Tat Twam Asi: di cosa parliamo quando parliamo di pietas

June 1, 2017 | Autor: R. Palumbo Mosca | Categoria: Italian Studies, Literature, Literary Criticism, Italian Literature, Literary Theory
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Direttore Vito Santoro

Redazione Antonio R. Daniele (vicedirettore); Antonella Agostino, Marianna Comitangelo, Francesca Giglio, Jole Silvia Imbornone, Marco Marsigliano, Barbara Missana, Stefania Segatori, Chiara Specchiulli, Nives Trentini, Luana Tritto

Segretarie di redazione Alessandra Miola, Simona Specchia

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Illustrazioni Claudia Lonero

Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’editore.

Hanno collaborato a questo numero Luigi Abiusi, Cosimo Argentina, Domenico Calcaterra, Silvia Ceracchini, Giuseppe Del Curatolo, Marco Ignazio De Santis, Mario Desiati, Viola Di Grado, Stefano Disegni, Mariangela Giordano, Carlo Gubitosa, Valentina Introna, Alessandro Leogrande, Domenico Lonigro, Giuseppe Lupo, Mara Mundi, Raffaello Palumbo Mosca, Luca Paulesu, Vincenzo Sparagna, Sergio Staino, Marilù Ursi, Mariapia Veladiano, Vincino

I edizione: giugno 2014

Sede della redazione Dipartimento Filosofia, Letteratura, Scienze Storiche e Sociali (FLESS), Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” Piazza Umberto I, 1, 70125 Bari – tel. 0805714074 email: [email protected]

«Tutto torna alla notte tranne questa grande narrazioni n.4parola. Diciamo: d’amore». La pietas del romanzo, primi approcci. di Raffaello Palumbo Mosca

I

l saggio costituisce il punto di partenza di un progetto più ampio nel quale si intende analizzare il rapporto tra il sentimento della pietas e il romanzo novecentesco e contemporaneo. Attraverso il riferimento ad autori contemporanei e non (tra gli altri, A. Franchini e P. Forest, R.M. Rilke, M. Proust) e a filosofi quali S. Freud e G. Vattimo, il saggio si propone di istituire una relazione cogente tra la pietas intesa come sentimento della costitutiva fragilità dell’uomo e la forma-romanzo in quanto traccia che commemora il caduco e, nello stesso momento, si apre progettualmente verso il futuro.

H

o letto con commozione il ritratto di un amico morto scritto da un altro amico. Non so se è perché io sono rimasto sensibile soprattutto, o solo, alle cose che mi toccano da vicino, come forse è normale sia per tutti. Se invece la maggiore commozione dipendesse dal fatto che anche coloro che scrivono riescono a emozionarsi soprattutto quando raccontano qualcosa che, a loro volta, li tocca da vicino, questo sarebbe già meno normale. La letteratura non dovrebbe funzionare così, la letteratura dovrebbe essere finzione. O anche finzione. Eppure secondo me le pagine più belle – o sono le più facili? – scritte dai miei coetanei sono ricordi di morti. Non deve sorprenderci che la nostra umanità sia restia a scuotersi se prima la nostra intimità non è toccata. Per quanto riguarda la letteratura, invece, questa è forse solo una fissazione mia, ma alle volte mi sembra che essa sia diventata (se non lo è sempre stata) soprattutto treno, epicedio, canto funebre (Franchini 2001, p. 56).

È uno dei passi più citati de L’abusivo di Antonio Franchini del 2001, un romanzo complesso, che mescola sapientemente la ricostruzione documentale di una “vicenda di ordinaria infamia” (l’omicidio del giornalista de il Mattino Giancarlo Siani per mano della camorra) e l’autofiction (ibid., p. 175). L’abusivo non è però (solo) un testo di denuncia, né un racconto a matrice indiziaria quanto, piuttosto, l’interrogazione sul senso di quella morte – di ogni morte – e del rapporto che la scrittura intrattiene con essa. Franchini racconta quella morte e a partire da quella morte, ma sente dolorosamente come l’atto dello scriverne sia, se non inutile, grottescamente sproporzionato rispetto a essa. Il passo, dicevo, è fra i più commentati del libro, soprattutto perché affronta esplicitamente uno dei nodi fondamentali della narrativa contemporanea (italiana ma non solo), ovvero la tendenza a sfumare consapevolmente i confini tra fiction e non fiction come espediente per raggiungere un di più di realismo – o ancor meglio: di realtà – in grado di scuotere l’indifferenza del lettore (e io stesso, quando ho proposto la definizione di “romanzi ibridi” per un filone della narrativa italiana a partire dagli anni Novanta del secolo scorso

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narrazioni n.4 sono partito proprio da qui, da questa “narrazione spuria”, da questa felice ibridazione di documento e finzione). Nel passo citato c’è però qualcosa di più, c’è un’ipotesi – se pure, con un understatement tipico in Franchini – sull’essenza stessa della letteratura: essa sarebbe, al suo cuore, un volgersi pietosamente a ciò che è stato per onorarlo attraverso il canto. È attraverso questo canto che la letteratura produce il suo effetto, se pure “miserevole”: «costringere chi è vivo a rifletterci e a darsene pena»; e questo “riflettere” è insieme un interrogarsi «con quale diritto [il vivo] continua a fare le cose che l’altro non può fare più», ma anche un processo di riconoscimento della propria fragilità nella fragilità dell’altro: «il pensiero elementare, quello che slitta in zone remote della percezione, è immaginare di stare parcheggiando sotto casa quando sentiamo esploderci la testa. Quanto dura? Quanto dolore c’è? Quanta consapevolezza? Alle volte ci penso, quando parcheggio sotto casa: ora spengo il motore e mi scoppia la testa» (Franchini 2001, pp. 56, 70). Anche L’enfant éternel di Philippe Forest parte da una morte “indecente”, ammesso che ne esistano di “decenti”: se è vero, come scrive Gadda ne La cognizione del dolore, che «ogni oltraggio è morte» non possiamo fare a meno di pensare anche l’esatto opposto, ovvero che ogni morte è oltraggio; ogni morte, alla fine, è morte violenta. La morte di Pauline, una bambina di quattro anni figlia dell’autore, è una morte rispetto alla quale nessuna consolazione sembra possibile, e di fronte alla quale persino la religione tace sbigottita: «[…] ci raggiunge un prete. Ascolta le parole che diciamo. Annuisce. Sembra accusare il colpo di quell’immagine a cui nessuna religione prepara» (Forest 2007, p. 340). Se la religione tace, il romanzo rimane invece fedele al suo compito, e racconta. Ogni sera per tre mesi Forest si è seduto alla scrivania e ha scritto fino a trasformare sua figlia in «un essere di carta» (ibid., 343). Come già Franchini, anche Forest non rinuncia a farsi la domanda – terribile – che noi lettori, forse per pudore, mai oseremmo rivolgergli: perché? Le «parole non danno nessun soccorso», e la letteratura, da sé e da sempre, «non salva niente. Non riabilita nessuno» (Forest 2006, web); eppure ogni sera, rimasto solo, Forest si china sulla scrivania e lascia la sua testimonianza sotto forma di segni tracciati sulla carta. «Non si dice più: la bambina. Ancor meno si pronuncia il suo nome. I morti – scrive – perdono per prima cosa il diritto di essere nominati» (Forest 2007, p. 338); il romanzo, invece, può ancora dire: “Pauline”; quando l’ultimo oltraggio è stato consumato, quando il suo corpo è stato truccato e “preparato” per essere seppellito, quando la bellezza imperfetta di Pauline è stata trasformata in una «ripugnante bellezza artificiale», il rammemorare pietoso del romanzo è tutto ciò che rimane del prima. Non dà la consolazione di un senso, ma è traccia. Un romanzo è un’incisione nel legno del tempo. [...] Così come spesso s’è detto, tutti gli scrittori di tutte le epoche non sono che uno, il quale affronta con parole sue – sublimi o miserabili, grandiose o mediocri – la rivelazione unica e schiacciante del Tempo. Da sempre ci ripetono che siamo mortali, che la vita dura un giorno, che tutti saremo colpiti nell’affetto più caro, che l’ultimo atto, inevitabilmente, è cruento, quale che sia la commedia in cartellone... Ma chi ci

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Lavoro critico crede? [...] E se veramente il romanzo è un’incisione nel legno del tempo, esso obbliga ciascuno a guardare dritta in faccia la vertigine di durata in cui passa. Una rozza visione profetica è sempre all’orizzonte del racconto vero. [...] Non pensavo che la verità fosse così semplice e che tutto in sostanza fosse simile al disegno lasciato sulla pietra dalle cinque dita di una bambina (Forest 2007, p. 113, pp. 118-19).

Il romanzo, che parte da una morte, è rammemorazione pietosa di ciò che non è più e insieme memento per chi resta: «obbliga ciascuno a guardare dritta in faccia la vertigine di durata in cui passa» (ivi); e ogni romanzo, in questo senso, è autobiografico, poiché la sua «rozza visione profetica» è niente più che la prefigurazione della propria morte a partire dalla morte dell’altro. Le affermazioni di Franchini e di Forest devono essere intese su due livelli. Innanzitutto come reazione a una concezione puramente estetica, iper-letteraria, del romanzo, inteso come gioco o “menzogna”; diremo, con un’approssimazione: al romanzo postmoderno (o ad alcune sue caratteristiche fondamentali). In Quando vi ucciderete, maestro? (Franchini 1996), il narratore autobiografico racconta di come il vecchio professore «allievo di Croce» che lo aveva accompagnato «nel periodo più delicato della [sua] formazione» liquidasse gli autori della neo-avanguardia con un giudizio tranchant e un po’ rétro: «mostrano la loro cultura come le ballerine mostrano le gambe» (ibid., p. 40). Ovvero: riducono la letteratura – che secondo Forest dovrebbe testimoniare “il disastro del vivere” – a mero sfoggio citazionistico o gioco intertestuale. La rievocazione delle parole del professore serve a preparare il terreno per l’affondo vero e proprio; è il narratore stesso, questa volta, a commentare un passo, riportato per intero nel testo, de La letteratura come menzogna di Manganelli: Chiunque abbia pratica un poco svezzata della scrittura e dei suoi percorsi associativi si può facilmente accorgere che qui a Manganelli non interessa tanto, come dichiara, sostenere la tesi dell’immoralità della letteratura. In realtà non lo appassiona nessuna idea. Ciò che davvero lo attira [...] è la palese soddisfazione di aver escogitato espressioni come “animali di capzioso pelame”, “astratti deretani” [...]. Niente di male, gli scrittori godono anche – alcuni soprattutto – di questi virtuosismi. Niente di male anche se avessimo detto “avventuroso pelame” o “capziose isoglosse” [...] i sintagmi forse sarebbero stati meno brillanti, ma il significato non sarebbe cambiato di molto e nessuno si sarebbe accorto di niente. Un po’ di male c’è nell’attribuire a questi giochetti fondati sullo scambio e lo slittamento dei significati la grandezza sinistra dell’immoralità. L’immoralità è un concetto che pochi hanno potuto evocare con qualche ragione. La civetteria delle parole, che ha molti brillanti cultori, è un’altra cosa (Franchini 1996, p. 48).

Eppure, Franchini non è certo un narratore ingenuo, e sa bene che la “civetteria” è in qualche modo inscritta nella sostanza stessa della letteratura: le parole sono sempre, come affermava il vecchio professore, un po’ “delle puttane”, ovvero ci ammaliano, ma tradiscono immancabilmente la realtà. Esattamente come le arti marziali, anche la letteratura richiede «grande spreco di studio e di proponimenti», culla «infiniti sogni

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narrazioni n.4 d’impatto sulla realtà» ma è, alla fine «finzione» (ibid., p. 52). Ovvero: la letteratura, come le arti marziali, mima una prossimità alla morte che le è costitutivamente negata. È per questo che anche il tentativo, sulla falsariga del Leiris della Letteratura come tauromachia, di introdurre, scrivendo, i pericoli dall’esterno (il tentativo di trovare «l’equivalente (di) quello che per i toreri è il corno aguzzo del toro») è destinato al fallimento: come e più di Leiris, Franchini riconosce che, più che la figura del torero che rischia la vita, lo scrittore evoca quella, decisamente meno “eroica”, del macellaio: Però alla fine di ogni promessa, al di sopra di ogni sbandierata sincerità, al di là della più feroce ostinazione nel mettere a repentaglio tutto se stesso nella carta e pur considerando, dall’altra parte, che sono proprio gli aspetti rituali e il ferreo codice stilistico a distinguere il torero dal macellaio e a costituire il senso dell’espressione artistica, Leiris deve riconoscere che il torero rischia la vita e il macellaio (e lo scrittore) no (Franchini 1996, pp. 49-50).

La contraddizione non si risolve (non è risolvibile); in disparte, lontano dalla vita (e dalla morte), il romanziere può solo assolvere meglio che può il suo compito, per quanto “miserabile”: volgere uno sguardo pietoso sull’uomo, sulla sua costitutiva fragilità, ricordando – ovvero commemorando – chi non è più. Allo stesso modo, anche Forest ha spesso chiarito come la sua narrativa nasca (anche) in aperta contraddizione con, quando non opposizione a, molti caratteri della poetica postmoderna. Uno degli obiettivi dichiarati di L’enfant éternel, ma anche del successivo Le nouvel amour, è infatti recuperare il legame tra letteratura ed emozione; tale legame, spesso negato nel gioco ironico, rappresenta invece per Forest l’unica risposta possibile del romanzo, la sua stessa ragion d’essere: Mi sembra che l’attuale letteratura postmoderna si è persa recidendo ogni legame con l’emozione. Tutti i maggiori romanzi di oggi arretrano davanti all’emozione perché essi vengono meno di fronte al reale e vanno a cercare rifugio dalle parti dell’ironia, del gioco, del virtuale. [...] Ma io diffido di quel sentimentalismo che costituisce una maniera di trasformare la sofferenza in un oggetto di gioia inoffensiva e di speculazione interessata. Bisogna ricordarsi lo scandalo della sofferenza e la risposta incompleta che ci consegna l’amore. Se la letteratura serve a qualche cosa, serve, malgrado tutto, a questo (Forest dicembre 10, 2006).

E in effetti, ci si può stupire di come, talvolta, si sia dimenticata questa verità semplicissima e fondamentale: la letteratura deve – anche, forse soprattutto – muovere l’animo del lettore. Come ha scritto Gombrowicz in una memorabile pagina del Diario, in letteratura «è come in amore: bisogna toccare la carne viva attraverso i vestiti» (Gombrowicz 2008, p. 326). Le posizioni di Franchini e Forest non sono certo isolate, e anzi già da qualche anno si è cominciato a parlare, per il romanzo europeo, di “nuovo realismo” (con tutte le ambiguità che questa definizione comporta) e, più in generale, di una “fine del postmoderno”, se non di una sua “liquidazione” (in proposito si vedano almeno Donnarumma 2008 e Mazzoni 2011). La cesura, ormai conclamata, si è giocata

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Lavoro critico essenzialmente sul problema della rappresentazione ironica e meta-ironica, percepita come (colpevole) allontanamento della letteratura dal sentimento. Tale cesura ha poi trovato la sua certificazione simbolica con le riflessioni di David Foster Wallace e Michel Houellebecq, due autori enormemente letti e commentati che quella sensibilità postmoderna avevano almeno in parte condiviso. In E Unibus Pluram: T.V. and US Fiction, Wallace stabilisce una netta distinzione tra un uso positivo dell’ironia come smascheramento dell’ipocrisia degli pseudo-valori dominanti, e il cinismo contemporaneo che non nega l’essere in vista di un dover essere ma serve, semplicemente, a produrre macerie, a “ridicolizzare” ogni afflato ideale senza essere in grado di proporre alternative all’esistente. Tale pervertimento dell’atteggiamento ironico ha portato, secondo Wallace, a una duplice conseguenza: da una parte ha contribuito a creare una sorta di “spirito del tempo” che vede nel cinismo l’unica manifestazione socialmente accettabile delle emozioni, e d’altro canto ha portato allo slittamento di un’idea condivisa sulla funzione stessa dell’arte: non più rappresentazione creativa di valori positivi, ma semplice rifiuto (ironico, scettico, sarcastico) di valori fasulli. In modo molto simile, ne La ricerca della felicità, Michel Houellebecq ha stigmatizzato la «derisione, [e il] secondo grado» quali elementi che hanno «minato rapidamente l’attività artistica e filosofica trasformandole in retorica generalizzata» (Houellebecq 2008, pp. 184-85). E così, questo (solo apparentemente) spietato notomizzatore delle miserie umane, questo cinico nipotino di Céline, è arrivato ad affermare, in un’intervista con Sabine Auderie, che l’artista in grado di sviluppare un discorso “onesto” (ovvero: di raccontare la solitudine e la miseria in cui si dibatte l’uomo) ma anche “positivo”, potrà cambiare non solo la storia della letteratura ma, addirittura, la storia “del mondo”: Tenuto conto del discorso quasi fiabesco sviluppato dai media, è facile dare prova di qualità letterarie sviluppando l’ironia, la negatività, il cinismo. È dopo che diventa molto difficile: quando si desidera oltrepassare il cinismo. Se qualcuno oggi riesce a sviluppare un discorso al tempo stesso onesto e positivo, modificherà la storia del mondo (Houellebecq 2008, p. 221).

Tuttavia: le affermazioni di Franchini e di Forest sono molto più rilevanti se intese non solo in termini di contrapposizione di poetiche, ma – come si deve – in senso più ampio, come riflessioni sull’essenza stessa dello scrivere romanzesco da una prospettiva a-storica o trans-storica; come tentativo, cioè, di individuare quell’elemento semplice che giustifica il romanzo di fronte alla realtà. Per entrambi, lo si è visto, la letteratura si configurerebbe come tentativo di sottrarre l’essere al tempo, al suo rotolare verso la fine; un tentativo vano, se la vittoria del romanzo sul tempo è sempre «segreta, inutile, risibile», e verrà il giorno in cui tutte le opere, esattamente come i libri di Don Ferrante, saranno ridotte a polvere: «come gli esseri viventi, le parole sono in partenza per il nulla che aspetta al varco» (Forest 2007, p. 213). D’altra parte, è anche un tentativo necessario, e la sua parola finale coincide forse con quella evangelica: «tutto torna alla notte tranne questa grande parola. Diciamo: d’amore» (ibid., p. 128). Al netto di ogni poetica o teoria, il romanzo si ridurrebbe quindi a nulla più (e nulla

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narrazioni n.4 meno) che a peritura traccia di ciò che è stato, una traccia che costringe chi legge a guardare pietosamente alla transitorietà dell’essere: «non pensavo,» scrive ancora Forest, «che la verità fosse così semplice e che tutto in sostanza fosse simile al disegno lasciato sulla pietra dalle cinque dita di una bambina» (ibid., p. 219). La traccia provvisoriamente lasciata dal romanzo è innanzi tutto traccia della particolarità. In Caducità, un breve saggio di andamento narrativo del 1915, Freud racconta di tre uomini che passeggiano per la campagna tedesca; il primo, che riporta il fatto, è Sigmund Freud stesso; il secondo, di cui non viene svelato il nome, è quasi certamente il giovane poeta Rainer Maria Rilke; il terzo uomo, anch’egli non riconosciuto, è invece con tutta probabilità una donna, Lou Andreas-Salomé. Siamo nel 1913 e i tre, camminando, ammirano il paesaggio; la natura in pieno rigoglio (è un radioso giorno d’estate) ispira però al «poeta già famoso nonostante la giovane età» sentimenti contrastanti (Freud 1991, p. 219); anch’egli, come Freud, gode della bellezza che vede, ma a differenza di quest’ultimo è allo stesso momento preda di una invincibile tristezza, di una sgomenta malinconia: sente l’intima fragilità della natura che lo circonda, sa che tutte le cose del mondo «del morire vivono» e presto non saranno più (Rilke 2000, p. 323). All’esatto opposto di Freud che vede nella caducità di tutto ciò che esiste un aumento di valore delle cose stesse, e interpreta – va detto: piuttosto banalmente – il dolore di Rilke come il rifiuto del lutto futuro, Rilke non può essere consolato poiché, con sensibilità poetica e non economica, sa che nessuna primavera a venire potrà consolare della perdita di questa. Come ha notato Elvio Facchinelli nel suo commento/integrazione al saggio, Rilke non anticipa un lutto futuro poiché «la distruzione, in lui, è già presente nel momento in cui contempla quella campagna fiorita»; il lutto che Rilke prova è quindi «non risolvibile, perché tutte le cose che vivono vanno verso la fine, muoiono davanti ai suoi occhi ed esse sono uniche, non sostituibili, al pari dell’uomo che le guarda» (Facchinelli 2012, p. 90). Proprio questa costitutiva transitorietà del mondo e dell’uomo sarà il cuore pulsante delle Elegie duinesi nelle quali, attraverso la «più dolorosa identificazione con l’effimero», Rilke giungerà infine a ribaltare il classico rapporto uomo-natura: sarà infatti quest’ultima, non più madre e nutrice ma fragile compagna, a invocare l’aiuto dell’uomo, la più effimera delle creature, che tuttavia può salvarla col suo canto: Perché sembra abbia bisogno di noi tutto quello che è qui, l’effimero che stranamente ci riguarda. Di noi, i più effimeri. Una volta ogni cosa, soltanto una volta. Una volta e non più. E anche noi una volta. Mai più. Ma questo essere stati una volta, seppure solo una volta: essere stati terreni, non pare sia revocabile. (Rilke 2000, p. 321)

Il riconoscimento della propria singolarità e fragilità nella singolarità e fragilità dell’altro da sé – un riconoscimento che però non annulla l’altro nel medesimo – costituisce quindi, per l’ultimo Rilke, il cuore della sensibilità poetica; lo sguardo carico

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Lavoro critico di pietas per l’uomo e il mondo che ne scaturisce è la poesia stessa, il suo compito insieme etico ed estetico: «siamo qui forse per dire: casa / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra, – / al più: colonna, torre... ma per dire, comprendilo» (ibid.). Da un certo punto di vista si potrebbe forse affermare che non c’è nulla di nuovo sotto il sole: il legame tra letteratura e memoria è un topos consolidato dalle narrazioni dell’antichità fino a Primo Levi, passando, per esempio, per i Sepolcri di Foscolo o il “rimembrare” di Leopardi. Il concetto di pietas come «termine che evoca innanzi tutto la mortalità, la finitezza e la caducità» (Vattimo 2011, p. 22) è stato poi, negli anni Ottanta, al centro dell’ “ontologia debole” di Gianni Vattimo, un’ontologia che mirava esattamente a riconoscere nell’opera d’arte il luogo dell’incontro tra il soggetto tardo-moderno e «l’essere come traccia, ricordo, un essere consumato e indebolito (e per questo soltanto degno di attenzione)» (Vattimo e Rovatti 2011, p. 9). Eppure, credo che sia necessario continuare a interrogarsi su cosa significhi questo essere traccia e quali siano i modi attraverso i quali, il romanzo in particolare, dispiega il suo sguardo pietoso sull’essere. Memoria e fantasia Perché il romanzo in particolare? Innanzitutto perché è il genere della modernità, il più letto e commentato – forse il più rappresentativo – ma anche quello che, attraverso la costruzione di una trama, meglio incorpora «le impalcature primarie della nostra vita in quanto esistenza finita, individuata, situata, squilibrata» (Mazzoni 2011, p. 61). Ovvero: il romanzo più di ogni altro genere di discorso è, per sua stessa natura, discorso della e sulla finitezza dell’uomo. In più: almeno partire dal realismo ottocentesco, l’oggetto per eccellenza del romanzo è la vita di «persone e di avvenimenti qualsiasi e di ogni giorno» (in fondo ogni romanzo moderno potrebbe intitolarsi Vite di uomini non illustri, come il fortunato libro di Giuseppe Pontiggia). È soprattutto per questa sua “medietà” che, pur parlando sempre di “nomi propri” (di individui specifici), il romanzo parla sempre anche di noi: perché la «grammatica dell’esistenza» degli eroi del romanzo è anche la nostra (Mazzoni 2011, p. 398). Nella sua descrizione del «mondo della prosa quotidiana» il romanzo è il genere che con più evidenza afferma la dignità di ogni essere in quanto tale, indipendentemente dall’importanza – storica, civile, sociale – delle sue azioni. Occorrerà tuttavia procedere a piccoli passi. Che cosa significa, per il romanzo, rammemorare? Significa innanzi tutto creare una traccia, ovvero un análogon che non è la cosa, così come il disegno delle cinque dita della mano sulla pietra non è la mano; a rigore, quindi, il romanzo non conserva nulla del passato (se non, forse e in modo parziale, la lingua), ma costruisce un’immagine nuova che del passato è interpretazione, e ogni interpretazione è tradimento. Il double bind del romanzo è qui, nella contraddizione tra la necessità di raccontare e la parzialità di ogni testimonianza. Nell’Impossibilità di un diario di guerra, Carlo Emilio Gadda riflette esattamente sul carattere inevitabilmente spurio, soggettivo, quando non grottescamente umorale, del suo ricordo; tale parzialità nega la possibilità stessa di un racconto veritiero (lo rende, appunto, “impossibile”): «al complesso guerra – scrive il giovane Gadda – si uniscono e si aggrovigliano, è ovvio, i preesistenti miei propri complessi, cioè l’insieme delle mie cinquecento disgrazie, ragioni

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narrazioni n.4 e irragioni [...] il mio diario di guerra è una cosa impossibile» (Gadda 1988, pp. 134, 136). Tale impossibilità è anche uno dei nodi più dolorosi della riflessione di Primo Levi. Come è scritto a chiare lettere ne I sommersi e i salvati, infatti, colui che scrive non è (non può mai essere) il testimone integrale. Il testimone completo, ma anche, come ha scritto Paolin nel suo recente saggio (2013), il testimone moralmente degno (il testimone integro), è infatti il “mussulmano”, colui che non è tornato e non può raccontare: Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco [...]. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i mussulmani, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale (Levi 1986, p. 64).

Eppure il Diario viene scritto e pubblicato, così come Se questo è un uomo e La tregua, in ragione di un imperativo morale (il termine kantiano non apparirà sproporzionato quando si ricorderà l’incipit della Meditazione breve circa il dire e il fare: «quando scriverò la Poetica, dovrà, ognuno che si proponga intenderla, rifarsi dal leggere l’Etica: e anzi la Poetica sarà poco più che un capitolo dell’Etica: e questa deriverà dalla Metafisica»). Il problema di Gadda, così come di Levi, è che le parole, parziali, forse inadeguate ma non false, «possano arrivare dentro l’anima, un giorno!, di qualcheduno, che abbia lume di memoria e di cognizione e, se Iddio voglia, capacità di giusta elezione» (Gadda 1991, p. 441, Gadda 1988, p. 134). Il romanzo è quindi il luogo di una (ri)evocazione per metafora in cui il passato è consegnato al tempo futuro del lettore: non è museo, ma progetto. Ed è in virtù di questo suo esser progetto che il double bind fin qui notato è non risolto (il che è, a mio avviso, impossibile) ma sospeso e quindi continuamente rinnovato. In quanto progetto, allora, qualsiasi romanzo – anzi: qualsiasi narrazione – mente; se non altro perché la sua prospettiva è sempre parziale, perché gli eventi del racconto sono assemblati secondo un ordine che è (o dovrebbe essere) logico, ma che è anche arbitrario. Se, come vuole il Forster di Casa Howard, il romanzo deve «soltanto connettere» ciò che nella vita sembra (è?) un affastellarsi irrelato di giorni ed eventi, esso è tanto più “leggibile” quanto più si allontana dal caos della vita. Ovvero: è tanto più romanzo quanto più tradisce la nostra esperienza “vera”, immediata del mondo. È principalmente per questo che (lo hanno visto molto bene, tra gli altri, Sartre e Kermode) la prospettiva dalla quale il romanzo narra la vita è ribaltata; in quanto ripetizione interpretante, ogni romanzo comincia sempre “dalla fine” (ovvero: l’inizio può essere tale e acquistare senso solo alla luce di ciò che verrà): Gli eventi si svolgono in un modo e noi li raccontiamo in modo inverso. Diamo l’impressione di cominciare dalla fine: “Era una bella serata dell’autunno del 1922. Lavoravo presso un notaio a Marommes”. In realtà abbiamo cominciato dalla fine. La fine è là, invisibile e presente; è la fine che dà a queste poche parole la pompa e il valore di un inizio (Sartre cit. in Mazzoni 2011, p. 62).

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Lavoro critico E poi, lo sappiamo, il romanzo mente perché è finzione. Mi spingerei ancora oltre: il romanzo è, essenzialmente, fantasia. A patto però che si intenda, come il Vico della cinquantesima “degnità”, la fantasia come «memoria, dilatata o composta» (Vico 1990, p. 514). Identificando memoria e fantasia, Vico intuiva ciò che, grazie agli studi psicologici e neuro-scientifici in proposito, è oggi una certezza difficilmente confutabile: la memoria non è “registrazione letterale” di qualcosa, ma una “costruzione complessa” che trasfigura la “realtà” (e che quindi sempre da essa si diparte) – cfr. Schacter 1996, p. 10 e sgg. In quanto “costruzione”, in quanto progettualità, il romanzo, come la memoria stessa, non si limita a rievocare il passato, o ad alludervi, ma lo costruisce per il futuro. Cosa è infatti il passato se non l’immagine costruita da tutti i discorsi su di esso? Cosa è se non la differenza con la quale misuriamo il presente e progettiamo il futuro? Parlare di progettualità del romanzo significa comprendere, insieme al Borgese di Poetica dell’unità, come esso sia sempre anche «spinta a una modificazione del mondo» (Borgese 1934, XVIII). Tale “sovrannatura”, che Borgese attribuisce all’arte tutta, è il prodotto dell’attività trasfigurante come “sintesi tra reale e ideale” (Borgese 1934, p. 165). Quando Forest crea il suo “essere di carta” che (ri)evoca la morte della Pauline “reale” apre a un sentimento di pietà per la fragilità dell’essere, ma ci fa anche sentire la straziante necessità di un essere diverso, non soggetto alle leggi della malattia e del tempo (di quella malattia che il tempo è). L’enfant éternel è quindi ribellione di fronte allo scandalo di un mondo che è finito, e che ci (s)finisce. Allo stesso modo, la ricostruzione della vicenda Siani rivela l’inaccettabile differenza tra la realtà della morte somministrata dall’uomo all’uomo e la pietas dovuta a tutto ciò che esiste: «Nell’intrecciarsi della loro trama, gli omicidi che talvolta si ricordano per sollevare le più svariate questioni finiscono col nascondere la considerazione più semplice, che un corpo si è rotto per mano di qualcuno e che somministrare la morte è un’indecenza» (Franchini 2001, p. 70). O ancora, e ben prima: cos’è il grottesco «ballo di maschere» al termine della Recherche di Proust se non la rivelazione dell’«azione distruttrice del Tempo» che trasforma «il più fiero dei volti [in un] cencio imputridito, sballottato da ogni parte»; e l’opera stessa, pensata e scritta come rifiuto del Tempo che sfigura e annienta, è a quel Tempo soggetta: «un giorno anche i miei libri, come il mio essere di carne – si dice ne Il tempo ritrovato – avrebbero certo finito per morire. [...] La durata eterna non è promessa ai libri più che agli uomini» (Proust 1993, pp. 609, 755). La parola finale della Recherche non è, come spesso si è creduto, una parola di giubilo per la scoperta di leggi universali, ma la commemorazione pietosa di tutto ciò che è fragile e impermanente: «scoprivo l’azione distruttrice del Tempo proprio nel momento in cui volevo accingermi a rendere chiare, a intellettualizzare in un’opera d’arte, delle realtà extratemporali» (ibid., p. 619). Proust, come e più di ogni narratore, è Sharazade: il racconto, come la vita, è essenzialmente un “pervertimento” del tempo, ovvero una minima dilazione della fine (o del fine) cui entrambi tendono, la morte. E sovviene ancora Gadda con il suo Tendo al mio fine, racconto-saggio tutto giocato proprio su questa ambiguità semantica tra il fine come scopo e la fine come «conclusione, fine dell’esperienza e della vita, appunto, morte. Morte che arriverà puntuale in chiusura del testo nella sua forma più organica e fisiologica, brutalmente materiale della lassitudine» (De Michelis 2003):

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narrazioni n.4 Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di propormi come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge. Umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, nella bestialità corrotto, e però atterrito dalla vanità vana del nulla, io, che di tutti li scrittori della Italia antichi e moderni sono quello che più possiede di comodini da notte, vorrò dipartirmi un giorno dalle sfiancate sèggiole dove m’ha collocato la sapienza e la virtù de’ sapienti e de’ virtuosi, e, andando verso l’orrida solitudine mia, leverò in lode di quelli quel canto, a che il mandolino dell’anima, ben grattato, potrà dare bellezza nel ghigno (Gadda 1988, p. 219).

Gli esempi potrebbero essere moltissimi e, naturalmente, diversi; fermiamoci per ora a questi, per rilevare, almeno in sede di ipotesi, come la verità del romanzo – anche dei romanzi più fedeli alla realtà o al dato storico – appartenga a una sfera diversa da quella fattuale. Non solo perché, aristotelicamente, la “poesia dice gli universali” (sempre però incarnandoli in “nomi propri”), ma perché dice una verità che pertiene prima di tutto alla sfera morale: ricreando progettualmente ciò che non è più, il romanzo svela anche la necessità di negare il reale in virtù dell’ideale. Come, con estrema semplicità, ha scritto Adorno nella sua Teoria estetica, nella vera opera d’arte c’è sempre anche «il desiderio di produrre un mondo migliore» (Adorno 1975, p. 15); un “mondo migliore” che non è forse direttamente il risultato dell’opera, ma che l’opera ci induce a desiderare, e di cui afferma la necessità. «Il futuro – scriveva Rilke nelle Lettere a un giovane poeta – entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima di essere accaduto» (Rilke 1980). [email protected] Bibliografia: Antonio Borgese, Poetiche dell’unità, Fratelli Treves Editori, Torino 1934; Ida De Michelis, Un saggio tra poetica e racconto, in The Edinburgh Journal of Gadda Studies, 3, 2003; Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, in Id., Saggi critici, vol. 2, a cura di Luigi Russo, Laterza, Bari 1963; Raffaele Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani d’oggi, in Allegoria, 57, 2008; Elvio Facchinelli, Su Freud, Adelphi, Milano 2012; Philippe Forest, Tutti i bambini tranne uno, Alet, Padova 2007; Antonio Franchini, L’abusivo, Marsilio, Venezia 2001; Sigmund Freud, Caducità, in Id., Saggi sull’arte la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino (I ed. 1961); Carlo Emilio Gadda, Meditazione breve circa il dire e il fare, in Id., Saggi Giornali Favole e altri scritti I, a cura di Dante Isella, Garzanti, Milano 1991; Id., Il castello di Udine, in Romanzi e racconti I, edizione diretta da Dante Isella, Garzanti, Milano 1988; Witold Gombrowicz, Diario vol. 2 (1959-69), Feltrinelli, Milano 2008; Michel Houellebecq, La ricerca della felicità, Bompiani, Milano 2008;

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Lavoro critico Primo Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1989 (I ed. 1958); Id., L’asimmetria e la vita, in Articoli e saggi 1955-1987, Einaudi, Torino 2002; Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2011; Raffaello Palumbo Mosca, Narrazioni spurie: letteratura della realtà nell’Italia contemporanea, Modern Language Notes, 126.1, 2011; Demetrio Paolin, Il testimone integrale, in Narrazioni, 3, 2013; Giuseppe Pontiggia, Vite di uomini non illustri, Mondadori, Milano 2003; Antonio Prete, Compassione. Storia di un sentimento, Bollati Boringhieri, Torino 2013; Marcel Proust, Il tempo ritrovato, Mondadori, Milano 1993; Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, in Id., Poesie 1907-1926, Einaudi, Torino 2000; Daniel L. Schacter, Searching for Memory. The Brain, the Mind, and the Past, Basic Books, A division of HarperCollins, New York 1996; Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989; Giovanni Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in Id. e Pier Aldo Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, pp. 12-28, Milano 2011 (I ed. 1983); Giambattista Vico, Princìpi di scienza nuova, in Id., Opere, vol. 1, a cura di Andrea Battistini, Mondadori, Milano 1990; David Foster Wallace, E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction, in Review of Contemporary Fiction, 13.2.1993.

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narra

Lettera zero Rivista quadrimestrale Diretta da Vito Santoro

2015 Febbraio-Maggio 1

Lettera zero – 1 Direttore responsabile: Vito Santoro Vicedirettori: Marianna Comitangelo e Antonio R. Daniele Redazione: Francesca Giglio, Giuseppe Girimonti Greco, Jole Silvia Imbornone, Marco Marsigliano, Alessandra Miola, Mara Mundi, Stefania Segatori, Simona Specchia, Chiara Specchiuli, Nives Trentini Hanno collaborato a questo numero: Claudia Bonsi, Enrica Budetta, Eleonora Conti, Cristò, Lucio Dell’Accio, Francesco Dezio, Andrea Gialloreto, Mariangela Giordano, Claudia Lo Nero, Manuele Marinoni, Carlo Alberto Montalto, Fabrizio Natalini, Giovanni Palmieri, Demetrio Paolin, Raffaello Palumbo Mosca, Pedro Redondo Sanchez, Livio Santoro, Alessandra Sarchi, Luana Tritto. Fotografie di Giuliana Massaro Sede della redazione: Dipartimento Filosofia, Letteratura, Scienze Storiche e Sociali (FLESS) Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” Piazza Umberto I, 1 – 70121 Bari tel. 080 5714074 email: [email protected] ISBN 978-88-96583-XX-X © 2015, Edizioni Arcoiris, Salerno Prima edizione gennaio 2015 www.edizioniarcoiris.it Progetto grafico e illustrazione: Raffaele Di Somma

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Tat twan asi: di cosa parliamo quando parliamo di pietas di Raffaello Palumbo Mosca Si riflette sul rapporto tra sentimento della pietas e il romanzo novecentesco contemporaneo, con una attenzione particolare rivolta all’opera di Primo Levi. Cos’è la pietas? È forse un sentimento di languida mollezza simile al pianto romantico? A mio parere, quest’ultimo sta alla pietas come la sentimentalità sta al sentimento; ovvero ne è insieme l’esagerazione e la finzione; una finzione talvolta creduta, talvolta consapevolmente e abilmente messa in scena. (C’è, quindi, un passaggio dall’etico all’estetico o, ancor meglio, un processo di estetizzazione dell’etico). La pietas è innanzi tutto, e come ha ben detto Antonio Prete, una «prossimità all’altro, alla sua ferita» (Prete 2013, p. 9). Ma già Schopenhauer, nel quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione, si spingeva oltre la prossimità fin verso un’identificazione quasi totale nell’altro: poiché ogni essere è essenzialmente volontà di vita, ogni differenza fra creature «non è che un fenomeno passeggero e illusorio». La compassione è per Schopenhauer questo riconoscimento «immediato e senza raziocinii» d’identità, e l’uomo virtuoso rivede in ogni creatura, «e quindi anche nel sofferente [...] se stesso, il proprio io, la propria volontà»; l’espressione Veda «Tat twan asi!» (questo sei tu!) dice, per Schopenhauer, l’essenza della pietas. Ben prima del contemporaneo dibattito sui «diritti degli animali» e sull’etica del care, quindi, Schopenhauer abbatteva la barriera di specie in vista di un riconoscimento che includesse tutto ciò che vive: l’uomo virtuoso – leggiamo sempre nel Mondo – «estende tale identità anche agli animali e all’intera natura: perciò non lo si vedrà mai maltrattare un animale» (Schopenhauer 1989, p. 523 e passim). Vorrei limitarmi qui all’animale uomo, innanzitutto per notare come la pietas non funzioni – a differenza di quando accade, ad esempio, in Schopenhauer – come annullamento o superamento 203

del principium individuationis, come negazione dell’alterità, né preluda a una indiscriminata approvazione: si può provare pietas per il colpevole senza per questo assolverlo, senza dissolvere la sua colpa. Meglio di tutti lo ha mostrato, credo, Primo Levi nella Tregua attraverso il personaggio di Kleine Kiepura. Disgustoso nell’aspetto, moralmente ambiguo se non ripugnante, il piccolo favorito del Lager suscita nei sopravvissuti di Auschwitz una «compassione mista ad orrore»: Pochi giorni dopo il mio arrivo, vidi con disagio apparire un viso noto; la sagoma patetica e sgradevole di Kleine Kiepura, la mascotte di Buma-Monowitz. Tutti lo conoscevano a Buna: era il più giovane dei prigionieri, non aveva che dodici anni. Tutto era irregolare in lui, a partire dalla sua stessa presenza in Lager, dove di norma i bambini non entrano vivi: nessuno sapeva come e perché vi fosse stato ammesso, e ad un tempo tutti lo sapevano fin troppo. Irregolare era la sua condizione [...] vistosamente irregolare, infine, il suo aspetto. Era cresciuto troppo e male: dal busto tozzo e corto, sporgevano braccia e gambe lunghissime, da ragno [...] Ebbe un letto e una scodella, e si inserì nel nostro limbo. Henek e io gli rivolgemmo poche e caute parole, poiché provavamo verso di lui diffidenza e una pietà ostile; ma quasi non ci rispose [...] Il Kleine Kiepura sparì dopo pochi giorni, con sollievo di tutti. In mezzo a noi, deboli e malati, ma pieni della letizia timida e trepida della libertà ritrovata, la sua presenza offendeva come quella di un cadavere, e la compassione che egli suscitava in noi era commista ad orrore. Tentammo invano di strapparlo al suo delirio: l’infezione del Lager aveva fatto in lui troppa strada (Levi 1965, pp. 27-29).

Il passo di Levi accosta senza soluzione di continuità due sentimenti che potremmo pensare antitetici: pietà e orrore ostile. Tutti, nella camerata-infermeria del Campo Grande, sospettano (e con voce salda e pietosa Levi aggiunge «a torto, come spero») che il bambino sia un delatore, responsabile dei «casi più clamorosi di 204

denunzie anonime alla Sezione politica e alle SS». Eppure il Kleine Kiepura viene accolto «nel limbo» insieme a tutti gli altri, e anche a lui come a tutti vengono dati «un letto e una scodella»; persino quando cade preda di un delirio particolarmente macabro e inizia a fischiare le marce della Buma e a comandare in tedesco «schiavi inesistenti» («Alzarsi, porci, avete capito? [...] Questo è un Lager tedesco, si chiama Auschwitz, e non se ne esce che per il Camino») il piccolo favorito non è scacciato, ma tollerato e compatito (una «compassione commista ad orrore»). Il Campo Grande non è il palcoscenico di una tragedia greca, i sopravvissuti non ne sono gli spettatori e l’orrore per le azioni del personaggio non li purifica, ma li offende. Il Kleine Kiepura suscita orrore, «offende come un cadavere», perché, come quegli uomini morti di una morte «inerme e nuda, ignominiosa e immonda», è il segno evidente, tangibile, di una vergogna che «nulla potrà mai più cancellare»: Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla sarebbe mai più potuto avvenire di così buono e puro da cancellare (Levi 1989, p. 158).

Il piccolo Kiepura, come i morti del Campo Grande, è il segno visibile e tangibile di ciò che i deportati – anche ad un passo dalla liberazione – sono e sempre saranno: l’offesa subita è «insanabile» e «dilaga come un contagio». Essa, continua Levi, «è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia» (ibid.). L’orrendo favorito è segno dell’indegnità della vittima stessa, per205

ché, come ribadisce Levi in Deportati: anniversario, la schiavitù «è fonte quasi irresistibile di degradazione e di naufragio morale» (Levi 2002, p. 7). Eppure, vittime e colpevoli non sono uguali e le prime suscitano, devono suscitare, anche e nonostante il loro «naufragio morale», una pietà che si traduce immediatamente in un’azione concreta (anche al piccolo Kiepura come a tutti, vengono dati cibo e asilo); una pietà che non è, però, «naturale», ma che scaturisce dal riconoscimento razionale delle cause dell’abiezione: «l’infezione del Lager – commenta Levi – aveva fatto [in Kiepura] troppa strada» (Levi 1989, p. 170). Il Kleine Kiepura è certo un essere ripugnante (e quando, dopo pochi giorni, sparisce, la reazione generale è di sollievo), ma è prima di tutto riconosciuto, e quindi compatito, per la caratteristica che tutti ci accomuna: la fragilità creaturale, la possibilità di provare dolore. Sia in Se questo è un uomo, sia nella Tregua, Levi sembra identificare umanità e pietà: essere uomo significa accostarsi all’altro riconoscendolo come essere individuato eppure anche come parte di sé. Il «segno» che la strage nazista porta è questo, quello della coincidenza tra fine dell’umanità e fine della solidarietà tra uomo e uomo: «La strage nazista – scriverà in Monumento ad Auschwitz – è il segno del disumano, della solidarietà umana negata, vietata, rotta»; il monumento che sorgerà ad Auschwitz, conclude quindi Levi, non dovrà necessariamente essere bello, ma dovrà ripetere un «messaggio non nuovo nella storia, ma troppo spesso dimenticato: che l’uomo è, deve essere, sacro all’uomo, dovunque e sempre» (ivi, p. 11: corsivo mio). Credo che si debba accostare questa riflessione alla «speranza», citata poco sopra, che Levi dice di provare rispetto alle accuse di cui è vittima il Kleine Kiempura. Sperando che esse siano false, lo scrittore non risponde (solo) a un sentimento naturale di pietà, ma compie un atto di volizione: da una parte, razionalmente e consapevolmente mette in relazione il comportamento mostruoso con le sue cause, e dall’altro modula la sua condotta e i suoi sentimenti rispetto ad un dover-essere: 206

«l’uomo – anche l’uomo le cui azioni possono apparire incomprensibili o ripugnanti – [...] deve essere sacro all’uomo»). Questo ci fa fare un passo in avanti rispetto ad una comprensione più esatta di cosa sia la pietas di cui parlo qui: essa non è, come appariva in Schopenhauer, il riconoscimento «immediato e senza raziocinii» di una identità comune. Già in tutto il Settecento, del resto, la riflessione sui sentimenti morali si era spesso sviluppata a partire dal riconoscimento di un sentimento innato di compassione che legherebbe tra loro gli esseri umani. Penso, ad esempio, a Hume che, nel Trattato sulla natura umana (1739-40), parlava di un «principio di simpatia» innato; oppure, ancora, a Rousseau quando rifletteva sulla pietà come «sentimento naturale che, moderando in ogni individuo l’attività dell’amor di se stesso, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie» (nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini); fino alla definizione della compassione di Adam Smith (Teoria dei sentimenti morali, del 1759), come sentimento «originario della natura umana», un sentimento di cui «nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società umana è del tutto privo» (ivi, pp. 1-2). Al contrario, qui Levi riflette su come questa ‘naturale’ inclinazione dell’uomo verso l’uomo possa essere – in verità sia stata – messa a tacere e negata quando non sostenuta da un volere che è prettamente razionale. La pietas è, prima e al di là da ogni sua esistenza naturale, un dover essere, un compito. Molte cose dividevano il mondo del Lager dal mondo al di là dal filo spinato ma, Se questo è un uomo lo indica chiaramente, l’elemento discriminante decisivo è esattamente il sospendersi, o il diventare insignificante, del «comune mondo morale»: il venir meno della pietà, non tanto, o non solo, delle SS verso i detenuti – il che è in qualche modo ‘normale’ (è la legge della società creata nel campo, la sua ragion d’essere) – ma tra i detenuti stessi (Levi 1989, p. 78). Per sopravvivere nel Campo, scrive Levi, è necessario «resistere ai nemici e non avere pietà per i rivali [...] o anche 207

strozzare ogni dignità e spegnere ogni lume di coscienza» (ivi, p. 83). Il Lager si divide quindi non in buoni e cattivi, in giusti e ingiusti, ma in «mussulmani» (o «sommersi») e «salvati» (o «dominatori»). I sommersi sono i primi a morire perché irrimediabilmente soli, perché nessuno sa, può, o vuole riconoscere sé stesso in loro; i mussulmani sono «la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente» (Levi 1989, pp. 81-2, corsivo mio). Quando smettiamo di vedere l’altro in noi non solo disumanizziamo l’altro, ma anche (forse soprattutto) noi stessi. C’è però ancora un altro episodio che rivela l’identificazione tra umanità e pietas intesa come riconoscimento dell’altro in sé, ed è l’episodio della preghiera del vecchio Kuhn: A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco cha ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? (ivi, p. 116).

L’aggettivo «insensato» – ovvero senza senno – che Levi usa, pone ancora una volta l’accento sulla componente costruttiva e razionale (e non sentimentale o innata) della pietas. Certamente Kuhn è, o è diventato, insensibile al dolore dell’altro, ma soprattutto ha perso la capacità di valutare con raziocinio ciò che gli accade («non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta?»): Kuhn non sa nemmeno più volere la pietas. La sua preghiera suona 208

come un immondo ‘sì’ al campo ed alla sua legge che nega la possibilità stessa di una comunità di uomini; la preghiera di Kuhn, negando ogni pietà, getta quindi l’ombra dell’infamia sulle vittime stesse, ne conferma e sigilla la disumanizzazione: «se io fossi Dio – conclude perentorio Levi – sputerei a terra la preghiera di Kuhn» (ibid.). *** Dovremo poi chiederci: la pietas è semplicemente qualcosa che inerisce al personaggio romanzesco? E se così fosse, cosa dovremmo fare di tutti quei romanzi che sono, o appaiono, latori del messaggio opposto, un messaggio di spietatezza e cinismo? Dovremo parlare di libri inutili o, ancor peggio, immorali? Non lo credo. Il discorso su romanzo e pietas non può essere affrontato solo da un punto di vista del contenuto esplicito del testo. E poi deve essere sempre considerato l’orizzonte della ricezione, ovvero: è necessario considerare il testo come uno stimolo che deve essere poi recepito e interpretato più o meno liberamente dal lettore. (Adotto qui la prospettiva fondamentale dell’estetica della ricezione così come è stata elaborata, al di là delle singole differenze, soprattutto da Iser e da Jauß). Da un punto di vista elementare e pratico questo significa che la risposta del lettore è fino ad un certo punto imponderabile (non dipende solo dal testo e dalla volontà dell’autore, ma dalla relazione tra lo stimolo e il «repertorio», cioè la cultura, intesa in senso largo, del lettore in quel dato momento). È possibile, ad esempio, che un testo esplicitamente scritto per suscitare commozione susciti invece il sentimento contrario. Non è improbabile immaginare che la risposta del contemporaneo lettore ‘colto’ (o specializzato) ad un testo emotivamente troppo carico – ad esempio, un romance o un feuilleton – sia di cinica ironia. L’«orizzonte di attesa» (Jauß) – o «repertorio» (Iser) – del lettore è incompatibile con il repertorio del testo: come due coniugi che litigano e si fraintendono in 209

modo più o meno consapevole e capzioso, testo e lettore si affrontano senza realmente comunicare. In modo uguale e contrario è possibile leggere, ad esempio, Viaggio al termine della notte, non (o non solo) come una discesa nell’abiezione, ma come un grido di dolore per la fragilità comune a tutti gli esseri umani: la parola di Céline, ha scritto giustamente Julia Kristeva, fa appello a «una nudità, un abbandono [che] non confessiamo ma che sappiamo comune: una comunità bassa, popolare o antropologica, il luogo segreto al quale sono destinate tutte le maschere». Se Céline crede, e mostra, che l’essere è «la morte, l’orrore», paradossalmente «all’improvviso, ecco che la nuda ferita, per il suo stesso dolore e grazie all’artificio di una parola, si aureola, come lui dice, di un ‘piccolo infinito ridicolo’, così tenero, pieno d’amore...» (Kristeva 1980, p. 158). La «fascinazione», il «mistero» o «miracolo» di cui Kristeva parla a proposito di Céline sono, a mio parere, racchiusi nella possibilità di identificazione con questo nocciolo di dolore originario. Di là da ogni affermazione politica o razziale (esplicita o meno), ciò che rimane è la possibilità di unire il mio grido al grido intonato da Céline per la fragilità dell’essere. (E la pietas è esattamente questo unisono, questo riconoscimento della nuda ferita come condizione originaria dell’essere stesso, una ferita insieme individuale e individuata, ma anche e sempre comune). Ovvero, e in breve: il testo mostra spietatezza, ma è esattamente tale spietatezza a suscitare nel lettore un’immensa nostalgia del suo contrario, e un desiderio della sua possibile realizzazione. Così scriveva memorabilmente De Sanctis a proposito di Leopardi: «perché Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto» (De Sanctis 1963, p. 158). Perché, tuttavia, questo rovesciamento è possibile? Non è, credo, solo una questione di interpretazione, ma di una qualità intrinseca del testo. Non qualunque lamento trascritto su carta 210

produce l’effetto contrario, così come non tutti i testi emotivamente carichi riescono ad emozionare il lettore. Mi pare che il discrimine stia nel grado di formalizzazione del testo, in quell’indissolubile miscuglio di «grazia e riflessione» che, secondo il De Sanctis, portava alla perfetta prosa (di Machiavelli, ad esempio). Ovvero, e forse banalmente, il discrimine è nella possibilità che il testo, attraverso il suo stile, non si configuri come semplice specchio di un male – e di mali – rovesciati sul lettore, ma come sguardo che, ordinandoli, li trascenda in un significato possibile. In questo senso lo stile è davvero, come voleva Spitzer sulla falsariga di Proust, un «etimo spirituale» (Spitzer 1954, p. 120), una nozione complessa, spia di una vera e propria visione del mondo insieme individuale e collettiva. [email protected]

Testi citati FRANCESCO DE SANCTIS, 1963, Schopenhauer e Leopardi, in Id., Saggi critici vol. 2, a cura di Luigi Russo, Laterza, Bari-Roma. PRIMO LEVI, 1989, Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino [1958]. -, 2002, L’asimmetria e la vita, in Id., Articoli e saggi 1955-1987, Einaudi, Torino. JULIA KRISTEVA, 1980, Céline: ni comédien ni martyr, in Ea., Pouvoirs de l’horreur. Essai sur l’abjection, Édition du Seuil, Paris. ANTONIO PRETE, 2013, Compassione. Storia di un sentimento, Bollati Boringhieri, Torino. JEAN-JACQUES ROUSSEAU, 1972, Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini, in Id., Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni, Firenze. ARTHUR SCHOPENHAUER, 1989, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano. ADAM SMITH, 2001, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano. 211

LEO SPITZER, 1954, Linguistica e storia letteraria, in Id., Critica linguistica e storia del linguaggio, Laterza, Bari-Roma.

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