. Ma, stranamente, anche un altro sentimento si mischiava al dolore che mi tagliava in due come la lama di una falce, e il cui ricordo continuava ad accompagnarmi come una seconda coscienza. Lo sentivo come uno di quei traumi che ci destano dal sonno. Come talora uno spavento repentino ridà al muto la parola, così da allora in poi si sviluppò in me una forte sensibilità alle questioni teologiche3.

3

E. Jünger, Das Abenteuerliche Herz [1938], in SW9; tr. it. e cura di Q. Principe, Il cuore avventuroso. Figurazioni e capricci, Guanda, Parma 1986, pp. 18-20.

G. Guerra - Prospettive sacrificali

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Sin qui il testo di Jünger, come detto nella seconda versione della raccolta, profondamente rimaneggiata rispetto alla prima, che invece aveva visto la luce appunto nove anni prima, nel 1929. Non si tratta qui di affrontare in extenso le cruciali differenze tra le due versioni del libro: basti soltanto sottolineare come la critica in sostanza consideri la versione del 1929 più “militante” rispetto a quella del 1938 – opera cioè, nella sua prima versione, di uno Jünger ancora sostanzialmente legato ai circoli neo-nazionalisti presso i quali era considerato un faro del pensiero della Konservative Revolution, ed in cui i testi raccolti col sottotitolo Aufzeichnungen bei Tag und Nacht (per la nuova edizione il sottotitolo muterà in Figuren und Capriccios) vengono sostanzialmente letti come prestazioni intellettuali volte a conferire profondità metafisica alle parallele riflessioni politiche di un rivoluzionario4. In realtà però Das abenteuerliche Herz – concepito qui unitariamente come importante fase di passaggio nell’evoluzione intellettuale jüngeriana – va davvero compreso «als eine ikonographische politische Theorie» e un importante «Komplementärtext» alla sua pubblicistica politica, come sostiene lo studioso Horst Seferens in una interessante e molto critica monografia dedicata alla Selbststilisierung intellettuale di Jünger all’indomani della seconda catastrofe bellica5. In questo libro si sottolinea come lo stile letterario ricercato e rarefatto dello Jünger post-1945 sia caratterizzato da una forte tendenza al nascondimento poetico, che a sua volta cela il rapporto tra stati avanzati di coscienza – concepiti in forma letteraria – e il modo in cui essi vengono rappresentati per immagini – procedimento che Seferens chiama significativamente «hemmende Hermetik»6, un ermetismo frenante. 4

5 6

Un buon esempio in tal senso della Sekundärliteratur al riguardo è offerto da Norbert Staub, Wagnis ohne Welt. Ernst Jüngers Schrift Das abenteuerliche Herz und ihr Kontext, Königshausen & Neumann, Würzburg 2000, che considera le differenze tra le due versioni frutto di un «Sinneswandel», tra un primo testo nato sotto il segno della nietzschiana «Entschiedenheit», cioè «die Vorherrschaft des Willens und seiner willfährigen Antagonismen, die die ‘abenteuerliche’ Politik ideale bestimmten», ed una versione successiva in cui «treten die aktionistische und voluntaristische Forderung, die damals noch selbtsbewußt ertönten, zurück zugunsten der Reverenz vor dem scheinbar naturgewollten und gewachsen Phänomen der Macht» (pp. 328-329). Staub conclude significativamente: «Die Texte von Das abenteuerliche Herz. Aufzeichnungen bei Tag und Nacht sind der Schriftzug eines Konservativen, der im Begriff ist, seinen politisch-aktivistischen Konservativismus aufgrund der historischen Entwicklung zu einem kulturellen umzucodieren, insofern also Dokument eines Übergangs, einer Einstellungsänderung» (p. 342). Cfr. H. Seferens, «Leute von übermorgen und vorgestern». Ernst Jüngers Ikonographie der Gegenaufklärung und die deutsche Rechte nach 1945, Philo, Bodenheim 1998, pp. 163 e 165. «Jüngers poetisches Verfahren, avancierte Bewußtseinszustände durch bildliche Vergegenwärtigung im Schutz einer hermetischen Verborgenheit zu reflektieren,

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Il nesso dunque tra procedimento espositivo per immagini, Darstellung politica, stile letterario e produzione di stati avanzati di coscienza nella forma di una sorta di “realismo magico”, appare dunque strettissimo in Jünger, tanto più in un testo-cerniera cruciale come quello del Cuore avventuroso – ed ancor più stretto nel testo citato. Anche Jünger infatti, come noto, non è estraneo a una tendenza a condensare la sua epoca in immagini, raccolte anch’esse in un “atlante”, o in una “Bilderfibel”, come lui stesso chiama simile procedimento7. In tal modo Jünger pare realizzare in forma pubblica – e sia pure ex ante – l’intuizione benjaminiana, che privilegiava la stesura di un atlante per la storia segreta del suo tempo – perché affidata ai privatissima individuali e collettivi, ovvero il bagaglio onirico di immagini entro cui si condensa la propria epoca. E ciò nonostante, altre immagini percorrono la produzione letteraria dello Jünger di quegli stessi anni: immagini che recano in sé davvero – per dirla ancora una volta con Benjamin – un “indice segreto” della propria leggibilità. Proprio questo pare il caso del testo Die Klosterkirche, il quale presenta esattamente questa dimensione di “leggibilità dell’immagine” indecidibilmente sospesa tra pubblico e privato, che serve a restituire una dimensione che, del tutto evidentemente, ha a che fare con il dominio della malvagità che anche per lo Jünger nazionalrivoluzionario, il nazionalsocialismo finisce per rappresentare. Vorrei allora procedere qui a una sorta di versione interlineare

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ohne dieses Bewußtsein zu aktivieren, nenne ich enigmatische Reflexion» (ivi, p. 162). «Wer also die produktionsästhetischen Prinzipien der Jüngerschen Texte begreifen will, wird die ‚hemmende Hermetik’ seiner Bildersprache berücksichtigen und sich der Mühe unterziehen müssen, sie zu dechiffrieren» (ivi, p. 127). Ben nota è la passione di Jünger per le immagini, e ancor più per come esse siano organizzabili in un regesto dotato di senso e di capacità di decifrazione immediata della propria epoca – insomma come un vero e proprio “sillabario per immagini”, come suona il sottotitolo della raccolta più nota, realizzata insieme al fotografo e disegnatore Edmund Schultz: E. Jünger / E. Schultz, Die veränderte Welt. Eine Bilderfibel unserer Zeit, Korn Verl., Breslau 1933; tr. it. e cura di M. Guerri, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, Mimesis, Milano 2007 (un’edizione molto bella, accompagnata dalla ristampa anastatica dell’ed. or.). Su Jünger e le immagini, oltre al saggio di accompagnamento di M. Guerri al volume citato (M. Guerri, La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger, in E. Jünger / E. Schultz, Il mondo mutato, cit., pp. 69-79), cfr. anche almeno: S. Buhl, Der Mythos der Bilder. Ernst Jünger als Wanderer zwischen den Welten, in “Mythen. Jünger-Studien”, 3 (2007), pp. 256-266; R. Zuch, Kunstwerk, Traumbild und stereoskopischer Blick. Zum Bildverständnis Ernst Jüngers, in Ernst Jünger, Politik – Mythos – Kunst, a cura di L. Hagestedt, de Gruyter, Berlin 2004, pp. 477-496; e soprattutto J. Encke, Augenblicke der Gefahr. Der Krieg und die Sinne. 1914-1934, Fink, München 2006.

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delle due versioni del testo tratto da Il cuore avventuroso, che si presentano nel contenuto molto simili e in cui proprio per questo le modifiche posteriori risaltano con evidente rilievo; citando solo quelle più significative per il discorso che qui si intende fare, occorre anzitutto sottolineare che il testo del 1929 – d’ora in poi per brevità A – differisca da quello del 1938 – d’ora in poi testo B – specialmente in tre passi significativi. Ma prima è necessaria una breve considerazione preliminare: il testo B reca un titolo – appunto Die Klosterkirche – non presente nel testo A; inoltre il testo B è più lungo, ed ha una chiusa ben più significativa di quella del primo. Il testo A inizia con la semplice dicitura di “Traum” (e ricordo qui di sfuggita come il “capriccio” immediatamente precedente nell’ed. del 1929 riguardi proprio il sogno, nel quale, dice Jünger, «ist alles Ahnung, Anklang und Ähnlichkeit, im Wachsein dagegen Bestimmtheit, Logik, Kongruenz»8). Scendendo più nel particolare, si nota che due righe dopo l’inizio nel testo B Jünger riferisce di coloro che «si davano appuntamento di notte nelle cripte [die sich nachts in den Grabgewölben verabredeten]». Il testo A parla invece di coloro che «im geheimen einem neuen Glauben anhingen», «in segreto aderivano a una nuova fede». Come si vede qui la differenza significativa è una maggiore ambiguità semantica e simbolica del testo A rispetto al B: la “nuova fede” evocata nel testo, il lettore militante del 1929 può intenderla specialmente in senso politico – mentre la rêverie medievaleggiante si fa più esplicita nei suoi tratti onirici nel testo del 1938, con quel riferimento alle cripte che evoca, puntualizzandolo, lo spazio concreto e simbolico del Traum (uno spazio che nel testo A viene esplicitamente definito “gotico”; definizione che nel testo B scompare, evidentemente per evitare una ridondanza descrittiva). Inoltre – e questo è il secondo punto centrale qui – nel testo B, alla descrizione di coloro che si ritrovano nelle cripte segue una frase non presente nel testo A, vale a dire: «Appartenevamo a coloro che deviano dalla retta via poiché il sapore del potere li inebria come vino [wir gehörten zu jenen, die abirren, weil sie die Güte des Mächtigen wie Wein berauscht]». Il verbo “abirren”, che sta a indicare il percorrere una strada sbagliata, è un verbo piuttosto ricercato – come in generale tutto lo stile di questo «Traum-Bild», come lo ha definito Kiesel9 – e richiama irresistibilmente il lessico neotestamentario, nel quale peraltro “abirren” è un hapax, a quanto mi consta, che si trova solo nella chiusa della 1 lett. a Timoteo, 6, 20 (una lettera ascrivibile al contesto “pasto8 9

E. Jünger, Das Abenteuerliche Herz – Erste Fassung, in SW9, Klett-Cotta, Stuttgart 1978, p. 66. H. Kiesel, Denken auf Leben und Tod. Reflexionen einer Problemkonstellation, in Ernst Jünger – Politik – Mythos – Kunst, cit., p. 185.

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rale” del corpus pseudo-paolino; un contesto segnato esclusivamente da vis polemica ed esibizionismo dottrinale, come è stato giustamente detto10):«O Timoteo, custodisci il deposito [scil. la sacra dottrina]; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosidetta scienza, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede [εκτρεπομενος nei LXX, devitans nella Vulgata]». L’altro significativo mutamento tra testo A e testo B è dato dall’episodio centrale, quello in cui alcuni monaci di basso rango, «dai volti di incallita malvagità», si fanno intorno al «nostro capo e ispiratore» ormai a terra per procedere al suo martirio. Nel testo A si parla invece esplicitamente di monaci «dai volti con una malvagità, quale si può trovare tra gli aguzzini delle antiche immagini della Passione [mit Gesichtern von einer Bosheit, wie sie bei den Folterknechten der alten Passionsbilder zu finden ist]». Il riferimento iconografico immediato presente nel testo più antico, senza dubbio coglibile da qualsiasi lettore di media preparazione culturale, va a tutta la tradizione pittorica circa il Cristo deriso, che specialmente in ambito nordico trovava una variegata articolazione fisiognomica (tra l’altro in due noti quadri di Grünewald e di Bosch, tanto per citare due esempi) centrata appunto sulla visibile “incallita malvagità” dei persecutori e di coloro che irridono il Cristo sulla via del Calvario. Infine – ed è il punto dalla portata più rilevante – la chiusa del sogno nel testo A è molto concisa («Dieses Exempel erfüllte uns mit ungeheuer Angst», «questo esempio ci empì di ansia indicibile»), mentre nel testo B si presta a una riflessione di ordine più generale per un verso, e più personale per un altro: Questo esempio, che ristabilì irrevocabilmente l’antico ordine, mi empì di un’ansia indicibile11. Ma, stranamente, anche un altro sentimento si mischiava al dolore che mi tagliava in due come la lama di una falce, e il cui ricordo continuava ad accompagnarmi come una seconda coscienza. Lo sentivo come uno di quei traumi che ci destano dal sonno. Come talora uno spavento repentino ridà al muto la parola, così da allora in poi si sviluppò in me una forte sensibilità alle questioni teologiche12.

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Cfr. G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Assisi 19992, pp. 286 sgg. La frase che apre la conclusione del testo B è la stessa del testo A, provvista però di un interessante inciso: l’esempio sacrificale ha finito per ristabilire «irrevocabilmente l’antico ordine». Inoltre, il traduttore italiano qui incappa in un piccolo errore, dimenticando il “ci” collettivo, che rimane identico nelle due versioni, ma che nella tr. it. diventa un “mi” – influenzato forse dallo stesso Jünger, che nell’integrazione della seconda versione passa effettivamente poi alla prima persona singolare. E. Jünger, Il cuore avventuroso, cit., p. 20.

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In effetti la nuova conclusione dell’autore, rispetto alla precedente secca chiusa, ci dice molto sullo stile – e dunque sul contenuto – che informa questo Traum-Bild. In esso cioè – per esibire la mia tesi di fondo con una formula – si passa per così dire da una “metafisica del segreto”, per mezzo della quale lo Jünger militante della fine degli anni Venti (con tutti i benefici di inventario che questa definizione porta con sé rispetto alla cronologia interna della produzione jüngeriana) impone uno stile politico preciso a una fetta importante del movimento rivoluzionario-conservatore; ma che adesso si ribalta in un “segreto della metafisica”, dove l’impianto tendenzialmente politico del Traum-Bild recede in favore di uno esplicitamente religioso (o teologico, come lo definisce, un po’ impropriamente, lo stesso Jünger). Il sogno diventa qui insomma, nella versione più tarda, allo stesso tempo allegoria del mutato clima politico (quel ristabilimento di un «antico ordine» espresso all’inizio della conclusione, che funge un po’ da spiegazione di «quei traumi che ci destano dal sonno»), e dichiarazione programmatica di una poetica tutta votata al recupero della dimensione onirica concepita in quanto “seconda coscienza” (tanto che la dicitura iniziale di «Traum» scompare nella seconda versione). In ogni caso, il cardine del testo è fornito dall’episodio centrale che struttura il sogno – e che non a caso resta sostanzialmente invariato nelle due versioni: cioè il martirio che viene imposto alla «nostra guida» (ovvero «unser Führer»: la dicitura “ispiratore” che si accompagna nel testo italiano alla traduzione di Führer è un’aggiunta del traduttore, ma non è presente né nel testo del 1929 né in quello del 1938). E se nel testo A tale sacrificio viene mostrato in maniera narrativamente immediata, vale a dire facendo ricorso ad una dizione diretta di quel che accade, nel testo B viene inserito in una cornice più esplicitamente metadiegetica, rafforzata da molte indicazioni stilistiche che vanno in questo senso («wir sahen», «erschienen mir die Blicke», «wir lasen aus seinem Gesicht»), e che nel testo A risultano quasi assenti. Anche questa impostazione metadiegetica, che ha l’evidente funzione di elevare il livello stilistico del testo, porta con sé un rafforzamento dell’impressione del lettore, essere il testo B dotato di una dimensione più esplicitamente religiosa – che ricalca, più specificamente, lo stile neotestamentario. In ciò, ovviamente, Jünger non fa che portare alle più dirette conseguenze ciò che si ritrovava a un livello implicito anche nella dimensione onirico-simbolica del testo del 1929, e più in generale nel suo crescente interesse per le questioni “teologiche”: si pensi soltanto, per fare un esempio notissimo ma più tardo, all’annotazione delle sue Strahlungen del 16 settembre 1942: «I miei libri sulla prima guerra mondiale, il Lavoratore, la Mobilitazione Totale e in parte anche il Saggio sul Dolore compongono il mio Vecchio Testamento, al quale non

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mi è più consentito aggiungere altro»13; un solo esempio, ma che sottolinea con grande precisione quanto, da un lato, Jünger consideri fondamentale una letterale auto-canonizzazione della sua opera; e dall’altro, mantenga una sostanziale continuità con l’utilizzo di un lessico consapevolmente religioso, che lo ha portato ed ancora lo porterà ad affrontare temi e motivi tratti dalla complessione storico-concettuale cristiana. Basti per questo atteggiamento ricorrere ad un solo esempio esterno ma stavolta cronologicamente del tutto parallelo al testo che qui si va analizzando. La prima edizione di Das abenteuerliche Herz uscì all’inizio del 1929 presso il Frundsberg-Verlag (un editore di area, tra l’altro, e dunque ben connotato politicamente); il 14 aprile di quell’anno invece uscì sul quotidiano “Der Tag” – che apparteneva al colosso editoriale facente capo a Hugenberg, esponente deutschnational ed in seguito alleato di Hitler – una recensione dell’edizione tedesca di un romanzo del cattolico francese Georges Bernanos, apparso in tedesco con il titolo Der Abtrünnige (l’infedele, l’apostata). La lunga recensione di Jünger, intitolata La santa in automobile, può destare a tutta prima sorpresa in chi conosce i due protagonisti di questo episodio sostanzialmente marginale: cosa possono avere in comune il tenente dei reparti d’assalto tedesco e lo scrittore cattolico francese (il quale peraltro comunque proveniva da una militanza nazionalista nell’Action française)? Tale relazione si capisce molto bene leggendo l’ampia introduzione generale con cui inizia la recensione di Jünger, basata sulla constatazione che il mondo attuale «è quello che ha fatto piazza pulita delle antiche istituzioni in maniera più rabbiosa di quanto non abbiano fatto la Rivoluzione del 1789 o la Riforma»14, lasciandosi dietro di sé un paesaggio di macerie, anche «nell’anima del singolo»; eppure, continua Jünger, «antiche potenze» come la chiesa cattolica, la quale «ha saputo non solo tenere la sua posizione, ma addirittura allargarla e rafforzarla», conservano un profilo cruciale come agenzia di senso rivolta a «un’anima che ha smarrito la fede, dunque nella normale condizione della nostra epoca». «Tale condizione – continua Jünger – ha come prima conseguenza un aumento della libertà personale, perché permette al singolo di considerare non vincolanti le pretese di potenze impersonali. […] Cessata la fede, il cuore resta sciolto da vincoli [so wird das Herz abso13 14

E. Jünger, Strahlungen (1949), in SW2; tr. it. di H. Furst, Irradiazioni. Diario 1941-1945, Guanda, Parma 1983, p. 130. E. Jünger, La santa in automobile, in Scritti politici e di guerra, Vol. III: 19291933, tr. it. di A. Iadicicco, LEG, Gorizia 2005, pp. 42-43, tr. mod. L’originale suona infatti: «Unsere Zeit hat unter den alten Institutionen grimmiger aufgeräumt als die von 1789 oder die der Reformation» (E. Jünger, Die Heilige im Automobil, in Politische Publizistik, a cura di S. O. Berggötz, Klett-Cotta, Stuttgart 2001, pp. 473-479, qui p. 473).

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lut], al tempo stesso però la responsabilità, l’inquietudine di ogni vero uomo in rapporto alle cose ultime, scatena pene e tormenti». E la conclusione del ragionamento è significativa: L’uomo si è apparentemente liberato, ma in realtà è finito tra gli ingranaggi spietati del dubbio, dove ogni risposta genera un’altra domanda. Il risultato di tutto questo è una profonda insoddisfazione, che si estingue nei piaceri e nei tormenti dello spirito e della materia; e alla quale, alla fine, si rende dolorosamente evidente la perdita di una sicurezza inattaccabile e del saldo riparo in uno spazio senza tempo. Viene così a crearsi un singolare stato di struggimento [Sehnsucht]: una volontà di credere [der Wille zum Glauben] che non può tuttavia ritrovare la fede, né può rimpiazzarla con altro. Ne Il cuore avventuroso ho cercato di tracciare i contorni delle sue moderne forme di manifestazione15.

2. Kunstreligion. Estetico e Politico tra le due guerre Con ciò siamo allora giunti al cuore dell’atteggiamento intellettuale interiore dello Jünger della fine degli anni Venti; un atteggiamento, a questo punto è evidente, prodotto da una situazione storico-spirituale in cui la vecchia fede vacilla, e una nuova subentra, dai contorni ancora imprecisi – ed in cui l’ambiguità semantica tra fede religiosa e fede politica viene assolutamente mantenuta, perché vitale alla sua Selbststilisierung come scrittore politico – ed anzi fissata in un nietzschiano “Wille zum Glauben”, che non fa altro che rafforzarne la strutturale ambiguità, proprio perché fa riferimento implicito, ancora una volta, all’amplissima e variegata costellazione concettuale del nietzschianesimo, dominante nel paesaggio culturale tedesco sino al 1945, e che spesso ha preso le fattezze di una vera e propria Kunstreligion, ovvero di un culto tributato alla figura intellettuale del profeta, su cui si tornerà16. 15 16

E. Jünger, La santa in automobile, cit., p. 43. Il tema e il concetto della Kunstreligion presenta una declinazione amplissima nel paesaggio storico-culturale tedesco, da Hegel a Wagner almeno, e finisce per caratterizzare tutta una epoca e una immagine specifica – perché connotata in senso esplicitamente religiosa – dell’intellettuale tedesco. Sull’argomento cfr. almeno il ricchissimo volume di B. Auerochs, Die Entstehung der Kunstreligion, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2006, ad esempio in questo passo introduttivo: «Kunst soll aber nicht nur offenbaren, sondern auch erlösen können. Auch hier sind die modernen Akzente der Kunstreligion deutlich sichtbar. Während Erlösung in traditionellen religiösen Kontexten als jenseitiger göttlicher Eingriff gedacht werden muß, präsentiert sich die Erlösung durch Kunst als ein innerweltliches Geschehen, das auch ohne göttliche Instanz auskommt» (ivi, p. 14).

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Per quanto riguarda Ernst Jünger, la Kunstreligion come attitudine intellettuale – e non, come già in Hegel, come figura dello spirito – si ritrova proprio in questa Selbststilisierung improntata alla canonizzazione, che percorre tutta la sua opera. Helmuth Kiesel, nella sua recente ed esaustiva biografia dedicata a Jünger, registra già per il 1928 quella che chiama una «Akzentverlagerung», «von einer rein politisch intendierten Publizistik zu einem literarisch ambitionierten Schreiben»17. Le cose in realtà non stanno esattamente così, nel senso che non sono rappresentabili in questo senso schematico, che postula una differenza di stato e di essenza tra “politica” e “letteratura” (ed è questo uno dei limiti di questa biografia peraltro molto completa ed approfondita). Certamente è vero che le scelte tematiche dello Jünger di questi anni si fanno sempre più esplicitamente letterarie (Bernanos, Kubin, ma anche Dostoevskij o Huysmans); ma l’atteggiamento fondamentale non cambia. Das abenteuerliche Herz, questa raccolta di testi talvolta molto diversi tra loro, ma tutti accomunati dalla ricerca di un medium alchemico tra interno ed esterno, tra sfera pubblica ed interiorità, tra status dello scrittore e dell’osservatore e di colui che interviene sulla realtà per modificarla, si situa in verità alla confluenza di un percorso intellettuale che porta il giovane volontario tenente dei reparti d’assalto nella prima guerra mondiale dapprima a conferire forma letteraria alle sue esperienze belliche – le quali però successivamente lo spingono, dopo la pace di Versailles, a articolare il proprio profilo come leader della cerchia neonazionalista all’interno della galassia rivoluzionario-conservatrice e poi a perimetrare il proprio profilo in una ricercata Selbstfindung letteraria ed ermetica. Successivamente, la presa del potere da parte dei nazionalsocialisti lo costringerà a prendere le distanze da un movimento che pure, come è noto, aveva precedentemente raccolto le sue simpatie. In tale percorso complesso e articolato, insomma, “politica” e “letteratura” appaiono come due gradienti concettuali e figurali che continuamente si intersecano, si sovrappongono, si confondono, rendendo alla fine immediatamente riconoscibile la prestazione intellettuale jüngeriana. Del resto, è stato proprio un osservatore davvero sospetto come Joseph Goebbels ad avvalorare da par suo – ovvero dal punto di vista di un lettore assai tendenzioso ma anche molto tradizionale – la consueta suddivisione tra “politica” e “letteratura” nell’evoluzione intellettuale di Jünger, quando ha scritto nei suoi diari, non a caso proprio in merito all’uscita di questa raccolta, giudizi trancianti: «Dann Lektüre: Jünger, ‘Das abenteuerliche Herz’. Das ist nur noch Literatur. Schade um diesen Jünger, dessen ‚In Stahlgewittern‘ ich jetzt noch einmal las. Die sind wirklich groß und hel17

H. Kiesel, Ernst Jünger. Die Biographie, Pantheon, München 2007, p. 345.

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disch. Weil ein blutvolles Erleben dahinter stand. Heute kapselt er sich ab vom Leben, und sein Geschriebenes wird deshalb Tinte, Literatur»18. Nelle parole del futuro ministro della propaganda del regime nazionalsocialista, naturalmente, “letteratura” ha una colorazione inequivocabilmente spregiativa, laddove “politica” – nella forma “grande” ed “eroica” che prende secondo le sue parole nelle jüngeriane Tempeste d’acciaio – è la declinazione suprema del tipo germanico: le due dimensioni sono dunque destinate a restare sempre ferocemente distinte. Invece occorre sottolineare, e proprio per questi tormentati e cruciali anni, come essi siano caratterizzati in Jünger da una feconda e sistematica confusione di piano politico e piano letterario dell’argomentazione intellettuale; una situazione storico-spirituale che appare tra l’altro chiaramente – e con buona pace di Goebbels – da una ricognizione puntuale dello status delle lettere tedesche nel torno di tempo tra fine della prima guerra mondiale e dominio nazista, come ha fatto Uwe Hebekus in una tesi di abilitazione uscita nel 2009 molto bella e ricca di spunti, Ästhetische Ermächtigung: Zum politischen Ort der Literatur im Zeitraum der Klassischen Moderne. In questo lavoro l’autore ha affrontato autori diversi come Georg Simmel e Ernst Kantorowicz, Stefan George e Leni Riefenstahl, Rosenberg e Hofmannsthal o Schmitt e Brecht, per delineare un campo culturale complessivo in cui registra un continuo intersecarsi di sfera politica e sfera estetico-letteraria: «Für dasjenige, was im Deutschland der Weimarer Republik vorbereitet wird und 1933 dann auf den Plan tritt, ist das moderne autonome Ästhetische in einer bestimmten Ausrichtung zugleich das Politische»19. Se questo è vero, dunque, e se in Germania in questo torno di tempo l’Estetico si lega a filo doppio al Politico, sino a realizzare una compiuta e programmatica sovrapposizione, ne consegue che politica e letteratura finiscono per apparire la stessa cosa; a questa dimensione si sovrappone poi il particolare profilo che la figura dell’intellettuale ha assunto in Germania negli stessi anni, connotata in un senso kunstreligiös, ovvero profetico-messianico – tanto che si potrebbe concludere che il geroglifico che si incarica di significare il tipo intellettuale nella Germania da Bismarck ad Hitler è caratterizzato da una perfetta sovrapposizione di letteratura, politica e religione. Il momento centrale del Traumbild jüngeriano, allora – ovvero il “sacrificio rituale” della giovane guida dei monaci – costituisce uno dei momenti più 18 19

Die Tagebücher von Joseph Goebbels, a cura di E. Fröhlich, Saur Verl., München 1987, vol. I, p. 436 (si tratta di un’annotazione del 7 ottobre 1929). U. Hebekus, Ästhetische Ermächtigung: Zum politischen Ort der Literatur im Zeitraum der Klassischen Moderne , Wilhelm Fink, München 2009, p. 11.

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significativi di tale geroglifico dal punto di vista della cultura visuale. In entrambe le versioni del testo tale episodio ha connotazioni inequivocabilmente cristologiche, che emergono palesi anche ad una prima lettura; ma in realtà, a ben vedere, lo spazio gotico in cui tale cruento rito si svolge non possiede i tratti eucaristici della condivisione rituale del mistero della resurrezione, e neanche quelli di una cupa meditazione in termini di teologia della croce; insomma, della passio cristiana tale sacrificio possiede solo i tratti esteriori, iconicamente percepibili, come si è visto, nelle espressioni dei monaci «di incallita malvagità» – ma non in quelli del suppliziato, che non a caso resta sostanzialmente senza volto. «Unser Führer» qui insomma non incarna una classica figura messianica di redenzione, ma un’immagine ideale di volutamente oscura simbologia, che occorre tentare di decifrare più da vicino, facendo ricorso al contesto storico-culturale specificamente tedesco – e per il quale un modello viene irresistibilmente alla mente: Parsifal. Il parallelo, anzi la suggestione, va qui assunta non nella sua portata astrattamente metonimica o teologicamente tipologica (Parsifal per Cristo, o sua figura che ne ripete i tratti: alter Christus), ma in senso letterale: la passio del protagonista senza nome del testo jüngeriano presenta cioè tratti concettualmente molto simili a quella “redenzione del redentore” che Wagner mette in scena nel suo dramma sacro Parsifal, incentrato non a caso sulla figura del “puro folle”, «Durch Mitleid wissend», «per compassione sapiente», come viene ripetutamente indicato nell’opera lirica. L’operazione compiuta da Wagner nella sua «sintesi visionaria»20 sull’originario palinsesto arturiano è cioè almeno duplice: da un lato tende a recuperare il dispositivo redentivo del messaggio cristiano e cristologico, ma riorganizzandolo entro una centralità del sangue e della ferita; dall’altro ne sottolinea la dimensione iniziatico-conoscitiva (gnostica nel suo senso più etimologico) che si schiude alla com-passione – declinata però in termini schopenhaueriani e indirettamente buddhisti21. Come si vede, insomma, la panoplia simbolica e concettuale dispiegata dall’opera wagneriana si rivela come un capolavoro di Umfunktionierung, nella misura in cui riutilizza temi e motivi propri della cristologia, ma mutandoli di segno e di funzione: è questa, in ultima analisi, la “deutsche Mythologie” alla base di questa specifica Kunstreligion tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, che a sua volta costituisce la premessa fondamentale – nel suo

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Così Francesco Zambon nel suo Metamorfosi del Graal, Carocci, Roma 2012, p. 264: un’affascinante ricognizione nei secoli in cui si distende la variegata Wirkungsgeschichte del tema graalico. Cfr. ivi, p. 266.

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Grundton culturale, politico e religioso ad un tempo – della “modernità classica” tedesca22. Il parallelo tra il Parsifal wagneriano e la scena che ha luogo nel racconto di Jünger è governata in tal senso da una isotopia funzionale destinata a descrivere proprio questo ‘luogo’ di infinita sovrapponibilità di piani diversi del discorso pubblico tedesco – con la importante limitazione, tuttavia, che nel testo del Cuore avventuroso non è la figura del suppliziato a coincidere con quella del Parsifal wagneriano (visto che, come detto, il suppliziato nella Klosterkirche resta senza volto e senza profilo preciso), quanto piuttosto quella del suo silenzioso osservatore, ovvero l’autore stesso. In effetti, sarebbe vano chiedersi chi mai sia questa enigmatica “nostra guida” – ed anzi si potrebbe considerarla semplicemente una incarnazione dell’idea nazionalrivoluzionaria che ha guidato lo Jünger attivista di quegli anni; più importante invece è concentrarsi sul ruolo del narratore all’interno della narrazione. La figura dello Jünger autore coincide qui senza residui con quella dell’osservatore partecipante – wissend appunto, ma anche compenetrato da Mitleid. La ‘scena primaria’ del sacrificio – qui da intendersi sia in senso narrativo, che in senso strettamente psicanalitico, come “luogo del delitto” in cui diviene visibile ciò che non deve essere visto e proprio per questo risulta fondante23 – si articola dunque, prima ancora che sulla figura del monaco suppliziato, su quella dell’osservatore: il quale vi partecipa non come “fedele” tra gli 22

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«Die Erfindung der deutschen Mythologie als einer nationalen Kunstreligion erweist sich in ihrer Wirkung als ambivalent. Wenn die mythische Dichtung der Germanen als Kunst erkannt wurde, konnte sie die künstlerische Phantasie der Moderne anregen. Die Fiktionalisierung der nationalen Tradition ermöglichte es, diese als individuellen Beitrag zum weltliterarischen Zusammenhang zu erkennen und so die kulturelle Identität der Deutschen weltbürgerlich zu perspektivieren. Wenn die germanische Sage dagegen ohne ästhetische Distanz wahrgenommen wurde, konnte sie zur kommerziellen Täuschung, politischen Ideologie und schließlich zum völkischen Kult werden» (W.-D. Hartwich, »Deutsche Mythologie«. Die Erfindung einer nationalen Kunstreligion, Philo, Berlin-Wien 2000, p. 208). In gioco qui non vi è tuttavia alcuna economia sacrificale di tipo girardiano («il sacrificio polarizza sulla vittima i germi di dissenso sparsi ovunque e li dissipa proponendo loro un parziale appagamento», R. Girard, La Violence et le sacré (1972); tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980, p. 22), quanto piuttosto un dispositivo intraletterario di riattivazione “violenta” del mito in chiave non espiatoria, bensì intimamente necessaria; nel senso insomma in cui Furio Jesi parla di sacrificio in Cesare Pavese: «il sacrificio umano fu per Pavese l’emblema di un vincolo sotterraneo, vissuto nella profondità della coscienza, fra rituale e comportamento morale, fra mito e dovere» (F. Jesi, Cesare Pavese dal mito della festa al mito del sacrificio, in Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1968, p. 165).

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altri, bensì – ed è una differenza cruciale – come membro dello stesso gruppo iniziatico entro cui e contro il quale il sacrificio ha luogo; un sacrificio che non ha intenti redentivi, ma solo punitivi; un sacrificio che mette in scena la propria dimensione sacrale nella misura in cui inaugura la dimensione veritativa del singolo – e solo di esso. Con ciò si squaderna insomma la “teologia politica” alla base di questa rêverie: una teologia politica che si articola qui in un rituale performativo destinato a produrre uno spazio politico all’insegna della separatezza più radicale. In tale senso, occorre aggiungere, una teologia politica latu sensu è sempre una Geheimgeschichte, nel senso che la sua genealogia corrisponde alla ricostruzione di una semantica di sensi nascosti e riposti, che vanno dunque pazientemente decifrati. Una teologia politica degli arcana imperii insomma, che appare peraltro in certa misura come la via regia – è proprio il caso di dirlo – che la Konservative Revolution percorre alla ricerca della concretizzazione storica e metafisica ad un tempo delle sue figure concettuali centrali (Reich, Führer, Gemeinschaft); e che beninteso percorre anche, per una parte rilevante del suo cammino intellettuale, lo stesso Ernst Jünger. Le modalità entro cui si articolano queste direttrici concettuali, questa teologia politica della rivoluzione conservatrice specificamente jüngeriana, che uniscono la linea simbolica degli arcana imperii con quella del secretum, sono in questo senso eminentemente, quasi naturaliter connotate in senso religioso; e trovano una loro applicazione esemplare qui, in questo breve testo La chiesa del convento. La rêverie infatti determina in una semantica del potere che unisce arcanum, sacrificio e secretum – e culmina nel medium ideale del suo osservatore, visibile ed invisibile ad un tempo proprio come lo è il nocciolo insondabile del potere24. 24

Molto interessante sarebbe qui tracciare i lineamenti ‘sacrificali’ che informano le riflessioni jüngeriane del secondo dopoguerra, con tutte le implicazioni connesse al delicato ralliement da parte dello scrittore un tempo nazionalrivoluzionario e tanto ammirato dai vertici nazionalsocialisti, ed ora alle prese con il paesaggio politico-culturale della Germania Federale; un ralliement che trova appunto in un’etica e in una retorica del sacrificio uno dei suoi momenti culminanti. Si pensi per es. a questo passo del breve trattato Der Friede, che Jünger stese già negli ultimi mesi di guerra: «Se la guerra deve portare frutto a ciascuno, in primo luogo occorre che ci chiediamo da quale seme più tardi germoglierà tale raccolto. Non potrà nascere dalla discordia, dalla persecuzione, dall’odio, dalle ingiustizie del nostro tempo. […] Il vero frutto può crescere solo dal patrimonio comune dell’uomo, dal suo nucleo migliore, dal suo sostrato più nobile, disinteressato. Questo va cercato là dove, senza pensare a se stesso e al proprio bene, egli viene e muore per altri, per altri offre sacrifici. Ma tutto ciò si è verificato in abbondanza; un grande teso-

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3. Conclusioni. La Visual culture della Neue Sachlichkeit «Gli sguardi sono complici delle immagini»25 – ha sostenuto lo storico dell’arte Hans Belting, intendendo con ciò la sistematica sovrapposizione che lega tra loro gli uni e le altre: nel senso – aggiunge – che «è difficile individuare dove finisce lo sguardo e inizia l’immagine»26. Anche in questo caso preso in esame da Jünger è davvero difficile stabilire dove fi-

25 26

ro di sacrifici si è accumulato a fondamento della nuova costruzione del mondo» (E. Jünger, Der Friede [1945], in SW7; tr. it. di A. Apa, La pace, Guanda, Parma 1993, p. 10); oppure quest’altro, tratto dal fortunato trattato Der Waldgang: «Vincere la paura della morte equivale […] a vincere ogni altro terrore: tutti i terrori hanno significato solo in rapporto a questo problema primario. […]. Ogni autentica guida spirituale […] sa condurre l’uomo al punto in cui egli riconosce la realtà. […] Il granello di frumento, morendo, ha generato non numerosi, ma infiniti frutti. Si tocca qui quella eccedenza del mondo di cui ogni atto generativo è un simbolo temporale, oltre che un segno della vittoria sul tempo. […] Le cattedrali crollano, ma nei cuori rimane un patrimonio di sapere che, simili alle catacombe, mina dall’interno gli edifici dei tiranni. Già per questo motivo, possiamo essere sicuri che la pura violenza esercitata secondo i modelli antichi alla fine non prevarrà. Quel sangue ha immesso sostanza nella storia, ed è quindi giusto continuare a contare gli anni a partire da quella data che ha segnato una svolta epocale. Regna qui la piena fecondità delle teogonie, la mitica forza generativa. Il sacrificio si ripete su innumerevoli altari» (E. Jünger, Der Waldgang (1951), in SW7; tr. it. di F. Bovoli, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 1990, pp. 76-77); un passo che sembra una perfetta epitome, quasi trent’anni dopo, del sacrificio descritto nella Klosterkirche. L’etica e la retorica del sacrificio jüngeriane costituiscono qui in altri termini le indispensabili articolazioni etico-discorsive di una ridislocazione del proprio pensiero, stavolta in chiave più limpidamente (ovvero metafisicamente) teologico-politica. Sull’argomento, nonché su una prima ricognizione di questo aspetto del pensiero di Jünger anche in chiave di storia intellettuale, cfr. G. Guerra, Auf den Marmorklippen: (k)ein Schlüsselroman? Opfertheologische und -politische Bemerkungen am Beispiel der Rezeption Julius Evolas, in Totalität als Faszination. Synthetisierungsversuche des Heterogenen im Werk Ernst Jüngers, a cura di A. Benedetti / L. Hagestedt, in corso di stampa presso De Gruyter, Berlin. Spunti interessanti per una “economia del sacrificio” in Jünger vi sono anche in M. Guerri, Guerra e sacrificio. Su Ernst Jünger e Jan Patočka, in La mobilitazione globale. Tecnica violenza libertà in Ernst Jünger, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2012, come anche in C. Grottanelli, Il sacrificio, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 104 sgg. (i cui lavori sull’argomento, volti a illuminare la dimensione strettamente sacrificale di alcuni momenti di storia delle idee tra le due guerre, sono molto stimolanti; per essi rimando alle indicazioni bibliografiche contenute nel mio saggio in corso di stampa sopra citato). H. Belting, Per una iconologia dello sguardo, in Cultura visuale. Paradigmi a confronto, a cura di R. Coglitore, :due punti, Palermo 2008, p. 5. Ibidem.

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nisca lo sguardo interpretante e inizi l’immagine carica di senso, e in che misura si possa parlare qui di “thick description” nel senso di Clifford Geertz – ovverossia nel senso di una descrizione che finisce per includere il descrivente entro il descritto; certamente, quel che ci lascia in eredità questo breve testo jüngeriano nella sua dimensione più intrinseca, è per così dire l’immagine di uno sguardo, destinato a scandire l’orrore dell’avvenimento ed insieme la sprezzatura dell’osservatore. Proprio in questo complesso Spannungsfeld, insomma, tra visibilità del male, teologia politica del potere, allegoria del segreto e del sacrificio e distacco partecipato dello sguardo si articola la prestazione intellettuale dello Jünger di questi anni. Un prestazione intellettuale nel segno, va aggiunto, della contemporanea Neue Sachlichkeit, le cui direttrici psicologiche e culturali sono state magnificamente indagate in un libro fondamentale per capire questo passaggio culturale di Helmut Lethen27. Nel quadro di una puntuale ricognizione della Neue Sachlichkeit, che caratterizza il panorama culturale degli anni Trenta sin nelle sue più intime fibre, l’autore tedesco indaga le strategie di auto rappresentazione messe in campo da diversi intellettuali di questo periodo – da Schmitt a Jünger – segnate da una modalità comportamentale incentrata sulla figura della «kalte Persona». La «kalte Persona» è per Lethen quella figura cioè che tiene insieme lo «Schmerz der Trennung» e la «Sehnsucht nach Fusion», ed in cui «Rituale, Gesten und Lebensstil schreiben sich als Spur der Trennung in die Welt der Fusionen ein»28. Quella della kalte Persona è dunque l’inevitabile psicogramma di un’epoca segnata dal dominio totalitario in ogni sua articolazione concreta e simbolica, che esprime in tal modo le linee espressive e interpretative psicologiche (in senso specifico e personale) della Innere Emigration, dello scrivere in età di proscrizione, per riprendere una felice – e fatale – formula schmittiana29, con tutto il bagaglio di (auto)dissimulazione che ciò comporta. Per poter tenere insieme quello che in realtà non è possibile concepire in un medesimo orizzonte, cioè separazione e fusione del proprio bagaglio esperienziale all’interno di un dato orizzonte storico (quello del regime nazionalsocialista), questa figura letheniana ha appunto bisogno di articolare una etica della “freddez-

27 28 29

Cfr. H. Lethen, Verhaltenslehren der Kälte. Lebensversuche zwischen den Kriegen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1994. Ivi, p. 133. «Non possum scribere in eum qui potest proscribere», come dice Schmitt citando Macrobio (C. Schmitt, Ex captivitate Salus, tr. it. di C. Mainoldi, Adelphi, Milano 1987, p. 23)

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za”, ed al contempo una estetica della pura “rappresentazione” (in cui, ancora, ne va anche della dimensione puramente fittizia e scenografica entro cui si dà ogni manifestazione del potere30). Ne consegue allora che lo spazio della rappresentazione simbolico-concreta entro cui si trova a recitare la kalte Persona destinata ad occupare il palcoscenico della Neue Sachlichkleit viene scandito da questo combinato di etica fredda e estetica distaccata – che implica sempre la sua profonda efficacia sul palcoscenico della storia, anche quando, come nel caso della Klosterkirche, sembra partecipare ad una catastrofe. Die kalte Persona, cioè, si rivela il sovrano nascosto che sovrintende a questa particolare teologia politica dello sguardo nell’età dell’occultamento. Di essa – di questa sovranità celata, ma anche di questa antropologia della freddezza – troviamo una rappresentazione particolarmente pregnante in un pittore esemplare come Rudolf Schlichter, già legato alle avanguardie dada ed espressioniste, e poi confluito appunto nella corrente ‘fredda’ della Neue Sachlichkeit. Egli coglie in Jünger l’espressione perfetta – è lo stesso pittore a esprimersi così in una lettera all’amico scrittore, criticando un dipinto effettuato da un altro amico pittore – di «geistiger Eros» e «aggressive Spannung» al contempo31. Se il significato più profondo di Jünger risiede dunque per Schlichter nell’unione di “Eros spirituale” e “tensione aggressiva”, ciò è vero nel suo senso più profondo; nella misura in cui cioè l’erotica spiritualizzata jüngeriana e la sua Spannung militaresca esprimono in tutta la loro complessità la cifra psico-culturale dell’epoca. Questa “kalte Persona” tende così insomma deliberatamente a confondere i piani: tra eros spirituale e tesa aggressività, tanto per cominciare riprendendo le categorie evocate da Schlichter, ma anche tra dolore della divisione e nostalgia per la fusione, come dice Lethen; e soprattutto tra sguardo partecipante e immagine esperita – come del resto ha sostenuto lo stesso Jünger nelle sue Adnoten all’Arbeiter, recentemente tradotte: «La miglior prospettiva è quella dell’outsider. Chi rappresenta una scena [der Schilderer] deve essere al tempo stesso all’interno e all’e-

30 31

«Das politisch Repräsentierte soll sich mimetisch zum politisch Repräsentierenden – man kann auch sagen: zu seinem eigenen politischen Imaginären verhalten» (U. Hebekus, Die ästhetische Ermächtigung, cit., p. 32). «Das Bild, das Herr Weber von Ihnen malte, hat mich enttäuscht. […] Es fehlt im Ausdruck den geistigen Eros, die aggressive Spannung, kurzum Ihre Bedeutung» (R. Schlichter a E. Jünger, lettera del 5 gennaio 1936, in E. Jünger / R. Schlichter, Briefe 1935-1955, a cura di D. Heißerer, Klett-Cotta, Stuttgart 1997, p. 35).

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sterno di essa»32. In tutti i casi, e comunque venga declinata questa articolazione psico-culturale del soggetto storico, ciò che ne esce intatto è il suo potere nascosto.

32

E. Jünger, Maxima-Minima. Adnoten zum »Arbeiter« [1964], in SW8; tr. it. di A. Iadicicco, Maxima-Minima. Annotazioni su L’operaio, Guanda, Parma 2012, p. 10.

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MAURIZIO GUERRI

SGUARDO FOTOGRAFICO E SECONDA COSCIENZA Note a margine del saggio «Sul dolore» di E. Jünger

1. Il dolore come pietra di paragone Il saggio Sul dolore (1934) raccolto in Foglie e pietre costituisce un momento di riflessione fondamentale per comprendere molteplici questioni affrontate da Ernst Jünger in relazione allo sguardo fotografico. Il saggio viene pubblicato nel periodo di confronto più intenso con la fotografia: se si escludono gli scritti concepiti per i volumi fotografici di Albert RengerPatzsch1 – ambedue degli anni Sessanta e non incentrati sulla fotografia – le raccolte fotografiche curate o introdotte da Jünger sono pubblicate tra il 1930 e il 1933 e infine nel 1932 esce Der Arbeiter all’interno del quale i paragrafi 36, 37, 38 sono dedicati a un’analisi dello sguardo fotografico in relazione al tipo umano del Lavoratore. Com’è noto, il saggio Sul dolore è dedicato al tentativo di comprensione della modificazione che caratterizza l’uomo contemporaneo nel suo rapporto con il dolore; a sua volta la scelta di porre a confronto l’uomo con una «pietra di paragone»2 come il dolore è motivata dal fatto che mediante il rapporto con un’«unità di misura immutabile»3 si possa meglio comprendere in che modo l’uomo abbia modificato il proprio rapporto con le cose e con se stesso. È proprio in questo quadro di questioni che si rende necessaria una fenomenologia dello sguardo fotografico quale stile di visione del Lavoratore e come modalità di istituzione di un inedito rapporto estetico tra 1

2 3

Mi riferisco agli scritti Der Baum (pubblicato originariamente in A. RengerPatzsch, Bäume. Photographien schöner und merkwürdiger Beispiele aus deutschen Landen, Boehringer, Ingelheim am Rhein 1962) e Steine (pubblicato originariamente in A. Renger-Patzsch, Gestein. Photographien typischer Beispiele von Gesteinen aus europäischen Ländern, Boehringer, Ingelheim am Rhein 1966) e poi raccolti in SW2, Essays VI: Fassungen I, Klett-Cotta, Stuttgart 2004, rispettivamente pp. 298-303 e pp. 305-328. E. Jünger, Über den Schmerz (1934), in SW7; tr. it. di F. Cuniberto, Sul dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997 (d’ora in poi SD), p. 139. SD, p. 139.

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uomo e dolore. Il saggio muove dalla domanda: «Quale ruolo svolge il dolore nell’ambito di quella nuova razza umana che si sta ora profilando e che abbiamo designato come il Lavoratore?»4. L’idea jüngeriana è di cercare di comprendere la trasformazione dell’uomo nel suo rapporto con le cose e con se stesso avvenuta in coincidenza dell’imporsi della logica del lavoro, utilizzando come pietra di paragone il dolore, forza elementare che è in quanto tale immutabile. Jünger sembra accogliere la concezione classica secondo cui il dolore è lapis lydius, pietra di paragone appunto, come testimoniato dall’esistenza di una famiglia di termini greci facenti capo alla parola básanos che significa dolore, ma il cui senso originario indica la pietra di paragone5. Proprio in questa direzione procede Jünger quando definisce il dolore una forza elementare e immutabile, a partire dalla considerazione che nessuna condizione umana può essere considerata al riparo da esso; il senso che l’esperienza del dolore assume all’interno di una determinata cultura è soggetta a una trasformazione e in ogni tempo possiamo riscontrare testimonianze che indicano una minore o maggiore consapevolezza nei suoi confronti: si può condurre la propria vita ignari della sua presenza come se ci potessimo muovere liberamente «sulla sua [del dolore] superficie come facevano Sindbad il marinaio e i suoi compagni sul dorso del mostro, scambiandola per un’isola»6 oppure diventarne coscienti, osservando la sua potenza ineludibile da una giusta distanza, come quando osserviamo la vita effimera di certe forme animali: Così l’insetto che tra i nostri piedi si aggira tra i fili d’erba come fossero tronchi di una foresta tropicale ci appare supremamente minacciato. Il suo breve cammino assomiglia a un percorso disseminato di orrori e su entrambi i lati si dispiega un immane arsenale di fauci aperte e di chele pronte a serrarsi. Ma il suo cammino non è che un’immagine del nostro7.

Gli anni cui Jünger si riferisce – successivi alla Prima guerra mondiale – non sono già più quelli in cui si poteva guardare alla Ragione come a ciò che avrebbe potuto colpire a morte il dolore; se non è possibile in alcun modo sottovalutare «l’abolizione della tortura e della tratta degli schiavi, l’invenzione del parafulmine, la vaccinazione antivaiolosa, l’anestesia, le 4 5 6 7

SD, p. 140. Su questo punto cfr. S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 24 e sgg. SD, p. 141. SD, p. 141.

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assicurazioni e tutto un mondo di comodità tecniche e civili»8, tuttavia rispetto a un recente passato, a tale apprezzamento nei confronti della capacità eroica dell’uomo di porre un argine alla propria sofferenza, manca ormai «quella singolare sfumatura religiosa che abbiamo conosciuto nei nostri padri»9. La Prima guerra mondiale – quale crogiolo in cui tutte le precedenti forme culturali vengono rifuse per la produzione di un unico sistema del lavoro planetario – attraverso la sua immane potenza distruttiva che si trascina ben oltre la fine del secondo conflitto bellico – si mostra anche come irreversibile tramonto dell’idea della Ragione come strumento diretto di emancipazione dal dolore a disposizione dell’essere umano. Sul piano di una sinossi, in base ai riferimenti storici presentati da Jünger stesso nel saggio, la fenomenologia del rapporto con il dolore è suddivisibile in tre grandi stili: la cultura classica, il cristianesimo delle origini e la cultura germanica; questi tre ambiti culturali radicalmente diversi sono però segnati da una traccia fondamentale comune, proprio se osservati dal punto di vista del rapporto con il dolore: esso è concepito come forza ineludibile al cui incontro l’uomo deve necessariamente prepararsi. All’interno di queste diverse civiltà, la cultura dell’uomo nel suo complesso appare dominata dal tema della «assimilazione» del dolore nel corpo dell’uomo. Perché il dolore possa essere incorporato nella vita sensibile, bisogna «restare in sintonia con esso [mit ihm in Fühlung]»10. In questa direzione, due sono le modalità più significative individuate da Jünger: la «disciplina» di tipo «ascetico-sacerdotale mirante alla mortificazione» o quella «eroico-guerresca volta a temprare come l’acciaio»11. In ambedue i casi si tratta di conseguire l’obiettivo di «tenere la vita in pugno, così da poterla impegnare in qualsiasi momento per uno scopo superiore»12. Attraverso queste forme di disciplina, è possibile rapportarsi al proprio corpo come a un «oggetto [Gegenstand]»13 per poterlo plasmare e sacrificarlo in vista di un senso trascendente rispetto all’esistenza sensibile. Il corpo, dunque, costituisce un «avamposto» della vita e non il suo senso più alto, poiché è il luogo di realizzazione di un ideale che, se da un lato è inattingibile nella sua pienezza nella conduzione della vita terrena, dall’altro la orienta e indica una direzione; mediante una disciplina corporea, la vita contingente si apre a un compimento trascendente. Dolore e morte

8 9 10 11 12 13

SD, p. 146. SD, p. 146. SD, p. 153. SD, p. 153. SD, p. 153. SD, p. 152.

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nelle discipline ascetico-sacerdotali o guerresche si pongono come vie di accesso corporeo al senso trascendente della vita. Ecco perché nelle loro profonde differenze, l’atteggiamento ascetico o quello guerresco sono essenzialmente «disciplina», dove per disciplina Jünger intende esplicitamente «la forma attraverso la quale l’uomo mantiene vivo il contatto con il dolore»14. Il senso trascendente dell’esistenza si coglie attraverso la disciplina, ovvero mantenendo vivo il rapporto con il dolore e con la morte, plasmando il corpo nel contatto con queste forze elementari. Diversa la prospettiva che si inaugura con quella che Jünger definisce la «moderna sensibilità», secondo cui il corpo «è esso stesso il valore»15, sicché «il rapporto di questo mondo con il dolore è il rapporto con una potenza che va innanzitutto evitata, perché qui il dolore non colpisce il corpo come semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa»16. Dunque, proprio l’annullamento di ideali trascendenti di vita e l’esaltazione della vita corporea come vita in assoluto, portano con sé l’apparentemente paradossale indebolimento della vita corporea nel suo rapporto con il dolore. La vita divenuta corporea in assoluto, esperisce l’insostenibilità del rapporto con il dolore che in qualsiasi forma non può che essere concepito come attacco insensato alla vita o al pari di una minaccia al fondamento della vita stessa. È all’interno di questo sforzo di esclusione del dolore dal rapporto con la vita, che emerge la figura dell’Arbeiter. Il rapporto del Lavoratore con il dolore oscilla dialetticamente da un polo che mira a evitare ogni possibile forma di contatto con il dolore, fino al polo rappresentato dai casi limite costituiti dai proiettili umani della Marina giapponese17 o dagli anarchici descritti da Joseph Conrad ne L’agente segreto18. Che tali figure siano in tensione dialettica con quel modello di vita che pare essere normalmente diffuso e accettato dall’uomo contemporaneo, è Jünger stesso ad affermarlo, quando osserva che sia nel caso del «proiettile umano», sia in quello dell’anarchico conra14 15 16 17 18

SD, p. 159. SD, p. 153 (tr. it. mod.). SD, p. 153. SD, pp. 154-155. SD, p. 155. Scrive Conrad ne L’agente segreto: «Perduto nella folla, miserabile oggetto sotto misura, egli meditava fiducioso sulla potenza raggiunta, mentre proseguiva il suo cammino con una mano sprofondata nella tasca sinistra dei pantaloni, le dita leggermente contratte intorno alla peretta di gomma elastica, garanzia suprema della propria libertà» (J. Conrad, L’agente segreto (1907), tr. it. di M. Curreli, in Id. J. Conrad, Opere. Romanzi e racconti 1904-1924, Bompiani, Milano 2002, p. 701).

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diano ci troviamo dinanzi a figure che non hanno semplicemente raggiunto una «superiorità su altri uomini, ma sull’intero spazio sottoposto alla legge del dolore», una superiorità che «racchiude in sé tutte le altre»19. La questione del rapporto con il dolore del Lavoratore è dominata dal tema della sua «separazione» e della sua «rimozione» dalla vita, ma la riflessione di Jünger appare percorsa da una dialettica interna su cui occorre soffermarsi. Jünger nota che sotto certi aspetti il «mondo dell’individuo egocentrico e querimonioso» con tutti i suoi criteri di valutazione può essere considerato ormai «dietro di noi»20; infatti, sono frequenti i «tentativi di dar vita a un mondo in cui valgano criteri nuovi e più vigorosi»21, nonostante ancora non sia possibile parlare di una vera svolta. Questo passaggio decisivo si rende impossibile nella misura in cui «una postazione di comando da cui l’aggressione del dolore appaia come un puro evento tattico non può essere creata con mezzi artificiali»22. In altri termini, non è sufficiente uno sforzo individuale o di massa (comunque, una «tensione della volontà»23), perché la vita corporea dominata dalla sistematica circoscrizione del dolore e dall’incessante tentativo di espulsione dall’esistenza, possa essere superato: così come «l’approssimarsi di un dio è cosa che non dipende dagli uomini»24, un rapporto differente con il dolore – che richiederebbe il riferimento a ideali trascendenti – non è a disposizione della volontà degli esseri umani. L’ultima forma di orientamento trascendente nella cultura occidentale – sembra lasciar intendere Jünger – è stato rappresentato dalla fede nella Ragione, che ha tuttavia svolto la funzione storica di annullamento di ogni possibile riferimento a ideali trascendenti, sopprimendo anche se stesso, attraverso la propria diffusione globale. La Ragione, che tutto relativizza, perviene all’esito di sostituirsi a ogni precedente forma di conoscenza, ma insita al proprio interno è la necessità alla relativizzazione di se stessa, mediante cui essa si priva di quell’assolutezza che la caratterizzava ancora nel XIX secolo. Nello stesso tempo, tuttavia, esempi come quello dell’«uomo proiettile» o dell’anarchico russo, mostrano come all’interno del tipo del Lavoratore, si acceda a una condizione differente nella relazione tra vita e dolore. In che misura e in che senso questa condizione sarebbe differente rispetto al sentimento di annullamento della vita in assoluto cui è normalmente associato il dolore?

19 20 21 22 23 24

SD, p. 155. SD, p. 153. SD, p. 153. SD, pp. 153-154. SD, p. 154. SD, p. 154.

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Entrando nell’analisi di queste figure, il pilota giapponese può essere visto allo stesso tempo come «arto tecnico» (technisches Glied) o come la «vera intelligenza» (Intelligenz) del proiettile25. In questa condizione l’uomo finisce per concepire se stesso come una delle «parti costitutive» dell’«universo tecnico»26. Dunque, secondo Jünger, nella figura del «proiettile umano» abbiamo a disposizione una «singolare costruzione organica» (organischen Konstruktion)27 in cui l’essere umano giunge a rappresentare se stesso e a utilizzare la propria vita corporea come una parte integrante del sistema tecnico lavorativo. La vita del Lavoratore oscilla tra un’insostenibilità del dolore che lo spinge a sforzarsi di attuare la sua sospensione attraverso un’infinità di apparati tecnici: allo stesso tempo all’interno della riduzione della vita a nuda vita corporea, si fa spazio la possibilità che la sua esistenza venga inserita integralmente all’interno del sistema del lavoro, fino a diventare – come nell’esempio citato del proiettile umano – un «arto» dello strumento o la sua «intelligenza». Anche l’intelligenza, del resto, nel sistema del lavoro non è che un arto estremamente complesso e sofisticato, uno strumento funzionale all’organizzazione del lavoro. Proprio in questa figura ibrida ed estrema del proiettile umano, Jünger riconosce il massimo assorbimento possibile nel sistema della tecnica e al contempo vede la possibilità di un rovesciamento nella direzione di una «superiorità» di questa figura ipertecnica, non tanto in relazione agli altri uomini, bensì «sull’intero spazio sottoposto alla legge del dolore». Tale superiorità viene definita la «superiorità estrema», quella che «racchiude in sé tutte le altre»28. Jünger precisa ulteriormente, osservando che la metafora dell’uomo proiettile è «terribile»29 nel porre in immagine quel che può essere una pretesa al «dominio», visto che «ogni possibilità di «buona sorte» si trova a essere matematicamente esclusa»30. Eppure sembra che proprio in questa dimensione di «servizio»31 all’apparato tecnico, in questa dedizione totale alla tipizzazione sia contenuto un elemento di «disciplina» e dunque di estremo contatto con il dolore e la vita. Le immagini dell’uomo-proiettile e dell’anarchico russo sono a loro volta figure in tensione dialettica. Da un lato l’uomo-proiettile si caratterizza per un sacrificio definitivo al sistema della tecnica e del lavoro, dall’altro l’anarchico russo sembra invece costituire l’ultima forma possibile di rivolta nei confronti 25 26 27 28 29 30 31

SD, p. 154 (tr. it.mod.). SD, p. 154. SD, p. 154 (tr. it.mod.). SD, p. 155. SD, p. 155. SD, p. 155. SD, p. 156.

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dell’inserimento nell’apparato tecnico e la figura portatrice di libertà. Questa polarità dialettica interna a Jünger è uno specchio di quella frattura che percorre il pensiero jüngeriano della tecnica, in costante tensione tra la ricerca di un dominio politico della tecnica e il tentativo di mettere in atto una via di rivolta che possa sottrarre l’«organismo» al suo integrale assorbimento all’interno dell’«organizzazione». In che senso la sistematica anestetizzazione della vita da una parte e la superiorità sullo spazio del dolore dell’ibrido uomo-proiettile appartengono a un’unica dialettica del rapporto tra Lavoratore e dolore? Jünger lascia intendere che secondo l’una o l’altra direzione, tale metamorfosi comunque «si presenta come un’operazione mediante la quale la zona della sensibilità (Zone der Empfindsamgkeit) viene estirpata dalla vita»32. Ora, questo spazio aperto tra due poli dialetticamente contrapposti corrisponde comunque a un processo sempre più esteso e profondo di «oggettivazione della vita [Vergegenständlichung des Lebens]»33, fenomeno che, scrive Jünger, è sul piano storico «ricorrente almeno in circostanze particolari»34 e del quale, all’interno della storia, assistiamo a variazioni relative alla «tecnica, ossia la sua disciplina»35. Il tipo di tecnica che si diffonde nel mondo del lavoro è lo «specchio» nel quale si riflette con estrema chiarezza la «crescente oggettivazione della nostra vita»36 appartenente al tipo del Lavoratore ed è l’ambito sottoposto all’intervento tecnico quello che, nello stesso tempo, appare come il «più protetto dall’aggressione del dolore»37. Nella tecnica del mondo del lavoro è contenuta una tensione dialettica, da un lato tra l’oggettivazione della vita attraverso l’anestetizzazione dal dolore, dall’altro attraverso una peculiare forma di disciplina al dolore, di cui, come abbiamo già ricordato, Jünger ci offre solo due immagini, quella dell’uomo-proiettile e quella dell’anarchico conradiano; attraverso queste due vie si raggiungono due forme di oggettivazione della vita e la produzione di uno spazio estraneo al dolore. Il terreno comune della insostenibilità del dolore e del sacrificio totale a esso è costituito dalla oggettivazione della vita. Questa processo di oggettivazione della vita prende forma nell’epoca del Lavoratore secondo due direzioni: da una parte il Lavoratore produce un’«uniforme» a livello individuale e collettivo38 che segna il passaggio 32 33 34 35 36 37 38

SD, p. 156. SD, p. 167. SD, p. 167. SD, p. 167. SD, p. 168. SD, p. 168. Cfr. SD, p. 156.

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dell’individuo e della massa a «macchine viventi [lebendige Maschinen]»39, e quindi alla effettiva mutazione di massa e individuo in «oggetti». Dall’altro canto assistiamo a sempre maggiori spazi di «comfort»40, nel senso di una preservazione della vita corporea nei confronti di qualsiasi contatto con il dolore. Sia il comfort, che l’uniforme sono modalità di esistenza di una «mutata legalità [veränderte Gesetzmässigkeit]»41 entro i cui confini il tipo del Lavoratore è inserito; questa nuova legalità comporta l’estraneità dall’esperienza del dolore – attuata comunque attraverso forme di «oggettivazione», sia nella direzione di una oggettivazione dell’immagine del nostro corpo e del mondo nel suo complesso, sia nel senso di una creazione di spazi di comfort che sono protetti dalla sfera del dolore. 2. Fotografia e Seconda coscienza Nel § 14 del saggio sul dolore, Jünger introduce la nozione di «Seconda coscienza» (Zweite Bewußtsein): con questa locuzione Jünger intende distinguere una coscienza diffusa nel Tipo che non ha nulla a che vedere con le precedenti forme di autocontemplazione individuale; la Seconda coscienza è altro rispetto a un’analisi psicologica che l’individuo rivolge a se stesso, si tratta piuttosto di una diffusa e specifica «capacità di vedere se stessi come un oggetto» che concerne «un uomo che è ormai estraneo alla sfera del dolore»42. Se il «vedere se stessi come oggetto»43 costituisce uno dei caratteri distintivi del Lavoratore, il tipo di sguardo e il tipo di immagini prodotte dal Tipo sono evidentemente un elemento essenziale della fenomenologia del mondo sensibile che si sta affermando a livello planetario. In questo senso, la fotografia può essere definita come un «fenomeno rivoluzionario»44, in quanto costituisce il modello della «oggettivazione della nostra immagine del mondo [Vergegenständlichung unseres Weltbildes]»45 e quindi l’archetipo sul piano ottico del «nostro rapporto con il dolore»46, con l’esperienza e la sfera estetica in generale.

39 40 41 42 43 44 45 46

SD, p. 167. SD, p. 168. SD, p. 173 (tr. it.mod.). SD, p. 175. SD, p. 175. SD, p. 175. SD, p. 175. SD, p. 175.

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La caratteristica fondamentale della «registrazione fotografica» è quella di essere «esterna alla zona della sensibilità»47 ed essa è «esterna» alla sensibilità fin dal suo emergere nella sfera della visibilità, se si pone attenzione al fatto che si tratta della prima immagine prodotta indipendentemente dai sensi e dal corpo umano. Dunque, anche in questo caso ci troviamo dinanzi a una forma di ibridazione: un’immagine indipendente dai sensi, entra a far parte della sfera sensibile, condizionandone nel complesso la sua organizzazione. In che senso si riorganizza il rapporto estetico con le cose? La risoluzione della vita umana in vita corporea, porta con sé come elemento essenziale l’avere a che fare con immagini indipendenti dal corpo stesso e di cui la Seconda coscienza si alimenta. Alla descrizione di un’immagine fotografica, Jünger affida il compito di mostrare come si istituisca e come operi l’immaginario della Seconda coscienza nell’esistenza del Lavoratore: «La fotografia fissa tanto la pallottola nella sua traiettoria, quanto l’uomo nel momento in cui viene dilaniato da un’esplosione»48. Jünger sintetizza in questa immagine la tendenza oggettivizzante dello sguardo fotografico: la differenza tra vita organica e dimensione inorganica viene elisa dalla riduzione di entrambi a meri «oggetti». Lo sguardo fotografico è in questo senso, dunque, «insensibile e invulnerabile»; questo, scrive Jünger è il «nostro modo specifico di vedere» e la macchina fotografica «non è altro che uno strumento di questa specificità»49. Sul piano ottico questa tendenza oggettivizzante è dispiegata in molteplici ambiti della vita attraverso la fotografia e il cinema, mentre si muove ancora a un livello di pura potenzialità nella letteratura o in altre forme artistiche; anche sotto questo aspetto, la comprensione di ciò che accade sul piano ottico, permette, secondo Jünger, una comprensione di ciò che dovrà accadere anche in altri ambiti di espressione umana. 3. Vedere come «atto di aggressione» Il «vedere» è per lo sguardo fotografico un «atto di aggressione»50. La Prima guerra mondiale – quale guerra dei Lavoratori – è la prima guerra in cui la fotografia viene utilizzata in modo sistematico sia come forma di documentazione, sia come arma; per la prima volta la riproduzione in immagine di una postazione comporta di per sé la sua indifendibilità. Un’analo47 48 49 50

SD, p. 176. SD. p. 176. SD. p. 176. SD. p. 176.

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ga forma di «aggressività» è riscontrabile anche nell’ambito “pacifico” della politica, connessa all’esposizione di immagini fotografiche dei corpi di nemici politici assassinati. In questo caso la fotografia mostra di essere uno strumento al servizio del Tipo che mira a «smascherare il carattere individuale»51 della vita dell’uomo. L’aggressività è dunque un carattere intrinseco al tipo di oggettività che si afferma con lo sguardo fotografico. Questo tipo di aggressività è riconducibile sia alla ibridazione di organico e inorganico (o alla riduzione dell’organico al piano dell’inorganico), sia al «carattere telescopico»52 dello sguardo fotografico. Il Lavoratore operando con gli apparati ottici distacca e rende autonoma l’immagine visibile dal suo rapporto con il corpo e con l’esperienza. Guardare in modo telescopico significa poter operare sulla dimensione spazio-temporale degli eventi registrati in immagine; con ciò tutto quanto è riproducibile in immagine diventa materiale illimitatamente immagazzinabile e disponibile. 4. Sguardo fotografico e imperialismo Nel saggio Sul dolore, Jünger osserva come tra le caratteristiche tipiche dello sguardo fotografico vi sia un potenziale imperialistico che è illustrato con l’immagine seguente: «Una città come la Mecca nel momento in cui può essere fotografata, entra a far parte della sfera coloniale»53. L’idea della intrinseca dimensione imperialistica della fotografia è uno dei leitmotiv del volume curato da Jünger e Edmund Schultz Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo. L’immagine della Mecca è significativa per due ragioni: in primo luogo Jünger mostra come tutte le forme culturali, religioni comprese, siano costrette a confrontarsi con la dimensione oggettivizzante e infine si uniformino ai principi tipizzanti del sistema del lavoro. Lo sguardo fotografico opera come forza imperialistica in modo differente rispetto al passato, includendo ogni forma di esistenza e riducendola a un’esistenza conforme ai propri principi. Potremmo definirlo un imperialismo sperimentale, automatico, oggettivo, “pacifico” che oltrepassa ogni anteriore forma di imperialismo che necessariamente doveva servirsi della guerra come suo principale strumento politico. Riferirsi alla nozione di imperialismo, successivamente all’imporsi dello sguardo fotografico, significa rivolgersi a una nozione qualitativamente altra rispetto al passato, 51 52 53

SD. p. 177. SD, p. 176. SD, p. 177.

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analogamente rispetto a ciò che è accaduto alla nozione di guerra in coincidenza della sua modificazione in relazione alla Mobilitazione totale. La radice di questo carattere imperialistico è spiegata da Jünger nelle righe successive del saggio: mediante i nuovi media come la fotografia, il cinema, la radio «l’avvenimento stesso sparisce dietro la sua “trasmissione”, e diventa perciò un puro oggetto. […] L’avvenimento non è più legato a uno spazio e a un tempo particolari, poiché lo si può riprodurre a piacere e infinite volte in ogni luogo»54. In queste righe Jünger avanza una serie di osservazioni analoghe a quelle che quasi contemporaneamente confluiranno nelle diverse stesure del saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Il modo di esistenza delle cose si sposta sul piano della trasmissibilità, della riproducibilità. Qualcosa esiste in quanto è riproducibile, ciò che non è riproducibile o trasmissibile tende a scivolare sotto la soglia di esistenza. Tutto ciò che esiste, proprio per poter esistere deve e poi vuole necessariamente adeguarsi a questa forma di esistenza in cui la riproducibilità e la trasmissibilità sono caratteristiche necessarie, non solo al presentarsi della cosa come oggettiva, ma perché essa possa appunto semplicemente esistere. Ciò che non è oggettivo nella sfera della visione fotografica – ovvero ciò che si sottrae alla visibilità riproducibile della fotografia – è d’ora in avanti minacciato nella sua stessa esistenza. Ciò che non vuole essere riprodotto in immagine non vuole esistere. Perché qualcosa esista deve (e vuole) entrare nello spazio imperiale della visibilità fotografica. Detto in altri termini: lo sguardo fotografico non solo opera nella direzione di una normalizzazione del processo di oggettivazione della vita, rendendola funzionale in quanto «oggetto» al sistema del lavoro, ma modifica anche il modo in cui gli eventi assumono senso: è nella trasmissibilità e riproducibilità tecnica – e quindi fotografica sul piano ottico – che qualcosa esiste e ha valore. In questo quadro deve essere inserita anche la questione della «obiettività» dello sguardo fotografico: esso è obiettivo nella misura in cui perché qualcosa possa essere definito esistente deve uniformarsi alle regole della visibilità e della trasmissibilità fotografica, ovvero deve entrare a far parte della Seconda coscienza, imponendo una modificazione radicale in rapporto al contesto culturale originario. La domanda che esplicitamente si pone Jünger in questo saggio è se la Seconda coscienza che vediamo «instancabilmente all’opera» in ogni ambito della vita possieda un «centro» a partire da cui «la crescente pietrificazione della vita possa ricevere un più profondo signifi-

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cato in grado di giustificarla»55. La direzione di questa domanda probabilmente affonda le radici nel tentativo jüngeriano di trovare un senso al di là dell’espansione tecnica stessa, che ancora in questo saggio, come ne L’Operaio risulta particolarmente viva. Attraverso un sacrificio totale alla tecnica, è possibile raggiungere un ethos in grado di condurre a un dominio politico del sistema del lavoro? Con il sacrificio totale di cui l’uomo-proiettile è interprete, si raggiunge qualcosa in più che un eroismo nostalgico del passato? D’altro canto la figura dell’anarchico russo conradiano, sembrerebbe invece porre di fronte il singolo a un’unica possibilità, quella di una rivolta contro l’apparato tecnico senza mediazione; questa direzione prelude agli ulteriori sviluppi della pratica di libertà (mi riferisco evidentemente alle figure dell’anarca e del Waldgänger) che caratterizzano la riflessione jüngeriana del secondo dopoguerra. 5. Fotografia, «mezzi totali» e «anestesia». La radicale modificazione percettiva, connessa alla diffusione dello sguardo fotografico è testimoniata da alcuni atteggiamenti che sono assunti come naturali dall’occhio educato alla fotografia e al cinema, ma che risultano incomprensibili o addirittura patologici se considerati da chi è estraneo allo sguardo fotografico: si pensi, scrive Jünger, alla «violenta risata che accompagna le scene comiche dei film, basate per lo più su un’accumulazione di situazioni penose e crudeli»56 o alla «maggiore freddezza» che ci permette di sopportare sempre più frequentemente la «vista della morte»57. Ma si pensi anche al «sorprendente sincronismo» per cui tra «due filmati di soggetto gradevole e rilassante si vedono interpolate le immagini di una catastrofe che in quel momento sta devastando una parte del pianeta»58. Qui ciò che più colpisce è la reazione silenziosa del pubblico, un silenzio definito «astratto e crudele»59, assai ben più inquietante della «frenesia selvaggia» che possiamo ancora oggi osservare nelle «arene meridionali», là dove «la tauromachia ha conservato fino a oggi un residuo degli antichi giochi»60. Il «silenzio», quale reazione emotiva dinanzi a scene violente o catastrofiche,

55 56 57 58 59 60

SD, p. 177. SD, p. 178. SD, p. 181. SD, p. 178. SD, p. 178. SD, p. 178.

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mostra che l’assenza di ritualità coincide da un lato con la perdita di senso dell’evento doloroso e dall’altro con l’aumento della «crudeltà» del sistema del lavoro nel suo complesso; lo spettatore ora risulta disposto ad accettare la rappresentazione del dolore – in una forma né esperibile né comprensibile – in misura sempre crescente. Il «rito» viene sostituito dalla «sequenza tecnicamente esatta»61. Nelle pagine del saggio la contrapposizione tra «rito» e «tecnica» o tra «ethos» e «tecnica» è ricorrente. Con «rito» Jünger sembra intendere ogni azione umana che mira a trarre il proprio senso in riferimento a un principio trascendente che è attingibile nella dimensione sensibile attraverso il rispetto di norme e codici che consentono a loro volta di dare forma a un ethos. Nel momento in cui la vita corporea si trasforma da «avamposto» in «quartier generale», il rito viene sostituito dalla «sequenza tecnica». Il sistema dell’oggettività tecnica ricopre la funzione svolta dall’ethos svuotando di senso ogni forma di comprensione rituale. I nuovi media che caratterizzano il sistema del lavoro vengono definiti esplicitamente da Jünger «organi di senso artificiali [künstlichen Sinnesorgane]»62, lasciando intendere che il rapporto sensibile con le cose avviene sempre più integralmente attraverso questi nuovi media; con ciò Jünger pone in luce la dimensione storica della percezione umana e la direzione della mutazione avvenuta: in questo senso, la radio e il cinema sono definiti rispetto alla fotografia come «mezzi totali [totalen Mittel]»63 dove il senso della parola «totale» indica sia il loro intensivo sostituirsi a ogni altro rapporto esperienziale con le cose, sia in senso estensivo il loro diffondersi in modo integrale nel sistema del lavoro. Infine Jünger osserva che i «mezzi totali» presentano un «carattere di intrattenimento dietro il quale si nascondono forme particolari di disciplina»64. Da un lato si avverte l’esigenza di sottolineare la necessità per il sistema di un «obbligo» all’utilizzo di questi strumenti, dall’altro la natura di «intrattenimento» della disciplina impartita da tali media, sembra rendere solo momentanea la necessità di imposizione a una connessione a tali dispositivi, in quanto proprio in forza della loro facoltà di simulare il gioco e l’ozio, sono in grado di promuovere incondizionatamente la propria diffusione, accompagnando così la mutazione dei sudditi in volenterosi utenti democratici.

61 62 63 64

SD, p. 179. SD, p. 179. SD, p. 179. SD, p. 179.

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Il corpo umano è sottoposto in misura sempre maggiore al «controllo della prestazione [was der menschliche Körper als zu leisten vermag]»65 in ogni sfera dell’esistenza, tra le quali lo sport «fornisce un’immagine molto nitida proprio perché manca ciò che è conforme a un fine»66. La portata di tutti i fenomeni fin qui descritti non deve essere intesa semplicemente come un insieme di «trasformazioni tecniche» che si aggiungono agli stili culturali preesistenti, ma costituiscono «un nuovo modo di vivere»67 che rende a sé funzionale tutti le forme di vita con cui entra in contatto. La radicalità del processo in corso si desume dal fatto che il «carattere strumentale non si limita all’ambito proprio dello strumento ma tenta di sottomettere lo stesso corpo umano»68. Lo sport mostra l’inclusione di quello che era uno spazio di gioco – quindi di ozio e di non-lavoro – all’interno del «processo-lavoro»69 e con ciò emerge la capacità massima di riduzione a sé da parte del sistema del lavoro di ciò che non era lavoro. La trasformazione dell’agone o del gioco in sport – e quindi in un segmento del processo lavorativo – si evidenzia nel fatto che il gioco mutatosi in prestazione, si misura sui criteri della Seconda coscienza che opera il controllo della prestazione stessa in modo spazio-temporale mediante strumenti come il cronometro o l’obiettivo fotografico. La logica del record equivale a una messa alla prova della prestazione umana, e ne implica un suo inserimento sempre più intenso nel processo di lavoro; come scrive Jünger il record risponde al bisogno «di conoscere nel modo più preciso le possibilità del corpo umano come strumento»70. In questo senso, dunque, lo sport può essere considerato «uno dei campi in cui è dato osservare l’indurimento e l’affinamento, o anche la galvanizzazione della figura umana»71, che a sua volta indica la mutazione del tipo del Lavoratore nel suo insieme in «carne disciplinata e uniformata»72. Attraverso l’inserimento del corpo del Tipo nel processo di funzionamento del sistema del lavoro, aumenta la capacità di «sopportare con maggiore freddezza la vista della morte»73, come testimonia la necessità di non interrompere una manifestazione sportiva nel caso di un incidente mortale. 65 66 67 68 69 70 71 72 73

SD, p. 180. SD, p. 181 (tr. it. mod.). SD, p. 179. SD, p. 179. SD, p. 181 (tr. it. mod.). SD, p. 181. SD p. 181. SD, p. 181. SD, p. 181.

M. Guerri - Sguardo fotografico e seconda coscienza

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Un’ultima immagine è coniata da Jünger per comprendere lo sguardo fotografico: Si ricorderà infine come anche in medicina il corpo sia diventato in larga misura un oggetto [Gegenstand]. Anche qui compare l’ambiguità [Doppelsinnigkeit] di cui si parlava in precedenza. Così ad esempio l’anestesia si presenta da un lato come un affrancamento dal dolore [Befreiung vom Schmerz], mentre dall’altro essa trasforma il corpo in un oggetto [Objekt] che rimane aperto [offensteht] per l’intervento meccanico come materia senza vita74.

Il procedimento anestetico cui è sottoposto il corpo umano dalla tecnica medica fornisce un’immagine di come accade il processo di stabilizzazione e di normalizzazione della logica lavorativa nel suo complesso. L’anestesia produce una temporanea eliminazione del dolore solo nella misura in cui il corpo umano è reso oggetto aperto e disponibile alla violenza dell’intervento tecnico. Ciò che all’uomo è risparmiato sotto forma di esperienza individuale e diretta del dolore, si ripresenta come sistematica, inconsapevole e socialmente accettabile intrusione dell’elemento tecnico nella sfera della vita. Oppure come «educazione» spaziale alla sopportazione telescopica del dolore. E, ancora come disciplina temporale di sospensione del dolore attraverso una sua «dilazione» o «diluizione» sub specie psychologica, tutti tratti leggibili come segni di una avvenuta modificazione di un precedente stile percettivo. In questo senso l’anestesia è il simbolo della normalizzazione della violenza e del terrore funzionale alla logica del lavoro, all’interno del corpo della società. La fotografia costituisce sul piano della visione un’anestetizzazione della esperienza della visione analoga a quella narcosi che in ambito medico, sospendendo il dolore dal corpo e riducendolo momentaneamente a cadavere, rende possibile l’«intervento meccanico» del chirurgo: fotografare significa anestetizzare la visione al dolore della violenza tecnica, separarla dalla sua capacità di fare esperienza, e rendere possibile invece il «restare aperto» dell’occhio alla intrusione dell’opera del lavoro, il quale è ora disciplinato a vedere come obiettiva, corretta e normale la continua esposizione all’«intervento meccanico» e al «pericolo».

74

SD, p. 182 (tr. it. mod.).

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VALENTINA MENESATTI

ERNST JÜNGER E L’IMMAGINE DEL CORPO TRA ORGANICO, MECCANICO E POSTORGANICO

1. Introduzione Il presente saggio si pone come una breve indagine sull’immagine del corpo dipinta da Ernst Jünger nel mondo mutato dalla tecnica. Vorrei mostrare, iniziando dal concetto di costruzione organica formulato ne L’operaio1 Ernst Jünger e giungendo alle sue considerazioni sull’inconciliabilità tra perfezione umana e perfezionamento tecnico ne Le api di vetro2, l’attualità di alcune riflessioni jüngeriane nell’odierno dibattito nell’ambito della Visual culture sulle amputazioni, le estensioni, le invasioni e le ibridazioni del corpo, cui farò cenno nel paragrafo finale. Per fare ciò tenterò innanzitutto di far dialogare, sotto l’insegna dell’oggettivazione tecnica, L’operaio e il saggio Sul dolore3, con particolare attenzione ai concetti di costruzione organica – fondamentale nell’intero saggio – e di corpo strumento-oggetto. Osservando alcuni passaggi del saggio Sul dolore emergerà la visione di un corpo anestetizzato grazie alla spessa corazza che l’uni-forme della tecnica si rivela essere. L’ibridazione organico-meccanico verrà poi esaminata nel panorama de Le api di vetro insieme ai concetti di perfezione tecnica e perfezionamento umano, formulati da Ernst Jünger anche grazie all’apporto del fratello Friedrich Georg Jünger e del suo saggio La perfezione della tecnica4. Analizzando alcuni passaggi 1 2 3 4

E. Jünger, Der Arbeiter (1932), in SW8; tr. it. e cura di Q. Principe, L’Operaio, Guanda, Parma 2004. E. Jünger, Gläserne Bienen (1957), in SW15; tr. it. di H. Furst, Le api di vetro, Guanda, Parma 1993. E. Jünger, Über den Schmerz (1934), in SW7; tr. it. di F. Cuniberto, Sul dolore, in Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997. F.G. Jünger, Die Perfektion der Technik; tr. it. di M. De Pasquale, La perfezione della tecnica, Settimo Sigillo, Roma 2000. Il libro fu pubblicato nel 1946 da Klostermann. Nel 1949 ne uscirono un’edizione rivista (il numero dei capitoli passò da trentanove a quarantasei) e una traduzione americana (The Failure of Techno-

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L’eco delle immagini e il dominio delle forme

fondamentali del romanzo Le api di vetro, osserverò poi come l’insetto artificiale e le macchine-uomini che troviamo dello scritto incarnino la profezia del destino del nuovo Tipo, l’unico a possedere un corpo in grado di resistere agli assalti del dolore nelle trasformazioni vertiginose del mondo contemporaneo. Nelle conclusioni accennerò brevemente ad alcuni degli esiti di una concezione del corpo dei nostri giorni, che non è forse più né avamposto, né quartier generale, bensì una terra di confine fluida ed ibrida. 2. La costruzione organica Ho sempre immaginato il mondo de L’operaio come uno spazio pervaso da un unico suono, quello delle macchine. Non è infatti il canto delle ideologie né l’eco dei valori perduti a diffondersi nell’aria, ma il canto delle macchine5. A partire dalla Prima Guerra Mondiale, teatro della violenta esplosione del materiale [Materialschlacht], Jünger riconosce che l’elementare scatenato nei campi di battaglia imponeva all’“umano” il confronto in prima linea con il Golem della tecnica. In questo senso si può parlare di una convertibilità, o se non altro di una continuità, tra la figura del soldato e quella del lavoratore. In trincea, il volontario Jünger, si rende ben presto conto per esperienza diretta che l’eroismo è destinato a soccombere sotto lo strapotere del materiale. Contro questo nuovo nemico, più resistente e imponente di quello tradizionale, Jünger deve individuare un nuovo fondamento in base al quale orientarsi, o meglio, sono proprio l’organico e il vitale a doversi riorganizzare seguendo regole nuove, assumendo un nuovo atteggiamento6. L’adesione dell’uomo ai suoi strumenti, la possibilità che la mitragliatrice divenga un prolungamento del braccio del soldato ap-

5 6

logy: Perfection without Purpose, Regnery, Hinsdale, Ill.). Una terza edizione, nel 1953, incorporò il testo di un altro saggio: Maschine und Eigentum. La settima edizione è comparsa nel 1980. Su questo libro cfr. in particolare W. Hadecke, Die Welt als Maschine. Über Friedrich Georg Jüngers Buch „Die Perfektion der Technik”, in “Scheidewege”, X, 1980, pp. 285-317; e G. Gregorio, Tecnica e modernità in Friedrich Georg Jünger, in Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti. Classe di Lettere e Filosofia e Belle Arti, vol. LXXII, E.S.I, Napoli 1996. Lied der Maschinen è anche il titolo di un frammento jüngeriano raccolto in Das abenteuerliche Herz (1938), in SW9; tr. it. e cura di Q. Principe, Il cuore avventuroso. Figurazioni e Capricci, Guanda, Parma 1995. Per questa nuova regolamentazione, nel senso dell’Einstellung tedesca, cfr. T. Pekar, Organische Konstruktion. Ernst Jünger, Idee einer Symbiose von Mensch und Maschine, in F. Strack (a cura di), Titan Technik, Ernst und Friedrich Georg

V. Menesatti - Ernst Jünger e l’immagine del corpo

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pagando il desiderio di recuperare almeno in parte il controllo dell’elemento vitale su quello meccanico, converge e trova la sua massima espressione nella fusione, nella perfetta unità meglio nota come costruzione organica [organische Konstruktion]. Quando Jünger scrive L’operaio ha fiducia in un futuro dominio della tecnica planetaria e ogni segno che indichi l’accelerazione dello sviluppo tecnico per raggiungere quella perfezione è ritenuto un «buon segno»7. Jünger prevede che, allo stato dinamico-esplosivo della tecnica dal quale è circondato, subentrerà, infatti, uno stato di perfezione, uno dei segni destinati a connotare il momento e il movimento conclusivo della Mobilitazione Totale8, entrata in scena proprio sul palco della prima guerra mondiale e divenuta “totale” nel dispiegamento delle forze umane che la figura del Nuovo Tipo, il lavoratore, attua sotto il segno del lavoro e della produzione. Da un lato, il nuovo tipo umano [Arbeiter] ha bisogno di mezzi che gli sono propri per sviluppare un’attività efficace, e, dall’altro, in quei mezzi si cela un linguaggio di cui soltanto il tipo umano possiede il segreto. L’avvicinamento a questa unità si esprime nella cancellazione della differenza tra mondo organico e mondo meccanico; simbolo di tale fusione è [proprio] la costruzione organica9.

Leggiamo che il concetto di costruzione organica «si sviluppa in relazione al tipo umano come intima e coerente fusione dell’uomo con gli strumenti a sua disposizione»10. Proprio in riferimento a questi strumenti «è possibile parlare di costruzione organica, nel momento in cui la tecnica raggiunge quel supremo grado di naturalezza che è presente nelle membra degli animali e nelle articolazioni delle piante»11. Quindi è a partire dalla concezione di lavoro totale e di totalità del Tipo umano che si sviluppa il concetto di organische Konstruktion, una fusione piena tra l’elemento organico e quello meccanico. Il processo che conduce a tale unità vede la tecnica divenire un organo e acquistare sempre maggior perfezione e quindi naturalezza. Al contempo, la costruzione organica è un

7 8 9 10 11

Jünger über das technische Zeitalter, Königshausen & Neumann, Würzburg 2000, pp. 99-116. «Abbiamo esaminato brevemente l’oggettivazione del singolo e delle strutture in cui si organizza, e la prendiamo come un buon segno», (E. Jünger, Sul dolore, cit., pp. 167-168). Al concetto, Jünger dedica l’omonimo saggio Die totale Mobilmachung (1930), in SW7; tr. it. di F. Cuniberto, La mobilitazione totale, in Foglie e pietre, cit. E. Jünger, L’operaio, cit., pp. 157-158. Ivi, p. 166. Ibidem.

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L’eco delle immagini e il dominio delle forme

tratto fondamentale del Tipo senza il manifestarsi del quale l’ibridazione non è pensabile. In sintesi la organische Konstruktion lascia i campi di battaglia per contagiare il mondo dell’operaio – guerriero della produzione – la superiorità del quale risiede proprio nella fusione con i suoi mezzi. Esaminato il concetto di costruzione organica, desidero analizzare le “sembianze” del nuovo tipo umano, ovvero come viene descritto da Jünger il corpo di colui che abbandona l’individualità per indossare la maschera del Titano, l’unico in grado di fronteggiare il Golem della tecnica attraverso l’oggettivazione di se stesso e del suo corpo. La lente attraverso la quale ho scelto di osservare questo processo di oggettivazione è il dolore. 3. Il corpo anestetizzato Sul dolore fa parte di quegli scritti a cui l’autore attribuisce «un carattere di durata al di là dell’occasione contingente»12. Se la mobilitazione totale descrive il processo nel suo insieme e il lavoratore rappresenta la forma il cui compito storico consiste nell’attuazione del processo, Sul dolore porta la ricerca «un passo più in là» sostituendo al valore il dolore come pietra di paragone. Se il dolore infatti non riconosce alcun valore, non può essere eliminato e in questo senso non muta13, a cambiare è invece il rapporto che l’uomo intrattiene con esso. In tal senso lo si può considerare un’unità di misura, per l’appunto una «pietra di paragone»14. Soffermiamoci su tre tipologie di “rapporti con il dolore” che emergono nel saggio, tre modalità di sentire il dolore. La prima è l’elusione del dolore propria dell’informe mondo borghese; la seconda è la sopportazione del dolore propria del mondo eroico e cultuale; la terza, l’estraniazione dal dolore e la visione di un corpo anestetizzato grazie alla spessa corazza costituita dall’uniforme della tecnica e coincidente col corpo del tipo nel mondo del lavoratore. All’interno di questa stringata schematizzazione possiamo rintracciare le rispettive immagini del corpo che vengono dipinte in base al tipo di rapporto che si intrattiene con il dolore. 12 13

14

Come Jünger scrive nella Premessa a «Foglie e pietre». Al lettore, in Foglie e pietre, cit., p. 11. Per Jünger non c’è modo di impedire al dolore di manifestarsi, come se ci fosse una «astuzia del dolore [List des Schmerzen]», e il dolore reclamasse «i suoi diritti sulla vita con una logica implacabile. Là dove si fa risparmio del dolore l’equilibrio verrà ristabilito secondo le leggi di un’economia rigorosa», (E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 149). Ivi, p. 15.

V. Menesatti - Ernst Jünger e l’immagine del corpo

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Nel mondo del borghese, il corpo è un valore supremo e quindi il dolore non lo colpisce come un avamposto ma come un “quartier generale”, come nucleo essenziale. Per Jünger questa modalità di (non) relazionarsi con il dolore è quella propria della moderna sensibilità, l’epoca borghese del valore universale, del voto universale, della chiacchiera universale, in cui «lo sviluppo favoloso dei mezzi tecnici sembra obbedire ancora e unicamente al’imperativo del “comfort”; [in cui] tutto sembra nato allo scopo di illuminare, riscaldare, mettere in movimento, divertire e attirare fiumi di denaro»15, di offrire una sicurezza apparente e transitoria. I grandi caffè divengono «il simbolo del senso di benessere da sogno […] che satura l’atmosfera come un narcotico»16, come traspare anche dalle pagine del frammento Nei locali del cafè-restaurant17. Dunque nella prima forma di relazione con il dolore, quella dell’elusione, il dolore è spinto ai margini per fare spazio a un benessere mediocre e il tentativo perpetuato nel mondo borghese è, in poche parole, quello di evitare il dolore. Tuttavia secondo Jünger ci sono atteggiamenti con i quali ci si può distaccare dal dolore, senza tentare di eluderlo “inutilmente” come fa il borghese, ma sottraendosi comunque al suo dominio assoluto. Ciò è possibile soltanto relativamente alla capacità dell’uomo «di trattare il corpo, ossia lo spazio mediante il quale è partecipe del dolore, come un oggetto»18. Per fare questo è necessario che ci sia una sorta di postazione di comando che dall’alto tratti il corpo [Leib] come un grande avamposto [Vorposten] che l’uomo, a distanza, è in grado di impiegare in battaglia. E qui siamo nella seconda “forma di dolore”. Il riferimento è al mondo eroico e cultuale, evocato sempre in forte contrapposizione – endemica nell’opera di Jünger – a quello borghese, definito «mondo della sensibilità»19, che rimuove il dolore e lo separa dalla vita, dal mondo delle forze elementari. Al contrario lo scopo dell’operazione di distacco e oggettivazione del corpo nel mondo eroico e cultuale, è la sopportazione del dolore, la sua assimilazione all’interno di un’organizzazione della vita tale da renderla pronta in ogni momento all’incontro con il dolore, attraverso la disciplina. Questa, in ambito

15 16 17 18 19

Ibidem. Ibidem. Jünger dipinge con i toni della critica al mondo borghese un grande caffè dove «gli avventori» provano, «non noia», «ma angoscia» (E. Jünger, Nei locali del cafè-restaurant, in Il cuore avventuroso, cit., p. 80). E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 152. Ibidem.

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eroico e guerresco tempra il corpo come l’acciaio, mentre in quello ascetico e sacerdotale mira alla mortificazione20 del corpo. Nell’epoca dell’operaio, sebbene dopo la Prima Guerra Mondiale figure propriamente eroiche scompaiano e il corpo non possa più essere trattato come quell’avamposto strategico da sacrificare nella fede di valori e cause, si annuncia una nuova disciplina legata alla concezione di un corpo-strumento proprio di un lavoratore forgiato sui campi di battaglia. Nel mondo del lavoratore, infatti, non scompare ma muta il tipo e la forma di disciplina mediante cui l’uomo attua l’oggettivazione del corpo, che è un’oggettivazione di tipo tecnico. Per Jünger un esempio estremo del mutato rapporto con il corpo, reso strumento in un orizzonte di dedizione totale, è il proiettile umano messo a punto dalla marina militare giapponese: un pilota vivente collocato in una piccola cabina, o, in altri termini, un umano che è appendice strumentale e vero cervello del proiettile21. Questo ibrido [organische Konstruktion] fa compiere un ulteriore passo alla tecnica che, nell’ibridazione, concepisce l’uomo stesso come una delle sue parti costitutive. L’individuo in possesso di tale attitudine sarà al di sopra della massa, superiore all’intero spazio sottoposto al dolore, perché nel pieno controllo-comando del corpo, utilizzato come avamposto. Per Jünger, in questo momento, l’oggettivazione dell’individuo e delle sue strutture è «un buon segno» [gutes Zeichen]22. Sebbene, dice Jünger riferendosi al proiettile umano, certi comportamenti non facciano parte del nostro ethos, tuttavia tali esempi rivelano la metamorfosi dell’uomo da individuo a tipo/lavoratore. A mutare in tale direzione è anche «la tecnica in sé in cui l’oggettivazione della nostra vita appare con la massima chiarezza»23 e questo è il livello più protetto dall’aggressione del dolore. «La tecnica è la nostra uniforme»24, scrive Jünger evidenziando il carattere strumentale di potenza pura che si manifesta tanto nella battaglia quanto nel mondo dei comfort. E mentre si «annuncia la comparsa di un nuovo tipo di soldato, più duro e inattaccabile»25, le vittime richieste dallo sviluppo tecnico appaiono necessarie perché in conformità con il nuovo tipo: il lavoratore. Dal punto di 20 21 22 23 24 25

Un esempio è quello che Jünger trae dall’epistola della Chiesa di Smirne sul martirio di san Policarpo: «I martiri di Cristo dimostrarono così a noi tutti che nell’ora del tormento erano assenti dalla carne», (ivi, p. 167). «Non c’è una metafora più terribile [das furchtbareste Symbol] di tale pretesa di dominio» (ivi, p. 154). Ivi, p. 168. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 172.

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vista del corpo e del dolore vi è «un estirpamento della zona della sensibilità dalla vita»26 e in tutte le misure tendenti alla disciplina che riducono questa zona della sensibilità, l’obiettivo primario appare sempre produrre e riprodurre in maniera seriale un certo tipo umano. L’immagine del corpo in possesso di questa disciplina ha dei tratti ben precisi: il volto disciplinato è «chiuso; […] dallo sguardo fisso, univoco, oggettivo, rigido» perché «l’intervento di norme ferree e impersonali si traduce in un indurimento del volto»27 e l’uniforme, sempre contrapposta all’informe della massa borghese, ha il carattere dell’armatura, «corazza efficace contro gli assalti del dolore»28. La visione oggettivante del corpo è possibile e comprensibile soltanto a partire da una precisa caratteristica di cui il tipo è in possesso: la seconda coscienza [zweites Bewuβtsein]. Si tratta di una coscienza più fredda, che misura la potenza del tipo proprio attraverso il corpo e che conduce il tipo a considerare sempre più compiutamente se stesso come oggetto: Non solo noi lavoriamo con organi artificiali più di qualsiasi altra epoca precedente, ma stiamo anche edificando nuovi e strani domini in cui l’uso degli organi di senso artificiale finisce per creare un alto grado di accordo intraspecifico [die typische Übereinstimmung]. Questo fatto è però strettamente legato all’oggettivazione della nostra immagine del mondo e quindi al nostro rapporto con il dolore29.

La costruzione organica appare uno degli aspetti del processo di oggettivazione del mondo, legata all’oggettivazione dell’immagine del mondo e al nostro rapporto con il dolore: lo sguardo diviene una forma di registrazione del mondo cui viene dato il valore di documento come nella fotografia, descritta da Jünger come arma del Tipo. Infatti l’occhio telescopico della macchina da presa è insensibile e invulnerabile e in generale i mezzi “totali” (come anche la radio30 o i film) presentano un carattere di intrattenimento dietro al quale si nascondono forme di disciplina. Si tratta non tanto di trasformazioni tecniche quanto di un nuovo modo di vivere; ciò si manifesta soprattutto nel fatto che «il carattere strumentale non si limita all’ambito proprio dello strumento ma tenta di sottomettere lo stesso corpo umano»31 come si nota ad esempio nella 26 27 28 29 30 31

Ivi, p. 156. Ivi, p. 159. Ibidem. Ivi, p. 175. «Collegarsi al servizio radio sarà obbligatorio» (ivi, p. 179). Ibidem.

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corsa al record, nuovo “idolo” dello sport che condiziona l’attività sportiva all’esattezza della misurazione di una serie di risultati. La sequenza tecnicamente esatta sostituisce il rito32, inteso da Jünger come trasfigurazione di quella esperienza del dolore, che non è più possibile. Il corpo di chi segna i record è simile a quello di una macchina: il volto è «senz’anima, come modellato dal metallo o intagliato nel legno»33 e il corpo, «sottratto all’area della sensibilità [Empfindsamkeit]», non è altro che «carne disciplinata e uniformata dalla volontà […] indifferente alle ferite», visto che «con il progredire dell’oggettivazione cresce anche la quantità di dolore che può essere sopportata»34. Vivo è il sentimento di estraneità verso il proprio corpo-strumento, il sentimento di questa coscienza rivolta a un uomo che è ormai distante dalla sfera del dolore. Infatti, «se oggi siamo di nuovo in grado di sopportare con maggiore freddezza la vista della morte», è perché «nel nostro corpo non siamo più di casa come prima»35. L’estraneità verso il nostro corpo, dunque, è estraneità verso noi stessi. La seconda coscienza del lavoratore utilizza proprio questo sguardo estraneo, insensibile e invulnerabile, rivolto anche al corpo. Ne deriva che qualsiasi manifestazione del dolore non può che essere vista come “incidente” poiché il dolore è normalmente “sospeso” dall’esperienza umana e quando vi irrompe lo fa come un attacco inatteso. «L’anestesia» del corpo da un lato «è un affrancamento dal dolore fisico», dall’altro «trasforma il corpo in un oggetto esposto all’intervento meccanico come materia senza vita»36 ed è un tratto fondamentale della seconda coscienza. Anestesia e estraneazione sono le tinte che dipingono il frammento intitolato Il cavaliere nero37, dove Jünger racconta di un viaggio “onirico”, di un sogno angoscioso in una fortezza scura, simbolo di ciò che nelle conclusioni chiamerà esplicitamente la «segreta rocca del dolore»38. Jünger si tro32

33 34 35 36 37 38

Ne Lo scarabeo spagnolo, le nozze, Hochzeit, ossia letteralmente “tempo alto”, sono il motivo atto a ricordare che nella ritualità avviene «qualcosa che nel tempo rinvia all’esistenza di un ordine atemporale», (E. Jünger, Das spanische Mondhorn (1962), in SW13; tr. it. di H. Plard, Lo scarabeo spagnolo, in Il contemplatore solitario, Guanda, Parma 1995, p. 240). E. Jünger, Sul dolore, cit., pp. 180-181. Ivi, p. 178. Ivi, p. 181. Ivi, p. 182. Definito da Q. Principe come «una disperata teologia del dolore fisico, dello strazio», (Q. Principe, Prefazione a E. Jünger, Il cuore avventuroso, cit., p. X). «Sono penetrato nella segreta rocca del dolore, ma già il primo dei suoi esempi era troppo atroce per me», (E. Jünger, Il cavaliere nero, in Il cuore avventuroso, cit., p. 24).

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va a indossare un’armatura d’acciaio nero di fronte a un castello infernale. Penetra d’un tratto in una stanza priva di finestre dove siedono due fanciulle, una bionda e una bruna, e una donna, che suppone ne sia la madre. La giovane bruna con il corpo straziato e pieno di sangue ma il volto impassibile pietrificato in un’espressione algida e distaccata, conficca lunghi chiodi nel viso e nel corpo dell’altra, che non si muove e non emette un grido, apparentemente indifferente all’orribile supplizio che avviene sotto gli occhi della madre, seduta in stato catatonico, come paralizzata. Il movimento è lentissimo e il dolore non vibra, non fa rumore. In ogni stanza del castello infernale avvengono orribili torture in silenzio e con estrema lentezza39. Qui l’occhio immobile della seconda coscienza si conferma un occhio estraneo, un occhio meccanico, gelido, insensibile. Nel corpo oggettivato e reso esso stesso manipolabile, oltre che riproducibile, il dolore e la violenza possono essere oggettivati40. Accanto alla riproducibilità dell’immagine filmata e della fotografia, Jünger racconta la riproducibilità del corpo organico nel breve romanzo Le api di vetro dove il mondo umano e quello “delle marionette” si mescolano fino a confondersi e dove il robot, figlio della fusione tra organico e meccanico, sembra rappresentare il destino del corpo naturale. 4. Perfezione e perfezionamento Le api di vetro sono lo stilema di un’epoca nella quale si vive nell’imponente ombra della tecnica. Il mondo del romanzo è un mondo mutato41, dove 39 40

41

«[…] Come se congegni segreti ritardassero il corso del tempo», (ibidem). L’anestesia è anche il simbolo della normalizzazione della violenza, estraneazione all’impatto dell’esperienza dolorosa, fino anche all’esperienza con la morte. Nel saggio di E. Jünger Philemon und Baucis. Der Tod in der mythischen und in der technischen Welt (1972), (in SW12; tr. it. di A. Mezzolla, Filemone e Bauci. La morte nel mondo mitologico e in quello tecnico, in “I quaderni di Avallon”, 25, 1991, pp. 99-121), la morte viene scelta come elemento atto a delineare la differenza tra il mondo mitico e quello tecnico. Die veränderte Welt. Ein Bilderfibel unserer Zeit è il titolo scelto da Edmond Schultz e Ernst Jünger per un interessante atlante fotografico degli anni Venti e Trenta, che rispettivamente curarono e introdussero. L’introduzione fu pubblicata nel supplemento culturale «Tägliche Rundschau, Unabhängige Zeitung für sachliche Politik, für cristliche Kultur und deutsches Volkstum» (anno 51, n. 278, Berlino 25 novembre 1932) e successivmante con il titolo Das Lichtbild als Mittel im Kampf, nella rivista «Widerstand. Zeitschrift für nationalrevolutionäre Politik», anno 7, quaderno 12, dicembre 1932, pp. 376-379 (in E. Jünger, E. Schultz, Il

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la tecnica domina ogni settore ed è organizzata sotto l’insegna di un’unica grande azienda appartenente a Giacomo Zapparoni. Capo assoluto di questo impero fatto di macchine perfette, d’automi, di un cinema ipertecnologico vicino alla nostra concezione del film digitale, di fabbriche impiegate indifferentemente per la costruzione d’ordigni bellici piuttosto che di seducenti donne robot, egli ha un controllo pressoché totale sui mezzi di comunicazione, sulla cultura e sull’intera società. Richard, protagonista del racconto, exufficiale disoccupato che vive disorientato nel bel mezzo delle trasformazioni del suo tempo, durante un colloquio di lavoro con Zapparoni fa conoscenza delle api di vetro, insetti artificiali riprodotti perfettamente. La visione di questi robot genera alcune riflessioni nel protagonista che esprimono quelle dello stesso Jünger sulla perfezione della tecnica e sul perfezionamento umano. Rispetto alle posizioni assunte negli anni Trenta, negli anni Cinquanta si manifesta un ridimensionamento nella fiducia che Ernst Jünger riponeva nel possibile e necessario, quanto mai auspicabile, raggiungimento dello stato di perfezione della tecnica. Una certa influenza potrebbe averla esercitata il saggio del fratello Friedrich Georg Jünger La perfezione della tecnica, il cui titolo originale doveva inizialmente essere Die Illusionen der Technik42. Il saggio, scritto nel 1942, si diffuse solo a partire dal 1946 perché le prime edizioni vennero distrutte dai bombardamenti, effetto di quella tecnica che veniva denunciata nel testo stesso. Lo scritto lascia trasparire una critica alla concezione della tecnica definita dal fratello Ernst come evento necessario e come veste del lavoratore ed offre una serie di osservazioni indispensabili per il percorso concettuale di quest’ultimo sulla questione della tecnica. La distanza fondamentale rispetto alla concezione di Ernst espressa ne L’operaio, lo spartiacque che in questa fase più significativamente separa i due fratelli, potrebbe essere individuato nel concetto di costruzione organica, in base a cui l’Ernst degli anni Trenta crede che, tecnica e natura, non siano in contraddizione. Infatti, la necessità di accelerare lo sviluppo tecnico per raggiungere quella perfezione è tutt’altro che agognata dal fratello Friedrich Georg che vede, invece, in quello stadio, il trionfo del mondo-macchina e dell’uomoautoma, il catastrofico e completo sfruttamento dell’uomo e della natura

42

mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2007, pp. 7-10). Sulla decisione di modificare il titolo del suo saggio, Friedrich Georg Jünger in un’intervista del 1968 dice: «in origine ero stato stimolato a mostrare il carattere illusorio della tecnica, ma in seguito trovai appunto che il principio agente, in una certa misura la conseguenza di questa illusione è l’aspirazione alla perfezione, cui è sottomessa ogni altra cosa» (S. Bein, Dichter am See, “Welt und Wort”, 23, 1968).

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all’interno di uno stato-apparato automatico e burocratizzato. L’automazione comporta un’organizzazione totale che non può essere null’altro che una mobilitazione totale intesa proprio nel senso del saggio omonimo del fratello Ernst, ma concepita come una condanna per l’umanità, non come un ineludibile dispiegamento delle forze nello spirito del tempo. L’illusione più imponente, che permea il tessuto dell’intero saggio di Friedrich Georg Jünger e che funziona come sfondo imprescindibile per tutte le altre, è quella di poter dominare la tecnica quando, invece, se ne è dominati. Subire tale padronanza significa trasformarsi in esseri tecnomorfi, schiavi di un lavoro che è infinito e di bisogni artificiali prodotti a una tale velocità da non poter mai essere del tutto soddisfatti. In tale processo non soltanto l’uomo, ma anche la società, lo Stato e il pensiero si tecnicizzano. Questa mutazione comporta anche una nuova concezione del tempo, concepito ora meccanicamente e sottomesso al calcolo e alla mentalità razionale. Per Friedrich Georg Jünger il tempo della velocità è del tutto diverso dal tempo biologico, irreversibile dell’uomo; nel suo dispiegarsi, il tempo della macchina sostituibile, calpesta il tempo dell’unicità umana43. Il dualismo meccanico-organico si accentua nell’opposizione tra pianificazione meccanica/perfezione tecnica e mondo del selvaggio/maturazione umana, proprio nel momento in cui la linea che separa meccanico e organico si assottiglia fino a condurre a una totale commistione, a una fusione che porta all’indistinto. La distanza tra la dimensione umana e quella della macchina si respira a pieni polmoni nell’atmosfera del racconto Le api di vetro che, con la sua prova letteraria, accoglie parte delle osservazioni del fratello. Il mondo che si materializza nell’elaborazione del percorso narrativo, tiene presente tanto la tipizzazione dell’individuo che, come chiarito sopra, Jünger aveva già sviluppato nel tracciare la forma “tipica” del lavoratore, quanto il panorama della pianificazione e del movimento totali. Il lavoratore a tempo pieno, ventiquattro ore al giorno, che potremmo forse tradurre 43

Per Ernst Jünger il tempo originario e primordiale è quello della sabbia e della polvere, la sostanza da cui proveniamo e alla quale torneremo. Quando Jünger nel suo Das Sanduhrbuch (1954), narra la storia di come l’uomo ha misurato il tempo, si sofferma sulla clessidra ponendola in contrapposizione con l’orologio meccanico (in E. Jünger, Das Sanduhrbuch, in SW12; tr. it. di A. La Rocca e G. Russo, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994). La clessidra non fa parte soltanto di quell’elenco di strumenti atti alla misurazione del tempo ma ci ricorda che la stessa sabbia che scorre, granello dopo granello, è la polvere di cui siamo fatti e alla quale ritorneremo. Del tutto diverso dal tempo calcolabile dell’orologio meccanico che si pone agli antipodi della clessidra come calcolatore del tempo senza-fine, che ormai accompagna l’uomo in ogni sua giornata scandita al ritmo dei secondi battuti dalle lancette.

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nel consumatore della società contemporanea, quando guarda se stesso all’opera prova fascino e orrore, proprio come accade a Richard osservando le api di vetro. L’insetto artificiale rappresenta lo specchio di un destino collettivo che da una parte seduce e incanta, perché incarna lo sforzo titanico dell’uomo, il desiderio demiurgico di possedere una capacità tecnica simile all’abilità artistica, e dall’altra inquieta, perché sottende la possibile sostituibilità dell’ape naturale, organica, con quella artificiale, modello riproducibile, intercambiabile, emblema della dimensione pianificata della tecnica e della pervasività della sua progettazione. L’ape meccanica è talmente simile a quella organica da generare con-fusione in chi la osserva. In una particolare circostanza del romanzo, Richard vede in un laghetto delle orecchie che galleggiano e che gli paiono vere, umane. Anche se questo si rivelerà un’illusione, la somiglianza tra l’orecchio umano e la sua riproduzione è tale che il protagonista afferma di aver perso «in quella faticosa prova» la facoltà di distinguere tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale»44 e che «il mondo delle marionette», che «erano naturalmente artificiali o artificialmente naturali», «somigliava a quello umano ed entrava nella vita»45. Nel mondo delle api di vetro, un uomo guardando un robot poteva ritenerlo un umano e innamorarsene e persino essere potenzialmente contraccambiato. Jünger fa narrare al protagonista di aver letto su uno stralcio di giornale del suicidio di un giovane che «aveva preso un’eroina di Zapparoni per una donna in carne e ossa e non aveva saputo sopravvivere al dolore»46. Zapparoni, espresso il suo cordoglio, lascia intendere che «non sarebbe stato inconcepibile che la giovane robot avesse ascoltato il giovane». A quanto pare «egli aveva agito con troppa fretta, non aveva afferrato tutte le possibilità della tecnica»47. La possibilità della tecnica, in questo frangente, era quella di imitare la realtà al punto di confondersi con essa. Siamo sulla linea di alcuni racconti di E.T.A Hoffmann (ad esempio Der Sandmann48) dove la distanza tra bambole robot e umani si assottiglia fino a scomparire. L’arsenale della Romantik offre certamente a Jünger un ampio spettro di spunti per le riflessioni e per le domande sottese all’ibridazione uo44 45

46 47 48

E. Jünger, Le api di vetro, cit., p. 207. Questo viene ritenuto da Jünger una «provocazione», una «sfida svergognata», che «conduceva ad una realtà sempre più bassa» che lo induce a chiedersi: «non apparteneva anch’essa necessariamente alla perfezione della tecnica e all’ubriacatura che la conclude?», (ivi, p. 211). Ivi, p. 153. Ibidem. Racconto del 1815, tradotto in Italia come L’orco insabbia, (in E.T.A. Hoffmann, Racconti notturni, tr. it. di C. Pinelli e A. Spaini, Einaudi, Torino 2005).

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mo-macchina. L’automa di E.T.A. Hoffmann, parente stretto del Frankenstein di Mary Shelley, incarna come quest’ultimo la hybris umana, quella tracotanza che deve essere punita per ristabilire il giusto “ordine” di valori. L’automa dei racconti romantici è vita mummificata, ripugnante tentativo d’imitazione, doppio che non spaventa di per sé, quanto nella misura in cui riflette un orrore che l’uomo stesso ha potuto creare perché lo porta già dentro di sé. Ancora, Il teatro delle marionette di Heinrich von Kleist49 rappresenta pienamente la con-fusione tra l’uomo e la sua costruzione, dietro alla quale si cela l’uomo stesso. Accanto all’orrore si nasconde la seduzione che apre alla possibilità di un rapporto diverso con la tecnica, una sorta di riscoperta dell’inconsapevolezza delle forze naturali che muovono l’uomo che dona vita all’automa, aldilà del meccanismo consapevole che ha creato. Il filone della letteratura e la filmografia europea che si muovono in tale direzione, anche successiva a Jünger, è smisurato, e in questo contesto si possono appena accennare un paio di esempi significativi: penso al Casanova di Federico Fellini [1976] e alla scena di corteggiamento e sesso con la bambola robot, o ad alcune commoventi scene di Blade Runner50 [Ridley Scott, 1982], dove i robot soffrono perché sono dotati di sentimenti umani eppure sentono di non essere del tutto umani, ma soltanto “replicanti”. La con-fusione è figlia di una distanza che genera un vuoto, la vertigine della tecnica, che nel romanzo Le api di vetro si manifesta come tensione tra fascino e inquietudine, due poli opposti e complementari. Jünger, con il personaggio di Richard, ci confida adesso che La perfezione umana [menschliche Vollkommenheit] e il perfezionamento tecnico [technische Perfektion] non sono conciliabili. Se vogliamo l’una, bisogna sacrificare l’altra; a questo punto le strade si separano. […] Il perfezionamento mira al calcolabile, e il perfetto all’incalcolabile51.

A mio parere questa considerazione fa vacillare la fiducia riposta precedentemente da Jünger sulla non contraddittorietà di tecnica e natura nel concetto di costruzione organica, e si pone come indice del cambiamento

49 50

51

H. von Kleist, Über das Marionettentheater (1810); tr. it. di L. Traverso, Il teatro delle marionette, Melangolo, Genova 2005. Mi riferisco alla scena in cui Rachael realizza di essere un androide. Dal romanzo di P. K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968). Sul corpo replicato cfr. A. Caronia, “Corpi e informazioni. Il post-human da Wiener a Gibson”, in M. Pireddu e A. Tursi, Postumano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, Guerini e associati, Milano 2006. E. Jünger, Le api di vetro, cit., p. 169.

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della posizione jüngeriana sulla questione della tecnica, più vicina adesso alla linea kulturkonservativ e technikkritisch del fratello. Nella metropoli-officina del regno delle api di vetro la tipizzazione con il suo stilema di costruzione organica è quasi compiuta. Per ora ci si rapporta alla tecnica come Richard si relaziona alle api di vetro, ma, quando la tipizzazione raggiungerà l’apice, saremo noi le api di vetro. Aldilà degli esiti di questa sorta di profezia, latente nel romanzo, è interessante domandarsi quanto oggi la tecnica sia penetrata nel corpo organico e quali siano gli esiti attuali della costruzione organica. Nelle conclusioni che seguono, tenterò di offrire degli spunti di riflessione attingendo all’attuale dibattito sul corpo post-organico. 5. “Mondo nuovo, corpo nuovo”. Conclusioni Il concetto di costruzione organica è strettamente correlato, nella parabola jüngeriana, a uno sguardo telescopico, insensibile e invulnerabile, che rende il corpo un oggetto manipolabile. La riproducibilità autorizzata da tale visione dà vita nel mondo tecnico a forme di ibrido, siano esse una corporeità tecnologizzata o una serie di pezzi meccanici, a cui viene data la facoltà di amare, o di volare proprio come, in una somiglianza tale da generare confusione, un’ape vera. È verso l’ibridazione e la fusione con i nostri strumenti che ci muoviamo, a quanto pare ancora nella tensione verso una costruzione organica, verso un corpo che non è forse più né avamposto, né quartier generale, bensì una «terra di confine fluida ed ibrida»52. Se in passato l’uomo è diventato estensione della macchina che aveva progettato e che utilizzava, in una visione che, ispirandoci al film Tempi moderni [1936], lo vedeva simile a un inerme Charlie Chaplin – autore e protagonista della pellicola citata – irretito negli ingranaggi di un grande macchinario come se fosse lui stesso una rotella del meccanismo, possiamo dire che oggi, con l’ulteriore sviluppo dell’elettronica e della miniaturizzazione, l’interazione uomo-macchina realizza direttamente nel corpo. Il corpo si trasforma quando viene esteso: pensiamo agli strumenti della realtà virtuale e alla loro diffusione e disseminazione della realtà corporea: la sensibilità viene dis-locata, letteralmente allontanata dalla presenza corpo-

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N. Mirzoeff, An introduction to Visual Culture (1999); tr. it. di F. Fontana, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Roma 2005, p. 182.

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rea attraverso l’artificio o la simulazione. Il “nuovo mondo” diviene manipolabile perché non più soggetto alle leggi spazio-temporali53. Nel corpo virtuale c’è una perdita di sostanza. Nell’ambito dell’astrazione, la tecnologia desensibilizza il corpo, nella sua azione di mediazione tra corpo e mondo disconnette da molte delle sue funzioni il corpo stesso che, per realizzare la simbiosi ibrida, dovrà essere sempre più anestetizzato. Il corpo non si presenta però più soltanto come corpo esteso rispetto e grazie al mezzo tecnologico, ma anche come corpo invaso. In questo senso, il corpo è nuova carne sintetica, è programmato, articolato, manipolato, persino clonato e replicato. Si tratta di un corpo sempre più resistente e potenziato attraverso l’uso di valvole cardiache, arterie, vene, denti, giunture, lenti, con nuove materialità. Il corpo “in costruzione” è un’ibridazione tra organico e inorganico, una corporeizzazione tecnologica e una corporeità tecnologizzata54. I sostenitori del cybercorpo ritengono che il nostro “psicocorpo” sia un corpo obsoleto, inaffidabile, «il suo codice genetico produce un corpo che spesso funziona male e si affatica velocemente» con una longevità limitata, «la sua chimica, fondata sul carbonio, genera emozioni obsolete». Invece «il cyber corpo non è un soggetto ma un oggetto, non un oggetto di invidia ma di ingegneria. […] diviene un sistema esteso, non semplicemente per sostenere il Sé ma per enfatizzare l’operatività e l’intelligenza»55. Proprio durante la revisione del mio intervento per la presente pubblicazione mi capita sottomano un articolo del giornalista australiano Aubrey Belford (The Global Mail) che recita: «In un prossimo futuro, quando la linea di separazione tra macchine ed esseri umani si confonderà ulteriormente, molti di noi potrebbero affezionarsi a un robot, o perfino innamorarsene»56. Sorrido nel pensare all’automa di Jünger ne Le api di vetro e mi sorprendo 53 54 55

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Cfr. G.O. Longo, «Il corpo esteso, il corpo invaso», in Id., Homo technologicus, Meltemi, Roma 2005, pp. 20-22. Tutto questo descrive una nuova geografia situazionale della vita sociale, discorso che in questa sede non è possibile affrontare. È la definizione dell’artista australiano “Stelarc” (Limassol 1964) di “corpo obsoleto” proposta nell’articolo «Da strategie psicologiche a cyber strategie», in Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico. Influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà, Baskerville, Bologna 1994, p.73. L’articolo offre una panoramica sul perfezionamento degli umanoidi in Giappone, paese in cui sia le limitazioni militari imposte dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale, sia una cultura scintoista che nel suo animismo favorisce una mentalità legata alla antropomorfizzazione degli oggetti, hanno spinto e convogliato la ricerca robotica in una direzione che non è esclusivamente industriale o militare. Cito l’articolo dalla traduzione uscita in Italia con il titolo Quasi umani,

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leggendo più avanti che le “questioni emotive” legate ai rapporti tra esseri umani e robot hanno dato vita a una disciplina di cui ignoravo l’esistenza: la lovotica, scienza che lavora sulla produzione di una realtà mista ovvero tenta di inserire i cinque sensi nel mondo virtuale, simulando ad esempio un abbraccio con un giubbotto ipertecnologico o una stretta di mano con un anello. Se si considera il corpo come un fardello57 o come semplicemente carne58, si può giungere a pensare che tutti i sentimenti fisici ed emotivi possono essere simulati chimicamente in quello che appare un perfetto tecno-mondo che non siamo così lontani dal realizzare: oggi infatti si lavora per trasmettere i sapori o gli odori attraverso stimoli elettrici, visto che per ora interagiamo soltanto con due sensi: la vista e l’udito. A proposito della vista ho di fronte, accanto all’articolo di Belford, una grande foto di Geminoid F, prodotto dell’Università di Osaka. Geminoid F è bellissima e seducente, ha i capelli curati, lisci e lucidi, una pelle di pesca che stento a credere sia di silicone. È una robot. Guardandola mi sembra una donna in carne e ossa, eppure se mi soffermo attentamente sui suoi occhi pensando che sono di plastica provo un senso di repellenza. Entro nella “zona perturbante”, definizione che l’autore dell’articolo attribuisce al robotista Masashiro Mori, il quale nel 1970 la utilizzò per descrivere il caso in cui – nella robotica e nelle animazioni tridimensionali – la somiglianza di un personaggio fittizio con uno umano è eccessiva e suscita orrore. Ma Il perturbante [Das Unheimliche] è il titolo di un saggio di Freud del 1919, su cui in questa sede non è opportuno soffermarsi, ed è ancor prima il sentimento che suscitano diversi personaggi letterari già nominati come la bam-

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per la rivista settimanale “Internazionale”, 5/11 aprile 2013, n. 994, anno 20, pp. 56-60. Qui p. 57. Le conseguenza estreme del desiderio di liberarsi del proprio corpo “umano” che si danneggia, invecchia, si deteriora ed è soggetto alla decomposizione, potrebbero essere lette nel romanzo di Hans Moravec, Mind children. The future of robots and human intelligence, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1988, che descrive un mondo postbiologico dove il cervello umano viene separato dalla mente (e dal corpo) e caricato in delle macchine chiamate i bambini della mente – mind children appunto – che sono la rappresentazione della possibilità che il pensiero umano venga liberato dalla schiavitù di un corpo mortale. È interessante pensare a un confronto, all’interno della questione della carne nel dibattito sul post-organico, fra il corpo “semplicemente carne”, come affermato nella citazione riportata, e il corpo pensato invece come “essenzialmente carne” nella fenomenologia (e ontologia) della carne di Maurice Merleau-Ponty nel suo Le visible et l’invisible (1964); tr. it. di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1969; edizione riveduta a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 1994.

V. Menesatti - Ernst Jünger e l’immagine del corpo

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bola Olympia del citato racconto di Hoffmann (del 1815) o il Frankenstein della Shelley (del 1818). Nella fusione meccanico-organico, nelle sue diverse forme che in questa sede abbiamo appena accennato, familiare e estraneo si compenetrano da sempre costantemente, affascinando e spaventando al contempo, ma soprattutto tracciando la direzione verso cui cammina l’uomo. In questo senso la questione affrontata riguarda la domanda dell’uomo sui suoi mezzi tecnici e sul suo corpo mutato dalla tecnica, riprodotto, amputato o espanso che sia. Le estreme conseguenze della costruzione organica jüngeriana e alcune delle sue visioni si collocano in un ricco e variegato panorama in cui Ernst Jünger scava e trova la sua nicchia, e al contempo si collocano fra le anticipazioni del complesso dibattito odierno sul cyberspace, sulle biotecnologie e sull’ibridazione del nostro corpo, nonché sulle ripercussioni delle sue mutazioni sul nostro mondo in mutamento.

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ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI

n. 1: Alfred Kubin: Entführung (Rapimento), 1938, disegno a penna. n. 2: Alfred Kubin: Der Pflanzer (Il latifondista), 1939, disegno a penna. n. 3: Rudolf Schlichter: Atlantis vor dem Untergange (Atlantide prima della rovina) … n. 4: Rudolf Schlichter: Tausendundeine Nacht, Blatt 7: Emir Musa in Betrachtung der Messingstadt (Mille e una notte, foglio 7: Emir Musura mentre contempla la città d’ottone), 1941, disegno a penna di china (50 x 67 cm.), Privatsammlung. n. 5: Rudolf Schlichter: Tausendundeine Nacht ………… n. 6: Claude Joseph Vernet: La Madrague ou La Pêche du Thon vue du Golfe de Bandol (La tonnara, ovvero la pesca del tonno vista dal golfo di Bandol), 1755, olio su tela (263 x 165 cm). Musée de la Marine, Parigi. n. 7: Henri Rousseau: La Guerre (La guerra), 1894, olio su tela, (114 x 195 cm), Musée d’Orsay, Parigi. n. 8: Jean Antoine Théodore de Gudin: L’incendie du Kent (L’incendio del ‘Kent’), 1827, olio su tela, (256 x 421 cm) Musée de la Marine, Parigi. n. 9: Hieronymus Bosch: Il venditore ambulante, 1494-1505, olio su tavola, (71 x 70,6 cm), Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. n. 10: Hieronymus Bosch: Trittico del Giudizio di Vienna (1482 – 1504), olio su tavola (163, 7 x 127 cm) Gemäldegallerie der Akademie der bildenden Künste, Vienna. n. 11: Hieronymus Bosch: Trittico del Giardino delle delizie (detto anche Il Millennio), 1480-1490), olio su tavola (anta di sinistra: 220 x 97,5 cm; pannello centrale: 220 x 195 cm; anta di destra: 220 x 97,5 cm), Museo del Prado, Madrid. n. 12: Pieter Brueghel il Vecchio, Grande Torre, 1563, olio su tavola (114x155 cm), Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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L’eco delle immagini e il dominio delle forme

n. 13: Pieter Brueghel il Vecchio, Piccola Torre, 1563, olio su tavola (60x74,5 cm), Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. n. 13: Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo, 1513, incisione a bulino (24,5x18,8 cm), Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe.

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