Terra e fascismo

September 3, 2017 | Autor: Francesco di Bartolo | Categoria: Economic History, Contemporary History
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collana di Storia a cura di Nino Blando

© 2009 XL edizioni XL edizioni Sas di Stefania Bonura via Urbana 100 - 00184 Roma tel +39 06 97274095 fax +39 06 99938885 e-mail: [email protected] www.xledizioni.com

ISBN 978-88-6083-015-9

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Errata corrige Per un errore di stampa, non è stato inserito l'elenco delle abbreviazioni che riportiamo qui sotto: Abbreviazioni Archivio centrale dello Stato: Acs Presidenza consiglio dei ministri: Pcm Ministero degli Interni: Mi Pubblica sicurezza: Ps Assistenza Beneficenza Pubblica: Abp Carte Nitti: CN Segreteria particolare del duce: Spd Carteggio ordinario: Co Carteggio riservato: Cr Affari generali e riservati, Direzione generale dell’Amministrazione civile, Comuni: Comuni Scioglimento associazione operaie: Ao Fondo opera nazionale Combattenti: Onc Sezione agraria. Ufficio staccato per la Sicilia (1919-1969): Onc, Sicilia Collegio centrale arbitrale, decisioni amministrative: Onc, Da Collegio centrale arbitrale, decisioni giurisdizionali: Onc, Dg Fondo Archivio privato famiglia Varvaro: Apfv Categoria: cat. Busta: b. Fascicolo: f. Gabinetto: Gb senza data: s.d. Archivio di stato di Caltanissetta: Ascl Corte d’assise: Ca Tribunale penale: Tp Corte d’appello: Cdp Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia: Commissione antimafia.

Indice

Ringraziamenti

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Prefazione di Salvatore Lupo

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Introduzione

13

1. 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6

Un progetto per l’Italia nuova: l’Onc La tecnocrazia nittiana Acque e terre da bonificare Per un nuovo “national-building” L’impianto originario dell’Onc Legislazione sociale o riforma agraria? Da “assistenza” a “sviluppo”

21 21 27 33 35 43 46

2. 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6

In terra di Sicilia Crisi del latifondo “Produttivismo” e riforme agrarie Un ispettorato per la Sicilia Il modello cooperativistico Le paludi del primo dopoguerra La difficile mediazione. Le terre incolte e la proprietà terriera

57 57 61 68 73 78 88

3. 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5

Metamorfosi fascista I nittiani sotto accusa La ristrutturazione La fascistizzazione Quotizzazioni e propaganda Primi bilanci. L’intervento agrario dell’Onc in Sicilia fino agli anni Trenta

4. La guerra persa a Ribera 4.1 Luoghi fisici e sociali 4.2 Faide e fazioni politiche

95 95 99 106 113 121 127 127 129

4.3 4.4 4.5 4.6 4.7 4.8

L’insurrezione popolare Un casus diplomatico internazionale La ritirata dell’Opera nazionale combattenti Onc v/s “Cesare Battisti” Uscita d’emergenza Critica fascista

135 141 145 152 158 162

5. 5.1 5.2 5.3 5.4 5.5 5.6 5.7

La gestione mafiosa dell’ex feudo Polizzello Quadri ambientali “Combattenti” e mafiosi L’alto e il basso Il ritorno alla “gabella” I retroscena dell’accordo. Mafia e cooperativismo All’assalto dell’Onc Continuità fascista

171 171 176 183 190 195 204 207

6. Menfi e l’ assalto (vincente) al latifondo 6.1 Tra mare e terra 6.2 Nuove élite 6.3 Terra di conquista 6.4 L’Onc tra due fuochi 6.5 L’affitto provvisorio 6.6 La quotizzazione provvisoria 6.7 La battaglia sull’indennizzo 6.8 Regime e sospetti 6.9 L’inchiesta dell’ispettorato 6.10 L’alienazione e le resistenze corporative 6.11 Una vittoria fascista?

213 213 217 221 226 229 232 238 244 250 255 258

7. 7.1 7.2 7.3

265 265 276 290

Assonanze conclusive Altri successi e insuccessi Comparazioni Una dissonanza

Articoli e fonti

297

Bibliografia

301

Ringraziamenti

L’idea di questo libro nasce dalle ricerche condotte durante il mio dottorato. Desidero ringraziare il prof. Salvatore Lupo per i costanti e puntuali suggerimenti che hanno seguito gli ultimi tre anni di revisione e perfezionamento del testo e per avermi accompagnato nel mio percorso di crescita professionale e umana. Un ringraziamento va inoltre al prof. Giuseppe Barone per le indicazioni metodologiche e contenutistiche che mi hanno consentito di approfondire tematiche complesse, al prof. Rosario Mangiameli per le discussioni in sede di dottorato e alla prof.ssa Pinella Di Gregorio che è stata di fondamentale aiuto nell’impostazione generale del testo, infine al prof. Luciano Granozzi per avermi coinvolto nei miei primi passi nello studio della storia. Ho un debito di riconoscenza nei confronti della dott. ssa Mariapina Di Simone e la dott.ssa Erminia Ciccozzi dell’Archivio centrale dello Stato, per la disponibilità e la professionalità dimostrata in più di una occasione. E ancora, il dott. Salvatore Lauricella dell’Archivio di Stato di Caltanissetta che mi ha aiutato a risolvere un passaggio fondamentale. Stefano Vassallo della Soprintendenza dei Beni culturali di Palermo mi ha concesso di consultare, infine, con liberalità le carte private appartenenti alla sua famiglia. Ringrazio i miei colleghi della Sicilia orientale. Francesca Barbano e Roberta Raspagliesi per l’amicizia e il confronto su diverse e suggestive tesi interpretative; Giuseppe Boscarello, per i cauti consigli. E quelli della Sicilia occidentale. Matteo Di Figlia e Vittorio Coco per l’encomia-

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Ringraziamenti

bile disponibilità e i costanti suggerimenti. Vito Scalia e Antonio Basile per altri progetti. Un affettuoso pensiero va a Jones Mannino che mi ha lungamente sopportato nei miei soggiorni romani e a Elvira Gioviale, mia prima lettrice di bozze. Ringrazio il prof. Nino Blando, sincero amico, per aver accolto nella sua collana editoriale questo lavoro di ricerca. Come sempre ho potuto contare sul sostegno dei miei genitori al quale va un sentito ringraziamento. Mia moglie Tiziana, fondamentale punto di riferimento di vita e anche professionale, mi è stata sempre vicino sostenendomi col dialogo appassionato, mentre mia figlia Giulia, che è giunta nel frattempo con grande gioia, mi dà la quotidiana speranza di vivere per un mondo migliore. Questo libro è stato sostenuto dalla Flai Cgil di Palermo che ha finanziato il mio assegno di ricerca presso la Facoltà di lettere dell’Università di Palermo.

Prefazione

di Salvatore Lupo

La prima guerra mondiale lasciò dietro di sé lutti senza fine, in Italia come altrove; e, in Italia più che altrove, un bisogno disperato di dare un senso all’immane dramma. Certo, era stata soddisfatta l’antica aspirazione irredentista alla liberazione di Trento e Trieste, all’espansione sulla frontiera orientale. Certo, la nazione era stata difesa armi alla mano dai giovani ufficiali di complemento con la fede loro proposta dai testi patriottici letti sui banchi di scuola. I sacri interessi dell’Italia nuova erano stati fatti valere, come richiesto a gran voce nella primavera del 1915 dagli interventisti sulla stampa e nel corso di meeting turbinosi in piazza. Nessuno aveva però previsto il supremo sforzo materiale e morale richiesto al paese per superare il baratro apertosi a Caporetto alla fine del 1917, l’impegno senza precedenti cui vennero chiamate le classi dirigenti non solo nel mantenere così grandi masse di persone al fronte e in armi, ma anche nel motivarle sul piano politico e ideale. Caporetto mostrò così quale fosse il problema. Le masse profonde cui le istituzioni in guerra dovevano fare appello non erano state sfiorate né dall’irridentismo né tanto meno dall’interventismo; non erano esse le destinatarie dell’educazione patriottica propria delle scuole superiori italiane di inizio Novecento. In una larga misura, non erano state nemmeno toccate dalla coscienza di classe propugnata dai socialismi delle diverse scuole. Nondimeno, bisognava raggiungerle in qualche modo nel momento in cui la guerra si rivelava non come una lieta gara sportiva, non come l’iniziazione alla virilità di intere nazioni, ma in

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Salvatore Lupo

tutta la sua essenza tragica e micidiale. Si pensò potessero essere sensibili a promesse di radicali riforme, alla prospettiva di una nuova Italia che sarebbe stata loro per la prima volta benigna – e in effetti fu a loro beneficio che dopo Caporetto venne lanciato lo slogan “la terra ai contadini” da parte dei giovani ufficiali arruolati nelle file degli uffici di propaganda dell’esercito italiano. Nell’immediato dopoguerra, istituendo l’Opera nazionale combattenti, gli intellettuali radicali e socialisteggianti che circondavano Nitti intesero creare lo strumento perché l’Italia vittoriosa desse forma a quelle promesse, dialogasse con i movimenti degli ex-combattenti, ponesse un argine e nel contempo fornisse una risposta positiva alle spinte eversive generate dagli eventi. Vennero forgiati strumenti normativi e istituzionali originali, che possiamo definire tecnocratici, per programmare la bonifica, ristrutturare i territori, e realizzare una sorta di riforma agraria. Poi quest’invenzione del dopoguerra sopravvisse a se stessa. Strumenti culturali e materiali, idee e personale, vennero inglobati nel regime fascista, in tutt’altra atmosfera politica, rispondendo a finalità di integrazione delle masse nello Stato di tutt’altra natura. Gli aspetti propagandistici furono accentuati. Nel corso degli anni ’30, attuando la bonifica e la colonizzazione dell’Agro pontino, l’Opera raggiunse forse il massimo della sua notorietà nazionale e internazionale. Attorno all’Opera girano insomma questioni importanti della storia italiana del primo Novecento, ben presenti in questo volume che Francesco Di Bartolo ha scritto con efficacia espositiva, ampiezza di riferimenti e utilizzazione di una vasta documentazione, per una parte proveniente dall’archivio dell’Opera stessa. Di Bartolo ricostruisce in particolare gli interventi (numerosissimi) effettuati dall’Opera in Sicilia, fruttuosamente collocandosi a cavallo tra uno spazio nazionale, uno spazio regionale e una serie di spazi locali. Vengono infatti approfondite alcune delle iniziative sul territorio in cui si concretizzò, dagli anni ’20 agli anni ’40,

Prefazione

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questo progetto tecnocratico di riforma dell’agricoltura. Si racconta di costituzione di cooperative, di acquisti e redistribuzioni di terre, di trasformazioni o viceversa persistenze di ordinamenti colturali e modelli di uso del territorio – e del modo in cui il progetto stesso andò a sovrapporsi con le logiche delle comunità, dei “partiti” paesani, dei gruppi di interesse, a confrontarsi con le trame delle cosche mafiose. Siamo dunque davanti a storie sia di successi sia di fallimenti, e nel complesso a una trattazione sorprendente e innovativa di quel capitolo cruciale della storia italiana che è la questione agraria in uno dei suoi luoghi ideali, la Sicilia. Grazie ad essa possiamo penetrare in strati profondi, e il più delle volte invisibili, della società.

Introduzione

Terra e fascismo tratta dell’azione agraria dell’Opera nazionale combattenti (d’ora in poi Onc) in Sicilia negli anni Venti e Trenta in relazione al contesto politico e sociale in cui essa si svolse sui due livelli, nazionale e regionale. L’azione dell’Onc1 rientra nel più generale dibattito sugli interventi statali per lo sviluppo delle aree del Mezzogiorno d’Italia2. L’Opera fu costituita nel 1917 per rispondere all’immensa tragedia di Caporetto e regolamentata con decreto legislativo nel 1919. Finita la guerra, essa fu il primo rilevante Sull’Opera nazionale combattenti si vedano: Giuseppe Barone, Statalismo e riformismo: l’Opera nazionale combattenti (1917-1923), in «Studi storici», 1, 1984, pp. 203-44 e Riccardo Mariani, Fascismo e città nuove, Feltrinelli, Milano 1976. Esiste una copiosa letteratura prodotta e curata dall’Onc. Segnaliamo solo: L’opera nazionale per i combattenti, Roma 1926; L’opera nazionale combattenti. Nel X annuale della vittoria, Tip. Castaldi, Roma 1928; 36 anni dell’Opera nazionale per i combattenti 1919-1955, Roma 1955. 2 Leandra D’Antone (a cura di), Radici storiche ed esperienze dell’intervento straordinario del mezzogiorno, Bibliopolis, Roma 1996; Marcello De Cecco, Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale dell’Italia degli anni sessanta, in Fabrizio Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano, Donzelli, Roma 1997, pp. 389-404; Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Storia d’Italia, Annali, 1, Einaudi, Torino 1978, pp. 1195-1255; Luciano Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989; Peter Hertner, Giorgio Mori (a cura di), La transizione dall’economia di guerra all’economia di pace in Italia e in Germania dopo la prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna, 1983; Giorgio Mori, Il tempo dell’industria, 18151943, Le Monnier, Firenze 1988; Rolf Petri, Storia economica d’Italia. Dalla grande guerra al miracolo economico (1918-1963), il Mulino, Bologna 2002, pp. 51-78. 1

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Introduzione

progetto tecnocratico con lo scopo di riconvertire il paese allo sviluppo agricolo e industriale, utilizzando come principale strumento per la crescita delle aziende agrarie proprio l’azione dello Stato e il lavoro degli ex combattenti. Soprattutto nelle regioni del Sud dell’Italia, l’Opera programmava un intervento di pianificazione territoriale, presentandosi per la prima volta come una concreta alternativa all’organizzazione dell’azienda latifondista. Tuttavia, dal punto di vista dell’intervento agrario, l’Opera non cercò di attuare una vera e propria riforma agraria, ma indirizzò i suoi sforzi verso la prosecuzione di una strategia di riforma del territorio iniziata da Francesco Saverio Nitti e fondata sulla valorizzazione delle risorse idrauliche e forestali, ai fini di una maggiore produzione energetica e agricola mediante le opere di bonifica agraria3. Se invece volgiamo lo sguardo al più vasto contesto europeo, emerge un quadro diverso, caratterizzato prevalentemente dalla frantumazione della grande proprietà terriera. Soprattutto nell’Europa centro-orientale, le spinte rivoluzionarie del dopoguerra determinarono la nascita di riforme agrarie4. Le più radicali di queste riforme, con tutte le implicazioni di carattere sociale e rivoluzionario dei casi, furono varate nell’ex Urss, in Iugoslavia e in Romania, con una ridistribuzione di circa 8 milioni di ettari. Seguirono l’ex Cecoslovacchia, la Polonia e l’Ungheria5. Qui si frantumarono le grandi proprietà terriere e si ridi3 La tesi è di Giuseppe Barone, Il progetto elettroirriguo nittiano e la tecnocrazia riformista, in Francesco Barbagallo et al., Francesco Saverio Nitti, Merdionalismo e europeismo, Laterza, Bari-Roma 1985. 4 Derek H. Aldcroft, L’economia europea dal 1914 ad oggi, Laterza, Bari 1981, pp 7-45. 5 Alice Teichowa, L’Europa centro e sudorientale, 1919-1939, in Michael M. Postan e Peter Mathias (a cura di), Storia economica Cambridge, vol. 8, Le economie industriali, t. 2, I casi nazionali, Einaudi, Torino 1975-1982, pp. 335-350; Giovanni Lorenzoni, Introduzione e guida ad una inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice post-bellica in Italia, Treves Dell’Ali, Roma 1929, pp. 35-63.

Introduzione

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stribuirono una quantità di ettari di terra pari a un decimo della superficie agraria dell’antico continente6. In Italia, viceversa, l’Onc, da una originaria matrice assistenziale si qualificò come “ente di bonifica integrale” piuttosto che come “ente di riforma agraria”, dotato di strumenti giuridici eccezionali in materia di espropri di terre e di indennizzo ai proprietari. I nuovi criteri assegnarono all’Onc una larga prospettiva di intervento pubblico, grazie all’estensione giuridica del concetto di utilità pubblica, intesa non più come evento eccezionale ma come un nuovo ordinamento dell’organizzazione della proprietà terriera. La ricomposizione idrogeologica del suolo, la preferenza per la grande azienda pubblica a conduzione cooperativa, il ruolo dell’ente come polmone creditizio della trasformazione fondiaria, costituivano le direttrici strategiche per la modernizzazione dell’agricoltura. Il regolamento dell’Opera mise in evidenza un punto controverso. Di fatto, si sanciva un intervento rivolto ai soli ex combattenti, escludendo gran parte del ceto rurale. Ed è per questo motivo che è possibile definire quella dell’Onc una “strana riforma agraria”, svuotata del carattere universalistico dell’intervento. Sull’esempio dell’Istituto nazionale assicurazioni, fondato nel 1913, l’Onc si qualificò come uno dei nuovi enti parastatali7 composto da funzionari con una cultura tecnico-specialistica8. L’obiettivo era quello di spiazzare l’opzione liberista e di saldare l’intervento pubblico a quello privato in un organico progetto di capitalismo organizzato. Un capitalismo non chiuso nell’egoismo del profitto ma concepito 6 Corrado Barberis, Teoria e storia della riforma agraria, Vallecchi, Firenze 1957, pp. 144 ss. 7 Leandra D’Antone, “Straordinarietà” e Stato ordinario, in Barca, Storia del capitalismo italiano cit., pp. 583-586. 8 Guido Melis, L’amministrazione, in Raffaele Romanelli (a cura di) Storia dello Stato italiano dall’unità a oggi, Donzelli, Roma 1995, p. 205.

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Introduzione

come un sistema guidato, corretto e pianificato da esigenze generali che solo lo Stato poteva esprimere e formalizzare in istituti politici e sociali efficenti. Allo stato attuale, le più aggiornate ricerche sulla storia delle bonifiche in età contemporanea9 non hanno approfondito il contributo di questo ente pubblico nel Mezzogiorno. L’istituzione di un ufficio staccato dell’Onc in Sicilia, unico caso in tutta l’Italia, fin dal 1920 impresse una notevole accelerazione ai programmi di trasformazione fondiaria, e spinse molti centri rurali dell’isola, a tramutarsi in veri campi di sperimentazione agraria. Fino al 1922, le domande di esproprio inviate dalle cooperative di ex combattenti furono più del doppio di quelle che poterono essere accolte dall’ispettorato. Incentivate dalla prospettiva di lavoro e di possesso di un pezzo di terra, si rivelarono lo strumento preferito in mano ai partiti locali. L’utopia dei tecnici di trasformare il territorio iniziò a naufragare quando ad essa si contrappose la logica politica della ricerca del consenso. E difatti, spesso, l’impreparazione di molte cooperative era la causa di procedure incomplete per l’inosservanza delle regole per l’assegnazione e si finiva per optare il ritorno alla contrattazione privata con i proprietari. Oppure, quando si riusciva a far scattare il procedimento dinnanzi al Collegio arbitrale, le cooperative non avevano i mezzi finanziari per risarcire la somma anticipata dall’Onc per il pagamento dell’indennità di esproprio al proprietario. Infine, la proprietà terriera mostrava una strenua resistenza alle notifiche di esproprio ed era pronta a ricercare nuove e inedite alleanze con i ceti rurali, proponendo l’affitto e la compravendita a buon mercato della terra pur di non cedere alle pressioni dello Stato. Successivamente, nel corso degli anni Venti e Trenta, a causa del risanamento dell’ente, del personale impiegato e 9 Piero Bevilacqua, Manlio Rossi-Doria (a cura di), Le bonifiche in Italia dal ’700 a oggi, Laterza, Bari 1984.

Introduzione

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delle nuove strategie del regime fascista in politica agraria, l’ufficio dovette retrocedere in molti suoi interventi, rimanendo impelagato in controversie legali con i proprietari, con le cooperative e, non ultimo, in complicate procedure di quotizzazione, non potendo continuare nella trasformazione dei terreni espropriati. Alle soglie del secondo conflitto, l’azione dell’ispettorato registrava un parziale fallimento economico e politico del suo operato, distanziandosi dal progetto originario, dall’esperienza tecnico-professionale e dal patrimonio accumulato nei primi anni Venti. Le quotizzazioni non seguirono i criteri stabiliti e andarono a vantaggio dei ceti dominanti, invertendo così il trend positivo del primo dopoguerra. In alcuni casi fu conseguito anche qualche successo nell’ambito dei miglioramenti fondiari e accadeva pure che l’ispettorato, non riuscendo ad avvalersi del suo potere di esproprio, ingaggiava lunghe operazioni di compravendita con i proprietari. Nel 2000 è stata inventariata dai funzionari dell’Archivio centrale dello stato, la documentazione appartenente all’attività della sezione agraria dell’Onc in Sicilia10. Ciò rappresenta un’opportunità per gli studiosi di indagare in profondità un vasto patrimonio relativo allo sviluppo del territorio siciliano. Lo studio di quest’abbondante documentazione archivistica ha permesso di ricostruire in profondità il tema della modernizzazione agraria e i suoi riflessi sull’evoluzione politica, economica e sociale in alcuni circondari agrari delle provincie orientali e occidentali dell’isola. Assumendo una prospettiva più ampia, s’è privilegiato il tema assai più interessante delle aspettative e dell’opposizione di una più articolata società rurale ai piani pubblici di programmazione centralizzata. Piuttosto che volgere lo sguardo esclusivamente all’entità dello scontro di classe tra i poli opposti della 10

Acs, Onc, Sicilia, Inventario a cura della dott.ssa E. Ciccozzi.

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Introduzione

gerarchia sociale nelle campagne, la proprietà assenteista da una parte e la massa indifferenziata di contadini dall’altra in un eterno conflitto per il diritto alla terra, si è spostata l’attenzione a quegli elementi che hanno caratterizzato una società frammentata e dinamica, capace di accogliere e allo stesso tempo respingere i progetti di pianificazione economico-agraria che i tecnici e i funzionari dell’Onc cercavano di illustrare agli attori sociali nelle zone più impervie del latifondo estensivo. E precisamente si è cercato di esplorare ambiti di ricerca fino a oggi trascurati come quello che ha inteso collocare il conflitto sociale all’interno di contesti rurali più complessi dove, in primo luogo, rinnovate forme di flessibilità del lavoro agricolo a causa della dilatazione dei mercati, l’apertura di nuovi spazi della rappresentanza e le estese dimensioni della partecipazione e delle adesioni a nuove ideologie, produssero di volta in volta maggiori occasioni di mobilità all’interno dei ceti rurali e, dunque, una miscela di alleanze politiche di blocchi interclassisti contro altre simili alleanze11, espressioni di una società legata e divisa da profondi vincoli di parentela e di clientela. Sicché, la lotta sociale e politica non coincideva affatto con i definiti contorni di classe, ma si identificava con le mutevoli aggregazioni di interessi, di famiglie e fazioni rivolte a contendersi il controllo sulle risorse, fino a strumentalizzare i dispositivi degli interventi statali. Quindi, accadeva che, in modo del tutto casuale, alcuni ceti si alleavano con i proprietari a formare un partito, respingendo i piani dell’Onc per un ritorno alla pratica della gabella, altri recepivano le novità introdotte dall’Onc e ingaggiavano lunghe contese per espropriare le terre ai proprietari, altri ancora intrecciavano opportunisticamente legami con entrambi Salvatore Lupo, Tra centro e periferia. Sui modi dell’aggregazione politica nel Mezzogiorno contemporaneo e Luigi Musella, Clientelismo e relazioni politiche nel Mezzogiorno tra Otto e Novecento, entrambi in «Meridiana», 2, 1988, rispettivamente pp. 13-50 e pp. 71-84. 11

Introduzione

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per scegliere l’offerta migliore, l’esproprio del nuovo ente o l’affitto col vecchio proprietario. Nella società rurale siciliana del primo dopoguerra, la trasformazione in una società capitalistica esigeva il passaggio a una nuova organizzazione dell’agricoltura12. Gli antichi ostacoli ambientali allo sviluppo avevano fortemente condizionato intere aree territoriali e le sue forme di organizzazione economica, sociale e politica13. Per lungo tempo la presenza del latifondo è stato il riflesso di una precisa organizzazione naturale del territorio ed è stata anche l’unica modalità accessibile di produzione e di organizzazione del lavoro14. Rimuovere le cause degli ostacoli fisico-naturali, a Menfi come a Mussomeli, a Gela e a Salemi, era l’unico scopo iniziale voluto dall’ispettorato fin dagli inizi del suo operato. Anche il fascismo pensò di disarticolare e riaggregare sotto nuove sembianze la struttura latifondista che, agli occhi del regime, aveva mantenuto tutti i caratteri e i meccanismi di funzionamento di un sistema arcaico sotto l’aspetto tecnico-produttivo e della proprietà. Bastava incrementare il patrimonio edilizio rurale e riorganizzare la fruizione sociale delle campagne15 per accantonare il problema tecnico della trasformazione fondiaria. Per questa via, l’Onc finì per propagandare l’unico spazio di intervento rimastogli: la redistribuzione di piccoli poderi e case sparse senza tener conto dei bisogni strutturali del territorio. 12 Giuseppe Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Einaudi, Torino 1986. 13 Piero Bevilacqua, Agricoltura e storia delle campagne nel Mezzogiorno d’Italia, in «Studi storici», 3,1982, pp. 672-682. 14 Francesco Mercurio, Agricoltura senza casa. Il sistema di lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo, in Piero Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. 1, Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, cfr. anche Friedrich Vochting, La questione meridionale, Istituto editoriale del Mezzogiorno, Roma 1955. 15 Francesco Mercurio e Salvatore Russo, L’organizzazione spaziale della grande azienda, in «Meridiana», 3, 1990, p. 108.

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Introduzione

L’azione dell’ente in Sicilia determinerà anche delle rotture significative in coincidenza della crisi del latifondo che culminerà con la riforma agraria degli anni Cinquanta. Soprattutto nei primi anni Venti, l’esperienza dell’ente si inscriveva sotto il segno di un meridionalismo nuovo: non si trattò, infatti, di un intervento straordinario per il Mezzogiorno e neanche, come è stato detto, di una riforma agraria, ma di una specifica attenzione ai problemi agrari. Un intervento che poggiava non tanto su leggi speciali, ma su una razionale ed equilibrata condotta dell’intera economia nazionale e su una legislazione tale da rompere la tradizione delle leggi uniformi. Poco dopo, questo “nuovo meridionalismo” trovò numerosi ostacoli di applicazione nelle legislazioni in materia di redistribuzione parziale delle terre, nell’ambito dei decreti Visocchi e Falcioni, e nella nascita di enti pubblici paralleli e concorrenti, come ad esempio l’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, che pose l’Opera su un piano indefinito di compiti, funzioni, prerogative e indirizzi politici diversi da quelli per cui era sorta. L’azione dell’Onc trovò successivamente la sua continuità nella definizione dei piani di bonifica degli anni Trenta e nella promulgazione delle leggi di riforma agraria nel secondo dopoguerra, evidenziando anche questa volta i caratteri sociali della redistribuzione e dell’appoderamento. Il problema tecnico della trasformazione fondiaria, caposaldo dell’azione agraria dell’Onc, si arenava in maniera definitiva e con esso anche l’azione in Sicilia dove l’ispettorato non riuscì a incidere macroscopicamente sulle strutture della proprietà terriera e sui rapporti sociali di produzione.

1. Un progetto per l’Italia nuova: l’Opera nazionale combattenti

1.1 La tecnocrazia nittiana Durante la grande guerra1 la classe dirigente nazionale avvertì l’urgenza di rispondere agli inediti squilibri sociali, conseguenti alle modificazioni strutturali dell’economia italiana, col massiccio trasferimento di risorse dall’agricoltura all’industria bellica2. Non c’era solo la piaga dell’inflazione ma quella ancora più critica di una nazione storicamente priva di materie prime e colpita da micidiali distruzioni3. La generale instabilità coincise con l’affacciarsi di un più dinamico entourage politico, appartenente agli apparati dello Stato, che avrebbe tentato una nuova via per la ripresa economica. La domanda di una nuova direzione politica trovò accoglienza in un ceto dirigente di estrazione liberale, radicale e social-riformista, che già dal primo decennio del Novecento aveva sperimentato gli interventi volti a esten1 Sulla prima guerra mondiale, Stéphane Audoin-Rouzeau, JeanJacques Becker e Antonio Gibelli (a cura di), La prima guerra mondiale, vol. II, Einaudi, Torino 2007; Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La grande guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze-Milano 2000; Antonio Gibelli, L’officina della guerra:la grande guerra e la trasformazione del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 2 Hertner e Mori (a cura di), La transizione dall’economia di guerra all’economia di pace cit. 3 Marco Doria, L’imprenditoria industriale in Italia dall’Unità al miracolo economico. Capitani d’industria, padroni, innovatori, Giappichelli, Torino 1998.

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dere le funzioni amministrative dello Stato e ad esaltare le funzioni dei ministeri come nuove sedi decisionali delle politiche, coinvolgendo negli apparati burocratici le migliori competenze scientifiche e tecnico-professionali4. Però, è solo durante la guerra, e immediatamente dopo, che essi riuscirono a prendere progressivamente il controllo di alcuni ruoli chiave dell’amministrazione dello Stato e di alcuni importanti dicasteri economici5. L’esponente più rappresentativo di questo ceto politico fu Francesco Saverio Nitti6. Nato in Basilicata nel 1868 fu portavoce del miglior positivismo ottocentesco. Eletto da giovane in Parlamento, fu ministro dell’Agricoltura, del Tesoro nel gabinetto Orlando e Presidente del Consiglio a due riprese nel biennio 1919-1920. Il suo pedigree politico lo collocò nel panorama radical-democratico liberale e diede un contributo notevole al pensiero meridionalista7. Il suo apporto politico-intellettuale diventò significativo con la relazione per la Basilicata della commissione d’inchiesta sulle condizioni dei contadini nell’Italia meridionale e in Sicilia8. Allo stesso tempo – ed era ciò che lo caratterizzava maggiormente – fu tra quei pochi liberali a guardare con ottimismo Cfr. D’Antone, Radici storiche ed esperienza cit. Paride Rugafiori, Imprenditori e manager nella storia d’Italia, Laterza, Roma 1999, p. 52. 6 Su Francesco Saverio Nitti si veda Francesco Barbagallo, Francesco Saverio Nitti, Utet, Torino 1984; Luigi De Rosa, Protagonisti dell’intervento pubblico: Francesco Saverio Nitti, in «Economia Pubblica», 4-5, 1976, pp. 139-152; la voce “Francesco S. Nitti” è curata da Salvatore Lupo in Sergio Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino 2005, pp. 228-31. 7 Cfr. L’edizione nazionale delle opere di Francesco Saverio Nitti pubblicate dalla Laterza. 8 Relazione del delegato tecnico Eugenio Azimonti, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, vol. XII, Basilicata e Calabria, Bertero, Roma 1910; si veda anche Francesco S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale. Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e Calabria, Laterza, Bari 1968. 4 5

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alla nascita di una “nuova società industriale”, avendo la lucida consapevolezza del gap di partenza dell’Italia, grande potenza solo per popolazione e posizione geografica Con il peso delle tradizioni, con piccolissima estensione di territorio estremamente accidentato […]con una popolazione esuberante per le sue risorse, senza ferro e senza carbone, senza colonie, l’Italia – scriveva Nitti – è in Europa quella messa peggio.9

Accanto a Nitti spiccava la figura di Ivanoe Bonomi10, già fondatore nel 1912 del partito social-riformista, che assieme a personalità come Angelo Omodeo, Angiolo Cabrini e Leonida Bissolati, furono protagonisti di una moderna legislazione sociale. Ma soprattutto emergeva la capacità manageriale del casertano Alberto Beneduce11, considerato 9 Francesco S. Nitti, Scritti di economia e finanza, a cura di Domenico Demarco, vol 3, parte II, Laterza, Roma-Bari 1966, p. 10 10 Interventista di punta e volontario della prima guerra mondiale, dal 1916 al 1922, Bonomi ricoprì in sequenza le cariche di ministro dei lavori pubblici, della Guerra, del Tesoro, fino a essere nominato Presidente del Consiglio nei mesi precedenti alla marcia su Roma. Su Ivanoe Bonomi il giudizio severo di Silvio Lanaro, in Franco Andreucci e Tommaso Detti (a cura di), Dizionario biografico del movimento operaio italiano, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 350-355; Cfr. con Luigi Cavazzoli, Ivanoe Bonomi riformatore, Lacaita, Manduria 2005. 11 Coetaneo di Bonomi, fu vicino alla sua corrente politica. Negli uffici del ministero dell’Agricoltura Beneduce studiò le dinamiche demografiche e sociali nel campo delle applicazioni statistiche. Ben presto Nitti lo chiamò a collaborare per la fondazione dell’Ina e dell’Onc. Fu poi deputato nel 1919, presidente della commissione finanze e ministro del lavoro nel 1921 e sottosegretario alla presidenza del consiglio nel 1922. Benché non fu entusiasta dell’avvento del regime fascista, ricoprì un ruolo essenziale nella ristrutturazione dell’economia nazionale dopo la crisi degli anni Trenta con la nascita dell’Imi e dell’Iri. Per la complessa figura di Alberto Beneduce negli anni a cavallo tra le due guerre, Dizionario biografico degli italiani, vol. VIII, Istituto della enciclopedia italiana, Roma 1966, pp. 456-466; Mimmo Franzinelli e Marco Magnani, Il finanziere di Mussolini, Mondadori, Milano 2009, e in particolare pp.13-73; ancora Pasquale Marotta, Alberto Beneduce l’uomo,

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l’elemento più geniale e contemporaneamente più affine alle aspirazioni tecnocratiche di una nuova classe dirigente. Intorno a loro si muoveva un gruppo di altrettanti giovani funzionari di ispirazione radicale e liberal-socialista, come Eliseo Jandolo, Enrico La Loggia, Giuseppe Paratore, Edoardo Pantano, Meuccio Ruini, Arrigo Serpieri, Alfredo Ramasso i quali, tra il 1917 e il 1921, diedero vita a una stagione di progettualità dalla forte impronta democratico-dirigista12, occupando ininterrottamente, per tutto il primo dopoguerra, cariche politiche e amministrative di prestigio13. Si trattò di un pool tecnico-ministeriale di coordinamento e di progettazione economico-territoriale, sganciato dalla burocrazia centrale e dai meccanismi della rappresentanza politica, nominato solo per competenze e capacità manageriali innovative. Il nuovo “ministerialismo” nittiano delle cosiddette “burocrazie parallele”14 fu anche la risposta a un certo meridionalismo liberale di stampo giolittiano. Recidere i legami clientelari e promuovere un apparato ministeriale e tecnol’economista, il politico, Società di storia patria di Terra e Lavoro, Caserta 1996; resta sempre il ritratto di Franco Bonelli, Alberto Beneduce (18771944), in Alberto Mortara (a cura di), Protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, Milano 1983, pp.329-356; Iri (a cura di), Alberto Beneduce e i problemi dell’economia italiana del suo tempo, Atti della giornata di studio per la celebrazione del 50° anniversario dell’Istituzione dell’Iri, Caserta 11 novembre 1983, Edindustria, Roma 1985. 12 Barbagallo, Francesco S. Nitti cit. 13 Sabino Cassese, Giolittismo e burocrazia nella “cultura delle riviste”, in Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, pp. 475-477; Id., Corporazioni e intervento pubblico nell’economia, in Alberto Acquarone e Maurizio Vernassa (a cura di), Il regime fascista, il Mulino, Bologna 1974. 14 Con questo termine si indicò un modello alternativo di organizzazione affidata a pochi impiegati e ben pagati, con ampi margini di decisione riservati agli organi di direzione interna, poco personale, con molta cultura tecnico-specialistica e con criteri interni di licenziabilità. Cfr. Melis, L’amministrazione cit., p. 205.

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cratico in alternativa a quelle che erano considerate le “inefficienze” parlamentari del “giolittismo”, era per i tecnocrati il prerequisito per superare la pastoie della rappresentanza: il così definito “inutile chiacchiericcio”. In alternativa si intese esaltare, pur restando nell’alveo della democrazia, i processi decisionali di razionalizzazione e di trasformazione dell’agricoltura in un moderno settore produttivo. Dunque, il rapporto tra il ceto politico e la burocrazia diventava centrale sia rispetto all’efficienza e alla modernizzazione delle strutture pubbliche sia rispetto all’esercizio del potere reale nella società. La nuova relazione tra ministerialismo e politica istaurò una nuova fase: il buon governo − secondo Giuseppe Giarrizzo − diventa la parola d’ordine di una “nuova” burocrazia, che oppone governo e classe politica alla società civile, e si appresta a congedarsi culturalmente dallo stanco regime liberale. E gran parte di questa “nuova” burocrazia proviene dalla provincia meridionale e dalle strutture culturali del Mezzogiorno.15

Il nuovo meridionalismo di matrice nittiana ebbe una singolare caratteristica. I più lucidi esponenti di questa nuova élite burocratica erano statalisti, e cioè convinti assertori di una motivata e incisiva azione dirigistica dello Stato nell’economia16, specificatamente nel campo delle bonifiche e del credito quali leve dello sviluppo. Né erano esenti dal criticare la gestione dello Stato quale si era avuta17 e dal denunciare la miopia di un 15 Giuseppe Giarrizzo, Mezzogiorno senza meridionalismo: la Sicilia, lo sviluppo, il potere, Marsilio, Venezia 1992, p. 105. 16 Guido Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), il Mulino, Bologna 1996. 17 Nitti credeva indispensabile l’intervento dello Stato come mezzo per ridurre la piaga della povertà e dell’arretratezza. La polemica era rivolta contro Sonnino, il quale invece pensava che il Mezzogiorno era un luogo naturalmente ricco e che solo per colpa dei governanti non era riuscito a risolvere i problemi dell’arretratezza. Cfr. Francesco S. Nitti, Scritti politici di Francesco S. Nitti, a cura di Rolando Nieri e Romano P. Coppini, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 146-7.

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certo liberalismo di matrice sonniniana18. Per Nitti, in una matura visione post-risorgimentale di edificazione statale, non era proponibile lasciare che le sole forze economiche regolassero la costruzione del mercato nazionale. Attraverso queste analisi ci si orientava alle correnti politico-culturali solo nominalmente contraddittorie come quella statalista della “destra storica”, del radicalismo democratico-liberale e, persino, del socialriformismo19. Il merito del “nittismo”, così come è stato definito dagli storici questo incrocio di differenti estrazioni politiche, fu di rimodellare l’azione di governo non più sul piano parlamentare ma su quello del sapere tecnico, unificando più culture politiche e dando a esse l’opportunità di dialogare sul terreno inedito del riformismo burocratico-amministrativo. Su questa linea prendeva corpo un progetto di governo dell’economia fondato sulle capacità nazionalizzatrici di intervento per la trasformazione tecnico-ambientale delle aree meno sviluppate del Mezzogiorno. Allo stesso tempo si intendeva rifondare una nuova egemonia borghese “dei lumi”, attraverso riforme istituzionali e strutturali tecnicamente in grado di intaccare il blocco agrario-industriale legato alla sola esportazione, per sostituirlo con un nuovo e più articolato ceto produttivo sull’asse industria, manager e politica, che la guerra aveva investito di potere20. 18 Francesco Barbagallo, Il riformismo di Nitti, in Barbagallo, Francesco Saverio Nitti cit., p. 13. Come ha scritto Pinella Di Gregorio, «la confutazione del liberismo da parte di costoro non avveniva sul piano teorico, ma su quello [pratico] degli “interessi generali” della nazione; in questo senso fu la scelta di campo protezionista e statalista a costituire la premessa» dell’agire politico. Cfr. Pinella Di Gregorio, Territorio e risorse in età giolittiana, in Piero Bevilacqua e Gabriella Corona (a cura di), Ambiente e risorse nel mezzogiorno contemporaneo, Meridiana libri, Corigliano Calabro 2000, p. 76. 19 Salvatore Lupo, Storia del mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, in «Meridiana», 32, 1998, pp. 25-35. 20 Carlo G. Lacaita, Angelo Ventura, Luca Zan e K. Hoskin (a cura di), Management, tecnocrazia, territorio e bonifiche, Cleup, Padova 1999.

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In questo modo si intendeva sposare una filosofia politica che tendeva alla “mobilitazione” di risorse di tipo “permanente”, per raggiungere nel più breve tempo possibile la crescita più ampia dell’apparato produttivo21. Il riferimento istituzionale restava lo Stato liberale, ma le funzioni e i rapporti di quest’ultimo furono notevolmente dilatati. Una politica di alti salari unita ai progetti tecnico-esecutivi di carattere pubblico e alla riforma tributaria22 erano i cardini della nuova democrazia, contro l’egoismo della rendita parassitaria delle classi possidenti e il corporativismo più schiettamente politico-sindacalista23, per salvaguardare, viceversa, i ceti medio-bassi dai meccanismi distorti e distruttivi dello sviluppo24. Una serie di riforme in profondità avrebbe dovuto svecchiare la struttura produttiva, rivitalizzare le regioni meridionali, superando il dualismo economico. Ciò costituì il nucleo di un progetto di governo che si rivolse alle forze politiche della borghesia e dell’associazionismo contadinista25. Un modello di sviluppo pilotato da enti pubblici economico-finanziari che sarebbe rimasto patrimonio culturale fino alla metà del Novecento. 1.2 Acque e terre da bonificare Un processo di modernizzazione così concepito avrebbe investito le componenti fondamentali del capitalismo e la possibilità per esso di essere volto ai fini “sociali”26. 21 Franco Catalano, Nitti e la questione meridionale, in «Quaderni di meridione, cultura e storia», 1, Gennaio-Marzo, Palermo 1958, pp. 198-202. 22 Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica d’Italia. 1861-1990, il Mulino, Bologna 2003. 23 Catalano, Nitti e la questione meridionale cit., pp. 192-198 24 Barbagallo, Francesco S. Nitti cit. 25 Ibid. 26 Nitti, Scritti politici cit., p. 11.

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Non era altro che il risultato di una proficua elaborazione dei principi di una “democrazia consociativa” e “produttivistica” elaborati in forme teoriche nel corso del primo decennio del Novecento e “riadattati” alle condizioni del momento bellico27. Ad esigere un nuovo intervento pubblico a favore degli interessi collettivi fu la durezza dei riflessi economici maturati durante il conflitto28. La guerra – affermava Nitti già nel 1917 – è come un immensa espropriazione: tutto è di tutti. […] Noi dobbiamo studiare tutti i modi perché non si crei una popolazione assistita e ogni atto di larghezza che lo Stato compie deve essere soprattutto un atto di previdenza, e, se è possibile, un’opera di produzione.29

E anche dopo la guerra le riflessioni di Nitti si accentuarono nella direzione di una “economia associata”30 fra tutti i produttori: Noi usciamo dalla guerra con poche materie prime e con gravi debiti […]. Ora abbiamo tutti bisogno di consumare meno e di produrre più intensamente. Per quanto siano importanti i proble-

27 Ci riferiamo agli scritti di Francesco S. Nitti, Il partito radicale e la nuova democrazia industriale (del 1907), in Francesco S.Nitti, Opere. Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1966, pp. 340 ss. e Id., la conquista della forza, in Demarco, Scritti di economia e finanza cit. 28 Silvio Lanaro, Nazione e lavoro, Marsilio, Venezia 1979, pp. 270285. 29 Camera de Deputati, Discorsi parlamentari di Francesco S. Nitti. Seduta alla Camera del 19 dicembre del 1917, in Discorsi Parlamentari di Francesco S. Nitti, vol. III, XXIV legislatura, Ger, Roma 1973, p. 1004. 30 Tutto ciò era in sintonia con quanto accadeva nel resto d’Europa dove si erano diffuse le riflessioni di W. Rathenau, autore nel 1919 di un pamphlet dal titolo L’economia nuova che ebbe grande risonanza internazionale. Si veda Gino Luzzato (a cura di), Walter Rathenau, L’economia nuova, Einaudi, Torino 1976; Massimo Cacciari, Walther Rathenau e il suo ambiente. Con una antologia di scritti e discorsi politici 1919-1921, De Donato, Bari 1979.

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mi della distribuzione della ricchezza, sovrastano tutti gli altri, in quest’ora, i problemi della produzione.31

Nel 1919 alla Camera dei Deputati, egli avrebbe affermato di desiderare: se non ciò che è destinato al suo sviluppo e alla produzione; quindi non spese inutili, che non risultino da necessità e non abbiano lo scopo di trasformare ed aumentare la produzione. E impegno principale verso il Mezzogiorno consiste nell’eseguire tutte le opere idrauliche nella misura del possibile, poiché il problema dell’acqua è un problema [e] tutte le opere di bonifica che le rendano la fertilità e la capacità di produrre di più.32

S’imponevano politiche di pianificazione territoriale e, quindi, applicazioni tecniche di un capitalismo produttivo nel campo dell’agricoltura «nel centro, nel sud e nelle isole, tormentate dalla malaria, che rende[vano] impossibile la cultura intensiva, ed ostacola[vano] ogni sviluppo della produzione»33. Agli inizi del Novecento tutto questo costituiva il bagaglio di riflessioni del giovane Nitti. Sullo sfondo, la critica all’esperienza ravvicinata delle “leggi speciali” del 1904-1906 di giolittiana memoria, che vedeva coinvolto lo stesso Nitti34. Già nel 1908 il politico lucano aveva avvertito come le leggi speciali avevano sofferto di respiro corto: «si promette molto e si dà poco – diceva – si aprono competizioni di interessi, si eccitano vecchi pregiudizi, si determina nella popolazione […] l’abitudine di attendere tutto dal governo», mentre il compito di un moderno ca31 Camera dei deputati, Discorsi parlamentari di Francesco S. Nitti. Seduta alla Camera del 26 novembre del 1918, vol. III, p. 1104. 32 Francesco S. Nitti, Scritti di economia e finanza, vol. V, Saggi economici vari. Disegni di legge. Discorsi, Laterza, Bari 1969, pp. 563-569. 33 Ibid. 34 Di Gregorio, Territorio e risorse in età giolittiana cit., pp. 75-77.

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pitalismo organizzato doveva essere l’aumento della produzione e quindi promuovere «leggi di ordine generale, che provved[essero] a speciali situazioni»35. La legislazione speciale era stata nel breve tempo un utile espediente con una serie di interventi occasionali, ma non era giunta dritta al cuore del problema poiché essa si basava «su una conoscenza antiquata e non molto realistica della situazione», mentre secondo Nitti «una politica delle acque e dei boschi» sarebbe stata di gran lunga più utile di qualsiasi altra forma di attività: «combattere la malaria è problema vitale. Diminuire gli ostacoli può essere un vantaggio, ma il vantaggio più grande deve consistere nel togliere gli ostacoli alla produzione»36. In polemica con il disegno di Giolitti, Nitti si domandava retoricamente: Quali sono le riforme più utili all’Italia meridionale? Quelle che accrescono la forza acceleratrice della massa umana e riducano ogni forza ritardatrice dell’ambiente. Come ripeto, sempre tutti i problemi essenziali sono problemi di acqua: rimboschimenti, forza motrice a buon mercato, bonifiche e lotta alla malaria, tutto in definitiva dipende da un migliore sistema e utilzzazione delle acque. È in questo campo che devono essere diretti tutti gli sforzi. Combattere e vincere la malaria è più che ogni riforma del patto agrario.37

Le ricette del nittismo ruotavano attorno all’idea di un piano coordinato per il riassetto fisico del territorio38, con un sostegno all’iniziativa privata per «mettere in valore le Camera dei deputati. Discorsi parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 28 giugno 1908, vol. I, p. 252. 36 Ivi, p. 364. Attraverso lo studio sulla Basilicata Nitti avrebbe ricordato che lì la malaria a cavallo del XIX e XX secolo aveva mietuto più morti di tutta l’Italia settentrionale, in Nitti, Scritti politici di Francesco S. Nitti cit., p. 148. 37 Camera dei Deputati, Discorsi parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 15 giugno 1906, vol. I, pp. 81-82. 38 Giuseppe Are, Il pensiero di Francesco S. Nitti, fino al dibattito sulla “conquista della forza”, in «Critica storica», 2, 1972, pp. 215-91. 35

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ricchezze inoperose»39. Il problema della utilizzazione delle forze idrauliche assunse una importanza vitale: «l’energia delle acque può essere mutata in luce, in calore, in forza motrice»40. A questo scopo era indispensabile «un grande demanio dello Stato, delle acque e dei boschi; il demanio idraulico, che ci renderà liberi, almeno in gran parte, dal carbone straniero, e che ci renderà più facile lo sviluppo industriale»41. Quindi, già dall’inizio del Novecento ma ancora di più dopo la guerra, termini come sistemazione idraulica, bonifica agraria e irrigazione entravano a far parte del lessico della politica nazionale, costituendo i nuovi capisaldi di un’azione di ri-costruzione a partire dai piani di ingegneri idraulici, malariologi e agronomi. Pertanto, i molti progetti elettroirrigui42 realizzati negli anni Venti prevedevano l’eliminazione dell’ambiente paludoso, provvedendo sia al risanamento igienico, sia alla trasformazione agraria.43 Non sempre, come vedremo, i temi nittiani della produzione conciliavano con altre visioni dentro ai nascenti movimenti e partiti di massa che, viceversa, ponevano i processi di redistribuzione della ricchezza, e dunque della terra, al centro del dibattito politico. Su quest’ultimo terreno Nitti non si avventurò mai, anche perché riteneva che solo la rimozione tecnica dei fattori che ostacolavano la crescita della ricchezza nazionale fosse il principale obiettivo da perseguire. Tra l’altro, anche le esperienze dell’amministrazione borFrancesco S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale. Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria (1910), vol. IV, parte I, in Edizione Nazionale delle Opere di Francesco S. Nitti, Laterza, Bari 1968, p. 409. 40 Nitti, Scritti di economia e finanza cit., p. 12. 41 Camera dei Deputati, Discorsi parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 28 giugno 1908 cit., vol. I, p. 264. 42 Barone, Mezzogiorno e moderinazzazione cit. 43 Valerio Castronovo, La storia economica in Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, vol. 4, t. 1, Einaudi, Torino 1975, pp. 31-39. 39

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bonica44 e dei primi decenni post-unitari nel settore delle bonifiche avevano messo in luce la comprensione del reciproco condizionamento tra montagna e pianura, che già Afan de Rivera, direttore dell’amministrazione generale di ponti e strade del governo borbonico, aveva indicato nel 1825 come la fonte del secolare dissesto idrogeologico del meridione45. A causa delle piogge, sosteneva l’ingegnere alla corte del re borbonico, «ammollandosi le terre superiori, esse scoscendono come lave da cima a fondo. Vi avvengono perciò con frequenza grandi frane»46, affogando “miserevolmente” i lavoratori della terra nella “fluida melma”. Ciò rafforzava la tesi di fondo di Nitti, di spezzare il circuito dell’arretratezza formato dal nesso inscindibile che univa paludismo, malaria e persistenza dell’agricoltura estensiva47; sicché nessun risanamento igienico era permesso senza la modificazione dei vincoli ecologici e l’intensificazione colturale48. Una trasformazione fondiaria, che ripristinava al più presto l’agibilità idraulica e agraria, rappresentava l’azione qualificante dello Stato nel meridione. Il gruppo nittiano si muoveva entro questa riflessione di lungo respiro, destinata a modificare la tipologia dell’intervento straordinario. Solo puntando sulla crescita intensiva della grande azienda agraria bonificata si sarebbero create 44 Angelo Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società, istituzioni, Edizioni Dedalo, Bari 1988; pure in Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale cit., pp. 127-128. 45 Bevilacqua e Rossi-Doria, Le bonifiche in Italia dal ’700 ad oggi cit. 46 Due Sicilie: Direzione generale dei ponti e strade e delle acque e foreste e della caccia, Memoria intorno alle devastazioni prodotte dalle acque a cagion de’ disboscamenti, del direttore generale funzionante dei ponti e strade, e delle acque, foreste e caccie Carlo Alfan De Rivera, Napoli 1825; cfr con Serafino Scorfani, Sicilia.Utilizzazione del suolo,nella storia, nei redditi e nelle prospettive, Esa, Palermo 1962, p. 210. 47 Paola Corti, Malaria e società contadina nel Mezzogiorno, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, Einaudi, Torino 1984. 48 Giuseppe Barone, Il progetto elettroirriguo nittiano e la tecnocrazia riformista, in Barbagallo, Francesco S. Nitti cit., p. 196.

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le condizioni perché anche l’agricoltura più arretrata fosse travolta dal dinamismo rinnovatore49. L’azione di trasformazione del territorio50 fu così compiutamente formulata all’interno di questo alveolo di riflessioni sulle linee guida per la costruzione di un grande e complesso sistema produttivo-finanziario51. 1.3 Per un nuovo “national-building” L’obiettivo di plasmare un “governo dell’efficienza” costituiva il grande tema di questo squarcio di Novecento, esplicandosi in una serie di azioni che andavano dalla costruzione di grandi opere di pubblico interesse, bacini acquiferi, dissodamenti, centrali idroelettriche alla sistemazione di intere aree dissestate dalla guerra o trascurate dai precedenti sistemi di gestione e di cattiva pianificazione del territorio, di colline, montagne, passando infine per la messa a regime del disordine idrogeologico e la creazione dei corsi d’acqua52. Ciò richiedeva la mobilitazione nel breve tempo di risorse umane e materiali e la collaborazione tra i settori più avanzati dello Stato e dei privati, e si traduceva nell’impegno di diversi soggetti giuridici quali le società finanziarie pubbliche e private53 che, una volta ottenuti gli appalti delle opere idrauGiuseppe Are, Economia e politica nell’Italia liberale (1890-1915), il Mulino, Bologna 1974, p.180; cfr. anche Id., Il pensiero economico di Francesco S. Nitti cit. 50 Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Roma 2005, p. 128. 51 Di fondamentale importanza per lo studio delle bonifiche in Italia, Arrigo Serpieri, La bonifica nella storia e nella dottrina, Edizioni Agricole, Bologna 1991, pp. 114-321. 52 Piero Bevilacqua, La rivoluzione dell’acqua. Irrigazione e trasformazione dell’agricoltura fra Sette e Novecento, in Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea cit., vol. I. 53 Barone, Mezzogiorno e modernizzazione cit; le opere coeve degli anni Venti, Mario Viana, Le bonifiche in Italia, Laterza, Bari 1921 e 49

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liche, e anche l’autorizzazione a espropriare a basso prezzo i terreni malarici e incolti, diventavano spesso oggetto delle più disparate contese politico-elettorali54. Questa ipotesi complessiva del governo dell’economia finalizzata allo sviluppo delle aree arretrate, era la premessa per la nascita dell’Onc, uno dei primi enti creati da Alberto Benuduce per guidare gli interventi di bonifica e i programmi di trasformazione fondiaria. Dello stesso periodo era l’istituzione del Consorzio di credito per le imprese di pubblica utilità (1919), programmato e diretto sempre dallo stesso Beneduce che, assieme all’Onc, rappresentavano grandi progetti di riqualificazione industriale, entrati a far parte della riflessione economica e politica della storia nazionale. Alla base delle abilità a tradurre un nuovo processo di sviluppo entro la cornice legislativa vi era l’eccezionalità e la competenza con cui furono pianificati progetti mai approntati prima d’allora. Molti di questi progetti restarono solo sulla carta (come restarono sulla carta – lo vedremo in seguito – la maggior parte dei piani di miglioramento fondiario dell’Onc), ma resero qualitativamente rilevanti le discussioni, le ricerche idrogeologiche, geologiche e gli studi elaborati nell’ambito del ministero dell’Agricoltura e per conto di quello dei Lavori pubblici: un’inestimabile patrimonio professionale di conoscenze tecniche prodotte e di studi accademico-professionali riutilizzati negli anni successivi al secondo dopoguerra55. Un tale indirizzo di politica economica modernamente concepito, attraverso l’allargamento del mercato nazionale, poteva, se applicato senza Francesco G. de Teran, La bonifica integrale nel mezzogiorno e nelle isole, Edizioni di “politica”, Roma 1925. 54 Cfr. Giuseppe Barone, Capitale finanziario e bonifica integrale nel Mezzogiorno in «Italia contemporanea», 137, 1979, pp. 66 ss. 55 Giuseppe Giarrizzo, Partiti di massa e intellettuali nel mezzogiorno nel secondo dopoguerra, in Meridionalismo democratico e socialismo, De Donato, Bari 1979, p. 321; cfr Id., Mezzogiorno senza meridionalismo: la Sicilia, lo sviluppo, il potere, Venezia, Marsilio 1992.

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cedimenti e senza ambiguità, essere l’antidoto ai problemi della produzione agricola di quei territori dominati dal latifondo estensivo e lasciati privi di opere di bonifica56. Né si trascurarono le questioni igienico-territoriali per la pessima qualità dei servizi e delle abitazioni nelle ipertrofiche dimensioni urbano-rurali e il carattere stagionale e migratorio del lavoro nelle campagne che esponeva alla gravissima malaricità dell’ambiente. E neanche la conflittualità sociale a causa dell’eccesso di forza lavoro rispetto alla domanda. La pianificazione statale per mezzo degli enti pubblici collegata alla scienza ingegneristica-sociale fu preceduta da un processo di allocazione delle risorse finanziarie e tecniche sostenuta dal versante dell’offerta di un vasto programma di lavori pubblici basato attorno al concetto di “riparazionismo”. Tutto ciò divenne il fondamento di un’organica azione capace di coordinare piani idroelettrici, bonifiche e programmi di lavori pubblici particolareggiati nelle zone più arretrate, di procedere alle bonifiche e alla meccanizzazione dell’agricoltura e, infine, di edificare fabbricati per stabilizzare le popolazioni nelle campagne. 1.4 L’impianto originario. A seguito del conflitto bellico, le campagne italiane vissero il passaggio a una “economia di guerra”, e cioè a un tipo di organizzazione produttiva tesa a sostenere le truppe dislocate al fronte. Le conseguenze economiche furono la perdita di equilibrio nella distribuzione della ricchezza da una regione all’altra del paese, oltre che nei flussi interni campagna-città, e la crisi quasi irreversibile del sistema latifondistico estensivo, incapace di soddisfare la domanda interna. Per arginare la crisi della produzione agraria, i governi Sa56 Paolo Frascani, Politica economica e finanza pubblica in Italia nel primo dopoguerra (1918-1922), Giannini, Napoli 1975, p. 101.

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landra, Boselli e poi Orlando emanarono ben quattro decreti legislativi speciali: il Dl 30 ottobre 1915 n. 157057, il Dl 10 maggio 1917 n. 78858, il Dl 4 ottobre 1917 n. 161459 e il Dl 14 febbraio 1918 n. 14760. Principalmente furono promulgate norme eccezionali per «la coltivazione dei fondi seminativi abbandonati e non coltivati nel mezzogiorno e nelle isole» e si stabilirono «complesse disposizioni per il controllo dell’agricoltura e l’organizzazione del lavoro agricolo»61. Il ministero dell’Agricoltura fu investito di poteri eccezionali al fine di «promuovere, organizzare ed imporre coltivazioni di terre non coltivate od eccezionali trasformazioni colturali utili ai bisogni del Paese» giustificati per “altra grave necessità pubblica”62. Con la richiesta di requisizione delle terre, le classi dirigenti avvertivano il problema agricolo in connessione alle crescenti difficoltà di una guerra che si presentava più dura del previsto, e alla progressiva diminuzione dell’offerta di lavoro legata agli arruolamenti militari63. Inoltre, l’urgenza dell’autosufficienza alimentare si saldava con la polemica antica contro l’assenteismo dei proprietari terrieri64. 57 Legge sulle requisizioni di beni mobili e immobili disposte dalle autorità militari o dai prefetti per la difesa nazionale e la necessità pubblica. 58 La cosiddetta legge sui cereali. Oltre a imporre il prezzo del prodotto, lo Stato decideva quali terre dovevano essere coltivate per aumentare la produzione cerealicola. 59 Legge speciale per Sicilia e isole minori per la coltivazione delle terre. 60 Legge per il controllo dell’agricoltura e l’organizzazione del lavoro agricolo. In particolare si estesero i piani di coltivazione a quelle terre non coltivate. 61 Per una conoscenza della legislazione di guerra sono ancora valide le indicazioni di Carlo Ruini, Le vicende del latifondo siciliano, Sansoni, Firenze 1946, pp. 129-131. 62 Ibid. 63 Arrigo Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, Laterza, Roma 1930, p. 36. 64 Giuseppe Giarrizzo, Lotte e movimenti contadini dalla fine della prima guerra mondiale alle leggi fondiarie, Estratto da Annali dell’Istituto “Alcide Cervi”, 1, 1979, p. 151.

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La legislazione di guerra innescò la richiesta indiretta di una riforma agraria che ponesse al centro del dibattito il tema storico del latifondo e del suo superamento e, più in generale, di un programma pubblico redistributivo delle risorse per colmare la frattura crescente che la durezza della guerra apriva tra il mondo contadino e le ragioni di una guerra, incomprensibili alla maggioranza della popolazione. Seguì un ampio dibattito parlamentare (settembre-ottobre 1915)65 dove le maggiori forze politiche avanzarono diverse proposte di legge concepite attorno al concetto “redistributivo” della terra e, in alcuni casi, a una socializzazione della proprietà terriera nell’idea di un “collettivismo di guerra”66. La formula della “terra ai contadini” fu il prodotto maggiormente propagandato dal ceto politico. Antonio Papa, Guerra e terra, in «Studi Storici», 1, 1969, pp. 3-45. In breve, a favore di una collettivizzazione e socializzazione di tutte le terre erano i socialisti. Più estreme le posizione della pattuglia interventista dei social-riformisti a favore dei progetti di esproprio generale della terra e del sottosuolo per arginare l’emorragia dei consensi tra le masse del meridione, estranei alla guerra. Il siciliano demo-sociale Angelo Abisso proponeva l’esproprio della terra dei proprietari latifondisti a favore dei reduci e, con qualche sfumatura, i radicali ipotizzavano un piano di colonizzazione statale. Differente era la posizione dei liberali alla Ghino Valenti e Eugenio Azimonti i quali sostenevano che per uscire dalla crisi e aumentare la produzione bastava non tanto coltivare terre incolte, quanto coltivare meglio le terre già coltivate. Infine i popolari auspicavano l’incremento della piccola e media proprietà per mezzo dell’enfiteusi. Cito alcune delle principali discussioni sull’argomento: le prime posizioni socialiste in Luciana Marchetti (a cura di), La confederazione Italiana del lavoro negli atti, nei documenti, nei congressi, 1906-1926, Feltrinelli, Milano 1962, p. 219; e dopo si legga Per la pace e per il dopoguerra. Le rivendicazioni immediate del Partito Socialista, in «Avanti!», 15 maggio 1917; Altre istanze erano state avanzate in: Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislazione XXIV, tornata del 2 dicembre 1915, p. 8025 (discorsi dell’on. Edoardo Pantano, radicale); Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXIV, tornata del 2 marzo 1917, p. 12376 (proposta del deputato demo sociale Angelo Abisso); anche la destra prendeva posizione a favore di programmi di redistribuzione, cfr. Si requisiscano le terre, 65

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La disfatta militare a Caporetto rappresentò un punto di svolta militare ma anche politico. Nel momento più tragico per le sorti della patria, si palesò l’urgenza di un processo di “nazionalizzazione” delle masse per motivare le truppe sul piano ideale. L’orizzonte che si intendeva ridisegnare era quello di una nuova Italia rinata dal sacrificio del soldato, dove il dovere coercitivo della battaglia era ricompensato con la promessa di nuovi diritti. I drammatici eventi indussero ad abbandonare qualunque ipotesi redistributiva e ad accelerare l’adozione di piani d’emergenza nell’ambito di una politica economica che il governo chiamò del massimo sforzo67, di resistenza alle linee nemiche. Ciò che si ebbe dopo fu la generalizzazione delle formule rurali. “La terra ai contadini”, che era stato il leit motiv del dibattito politico nel 1915, si trasformò, nel 1917, nello slogan “la terra ai combattenti”. Si trattava dell’estremizzazione di una formula che finì per trascinare il dibattito tecnico-agrario sul terreno «della gratitudine della Nazione verso le classi dei lavoratori della terra che sosten[eva]no i maggiori oneri del [...] conflitto»68. Ben presto diventò pratica corrente negli ambienti istituzionali promettere ai combattenti la distribuzione delle terre69. in «Il Popolo d’Italia», 12 Luglio 1917; per quanto riguarda la pubblicistica liberale si vedano: Ghino Valenti, Terre incolte, in «Il Giornale d’agricoltura della domenica», 7 settembre 1919; Eugenio Azimonti, L’agricoltura nel mezzo giorno, Laterza, Bari 1919; Luigi Einaudi, Terre incolte, frumento e contadini, 28 dicembre 1919, in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V (1919-1920), Einaudi, Torino 1961, p. 548. 67 Alberto Monticone, Nitti e la grande guerra (1914-1918), Giuffrè, Milano 1961, p. 150. 68 Dora Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario in Italia, Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1970, p. 145. 69 Francesco S. Nitti, La guerra e la realtà dell’ ora presente, discorso pronunciato alla Camera dei Deputati il 20 ottobre 1917, Roma, La finanza italiana, pp. 1-32; Rosario Villari, Il sud nella storia d’Italia, Laterza, Bari 1962, p. 572.

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Persino le affermazioni del re parlavano di riconoscenza da patteggiare seriamente con la massa dei combattenti. Per questa via, l’idea di un’ampia riforma ridistributiva fu gradualmente abbandonata e, comunque, depurata dai “germi” collettivisti per essere rimodulata attraverso il filtro della ricompensa della terra da assegnare non tanto e non solo al contadino, ma genericamente agli ex reduci70. La terra doveva essere dell’ex combattente, cioè di tutti, fossero essi contadini, operai, impiegati71. Nel punto più alto della crisi bellica, in seno al governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando72, si concretizzarono le riflessioni nel provvedimento legislativo più importante e più organico: in breve tempo, dalla legislazione speciale di guerra del 22 maggio 1915 n. 66173, con il decreto n. 1970 del 10 dicembre 1917, si costituì l’Onc, ente morale avente propria personalità giuridica, al fine «di provvedere all’assistenza economica, finanziaria, tecnica e morale dei combattenti superstiti»74. Nel dicembre del 1917, per iniziativa parlamentare trasversale agli schieramenti politici fu presentato un progetto “pro militari combattenti” (i firmatari erano di diversa provenienza, come i socialisti Ettore Ciccotti, Arturo Labriola e Giuseppe Canepa, il nazionalista Luigi Federzoni, e altri) che prevedeva la concessione in utenza collettiva o individuale, entro limiti circoscritti, di terre demaniali o incolte da almeno un decennio, secondo i meriti militari combattentistici, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXIV, tornata del 20 Dicembre 1917, pp.15280-15285. Per una sintesi dei dibatti parlamentari a favore dei combattenti, cfr. Francesco L. Pullè e Giovanni di Vegliasco, Memorie del Fascio Parlamentare di Difesa Nazionale (Senato e Camera), Cappelli, Bologna 1932. 71 Senato, Atti Parlamentari, Legislatura XXIV, tornata del 1 Marzo 1918, p. 41422, relazione del sen. Francesco L. Pullè. 72 Camera dei Deputati, Discorsi Parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 19 Dicembre 1917, vol. III, p. 1005. 73 Il decreto concedeva la facoltà al Governo di emanare disposizioni aventi valore di legge richieste dalla difesa dello Stato e da urgenti e straordinari bisogni dell’economia nazionale. 74 Onc (a cura di), L’Opera nazionale combattenti cit., p. 20. 70

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Giuseppe Barone ha ricostruito le modalità e le tappe di costituzione dell’ente75 e il ruolo inedito di finanziamento pubblico tramite un altro ente, l’Ina76, che avrebbe sovvenzionato quasi 8/10 del capitale di fondazione dell’Opera, circa 350 milioni di lire. Inizialmente si trattò esclusivamente di un provvedimento urgente e straordinario, teso a tamponare e risanare la logorante condizione dell’esercito in guerra. In un discorso tenuto alla Camera il 20 ottobre del 1917, Nitti affermò il pieno diritto di cittadinanza dei soldati nell’ordinamento civile della pace77, malgrado le gravi difficoltà del Tesoro a garantire rifornimenti di materie prime e alimenti. L’ente ebbe l’iniziale compito di erogare mutui e polizze assicurative vantaggiose per gli ex-combattenti a condizione che il valore di quest’ultime fossero reinvestite nel lavoro e in opere produttive78. Tra i provvedimenti urgenti adottati a favore dei soldati vi fu anche il Dl del 30 dicembre 191779. La legislazione sociale per i reduci era urgente quanto quella sulla produzione agraria, e si inquadrava anch’essa in una cornice di legislazione speciale di guerra. Si pensava che i problemi agricoli non erano solo legati alla produzione ma anche alla indispensabile ricostruzione del tessuto sociale e del lavoro. Barone, Statalismo e riformismo cit.; Id. Mezzogiorno e modernizzazione cit., rimangono allo stato attuale punti di riferimento fondamentali. Altro riferimento e Mariani, Fascismo e città nuove cit. 76 Antonio Scialoja, L’Istituto nazionale e il progetto giolittiano in un monopolio di stato delle assicurazioni della vita, in «Quaderni storici», 18, settembre-dicembre, 1971; Alberto Jorio, Impresa di assicurazione e controllo pubblico, Giuffrè, Milano 1980. 77 Monticone, Nitti e la grande guerra cit., p. 142; Cfr. Nitti, La guerra e la realtà dell’ora presente cit. 78 Opera nazionale combattenti (a cura di), L’Opera nazionale combattenti cit., p. 20. 79 Con quest’ultimo decreto l’assegnazione delle polizze venne estesa anche a tutti i reparti non propriamente combattenti in ivi, pp. 19 ss. 75

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Il semplice ritorno alle abitazioni per migliaia di combattenti poteva essere fonte di gravi disordini. Era necessario ammortizzare il più possibile i rischi legati al malessere e all’insoddisfazione, dalle conseguenze imprevedibili. D’altronde, l’alta disoccupazione dei reduci a confronto degli altri paesi avrebbe confermato indici di livello molto diffusi di povertà. Il governo tentò di prevenire ogni focolaio di conflitto con la creazione di un istituto nazionale che si curasse della sorte dei combattenti al fronte con una polizza assicurativa sulla vita e che fornisse loro adeguata assistenza a guerra finita. Fu lo stesso Nitti, con un pizzico di orgoglio, a esporre alla fine del 1917 alla Camera i nuovi provvedimenti noi abbiamo voluto disporre che, cessata la guerra, e dopo tre mesi dalla data di smobilitazione, gli assicurati avranno facoltà di chiedere l’anticipata liquidazione della polizza di assicurazione mista per un capitale di lire mille, a condizione che il valore di essa sia investito in strumenti di produzione e di lavoro e che siano prestate le opportune garanzie. A questo scopo e per provvedere all’assistenza economica, finanziaria, tecnica e morale dei combattenti superstiti è istituita un’Opera Nazionale, ente morale avente propria personalità giuridica. Dando ai lavoratori che han partecipato alla guerra il primo fondo per acquistare i mezzi di cui han bisogno nella lotta economica, noi crediamo anche di preparare le nuove vaste forme di cooperazione che la vita economica richiederà.80

Qualche mese più tardi il ministro spostò l’attenzione pure verso quei ceti fino ad allora esclusi dai benefici: Io amo i nostri contadini e so le loro sofferenze; ma so anche che vi sono nella borghesia molti giovani avvocati, ingegneri, impiegati privati, ragionieri, modesta gente, che ha sacrificato tutto quello che aveva: avviamento, studio, preparazione; so come le loro sofferenze sono atroci.81 80 Camera dei Deputati, Discorsi Parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 19 Dicembre 1917, vol. III, p. 1005. 81 Altri interventi del governo sulle pensioni di guerra e i sussidi alle fa-

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Il Governo non se la sentiva di usare due pesi e due misure. Anche i ceti urbani costituivano la gran massa dei reduci da riconvertire al lavoro, ma mentre «il contadino tornerà e troverà la sua terra o potrà vendere il suo lavoro, i figlioli della piccola borghesia non troveranno nulla e forse non potranno nei primi tempi vendere nemmeno il loro lavoro»82. Con vivi applausi del Parlamento fu approvato il Dl 7 marzo 191883 per permettere ai ceti urbani in congedo di ricominciare le loro attività professionali e commerciali84. Successivamente, i provvedimenti si estesero, con il decreto del 15 gennaio 1919, agli orfani e ai genitori dei militari morti in guerra e ai mutilati e invalidi prima del 1 gennaio 1918 e, con i Dl del 7 giugno 1920 e del 22 gennaio 1922, a tutti i combattenti in servizio dal 24 maggio 1915 al 31 marzo 191785. I dispositivi legislativi del ministero del Tesoro facevano dell’Italia il solo paese belligerante ad assumere obblighi e a elargire massicci sussidi alle famiglie dei soldati86. Da questo punto di vista, l’avere subordinato l’anticipata liquidazione delle polizze all’acquisto di strumenti professionali per favorire il reinserimento dei reduci nel mercato del lavoro, denotava l’impianto produttivistico che fin dall’inizio reggeva la legislazione sociale87. miglie dei richiamati, Camera dei Deputati, Discorsi Parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 23 Febbraio 1918, vol. III, p. 1019. 82 Ibid. 83 Il decreto estendeva i benefici dell’assicurazione a tutti gli ufficiali, con polizze aumentate di L.1500 e L.5000 e con il vantaggio di chiedere prestiti fino ad una somma di L.5000 ad un tasso di interesse del 5% e col vincolo della polizza. 84 Opera nazionale combattenti, L’Opera nazionale combattenti nel X annuale della vittoria cit., p. 21. 85 Ibid. 86 Le spese alle famiglie dei richiamati arrivarono a 1130 milioni nel 1917-1918, Camera dei Deputati, Discorsi Parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 1maggio 1918, vol. III, p. 1049. 87 Barone, Statalismo e riformismo cit., p. 208.

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1.5 A metà strada: tra legislazione sociale e riforma agraria L’assistenza ai combattenti era considerata non il fine, ma il mezzo «per creare le condizioni necessarie per la restaurazione economica»88. Nella seduta del 26 novembre del 1918, Nitti, ministro del Tesoro, dichiarava alla Camera gli scopi a breve e lungo termine dell’ente: L’Onc deve essere un organismo agile, la cui azione deve svolgersi senza impaccio di pesanti meccanismi. Essa si propone soprattutto di aiutare l’acquisto delle terre da parte dei contadini, di fornire loro i mezzi di produzione, e di dare agli operai la possibilità di crere o di sviluppare istituti di cooperazione.89

In questo senso, gli oneri assunti dal governo potevano essere sostenuti a patto che, parallelamente, si sviluppassero tutte le forme di produzione possibili, soprattutto nei fondi sperduti delle lande asciutte del mezzogiorno. Se in principio l’ente offrì la garanzia di un’assicurazione sociale minima al soldato, in seguito avrebbe dovuto occuparsi della concessione della terra ai combattenti. In altre parole, si delineava già un processo di redistribuzione delle terre attraverso il lavoro disciplinato dei reduci, incrementando in tal modo la legittima attesa di molti contadini. D’altronde, la formula “la terra a chi si sacrifica” era stata diffusa dalle forze politiche favorevoli a una nuova “etica della guerra”90. La rappresentazione retorica più efficace fu Camera dei Deputati, Discorsi Parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 23 Febbraio 1918, p. 1020. 89 Camera dei Deputati, Discorsi Parlamentari di Francesco S. Nitti, seduta alla Camera del 26 novembre 1918, pp. 1103-1104. 90 In particolare, per la destra interventista il potere spettava ai combattenti e non ai notabili del parlamento, e tanto meno a quanti tra loro erano stati neutrali. A sinistra invece, l’interventismo “democratico” rispolverava i miti mazziniani della volontà della nazione, e del popolo che ha la necessità di essere trascinato verso nobili traguardi. Cfr. Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2005, pp. 50-52. 88

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la polemica sulle due Italie, l’una combattente, e l’altra parassitaria, che ostacolava la coesione e l’interesse nazionale a favore di quello individuale dedito a indebolire le forze più vitali che si erano sacrificate per la patria. Raffigurazione destinata a dividere in due la società. Da un lato il milite-contadino superiore a qualunque altro cittadino, un “quinto stato”91, come si definivano gli stessi combattenti, formato da uomini in divisa, il prototipo di una nuova umanità fondata sul sacrificio nel nome degli interessi collettivi; dall’altro, invece, il predominio degli interessi personali, degli “imboscati” e dei “borghesi” arricchitisi a scapito della nazione. L’arsenale declamatorio delle promesse insite nel messaggio stesso del risarcimento al combattente per mezzo della terra era passato attraverso la seduzione di nuovi valori, come la “trincerocrazia” e la “purificazione nazionale”, invocati a viva voce nel Parlamento e nelle piazze92. Del resto, il governo aveva chiesto a milioni di contadini di rischiare, in totale sacrificio, la loro vita per la vittoria della patria, e nessuno di loro avrebbe mai accettato la sua inerzia. L’intera classe politica dirigente s’era messa al muro da sé ed era costretta a fare di tutto per attenuare le profonde disuguaglianze sociali. Ad ogni combattente sembrò già di avere in tasca una cambiale da riscattare93. La domanda di una qualche riforma agraria fu parzialmente soddisfatta. L’istituzione dell’Onc costituì una valvola di sfogo per soddisfare nell’immediato la promessa di terra e un valido collegamento per regolamentarne l’accesso in tempi brevi. La mediazione governativa cercata da Nitti offrì una sponda istituzionale e tecnicista, non solo alla questione Cfr. Giovanni Sabbatucci, La stampa del combattentismo (1918-1925), Cappelli, Bologna 1980. 92 Cfr. l’originale contributo di Mario Isnenghi sull’uso politico degli spazi pubblici, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, il Mulino, Bologna 2004. 93 Maffeo Pantaleoni, La fine provvisoria di un’epopea, Laterza, Bari 1919. 91

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della propaganda “riparazionista”, ma anche all’esigenza del governo di trovare soluzioni al vecchio dibattito sul tema della redistribuzione delle terre e della produzione agraria. Il risultato fu una soluzione ibrida, imposta dall’alto, ma soprattutto il frutto di un compromesso forzato, a metà strada tra una riforma agraria e una legislazione sociale. In questo senso, fu accentuata, in un’ottica interclassista e produttivista, la distinzione tra combattente e non combattente, indipendentemente dalle profonde disuguaglianze tra chi possedeva la terra e chi, invece, non l’aveva mai posseduta. Nitti non aveva mai accennato all’eventualità di una riforma agraria, anzi guardò sempre con sospetto e spirito di contrarietà alle proposte di una distribuzione della terra94 voluta dai partiti (popolari, socialisti, radicali, etc.) e mostrava segni di sofferenza verso i proclami di occupazione delle terre considerate mal coltivate. Per lui, semmai, predominavano i problemi della produzione su quelli della distribuzione, poiché i programmi redistributivi individuali inficiavano il grande sforzo collettivo di riconvertire l’economia. Il singolo coltivatore era spesso privo di aiuti e incapace di trarre dalla terra, di pochi ettari, la maggiore resa produttiva. Ecco perché era necessaria l’istituzione di un ente che avesse tra le priorità i mezzi di sostegno ai programmi collettivi di bonifica e di trasformazione fondiaria. Da quest’ultimo punto di vista è significativo che, malgrado l’ente avesse avuto origine dalla legislazione di guerra, i suoi ideatori ne avevano già prefigurato un’azione di più lungo respiro, con l’applicazione nei diversi campi economici, non solo quello dell’assistenza sociale. Un ente capace di operare sul versante del sostegno all’impiego del lavoro con il supporto del credito alle cooperative e quello tecnico-agrario per i grandi programmi di bonifica. 94

p. 36.

Gabriele De Rosa, Il partito popolare italiano, Laterza, Bari 1974,

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1.6 Da “assistenza” a “sviluppo” L’equivoco maggiore che si poteva formare nella coscienza pubblica sulle finalità dell’ente, consisteva nell’attribuire all’Opera «il carattere di un’organizzazione filantropica, di un istituto pio, con finalità limitate al soccorso individuale e temporaneo degli infortunati di guerra»95. In altre parole, una corporazione tesa a garantire privilegi ai soli combattenti. Il rischio che fin dall’inizio potesse prefigurarsi come un ente assistenzialista fu grande, poiché era in tal modo percepito dagli stessi combattenti e, in genere, da tutta l’opinione pubblica nazionale. L’impegno di Alberto Beneduce fu di conciliare un’ideologia proveniente dal substrato patriottico-democratico con un’azione di riforme sociali ad ampio raggio, rivolte a inquadrare l’esercito di smobilitati in un nuovo “esercito civile”, riabilitato nella pratica del lavoro e inquadrato nella riorganizzazione dell’economia su basi funzionali. I criteri manageriali e l’impostazione produttivistica di Beneduce miravano a superare la logica degli interventi straordinari della legislazione di guerra e a introdurre le misure necessarie alla mobilitazione di risorse per la pianificazione del lavoro di ex reduci. I provvedimenti di assistenza ai combattenti erano una tappa transitoria per supportare un vasto programma di assorbimento della manodopera su larga scala e scongiurare che i soldati rientrati al fronte andassero a cercare lavoro all’estero, aiutando nazioni altrettanto bisognose di forza lavoro: La nostra vera ricchezza è nella energia di lavoro del nostro popolo – affermava Nitti nel 1918. Noi speriamo di conservare in Italia, con un vasto programma di lavoro e di opere, la più gran parte dei nostri lavoratori […] ogni emrigrante è una forza perduta per il nostro paese e come una ricchezza acquisita per dagli altri. La 95

p. 46.

L’Opera nazionale combattenti nel X annuale della vittoria cit.,

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guerra ha distrutto immensi territori, ha ridotto regioni ricche in deserti, vi sono immense opere da compiere.96

Un anno dopo il decreto luogotenziale del 1917, il ministero del Tesoro, su volontà di Nitti, convocò una commissione di quindici esperti per elaborare lo schema di statuto, precisando compiti e funzioni dell’ente. Negli incontri fu sottolineato il compito di “rinnovamento civile”, e anche raccomandato di evitare la palude dell’assistenzialismo clientelare e di rafforzare la completa autonomia gestionale in modo da «avere libertà d’azione, agilità di movimenti, varietà di atteggiamenti in corrispondenza della varietà delle situazioni e dei compiti ad essa assegnati»97. Le riunioni della Commissione si intensificarono per tutto il mese di novembre del 1918. L’Opera doveva essere una struttura solida, un corpo immune alle infezioni delle pratiche assembleari, disincagliata dalla legittimità parlamentare che, secondo la commissione, era la causa di lentezze e ostacoli a qualsiasi decisione. L’approvazione definitiva slittò al 16 gennaio 1919 quando con il Dl n. 1970 fu sancito il primo regolamento legislativo dell’Onc, un passo decisivo verso il graduale passaggio dell’ente da mera istituzione assistenziale a ente economico. La novità più rilevante fu l’abbandono dei tradizionali schemi giuridici sostituiti da inediti strumenti normativi che prevedevano, in primis, la deroga a qualsiasi disposizione vigente in materia di esproprio. Non si trattò, pertanto, di un semplice statuto che regolava gli scopi, i fini e i mezzi di associazioni o di istituti entro i limiti stabiliti da norme di diritto pubblico, ma di un progetto di legge vero e proprio regolato da norme speciali. Il regolamento legislativo attribuì all’Onc personalità 96 Discorso che Nitti pronunciò nel 1918 e che più volte ribadì, Camera dei Deputati, Discorsi parlamentari di Francesco S. Nitti. Seduta alla Camera del 26 novembre 1918, p. 1104. 97 Acs, CN, b. 94, f. 398c, Manoscritto di Beneduce rivolto a Nitti il 28 ottobre 1918; anche in Barone, Statalismo e riformismo cit., p. 212.

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giuridica di diritto pubblico a gestione autonoma, affidandone la gestione a un Consiglio d’amministrazione di nove membri98, nominati dal ministro del Tesoro e delegandone il controllo per conto dello Stato a un Collegio di tre Sindaci, scelti sempre dal ministro del Tesoro. Le funzioni furono ripartite in tre distinte branche di attività fra loro interdipendenti: l’azione sociale, rivolta all’assistenza dei reduci; l’azione finanziaria, per il supporto creditizio; l’azione agraria, per costituire un vasto patrimonio terriero. Quest’ultima diventò l’attività prevalente, fino ad assorbire le altre due funzioni. Nell’estate del 1919 Nitti fu nominato capo del Governo, succedendo al dimissionario Orlando. A luglio si recò in Parlamento a illustrare in un lungo discorso il suo programma “tracciato dalla necessità”, in cui richiamava il ruolo attivo dello Stato, attraverso l’istituzione dell’Onc, come la formula adatta a ridare gli strumenti e le capacità di lavoro: Il Consiglio d’Amministrazione fu istituito con R.D. del 13 Marzo 1919 ed era costituito da Beneduce, consigliere delegato, da Nicola Miraglia, già direttore del Banco di Napoli, presidente dell’Onc e da Antonio Sansone, Direttore Generale. In qualità di consiglieri, l’Ispettore generale al Tesoro, Galileo Crivellari e il Direttore Generale delle Bonifiche, Adolfo Ramasso. Altri posti di consiglieri furono riservati a due esponenti del mondo industriale. Gli unici membri col pedigree politico, furono Dante Dall’Ara, già Presidente dell’Associazione Nazionale dei Mutilati e Invalidi di Guerra ed esponente settentrionale dell’ala moderata dell’Anc, e Nullo Baldini, leader del cooperativismo ravennate e del Partito Socialista e che presto dovette dimettersi a causa dell’ostracismo della Federterra nei confronti dell’Onc, Barone, Statalismo e riformismo cit., p. 216. Per un contributo generale circa la formazione della nuova burocrazia del dopoguerra, Carlo Desideri, L’amministrazione dell’agricoltura (1910-1980), Ed. Officina, Roma 1981, pp. 43-88. Sulle diffidenze della Federterra, Federazione nazionale lavoratori della terra, L’opera nazionale procombattenti, il suo statuto, il suo spirito, i suoi fini (Bologna 1919), ora in Renato Zangheri (a cura di), Lotte agrarie in Italia La federazione nazionale dei lavoratori della terra 1901-1926, Feltrinelli, Milano 1960, pp. 333-343. 98

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L’Italia è il solo paese in Europa che abbia adottato provvedimenti a favore dei combattenti, inspirati a sentimenti di gratitudine e di dovere sociale. L’Opera nazionale combattenti, deve essere oggi uno degli strumenti di progresso dell’economia nazionale. Lo Stato ha delegato a quell’Istituto di carattere sociale, sorto dalla guerra, unico in Europa, o unico di tanta grandiosità, funzioni e attribuzioni sue proprie, affinché meglio possano essere esplicate, per rialliniare rapidamente al lavoro le giovani generazioni che hanno difeso la patria e per ricondurre all’assestamento le economie delle famiglie dei combattenti. Il carattere sociale, di interesse generale, di questa istituzione, deve essere rigidamente tutelato dal Governo.99

Le parole dello statista lucano sottolineavano la responsabilità di natura economica dell’Opera. Anzi, aver dato un valore sociale alla sua azione economica significava voler affermare un nuovo principio di responsabilità pubblica, che oltrepassava i canonici confini del diritto pubblico. Come recitava l’art. 1, l’Onc doveva assicurare «le condizioni tecniche economiche e civili che consent[issero] la maggiore produttività delle forze lavoro della Nazione»100 nell’«unico paese della terra che ha fatto la sua rinnovazione economica e la sua trasformazione tecnica, senza possedere le materie prime più indispensabili»101. Per lungo tempo gli ostacoli ecologici avevano reso antieconomiche le trasformazioni fondiarie. In questo modo, i proprietari erano riusciti a mantenere un bilancio di costi/benefici a loro vantaggio, fondato sui contratti individuali e sugli esigui investimenti di risorse. In alternativa a tale sistema, l’Onc introdusse il concetto giuridico, innovativo per quel tempo, della funzione sociale Comunicazione del governo fatta alla Camera dei Deputati, seduta del 9Luglio 1919, ora in Discorsi Parlamentari di Francesco S.Nitti, vol. III, XXIV legislatura, pp. 1216-1217. 100 L’Opera nazionale combattenti. Nel X anniversario della vittoria cit., p.23. 101 Comunicazione del governo fatta alla Camera dei Deputati, seduta del 9 Luglio 1919, ora in Discorsi Parlamentari di Francesco S. Nitti cit., p. 1217. 99

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della proprietà e del conseguente potere da parte dello Stato di restringere, e talvolta di abolire, il diritto alla proprietà individuale. La nuova procedura di esproprio costituì l’aspetto più dirompente dell’azione giuridico-sociale. Il momento storico nel quale fu attribuito all’Opera l’eccezionale potere di interferire nel campo della proprietà privata va contestualizzato. Il nuovo concetto del “supremo interesse sociale” trovava nei principi del diritto pubblico allora vigente la sua piena giustificazione. Principio giuridico fondamentale rimaneva quello sancito dallo Statuto albertino, dove era operante una norma limitativa del diritto di proprietà inteso in senso assoluto. Questo diritto era affermato nella premessa generica di un articolo che ne sanciva l’assoluta inviolabilità, salvo poi restringerlo in una successiva regolamentazione, quando l’interesse pubblico, legalmente accertato, avesse dimostrato l’esigenza della restrizione. Nel caso specifico, le autorità amministrative erano autorizzate a disporre della proprietà privata per gravi e urgenti necessità pubbliche: «tutte le proprietà, sono inviolabili. Tuttavia, quando l’interesse pubblico legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi»102. Così il concetto di espropriazione della proprietà privata nella forma consacrata con la legge del 1865 ne ammetteva, il più delle volte, una pura applicazione di principio, poiché aveva il carattere di un fatto eccezionale e straordinario, cioè di un’opera di particolare interesse pubblico che occorreva realizzare: una strada, un canale, una infrastruttura militare, etc. Al contrario, la nuova regolamentazione degli espropri si dissociava dallo Statuto albertino. Il concetto e la causa di “utilità pubblica” si trasformava in un elemento caratterizzante, quasi congenito, dell’organizzazione della proprietà: 102

Art. 29, legge 25 Giugno 1865, n. 2359.

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lo Stato, tutore degli interessi della nazione assumeva la direzione delle espropriazioni per i possidenti inadempienti agli obblighi di bonifica e, più in generale, esautorava i ceti proprietari dai processi decisionali, sottolineando «da un lato il volto accentratore dell’ente e dall’altro il ruolo passivo e parassitario dei proprietari»103. L’Opera poteva richiedere l’espropriazione delle terre dei privati sia di enti pubblici, soggetti a obblighi di bonifica, oppure soltanto suscettibili di importanti trasformazioni fondiarie e insufficientemente coltivati o anche validi per la costruzione di borgate rurali o di centri di colonizzazione104. La causa di utilità pubblica si estendeva ai fini più ampi, come la bonifica, la trasformazione fondiaria, la colonizzazione, l’incremento della piccola e media proprietà e a quelli di natura sociale come l’elevazione economica e morale della massa degli smobilitati, con una innovazione profonda negli ordinamenti giudici della proprietà privata. Una logica profondamente nuova, in quanto − affermava la relazione ministeriale sui provvedimenti legislativi del dopoguerra per l’intensificazione delle colture e la concessione delle terre − a cambiare non è il concetto informatore dell’indirizzo legislativo, ma la forma dei bisogni collettivi e, con essa, la concezione della utilità pubblica. Non è variata, pertanto, la natura essenziale della funzione esercitata dalla suprema potestà statale, ma l’aspetto di essa, e propriamente i limiti entro i quali, per il conseguimento delle finalità contingenti, deve esplicarsi.105

103 Salvatore Lupo, I proprietari terrieri nel mezzogiorno, in Piero Bevilacqua (a cura di), Storia dell’Agricoltura in Italia in età contemporanea, vol. II, Uomini e classi, Marsilio, Venezia 1990. 104 La più completa formulazione è data dall’art. 14 del III regolamento legislativo dell’Onc del 1926. 105 Raccolta delle disposizioni legislative per l’intensificazione delle colture e per la concessione di terre ad enti e associazioni agrarie, tip. delle Mantellate, Roma 1920.

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Dunque, se il principio dell’utilità pubblica era tutt’altro che nuovo nella legislazione albertina, era la sua evoluzione legislativa a mostrare una tendenza a estendere il sacrificio del diritto del singolo a favore della collettività. L’idea della valorizzazione del suolo sarebbe stata ripresa con un investimento e un controllo più massiccio dello Stato e con motivazioni e finalità che si misuravano con la pretesa di soddisfare le istanze economico-sociali, e non solo attraverso considerazioni igieniche106. Tuttavia, l’azione espropriatrice sottostava a una pur minima limitazione, quella della possibilità e della garanzia dell’esecuzione delle grandi trasformazioni colturali. La lotta alla proprietà assenteista, oltre a sancire i nuovi diritti collettivi, doveva conformarsi ai doveri di miglioramento delle condizioni sociali ed economiche del Paese. Se non esisteva la possibilità e la garanzia dell’esecuzione delle grandi trasformazioni colturali, l’esproprio doveva essere negato. In ogni caso il proprietario al quale venivano tolti i fondi in suo possesso aveva il diritto di riscattarli, una volta trasformati107. L’Opera ebbe l’indiscusso merito di cercare di far retrocedere il conservatorismo dei proprietari. Con il Rd 22 agosto n. 1612 del 1919, fu istituito il Collegio centrale arbitrale108, un organo di “alta magistratura eccezionale”. 106 Nel 1910, in concomitanza con la lotta antimalarica, era stato sancito il principio che il risanamento dei terreni acquitrinosi doveva essere seguito da una bonifica agraria controllata dallo Stato. Giovanni Haussmann, Il suolo d’Italia nella storia, in Storia d’Italia, vol. 1, Einaudi, Torino 1972, soprattutto pp. 102-117. 107 Si trattava dell’art.18, che prevedeva la possibilità del riscatto delle terre da parte dei proprietari dei fondi precedentemente espropriati e poi bonificati dall’Opera. 108 Istituito a norma degli artt. 16 e 19 del già citato Decreto Luogotenenziale 16 Gennaio 1919, n. 55, in Onc, I collegi arbitrali dell’Opera nel quindicennio 1919-193, “Organizzazione, competenza e funzionamento dei Collegi Arbitrali”, Roma 1934, p. 13.

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Si trattava di un ordinamento giuridico speciale col compito di pronunciarsi in merito alle richieste di trasferimento all’Onc di beni privati o pubblici. Essa aveva sede a Roma, presso la Corte d’appello, e operava per vigilare la rapidità, la semplicità e la perentorietà del procedimento: il Consiglio d’amministrazione dell’Opera chiedeva il trasferimento dei fondi; seguiva la decisione del Collegio centrale arbitrale, che pubblicava la sentenza inappellabile sulla Gazzetta ufficiale, e successivamente sull’Albo pretorio dei Comuni; dopodiché si emanava il trasferimento immediato e la conseguente liquidazione dell’indennità. In tal modo s’intesero superare quei congegni amministrativi che protraevano per anni le procedure di esproprio. Non meno importante, sotto il profilo giuridico, fu la radicale riforma dell’istituto dell’indennizzo. L’art. 17 scartava il sistema tradizionale secondo il quale l’indennità veniva commisurata al prezzo che l’immobile poteva avere in una libera contrattazione, disponendo, invece, che l’indennità andava commisurata ai redditi netti dell’immobile espropriato. Per reddito netto dell’immobile si intendeva l’utile che, all’epoca dell’attribuzione, il fondo stesso produceva a favore del proprietario (reddito domenicale), senza tener conto delle potenzialità dell’immobile a produrre un «reddito maggiore in epoca più o meno vicina o remota»109. Questo rigido meccanismo di calcolo codificato in norma serviva per bloccare i tentativi di speculazione dei privati. Quindi, alle oscillazioni del mercato dei prezzi di vendita si sostituiva un criterio di valutazione della produttività del fondo, che sortiva l’effetto di calmierare, ovvero ridurre drasticamente le indennità110. 109 Sui criteri che determinavano l’indennità di espropriazione di veda la Decisione n.12 G, 8 Dicembre 1923, Presidente Nonis, Relatore Zapparoli, Opponente Varvaro, Ex feudo Fiori (Menfi) in Onc, I collegi arbitrali dell’Opera cit., pp. 100-102, si veda infra il capitolo VI. 110 Il reddito netto si ricavava dai canoni d’affitto (calcolati generalmente nella percentuale del 5%). Il Collegio centrale si adoperava sem-

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Per facilitare l’accertamento dell’entità della liquidazione ai proprietari espropriati e integrare al meglio la funzione dei Collegi centrali, furono istituiti nel 1923, in ogni provincia, i Collegi arbitrali provinciali. Il loro compito era di decidere, in primo grado, l’entità della liquidazione dell’indennità di espropriazione, mentre su eventuali appelli di grado superiore la sentenza finale spettava solo al Collegio arbitrale centrale. Infine, il nuovo rapporto giuridico che legava l’ambìto possesso del contadino alla terra, fu regolato dall’istituto dell’utenza a miglioria rinnovabile o con diritto di riscatto. Si trattava di una speciale forma contrattuale collettiva che consentiva al contadino singolo, o alla cooperativa, il diritto di acquisto del fondo «solo dopo [aver] dato prova non tanto di sfruttare [il fondo] a proprio egoistico vantaggio, quanto di saperlo coltivare secondo le buone norme della tecnica, e in relazione ad un piano prestabilito di opere di miglioramento»111. Attraverso questa tipologia contrattuale, l’Onc intendeva sperimentare la capacità alla conduzione diretta del fondo del concessionario, mentre quest’ultimo avrebbe compiuto un vero e proprio tirocinio verso il possibile definitivo possesso (se ne aveva le forze economiche). Con questi indirizzi, l’Onc era pronta ad assumere la direzione tecnica di grandi unità produttive per gli interpre affinché i Collegi provinciali accertassero, anzitutto, l’ammontare dei canoni e anche nel caso dei fondi tenuti in amministrazione diretta, il reddito netto si calcolava in riferimento ai fondi che si trovavano nelle medesime condizioni di produttività. Inoltre, il reddito normale era calcolato all’epoca del trasferimento e non contagiato da fenomeni transitori di crisi economica o da azioni speculative. Un chiaro esempio di ricostruzione, ancorché controversa, di dati e notizie volte a stabilire con una certa precisione il reddito netto è stato descritto in Decisione n. 48 G, 7 maggio 1932, Presidente Piola Caselli, Relatore Mariangeli, Ricorrente O.N.C. Tenuta Albarese (Grosseto) in Onc, I collegi arbitrali dell’Opera cit., pp. 108-119 e soprattutto pp. 111-112. 111 L’Opera nazionale combattenti nel X annuale della vittoria cit., p. 33.

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venti di bonifica agraria e ad assolvere i compiti di una impresa finanziaria di stimolo al cooperativismo. L’attività delle cooperative di lavoro e produzione, affiancata dall’azione dell’Opera, appariva una moderna tipologia d’impresa agricola. Alla luce di queste significative novità, resta da stabilire se l’azione dell’Onc, e la preferenza per la grande azienda agraria capitalista a conduzione collettiva, arricchita di contenuti sociali, sia stata durevole e incisiva, come si cercherà di verificare, oppure se rimase solo un espediente transitorio112.

Questo giudizio è stato espresso in sede storiografica da Franca S. D’Amico, la quale ha sottolineato l’aspetto contingente e “ibrido” dell’intervento dell’Opera: D’Amico, Lo Stato e le politiche agricole cit. vol. III, p. 451. 112

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2.1 Crisi del latifondo La crisi economica investì il sistema economico isolano fondato prevalentemente sulla grande e piccola masseria latifondistica. Fu, innanzitutto, una crisi di produzione dovuta alla rarefazione della manodopera e alla scarsa meccanizzazione del lavoro agricolo, e quindi a una minore messa a coltura delle terre cerealicole. Ma anche un “lento e discontinuo processo di erosione” di un sistema economico, ovvero un fenomeno di lungo periodo che dagli interventi pubblici della prima censuazione dei beni ecclesiastici si protrasse fino alla riforma agraria del secondo dopoguerra. La crisi determinò anche una brusca accelerazione del processo di differenziazione sociale nelle campagne e l’erosione della proprietà1. I tradizionali vertici della gerarchie sociali persero ricchezze e privilegi a vantaggio di altri ceti più dinamici che dalla crisi si rafforzarono2. Si trattò di un vero e proprio processo di mélange sociale. Le cifre sui risparmi (alti salari, rimesse immigrati) prima e dopo la guerra erano state in crescente aumento3 a causa del Si confrontano i dati di due inchieste coeve: Inea, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice formatosi nel dopoguerra, Sicilia, relazione del prof. Nunzio Prestianni, Roma, 1931 e Giovanni Mulè, Studioinchiesta sul latifondo siciliano, Tip. del Senato, Roma 1929. 2 Salvatore Lupo, La “questione siciliana ad una svolta”. Il sicilianismo tra fascismo e dopoguerra, in Gastone Manacorda (a cura di), Potere e società in Sicilia nella crisi dello stato liberale, Pellicanolibri, Catania 1977, p. 168. 3 Inea, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice cit., p. 22. 1

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prezzo degli affitti dei terreni, mantenuto basso in rapporto alla svalutazione della moneta, e del successivo aumento dei prezzi dei prodotti agricoli. Infatti, l’inflazione accresceva le somme disponibili (il reddito monetario) in mano ai coltivatori e ai produttori che acquistavano la terra per trattativa diretta. Larghi strati di contadini entravano in possesso di piccoli lotti mediante i risparmi depositati presso il Banco di Sicilia e gli istituti locali di credito ad esso collegati4. Prendeva il sopravvento l’iniziativa individuale sulla scia di un’alterazione dei prezzi, che offriva a pochi l’occasione di comprare direttamente la terra e di rivenderla, entrando in un circuito speculativo di facili guadagni5. Il disagio fu grande, denunciato dai giornali nazionali e locali: «Non è giusto – scriveva il Corriere di Catania di tendenze democratiche – che alcuno abbia tratto dalla guerra un arricchimento, perché data la distruzione complessiva della ricchezza, ogni arricchimento dovuto alla guerra non può essere stato determinato che dal prelevamento di una ricchezza altrui»6. Si trattava di uno spostamento di ricchezza e – cosa che destava più allarme – da un’intera categoria a singole persone7. Tuttavia, il processo di erosione del latifondo non riguardava solo singoli risparmiatori. Al di là del diritto d’affittanza, sancito nel primo decennio del Novecento, la nuova I soli risparmi non erano sufficienti all’acquisto di un patrimonio terriero, e per questo era necessario l’intervento di prestiti e mutui presso gli istituti di credito locali. Ad essi si aggiungeva l’intervento dello Stato nell’erogazione del credito agrario che ebbe almeno fino al 1918 un incremento costante nelle somme erogate. Alcuni dei dati statistici si trovano in Giuseppe Bruccoleri, Il Banco di Sicilia, Soc. Ed. Unitas, Roma 1919, pp. 124-28. 5 Salvatore Lupo e Rosario Mangiameli, La modernizzazione difficile: blocchi corporativi e conflitto di classe in una società arretrata, in La modernizzazione difficile, De Donato, Bari 1983, pp. 217-262. 6 Le ingiustizie della guerra, in «Corriere di Catania», 16 Gennaio 1919. 7 Frascani, Politica economica e finanza pubblica cit., p. 62. 4

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parola d’ordine della “terra ai contadini” incluse nei fatti una vistosa carica eversiva contro le proprietà private. La massa di contadini si riorganizzò in varie sigle e bandiere per reclamare la terra che gli era stata promessa e che avevano visto retrocedere a vantaggio dei pascoli. Le zone latifondistiche subivano un maggiore ridimensionamento della grande proprietà. Secondo i dati dell’Inea furono quotizzati 341 fondi pari a 140 mila ettari, il 19% della superficie dei latifondi e il 5,7% della superficie agraria. E ancora, 52 mila per trattativa diretta, 45 mila per mezzo di mediatori privati, 41 mila per mezzo di cooperative8. Questa circolazione di denaro ridefinì le gerarchie sociali del latifondo. Sicuramente se ne avvantaggiarono i grandi proprietari terrieri per effetto della vendita diretta delle terre9; gli affittuari delle grandi tenute a causa dell’aumento dei prezzi e dei canoni inalterati10; i mediatori finanziari, spregiudicati possessori di pacchetti azionari, i cui redditi raggiunsero livelli spropositati. Infine, l’aumento maggiore dei prezzi agricoli influì positivamente anche sulle condizioni degli strati intermedi di contadini, che poterono accumulare margini di guadagno con la vendita dei prodotti eccedenti l’autoconsumo. Così pure le condizioni dei fittavoli capitalisti migliorarono sensibilmente. All’interno di questo processo una fetta di protagonismo se lo accreditarono i leader delle organizzazioni contadiniste: leghe e cooperative diventarono il terminale politicoelettoralistico dei partiti paesani legati al deputato locale e approfittarono della riforma dell’allargamento del corpo elettorale del 1913 per ridefinire nuove gerarchie elettoraInea, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice formatosi nel dopoguerra cit., p. 10. 9 Arrigo Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, Laterza, Bari 1930; Manlio Rossi-Doria, Scritti sul mezzogiorno, Einaudi, Torino 1982. 10 Emilio Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino 1975, p. 105. 8

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listiche. La crisi del latifondo fu innescata anche da questo processo di democratizzazione della società rurale da cui le cooperative trassero notevoli vantaggi economici. Alla sponda opposta, una marea che subiva gli effetti del processo inflazionistico: le masse rurali a contatto con il lavoro precario, i detentori di rendite di titoli e di affitti, i vecchi proprietari non coltivatori, vincolati dal blocco dei canoni, e quella massa ragguardevole di giovani coinvolti nei programmi di smobilitazione: «deposta l’uniforme, [questi] si trovano senza impiego e si vedono sorpassati da altri che non hanno combattuto e che si sono curati solo dei loro affari»11. Ceti che videro peggiorata la loro condizione soprattutto col blocco dell’emigrazione verso gli Stati Uniti12, tradizionale valvola di sfogo delle tensioni del mercato del lavoro. Una lettera scritta da alcuni contadini riuniti in una cooperativa siciliana nei mesi del conflitto rivela la drammaticità delle condizioni materiali: [Oggi] chiunque deve pagare un aumento sullo stesso genere comprato ieri, adesso se ne rivale subito sul genere che lui vende, o sulla mano d’opera che altri presta, mentre [il contadino] non si può rivalere su nessuno perché il frutto del suo lavoro […] è sproporzionalmente inferiore agli aumenti di tutti gli altri generi.13

A peggiorare il quadro, la conseguente riduzione delle rimesse a partire dai primi anni ’20, che avevano costituito delle entrate fisse nel bilancio pubblico e un peso centrale nel decollo in età giolittiana. Federico Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961, p. 32. 12 L’emigrazione si ridusse a poco meno di ¼ in conseguenza delle leggi antimigratorie del Congresso americano del 1921. Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenze, Donzelli, Roma 2001; Verso l’America. L’emigrazione italiana e gli Stati Uniti, Donzelli, Roma 2005. 13 Acs, Pcm, Gb, 1918, fascicolo 3: lettera inviata il 9 Giugno 1918 dai membri della cooperativa agricola l’“Alleanza”, al presidente del consiglio dei ministri. 11

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2.2 “Produttivismo” e riforme agrarie In Sicilia il dibattito sui problemi economico-agrari della guerra e del dopo guerra seguì quello nazionale sulla necessità dell’approvvigionamento14. La classe dirigente si trovava ad affrontare non solo «problemi di produzione, ma anche sociali»15, come la possibilità di attribuire ai reduci un pezzo dei vasti latifondi. La formula “la terra ai combattenti”, alla vigilia della fine del conflitto, andava considerata, secondo il leader del cooperativismo laico agrigentino Enrico La Loggia, non tanto dal punto di vista della intensificazione delle colture, né correlativamente ad alcuna inferiore diligenza o intraprendenza culturale delle classi abbienti, quanto come programma di elevamento delle classi lavoratrici […] ed anche come premio di benemerenze patriottiche acquistate dai contadini in rapporto alla guerra.16

L’ondata di occupazione delle terre nel settembre del 1919 fu una prima risposta alla crisi agraria e confermava l’esigenza di un profondo rinnovamento del tessuto economico17. Il decreto Visocchi18, emanato dal ministro dell’agricoltura nei primi giorni di settembre 1919, accelerò questo processo, suscitando un vivace dibattito. Le principali testate giornalistiche regionali furono critiche, con toni e accenti differenti, ad eccezione del «Corriere di Catania» che guardò con fiducia a una nuova esperienza di affittanze19. Papa, Guerra e terra cit., p. 1. Enrico La Loggia, La terra ai contadini, in «La Cooperazione Siciliana», 8, 20 agosto 1918. 16 Ibid. 17 Giuseppe C. Marino, Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini, De Donato, Bari 1976. 18 D. L 2 giugno 1919 n. 1633 per la regolamentazione delle concessione temporanea delle terre incolte o mal coltivate. 19 La questione agraria e le agitazioni dei contadini, in «Corriere di Catania», 1 ottobre 1919. 14 15

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Dalla parte occidentale dell’isola i giudizi furono differenti. Il «Giornale di Sicilia» sposò una linea filoproprietaria contro il decreto, considerandolo non «un atto che rientr[ava] in un sistema di politica agraria, ma un provvedimento affrettato dopo il chiasso delle invasioni delle terre nel Lazio»20. Secondo la testata, l’unico risultato sarebbe stato quello di «coltivare più terra ma coltivarla male, lavorare di più e produrre di meno. [...] Una verità che [sarebbe] sembrata un paradosso soltanto a chi non [voleva] darsi la pena di riflettere e di pensare»21. Il giornale, inoltre, auspicava la regolamentazione delle azioni di illegalità degli occupanti, augurandosi la ricomposizione sociale attorno alle figure dominanti del latifondo. Anche «L’Ora» contrastò il decreto ministeriale. Il quotidiano, fondato dall’industriale Ignazio Florio, rappresentava la borghesia conservatrice e, dunque, riteneva che il provvedimento avrebbe generato la credenza che le terre incolte portassero alla piena colonizzazione22. Ma il decreto non costituì l’unico tema di discussione. C’era da sciogliere il nodo della questione del latifondo e della creazione della piccola proprietà, come richiedeva il deputato demosociale agrigentino Angelo Abisso, il quale dichiarava di sostenere gli espropri delle terre in favore dei combattenti, e salutava l’Onc come «una delle più felici forme di rinnovamento sociale»23. Sul versante delle proposte legislative, si segnalavano quelle del “quadrumvirato” social-riformista radical-democratico La Loggia, Giuffrida, De Felice, Lo Piano, e del deputato cattolico siciliano Antonino Pecoraro. Terre incolte e politica agraria, in «Giornale di Sicilia», 21-22 settembre 1919. 21 Ibid. 22 Il decreto per l’occupazione delle terre, in «L’Ora», 22-23 settembre 1919. 23 L’Opera nazionale dei combattenti e l’esproprio dei latifondi, in «Giornale di Sicilia», 24-25 luglio 1918. 20

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Il disegno di legge di La Loggia, nel gennaio del 1920 sulla creazione della piccola proprietà24, era stato già presentato alla 13a sezione della Commissione per il dopoguerra, suscitando già allora critiche tra gli ambienti conservatori25. In realtà, la proposta lalloggiana era molto più articolata della semplice formula a favore della della piccola proprietà. Era un progetto a due velocità, da un lato prevedeva l’elevazione sociale dei ceti contadini e dall’altro l’intensificazione della produzione. Esso partiva dall’analisi insufficiente delle precedenti proposte avanzate dal radicale Pantano e dal social-riformista Drago. Il primo fu portavoce (1915) di un programma di rinnovamento agrario fondato su un nuovo piano di colonizzazione statale26; il secondo, invece, coordinatore di una rete associativa agrumaria nel palermitano, nell’aprile del 1917 si dichiarò a favore dei progetti di esproprio generale27. In alternativa, egli lanciò l’idea che, in un primo tempo, si doveva assegnare una piccola proprietà (da 1 a 6 ha) circumurbana (attorno ai centri urbani) per mezzo di enfiteusi coatta, non divisibile e non riscattabile, di fondi superiori a 50 ettari. In un secondo intervento, invece, per i vastissimi seminativi di oltre 300 ettari e distanti dai centri abitati, dal momento che non era conveniente l’immediato appoderamento frazionato, sarebbe stato necessario realizzare opere di miglioria (viabilità, sistemazione del terreno, colonizza24 Il disegno di legge agraria per la Sicilia, in «Giornale di Sicilia», 2829 gennaio 1920; cfr. Il disegno di legge degli on. La Loggia, De Felice, Giuffrida e Lo Piano per l’abolizione del latifondo in Sicilia, in «Corriere di Catania», 10 gennaio 1920. 25 Enrico La Loggia, Il disegno di legge agraria per la Sicilia, in «La cooperazione siciliana», 2, 20 febbraio 1920. 26 Atti Parlamentari, tornata del 2 Dicembre 1915 cit. p. 8025; cfr. con Edoardo Pantano, I problemi economici urgenti. Voti e proposte per il passaggio dalla stato di guerra allo stato di pace, Bertero, Roma 1919. 27 Il partito della sinistra interventista travolto dalla crisi del consenso alla guerra tentò di porsi alla testa delle rivendicazioni contadine.

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zione) per consentire a ogni contadino di coltivare con profitto la quota assegnatagli successivamente. Nella seduta alla Camera del 23 marzo del 192028 l’on. Pecoraro del Ppi, in accordo con Giuseppe Micheli, ministro dell’agricoltura nel luglio 1920, propose l’espropriazione e la quotizzazione dei latifondi a favore dei coltivatori diretti in lotti di 4 ettari a cominciare da quelli distanti almeno 10 km dal centro abitato e 3 km dalle stazioni ferroviarie di campagna. La via cattolico-popolare alla quotizzazione del latifondo non voleva fermarsi al solo aspetto redistributivo, ma cercò di porre l’accento ai piani di appoderamento che assicurassero l’incremento della produzione. Gli assenti illustri al dibattito furono i “socialisti ufficiali” che non non avevano un rappresentante siciliano alla Camera e i social-riformisti i quali si limitarono a presentare un generico programma di socializzazione delle miniere dello zolfo29. Unica eccezione fu l’intervento del deputato socialista siciliano eletto nel collegio di Bologna, Vincenzo Vacirca, che criticò aspramente l’intervento del suo collega popolare. Egli credeva che le piccole proprietà davano solo l’illusione del possesso della terra, viceversa era a favore di un demanio nazionale. Questa opzione era in linea con quanto sosteneva il dirigente nazionale Francesco Ciccotti che, intervistato dal «Corriere di Catania» sul latifondo siciliano, proponeva la demanializzazione, le affittanze collettive e l’intervento civilizzatrice dello Stato30, dichiarandosi, altresì, contrario al piano La Loggia sulla prima fase della redistribuzione e in sintonia sul secondo tempo d’intervento, quello relativo alla bonifica. Contro qualsiasi ipotesi socializzante si poneva nuovamente il demo-sociale e filocombattentista Angelo Abisso 28 Il problema del latifondo siciliano alla Camera, in «Corriere di Catania», 25 marzo 1920; anche su «Giornale di Sicilia», 25-26 marzo 1920. 29 La questione della proprietà nel latifondo e nelle zolfare nel dopo guerra, in «Giornale di Sicilia», 13-14 febbraio 1920. 30 Una intervista con l’on. Ciccotti sul problema del latifondo in Sicilia, in «Corriere di Catania» 21 gennaio 1920.

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che criticava sia i popolari di voler conciliare interessi contrastanti sia i lalloggiani per aver creato un falso problema con i latifondi vicini e lontani. La proposta del leader combattentista restava chiusa dentro l’opzione contadinista: la piccola proprietà come antidoto ai malesseri economico e sociali31. A sostenere la tesi sui caratteri naturali del latifondo e contro le politiche di redistribuzione erano i liberali guidati da Ghino Valenti32. Questo non credeva all’equazione latifondo = terre incolte e neanche all’esistenza delle terre incolte, e sosteneva che la maggiore produzione non era vincolata alla maggiore estensione della coltura ma a una sua intensificazione. Una tesi molto discussa, che fu utilizzata in modo strumentale anche dai ceti proprietari. Su una sponda favorevole alle alleanze tra ceti imprenditoriali, dirigenti del cooperativismo, contadini e possidenti si collocava l’opzione “produttivista” che nell’isola si coniugava nella formula sicilianista. Questa ideologia si era diffusa tra i ceti dirigenti isolani nel primo quindicennio del secolo. Il teorico era stato Filippo Lo Vetere, leader del cooperativismo social-riformista, il quale, a distanza di anni, riproponeva la vecchia formula interclassista e corporativa in nome degli interessi della Sicilia agricola33. Si trattava del più classico espediente dei ceti dominanti, gli agrari in testa, che allo scontro di classe contrapponevano l’immagine di una società governata dalla sua naturale élite fondiaria, capace di trovare la via pacifica del progresso e della modernità. Il recupero di una proposta come quella produttivistaregionalista diventava la risposta più immediata alla crisi 31 Angelo Abisso, La questione del latifondo, in «Giornale di Sicilia», 27-28 gennaio 1920. 32 Ghino Valenti, III. Critica de la terra ai contadini, in «L’Ora», 13 febbraio 1919. 33 Lupo, La questione siciliana ad una svolta cit., pp. 162 ss.; cfr. Id., Blocco agrario e crisi in Sicilia tra le due guerre, Guida, Napoli 1980.

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agraria, e ai vari disegni di legge sullo spezzettamento del latifondo. L’antica visione di una Sicilia (felix) rassicurata dai ceti agrari trovò una vasta cassa di risonanza sulla stampa34. Seguendo la falsariga produttivista era necessario mantenere l’unità produttiva del latifondo ed evitare il trasferimento delle terre (care ai popolari), l’espropriazioni (dei radicali) e la socializzazione (dei socialisti). Diversamente, «[i radical-riformisti, popolari] si sarebbero accordati allargando la piccola proprietà, arricchendo unicamente i proletari a danno dei proprietari, spogliandoli di tutti i latifondi e riducendoli a giardinieri del podere di pochi ettari e a percettori di modesti canoni enfiteutici»35. La soluzione dell’ex ideologo di casa Florio riproponeva, come ai tempi del Consorzio agrario36, la nascita dell’Associazione agraria siciliana per riunire «coattivamente proprietari e gabellotti in un unico consorzio obbligatorio granario per tutti i latifondi lontani, col solo scopo del risanamento delle vie e delle case». Tutto ciò era ammantato da un’accentuazione dei temi regionalistici: contro la grande industria del Nord che prosciugava le risorse agricole del Sud. Sempre sulla scia sicilianista-produttivista nasceva nel 1920 il Partito agrario siciliano per iniziativa di alcuni grandi agrari isolani guidati dal principe Lanza di Scalea, da Lucio Tasca di Bordonaro e dal Duca di Carcaci37. Il sicilianismo diventava lo scudo alle riforme del latifondo. Il progetto lalloggiano fu bollato come «un esperieGiuseppe Bruccoleri, Il problema del latifondo. Risveglio parlamentare?, in «Giornale di Sicilia», 25-26 marzo 1920; La questione della proprietà del latifondo e nelle zofare nel dopoguerra, in «Giornale di Sicilia», 13-14 febbraio 1920; 35 La terra ai contadini, al capitale, allo Stato. (Una soluzione mista), in «Giornale di Sicilia», 13-14 maggio, 1920 36 Giuseppe Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882-1913), in Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia. Le regione dall’Unità a oggi. La Sicilia, Einaudi, Torino 1987, pp. 300-301. 37 Il partito agrario siciliano, in «Giornale di Sicilia», 8-9 gennaio 1920. 34

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mento di bolscevismo in Sicilia»38. Da questo punto di vista fu facile per i proprietari ricattare il governo affermando che se avessero voluto investire sulle loro aziende non lo avrebbero fatto per la paura degli espropri. Le critiche degli agrari non risparmiarono neppure i popolari, colpevoli di aver appoggiato i disegni di riforma del latifondo, mentre avrebbero dovuto difendere la proprietà privata. In un articolo, il barone Antonio Li Destri protestava: noi, che conoscevamo l’odioso carattere col quale i socialisti avevano tenuto vivo il fuoco dell’agitazione schierandosi a difesa del così detto proletariato, rimaniamo impressionati dall’atteggiamento assunto alla camera da coloro che muovono i primi passi con proposte addirittura rivoluzionarie e tendenti ad una vera e propria espoliazione.39

Anche il principe Paternò Castello, sulle pagine del «Giornale dell’Isola», affermava che il latifondo non avrebbe trovato soluzione: «fino a tanto che si persisterà nel criterio semplicista di coloro i quali per incompetenza, e talvolta per ispirito demagogico, credono di trovarla in una leggina che ne ordini, sic et sempliciter, il frazionamento in piccole parti»40. E Lucio Tasca, leader degli agrari, supportava un fronte comune «nel momento in cui certe tendenze demagogiche insidia[va]no la proprietà privata»41, denunciando apertamente le leggi “socialiste” sulla bonifica e la redistribuzione delle terre. La seconda ondata di occupazione nell’autunno del 1920 esacerbò i termini del dibattito e accelerò il processo di polarizzazione politica anche all’interno degli stessi schieramenti42. E tra lo schieramento agrario non manca38 Un esperimento di bolscevismo in Sicilia, in «L’Ora», 13-14 gennaio 1920. 39 Antonio Li Destri, Pro latifondo, in «L’Ora», 14-15 gennaio 1920. 40 Giuseppe Paternò Castello, I grandi problemi siciliani, in «Il Giornale dell’Isola», 14 gennaio 1920. 41 Lucio Tasca di Bordonaro, La terra ai contadini, in «Il Mezzogiorno», 8 Febbraio 1920. 42 In seguito ai numerosi latifondi occupati in Sicilia dalle coo-

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rono le prese di posizione a difesa del latifondo43, mentre questa volta era Abisso a scagliarsi contro la rendita parassitaria, confortato dall’azione del governo deciso a imprimere una svolta nella legislazione contro il latifondo. Difatti, fu agli inizi degli anni ’20 che l’Onc fece le sue prove generali sul funzionamento delle procedure di esproprio nelle più sperdute e dissestate plaghe della Sicilia, incontrando non poche difficoltà come rivelava lo stesso deputato agrigentino: L’Opera nazionale combattenti ha iniziato il suo compito di espropriare terreni per concederli ai contadini, ma la difficoltà di creare l’organo, e poi, farlo funzionare, e gli inverosimili ostacoli con cui i proprietari gretti e politicanti indegni hanno intralciato l’azione del nuovo istituto, han fatto si che questa procedesse lentamente.44

A metà di ottobre il ministro dell’Agricoltura Micheli convocò l’intera deputazione siciliana per fronteggiare la grave situazione agraria nel suo complesso45. Nella seduta fu discussa l’opportunità di un più rapido funzionamento dell’Opera a sostegno delle iniziative delle organizzazioni dei lavoratori agricoli, a esclusione delle occupazioni di terre a coltura intensiva o già assegnate. 2.3 Un ispettorato per la Sicilia L’ispettorato dell’Opera in Sicilia, senza tenere conto della breve parentesi dell’ispettorato per l’Agro pontino perative bianche, il Ppi si divise al suo interno tra le cooperative che sostenevano le occupazioni e i vertici del partito che ne criticavano la radicalità dei mezzi, La guerra e i contadini siciliani, in «Battaglie popolari», 19 dicembre 1920; cfr. Matteo Di Figlia, Alfredo Cucco. Storia di un federale, «Quaderni Mediterranea», 5, Palermo, 2007, p. 42. 43 Invasioni di terre, in «L’Ora», 16-16 settembre 1920. 44 Angelo Abisso, La questione agraria in Sicilia, in «Giornale di Sicilia», 21-22 settembre 1920. 45 La questione agraria siciliana discussa tra i deputati dell’isola e il ministro dell’Agricoltura, in «Giornale di Sicilia», 13-14 ottobre 1920.

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creato agli inizi degli anni Trenta per pilotare il processo della bonifica integrale nel Lazio, fu il primo e unico caso di un ufficio regionale dell’Onc. Nel gennaio del 1919, a seguito delle sollecitazioni politiche del rappresentante siciliano dell’Anc al Consiglio d’amministrazione dell’Onc, Raffaele Di Martino, «un ispettore fu inviato in Sicilia dalla sede centrale di Roma»46. La presenza di un leader siciliano nel Consiglio dell’Opera garantiva il giusto collegamento con l’associazionismo cooperativistico di stampo “tricolore”. D’altro canto, l’amministratore delegato dell’Onc Antonio Sansone47 guardava con interesse alla Sicilia e alla necessità di intervenire direttamente a pilotare il processo di trasformazione dei vasti territori. Quanto alla Sicilia – si disse in occasione di una adunanza dell’Opera nel gennaio del 1919 – abbiamo moltissime domande di cooperative che chiedono la concessione di ex feudi. Ma occorre trovare un nostro fiduciario il quale possa guidare con severità di intenti e con serietà di propositi tutto il movimento in Sicilia.48

In seguito, sempre su proposta del rappresentate meridionale dell’associazione combattentistica, il Cda dell’Opera, dopo un’ampia discussione nella tornata dell’8 aprile dell’anno seguente (1920), scelse di dare un assetto stabile e organico per il funzionamento di un ispettorato per la Sicilia per l’esecuzione dei programmi di esproprio49. Il nuovo ufficio periferico fu affidato al prof. Pietro Di Stefano, oriL’agitazione agraria in Sicilia, in «Le cooperative combattenti. Organo dell’ufficio centrale cooperative combattenti in Siciliane e della Federazione cooperative combattenti della provincia di Catania», 20 gennaio 1921. 47 Di origini lucane fu un insigne agronomo e già prima del 1919 valente manager all’Istituto dei fondi rustici e poi in seno al ministero dell’Agricoltura alla direzione delle Foreste. Fu poi scelto da Nitti a dirigere l’Onc. 48 Onc, Archivio Riservato, Comitato esecutivo, adunanza del 2 Agosto 1919, in Mariani, Fascismo e città nuove cit., nota 42, p. 33. 49 L’agitazione agraria in Sicilia cit. 46

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ginario di Adrano, in provincia di Catania. Laureato alla Reale scuola superiore di agricoltura di Portici ed esperto in scienze agrarie, Di Stefano entrò subito nell’entourage ministeriale con incarichi di alta competenza e differenti responsabilità50. Studioso di tabacchi, ovini e agrumi fu nel 1904 direttore del sindacato agrario cooperativo della Lucania, poi nel 1906 fu nominato direttore della cattedra ambulante di Gallipoli e amministratore dei fondi rustici in Sardegna. Nel 1916 fu assegnato al ramo divisione dei fondi rustici per i feudi della Sicilia, mentre nel 1919 divenne direttore del consorzio per l’approvvigionamento idrico per la Basilicata. Nell’anno successivo il ministero dell’Agricoltura, in linea con la composizione nittiana del consiglio di amministrazione, intese affidargli l’incarico d’impiantare e dirigere l’ufficio agrario dell’Onc in Sicilia51. La data ufficiosa dell’incarico fu l’1 gennaio del 1920. Nell’arco di sei mesi egli svolse un’opera incessante di organizzazione degli uffici, secondo i tre rami di competenze nell’ambito dell’azione sociale, finanziaria e agraria finché fu nominato ufficialmente Ispettore generale per la Sicilia il 13 aprile del 192052. La nascita di un ispettorato collocava l’isola all’interno di un piano nazionale di ricostruzione economica dove sperimentare e gestire i processi di trasformazione agraria e del latifondo. L’azione del ramo agrario coinvolse maggiormente l’attività manageriale di Di Stefano che, fra le varie procedure di esproprio, aveva anche compiti difficili come ad esempio di prendere in locazione o in utenza fondi rustici, di concedere in fitto ai combattenti agricoltori e a società cooperative i fondi rustici presi in locazione, amministrarli, stabilire la durata delle locazioni e riscuotere gli estagli53. 50 Notizie biografiche su Pietro Di Stefano, in Saro Franco, Personaggi adraniti, Tip. Ricca, Adrano, 2002. 51 Ibid. 52 Ibid. 53 Acs, Onc, Sicilia, b. 22, f. 13.

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L’ispettorato, pur avendo un ambito di competenza territoriale regionale, trasferì l’ufficio nella città etnea. Nondimeno, nei maggiori centri dell’isola furono inviati dei fiduciari dell’Ispettore a occuparsi direttamente della gestione delle pratiche di esproprio54. Il personale fu reclutato tra tecnici, esperti, ingegneri, periti agrari, sovente appartenenti al mondo delle professioni o dell’impiego pubblico, provenienti da altri uffici come il Genio civile e i municipi, compresi gli avventizi, che spesso erano chiamati a fare delle consulenze o impieghi come operai. Nel 1923, in occasione del commissariamento dell’ente, Di Stefano fu riconfermato a capo dell’Ufficio siciliano che abbandonò solo nei tardi anni Venti a causa dei crescenti dissidi con Mussolini. Egli non approvò i nuovi indirizzi accentratori e autoritari del governo nell’azione dell’Onc sanciti con l’approvazione del terzo regolamento legislativo del 192655. Dalla fine degli anni Venti l’ufficio fu retto dal decorato Luigi Landogna. Solo dopo la caduta del regime, nel 1944, Di Stefano ritornò all’Onc come direttore generale, poi capo gabinetto del ministero Gullo, membro del Collegio arbitrale centrale e rappresentate italiano alla Fao56. L’attività innovativa dell’ispettorato in materia agraria consisteva nelle operazioni di esproprio delle terre o di acquisto di fondi incolti o bonificabili appartenenti ai privati e agli enti pubblici. Inoltre, vi erano tutte le altre forme minori di assistenza tecnica, finanziaria ed economica dirette all’incremento della produzione agraria: costituzione di colonie agricole, di cooperative e di associazioni agricole, concessioni di mutui ammortizzabili a lunga scadenza per l’attuazione delle migliorie o delle trasformazioni colturali. Infine, si age54 Intervista all’avvocato Salvatore Sapia, nipote per via materna di Pietro Di Stefano, Adrano (CT) marzo 2005. 55 Opera nazionale combattenti (a cura di), 36 anni delll’Opera nazionale per i combattenti 1919-1955 cit. 56 Franco, Personaggi adraniti cit.

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volava la creazione di crediti di esercizio o per l’acquisto di macchine, bestiame e attrezzi, valendosi degli istituti di credito locali come organi intermediari57. Prima delle riforme dei regolamenti dell’Onc del 1923 e del 1926, le procedure di esproprio seguivano un efficace protocollo. Esse erano avviate in tutta l’isola tramite l’impulso dell’ispettore al quale i fiduciari segnalavano la presenza o meno di fondi lasciati in stato di abbandono o in precaria coltivazione. Uno volta ricevuta la comunicazione, l’ispettorato accertava per mezzo dei suoi tecnici se i terreni rientravano nei casi previsti dal regolamento legislativo. I documenti per l’esproprio dovevano essere redatti e inviati all’ispettorato per la Sicilia. Essi comprendevano la documentazione relativa al fondo: copia dei contratti d’affitto o, in mancanza di essi, l’identità dell’affittuario, il contratto di gabella e l’estaglio annuo, una relazione sui proprietari e un’allegata descrizione naturale del fondo, l’atto costitutivo della cooperativa indicante il numero dei soci (distinguendo i combattenti dai non combattenti) e, infine, il piano di trasformazione che si intendeva eseguire. Se i fondi possedevano i requisiti per avviare significative trasformazioni colturali, il piano di miglioramento e di bonifica veniva inoltrato a Roma per ricevere l’approvazione del Consiglio d’amministrazione dell’Opera. L’organizzazione di una struttura periferica fu l’occasio-ne per sperimentare la legislazione che consentiva la via più rapida alle procedure di esproprio58. Secondo il parere entusiastico di un funzionario dell’ufficio di Catania, non vi erano “burocrazia”, “circolari” e “scartoffie inutili”59 Per L’opera nazionale “pro combattenti”, in «L’Ora», 17-18 gennaio 1919. 58 Guido Melis, Amministrazioni speciali e Mezzogiorno nell’esperienza dello Stato liberale, in «Studi storici», XXXIV, 2-3, 1993, pp. 463-528. 59 L’Opera nazionale per i combattenti e il problema agrario del mezzogiorno, in «Corriere di Catania», 14 luglio 1920. 57

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a ostacolare la libera esecuzione dei progetti di miglioramento fondiario. Queste procedure costituirono uno sbocco al cooperativismo di matrice combattente per incrementare la nascita della proprietà contadina sotto l’egida statale. 2.4 Il modello cooperativistico L’esistenza in Sicilia di un ufficio decentrato di un ente nazionale apre un campo di indagini storiche fino ad oggi inesplorato. Sul versante degli interventi contro il latifondo, il tema dell’azione speciale è stato un punto abbastanza dibattuto. Dalla prima legislazione per la censuazione dei beni ecclesiastici a quelli fascisti60 “dell’assalto al latifondo”, è possibile assistere a un vero e proprio “diluvio legislativo”61, fino alla più recente riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno62. In questo caso ci troviamo di fronte a un intervento pubblico incentivato e pilotato dall’alto che concepì lo sviluppo attraverso l’azione sociale della piccola proprietà contadina63 e solo per mezzo della bonifica e della trasformazione tecnica del suolo64. Nel primo dopoguerra, la Sicilia diventava la protagoniGiangastone Bolla, Il latifondo nei provvedimenti legislativi dalla costituzione del Regno d’Italia alla legge fascista del 2 gennaio 1940-XVIII, Tip. Coppini & C., Roma 1940. 61 Gino Massullo, La riforma agraria, in Bevilacqua, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea cit., vol. III, pp. 509-542, in particolare p. 513. 62 Manlio Rossi-Doria, Riforma agraria e azione meridionalista [1948], L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003. 63 Sul ruolo combinato della piccola proprietà contadina e dello Stato si veda Costanza D’Elia, Formazione della proprietà contadina e intervento statale in Italia, 1919-1975, in «La questione agraria», 23, 1986, pp.153-187. 64 Cfr. il saggio di Guido Crainz e Giacomina Nenci, Il movimento 60

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sta di una nuova azione legislativa, un laboratorio sociale ed economico in cui lo Stato, attraverso l’Opera, programmava profonde modificazioni ambientali e del regime di proprietà. Un nuovo campo di sperimentazione per periti, agronomi, direttori di cattedra ambulante, cooperatori, partiti politici, notabili, tutti interessati al grande processo di mobilitazione sociale e politica innescato dall’Onc. E di seguito, direttori di consorzi, funzionari ministeriali, responsabili di categoria impegnati a convincere le società locali che era più conveniente costruire un bacino acquifero o bonificare il latifondo che redistribuirlo in piccole quote di terra65. In una intervista a Francesco Miceli, funzionario dell’ispettorato nel 1920, si intuiscono le ragioni che determinarono la presenza diretta dell’Opera nell’isola: Per il Mezzogiorno – eminentemente se non esclusivamente agricolo – non v’era da esitare […] il nostro istituto ha diretto tutti i suoi sforzi allo sviluppo della cooperazione nel campo agricolo, integrando l’opera legislativa del governo centrale, e mirando a sfruttare le immense risorse della nostra isola. Il piano di questa vasta opera è stato suggerito sin dall’intento di ricondurre al lavoro le masse smobilitate per eliminare il fenomeno della disoccupazione gravido di pericolosi effetti politici; – sia per tradurre in atto quelle direttive di intervento nella produzione nazionale … Nelle presenti condizioni anormali e gravi per cause solo in parti contingenti è assolutamente necessario cercare di riportare alla corsa produttiva le forze lavoratrici e intraprenditrici compiendo opera di sistemazione sociale di riparazione economica con l’unico mezzo possibile: la intensificazione della produzione. Se l’industria agricola è naturale in Italia, e il Paese può solo vivere a condizione di svolgere tutta o quasi la sua attività contadino, in Bevilaqua, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea cit., vol. III, p. 653. 65 È il caso del tentativo di bonifica di un ampia zona malarica in provincia di Siracusa. Qui, il proprietario in accordo con le organizzazioni contadine vinse la “guerra” contro la società privata (Sges) pronta ad investire denaro per la trasformazione fondiaria. Rosario Mangiameli, Officine della nuova politica. Cooperative e cooperatori in Sicilia tra Otto e Novecento, Cuecm, Catania 2000, pp. 85-157.

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produttiva in questo campo – è particolare nel mezzogiorno. Epperò l’Opera bene intese che tutti i suoi sforzi in questa regione dovevano essere diretti in questo senso: tanto più che così essa contribuiva a risolvere il vecchio problema del latifondo concorrendo col dare i mezzi produttivi ai contadini ex combattenti.66

Nelle parole del funzionario catanese è rintracciabile una chiave di lettura che rimanda all’eccezionalità della condizione e che diverrà evidente con i decreti redistributivi delle terre incolte. La volontà di allargare un prototipo ideale di organizzazione produttivistica in Sicilia, ritenuta ricca di terreni idonei alle grandi trasformazioni, fu uno dei principali motivi, assieme alla non meno importante decisione di ricondurre alla legalità il conflitto politico sociale acuitosi nel biennio 1919-1920, che indusse la sede centrale dell’Onc nella direzione del decentramento territoriale. Nitti, nel ricevere i rappresentati dell’Onc appena costituitasi, aveva sottolineato l’impegno che attendeva il nuovo ente e cioè di aiutare le opere di bonifica già esistenti, fornendo i mezzi alle grandi cooperative di lavoro, e di mettere in valore soprattutto le terre del Mezzogiorno.67 I piani dell’Opera non prevedevano di spezzettare la grande proprietà e di suddividerla a contadini privi della capacità tecnica e finanziaria. Al contrario, le terre dovevano essere preliminarmente bonificate o migliorate, eliminando la figura degli affittuari, in modo da permettere ai contadini (quando e/o se erano in grado di farlo) di riscattare la terra già trasformata e pronta a rendere quella soglia produttiva capace di soddisfare le esigenze di un ampio mercato. Posto in questi termini, il programma di trasformazione dei latifondi siciliani doveva prevedere il frazionamento in grandi unità colturali a esclusione dei fondi situati nelle vicinanze 66 L’Opera Nazionale per i combattenti e il problema agrario nel Mezzogiorno cit. 67 Cfr. Nitti, Scritti politici di Francesco S. Nitti cit.

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dei centri abitati e intensivamente coltivati. Ma l’Onc capì che le molte proposte giunte dall’isola chiedevano la divisione in piccole quote del latifondo68. Ciò determinò in partenza uno scarto tra i piani dell’Opera e la dimensione sociale dell’azienda latifondistica, soggetta alle condizioni ambientali e, quindi, difficilmente modificabile nel breve periodo. L’intera questione della trasformazione del latifondo siciliano si prospettava non di sicura soluzione, soprattutto in una regione dove, specie nelle zone interne, mancavano tradizioni di un’agricoltura mutuata dai criteri efficientisti di un capitalismo industriale, dove non vi erano riferimenti o precedenti modelli relativi a un insieme organico di imprese e dove bisognava affrontare molti ostacoli ambientali e parecchie resistenze sociali all’introduzione di moderne politiche agrarie69. Per colmare il divario di partenza l’Onc sostenne percorsi di innovazione tramite la spinta allo sviluppo e al coordinamento del cooperativismo su scala regionale. L’ispettorato doveva, quindi, funzionare da centro propulsore per l’organizzazione delle cooperative agricole, formate prevalentemente da una base di ex combattenti. Lo sviluppo controllato del cooperativismo era condizione indispensabile e funzionale all’applicazione dei progetti di bonifica. Da questo punto di vista, il cooperativismo in Sicilia sotto l’ombrello dell’ispettorato doveva sopperire all’assenza di un sistema agro-industriale estensivo-semi intensivo70, non tanto per modificare gli assetti interni alla proprietà, quanto per migliorare l’intero ciclo produttivo. Il nuovo modello di sviluppo adottato prevedeva la nascita di cooperative di contadini, disciplinati e organizzati dall’ente, impegnati nella coltivazione dei latifondi, con criScrofani, Sicilia. Utilizzazione del suolo cit. Vochting, La questione meridionale cit. 70 Sulla relazione funzionale tra agricoltura ricca e latifondo di veda Salvatore Lupo, Il giardino degli aranci, Marsilio, Venezia 1990. 68 69

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teri industriali e larghezza di strumenti e mezzi economici. Lo scopo prioritario, una volta spezzato il latifondo in quelle unità rispondenti alle esigenze locali di una agricoltura razionale, era di eseguire le opere di bonifiche idrauliche e agrarie. Solo in un secondo momento si sarebbero discussi i margini per la formazione della piccola proprietà individuale. L’Opera ha il compito di espropriare i terreni per eseguire le opere di bonifica e di trasformazione, valorizzando le energie dei combattenti. Il trasferimento dei terreni, la creazione stessa della piccola proprietà costituiscono un compito successivo.71

Si voleva trasformare la Sicilia in qualcosa di simile alle più progredite zone della pianura padana, già forti delle esperienze del cooperativismo di matrice socialista. L’importazione di questo modello e il riferimento all’esperienza cooperativistica erano nell’agenda dell’ispettorato, come testimoniava ancora una volta la dichiarazione del funzionario Miceli: l’attiva e feconda opera del Comm. Antonio Sansone, nello sviluppo e nell’incremento delle cooperative del cremonese specialmente – aiutato in questo dalla preparazione delle masse dovuta ai Bissolati – diede una sana interpretazione ed affermazione del principio socialista in rispondenza al tempo in cui viviamo. Cito per tutte la Cooperativa delle latterie con una lavorazione di 300 ettolitri di latte al giorno.72

Si poteva applicare lo stesso esempio produttivistico nel latifondo siciliano? Ovvero, poteva funzionare questo stesso modello di lavoro e di associazionismo di matrice classista in una società rurale sedimentata in più blocchi interclassisti? E la classe politica padana era la stessa di quella siciliana? A queste domande si può tentare di dare risposta solo attraverso un’analisi della documentazione Onc, Relazione del Consigliere delegato al Consiglio d’Amministrazione. Esercizio 1921 cit., p. 10. 72 L’Opera Nazionale per i combattenti e il problema agrario nel Mezzogiorno cit. 71

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dei casi (vedi infra capp. IV-VI), evidenziando il rapporto tra le scelte politiche del governo centrale e le ricadute sulle società locali. 2.5 Le paludi del primo dopoguerra Le misure straordinarie del primo dopoguerra provocarono un clima di aspettative già gravido delle tensioni economiche e sociali del conflitto bellico. In particolare, le promesse di terra ai reduci, i proclami di attacco al latifondo in Parlamento fino a tutto il 1918, il regolamento dell’Onc nel gennaio del 1919, le misure di finanziamento di L.150.000 alle associazioni filo-combattentistiche nel marzo successivo ebbero l’effetto di «incoraggiare nel miglior modo il fiorire di associazioni fra i reduci di guerra che, affermandosi nel campo costituzionale, rappresent[ava]no un prezioso collegamento di forze ed un valido contributo alla pubblica autorità»73. Tra la fine del 1919 e i primi anni del 1920 lo sviluppo della cooperazione fra ex combattenti assunse caratteri del tutto particolari e incontrollati74, un ulteriore complemento alle profonde trasformazioni che investirono il latifondo siciliano. Lo stesso fenomeno del combattentismo rappresentò l’innovazione politica più radicale e si apprestava ad assumere una dimensione specificatamente meridionale e siciliana75. Il movimento aveva una matrice democratico-salveminiana e obiettivi preminentemente sociali, come il possesso della terra, ma non disdegnava proclami di “palingenesi” politica, e persino vaghe aspirazioni a diventare la forza motrice di un nuovo partito popolare e nazionale76. 73 Acs, Pcm, f. 2, n. 457, b. 4754, lettera inviata dal ministro Orlando al ministro del Tesoro Stringher, 19 marzo 1919. 74 La cooperazione e i combattenti, in «Problemi d’Italia», ottobre 1925. 75 Gaetano Quagliarello, Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007, pp. 78. 76 Sabbatucci, La stampa del combattentismo cit., pp. 108-132 e

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In ogni modo, in poco tempo esso coinvolse zone nuove dell’associazionismo e interessò una nuova figura di socio, l’ex combattente, che esprimeva un inedita condizione sociale. Come alcune ricerche hanno già evidenziato77, la cooperazione nelle regioni del Sud rappresentava il più delle volte il primo fattore consistente di aggregazione sociale, precedendo e accompagnando la più lenta e farraginosa formazione di strutture politiche organizzate. Significativi sono i dati provenienti dal censimento delle cooperative fra gli ex combattenti condotto dall’Onc nel 192078 che fornisce, nella sola Sicilia, un quadro adeguato per rilevare l’importanza del movimento e, pertanto, consente di fissarne il fenomeno della sua regionalizzazione. L’incremento maggiore si verificò nella cooperazione agraria. Delle 113 cooperative agricole combattenti, 36 erano concentrate in Sicilia contro le 42 distribuite in tutta l’Italia centrale e con un’adesione di circa 9.000 soci79. Nel maggio del 1920 l’Associazione nazionale combattenti convocò un congresso di cooperatori a Napoli, al quale passim; Quagliarello, Gaetano Salvemini cit., pp. 82-91; Guido Dorso, La rivoluzione meridionale, Einaudi, Torino 1977. 77 Giuseppe Barone, La cooperazione agricola dall’età giolittiana al fascismo, in Orazio Cancila (a cura di), Storia della cooperazione siciliana, Ircac, Palermo 1993, pp. 230-296; Maurizio Degl’Innocenti (a cura di), Il movimento cooperativo in Italia, storia e problemi, Einaudi, Torino 1981, pp. 42-50; Anna Caroleo, Il movimento cooperativo italiano nel primo dopoguerra (1918-1925), Franco Angeli, Milano 1986, Fabio Fabbri, Il movimento cooperativo, in Bevilacqua, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea cit., vol. III. 78 L’indagine fu svolta su quelle cooperative direttamente assistite dall’Onc. Pur non rappresentando l’intero movimento cooperativistico fra ex combattenti, costituiva la parte prevalente per consistenza numerica, sociale ed economica. 79 Opera nazionale combattenti (a cura di), I combattenti e la cooperazione. Rassegna statistica al settembre 1921, Coop. Tip. Castaldi, Roma 1921, p. 21.

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parteciparono 800 cooperative80. In estate esso fu il prologo alla costituzione, contro l’egemonia della Lega nazionale delle cooperative, della Federazione italiana delle cooperative fra combattenti, guidata dal dirigente dell’Anc Labadessa che, all’inizio del 1921, vantava organizzazioni provinciali in tutto il territorio nazionale e in Sicilia dove, nella sola provincia di Catania, annoverava già un’organizzazione di 57 cooperative di produzione e lavoro81. L’intero quadro rappresentò un significativo salto quantitativo e qualitativo controbilanciato, però, dal fenomeno della frammentazione localistica delle strutture associative. Infatti, se da un lato il movimento combattentistico consentì la diffusione della cooperazione, dall’altro vi si sovrappose il controllo dei notabili locali e delle associazioni consortili che individuavano nella cooperativa il ponte con il potere centrale, lo strumento idoneo per conseguire posizioni di forza all’interno del collegio e anche un trampolino per carriere politiche di prestigio82. A questo punto, sembra più convincente l’ipotesi che attribuisce la nascita del cooperativismo combattente alle dinamiche intrinseche alla società siciliana, piuttosto che a motivazioni che si rifanno a ipotesi “esterne”. Quest’ultime, proposte da Riccardo Mariani83, affermano che l’Onc avrebbe stimolato la nascita di cooperative combattenti contro quelle socialiste e cattoliche in funzione filo-governativa. È più plausibile, invece, che l’ente sia intervenuto ab origine a regolamentare una condizione di crescente conflitto sociale e che ciò abbia accelerato la crescita di organizzazioni contadiniste su base combattenstista le quali, in ordine sparso, confidavano tramite l’Onc di ottenere La Federazione italiana delle cooperative tra combattenti, in «La rivista della cooperazione», sett.-ott. 1922, p. 725. 81 “Le cooperative combattenti, organo della Federazione cooperative combattenti della provincia di Catania”, 20 gennaio 1921, p. 2. 82 Salvatore Lupo, Tra centro e periferia. Sui modi dell’aggregazione politica nel mezzogiorno contemporaneo, in «Meridiana», 2, 1988, pp. 13-50. 83 Mariani, fascismo e città nuove cit. 80

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un accesso privilegiato alla terra, nonché di riscuotere le polizze di assicurazione. Di questo stato di cose il leader del movimento combattentistico della Sicilia orientale Raffaele Di Martino ne era consapevole al punto da auspicare una distinzione tra il recente trascorso del cooperativismo siciliano e quello del dopoguerra: L’incompetenza dei dirigenti, o la loro malafede, o la intrusione del pettegolezzo politico locale sono state le cause precipue dei disastri finanziari subiti dal movimento cooperativista nell’Italia meridionale. Con la mobilitazione e con febbrile preparazione ad una più gagliarda ripresa della vita economica, il movimento cooperativo si è ingigantito.84

E quindi, per legittimare questa distinzione tra le vecchie e le nuove cooperative riteneva utile la creazione di un ufficio centrale regionale per la vigilanza, il controllo e il coordinamento della attività delle cooperative dei combattenti [al fine di] diluire, per così dire in un vasto campo federale, il rischio di cattivo funzionamento delle singole cooperative85.

A tal fine, l’ufficio centrale del cooperativismo combattentista avrebbe dovuto attivare un ufficio tecnico-legale per ridurre il rischio di cattivo funzionamento delle singole cooperative e, con le eccedenze dei contribuiti, «un fondo riserva per soccorrere qualche cooperativa che per cause imprevedibili»86 era fallita. Ma le aspirazioni al possesso della terra, in una realtà dove il lavoro agricolo era instabile e precario, fu determinante, e ben presto tutti i latifondi furono invasi dalle associazioni e cooperative di ex combattenti87. Sebbene 84 Il cooperativismo dei combattenti in Sicilia, in «L’Ora», 5-6 ottobre 1919. 85 Ibid. 86 Ibid. 87 Antonio Cicala, Il movimento contadino in Sicilia nel primo dopoguerra (1919-1920), in «Incontri meridionali», 3-4, 1978.

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Miceli da Catania dichiarava le buone relazioni intrattenute con i dirigenti delle cooperative siciliane, in realtà la condizione in Sicilia, annotava Antonio Sansone, era di segno inverso. Nel 1920 quest’ultimo si pronunciava ancora in termini fiduciosi: crediamo però che l’Opera non debba far mancare aiuti di ogni sorta per spingere le cooperative, che se ne mostrano meritevoli, ad organizzarsi tecnicamente.88

Ma nel biennio successivo i toni si fecero più preoccupati: Si possono spiegare i disorientamenti, le manchevolezze e gli errori di un primo momento di azione, ma non si potrebbe spiegare la persistenza in un errore grave e pericoloso.89

L’Onc s’era impantanata in numerose controversie municipali dal connotato politico e garantiva il credito attraverso logiche corrispondenti a interessi privati. Pel passato quasi tutta la iniziativa della nostra azione agraria è stata lasciata alle associazioni o ai dirigenti delle medesime. Contrariamente ad ogni sana direttiva, siamo stati spesso costretti a seguire le folle, lasciandoci trascinare da esse.90

Il biennio 1920-21 fu caratterizzato da ispezioni e da resoconti di funzionari sui casi di conflitti per l’attribuzione delle terre tra proprietari, ente e cooperative. Questa condizione spinse Sansone a formulare l’idea dell’esistenza di un “caso Sicilia”. Ad esempio, nella sola provincia di Caltanissetta il movimento di ex combattenti era 88 Abisso, La questione agraria in Sicilia cit.; Cfr., Onc, Relazione del consigliere delegato al Consiglio d’amministrazione nell’adunanza del 25 Ottobre 1920, a cura di Onc, Roma 1920. 89 Onc, Relazione del Consigliere delegato al Consiglio d’Amministrazione. Esercizio 1921 cit., p. 18. 90 Ivi, p. 20.

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cresciuto a dismisura: nel 1921 si erano costituite 33 cooperative di matrice tricolore91. Il problema assunse proporzioni gigantesche anche perché l’adesione alle cooperative non si limitava alla sola categoria dei combattenti, poiché non tutti i contadini rientrati dal fronte aderivano al movimento. Inoltre, molti iscritti alle cooperative combattenti o a capo di queste non erano partiti in guerra, militavano in svariati gruppi politici, e più frequentemente non appartenevano neppure al ceto contadino. Ciò determinava la difficoltà di discernere, dovendo guardare il problema dal punto di vista della totale categoria dei lavoratori della terra o dei reduci. La conseguenza diretta fu che nel solo biennio 19201921 le domande di esproprio pervenute all’ispettorato dalla Sicilia raggiunsero più di 100 mila ettari di terra, mentre in altre regioni non arrivavano ai 15 mila. L’Opera aveva iniziato l’espropriazione in base alla semplice richiesta di una cooperativa di combattenti, molte volte esistente solo sulla carta, e con qualche migliaio di lire di capitale sottoscritto e poco versato. Di solito il riscatto delle polizze costituiva il solo capitale di fondazione e il deposito corrispondeva alla metà di quello dichiarato. Tuttavia, secondo le previsioni dell’ispettorato, i risultati benefici non dovevano tardare a manifestarsi per il passaggio di vaste estensioni di terreno alla coltura razionale e intensiva, obbligando le cooperative ad adottare i piani dell’ente. L’idea “tecnocratica-illuminista” dei funzionari si fondava sulla convinzione che bastava il buon volere degli organi statali e la collaborazione degli attori sociali a trasformare il latifondo92. La Sicilia diventò presto un paradosso. Laddove si ebbe il maggior numero di richiesta di espropri, si sottovalutarono i criteri per la valutazione delle cooperative capaci di eseguire le migliorie. E alla fine prevalsero altre direttive, I combattenti e la cooperazione cit., p. 66. Cfr. Leandra D’Antone, Tecnici e progetti. Il governo del territorio, in «Meridiana», 10, 1990. 91 92

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altre tendenze ascrivibili alla dimensione politica delle agitazioni agrarie. L’assenza di controlli dall’alto e di regole sulla selezione dei concessionari determinò un clima di assalto politico all’Onc da parte delle associazioni contadine locali che, in concorrenza tra loro, tentavano di impadronirsi col ricatto dell’iniziativa dell’ente, soggiogandolo alle concorrenti pressioni clientelari-elettoralistiche. Le masse agrarie erano fanatizzate dalla lusinga di avere la terra. Senza alcun impegno e senza responsabilità correvano a ingrossare le file delle cooperative, e passavano dall’una all’altra di queste, speculando sulla bontà e sulla maggiore attendibilità delle promesse, colle quali i dirigenti tentavano si accattivarsi le simpatie delle folle93. E a nulla valse il richiamo sia pur strumentale del deputato siciliano Angelo Abisso, di organizzare un servizio di funzionari, che avrebbero dovuto senza finalità politiche promuovere la costituzione di cooperative ed ispezionare e regolare quelle esistenti. Non è possibile − continuava il deputato − disinteressarsi di queste forze [i combattenti], che potrebbero se ben disciplinate, essere benefiche all’economia nazionale, mentre abbandonate a se stesse, sono sovente causa di disordine e delusione.94

Le cooperative, scriveva Sansone, reclamavano la terra, senza accettare le limitazioni del diritto di riscatto. Sorgevano come «per incanto in ogni paese due, tre, quattro associazioni», e quasi sempre quale strumento dei partiti o delle fazioni locali. La terra era il «campo aperto alle lotte ed alle guerre dei partiti locali»95. Pochi anni dopo (1925), un osservatore del tempo ritornò sull’argomento dei limiti del movimento cooperativistico riportando il giudizio espresso 93 Onc, Relazione del Consigliere delegato al Consiglio d’Amministrazione. Esercizio 1921 cit., p. 15. 94 Abisso, La questione agraria in Sicilia cit. 95 Onc, Relazione del consigliere delegato al Consiglio d’amministrazione nell’adunanza del 25 Ottobre 1920, Roma 1920, p. 19.

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dalla Federazione italiana delle cooperative per i combattenti nel 1920 sulla frammentarietà e fragilità dell’esperienze, riconducibile alle agevolazioni statali: Il movimento cooperativo dei combattenti, sorto soprattutto in regioni nuove alla cooperazione, presentò subito gravissimi difetti: cooperative tutte nascenti e perciò poco solide e compatte; scarsa comprensione delle forme e degli spiriti della cooperazione da parte dei soci; dirigenti spesso di grande valore, ma cooperatori tutti più o meno improvvisati, ai quali mancava quella esperienza delle organizzazioni economiche che è la maggiora forza degli organizzatori socialisti e popolari; cooperative che si fondavano più su illusorie speranze di aiuti del Governo, dell’Opera nazionale combattenti e dei politicanti, che sulla loro consistenza economica, sulla loro organizzazione tecnica e sull’opera dei suoi cooperatori.96

Si trattava di cooperative mal attrezzate o, addirittura, di prestanomi, che svelavano «le magagne della loro intima struttura morale». Questo era il contesto che affiorava dalla Sicilia, e che alla lunga sarebbe diventato una palude per i programmi di pianificazione economico-sociale centralizzata. Era comprensibile che verso l’Opera, il solo soggetto in grado di sostenere finanziariamente le migliaia di iniziative cooperativistiche, si concentravano le attenzioni di uomini, organizzazioni economiche e politiche, associazioni, amministrazioni locali, come lo era altrettanto la decisione di Sansone di cambiare radicalmente indirizzo introducendo rigidi controlli sui criteri di selezione delle cooperative concessionarie: dobbiamo sentire il dovere di fare le più oculate e minuziose indagini sulla organizzazione delle associazioni e dobbiamo fare uno scrupoloso e rigido processo alle intenzioni di coloro che stanno a capo di esse. E siccome non bastano gli statuti ed i regolamenti ad

96 La cooperazione e i combattenti cit., p. 37, il testo era stato copiato da La Federazione italiana delle cooperative dei combattenti, in «La rivista della cooperazione», p. 725.

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Capitolo 2 assicurarne la vita di questi organismi così delicati, bisogna giudicare gli uomini che del movimento sono a capo97.

Un giudizio espresso sinteticamente in un secco: «Poche cooperative, ma buone!». L’esempio siciliano scosse pure Beneduce, il quale denunciò che «il disegno legislativo dell’Opera nazionale si trovò scavalcato dalla realtà: il compito di propulsione che la legge serbava all’Istituto nel campo economico e sociale si mutava di necessità in un compito di controllo, di giudizio sulla sincerità e il fondamento di movimenti iniziative e progetti che si moltiplicavano giorno per giorno»98. E da parte liberale, Luigi Einaudi alimentava la polemica sulla legge degli espropri in relazione alla corruzione delle cooperative siciliane, in quanto riscattavano i feudi a un prezzo molto inferiore a quello reale. Che risultato si ha pur di mettere, al posto dei vecchi latifondisti, i quali dopotutto, erano dei gentiluomini ingentiliti da secoli di rapporti sociali e corrivi nei fitti, dei nuovi arruffoni, politicanti di villaggio, avidi di ricchezza ed astuti nel procacciarsela?99

Bastava far pagare alle cooperative il prezzo vero della terra che quelle false si sarebbero dileguate assieme «ai lestofanti che si annidavano dietro ai paraventi della cooperazione». Tutto sommato Sansone condivideva i giudizi negativi di Einaudi sulle cooperative, ma non condivideva la critica liberista alle norme sul prezzo di indennizzo per fare un favore a quelli che erano pur sempre giudicati “gli avidi” proprietari pronti a sfruttare le classi lavoratrici e a ridurre le terre a delle secche improduttive. 97 Onc, Relazione del consigliere delegato al consiglio d’amministrazione dell’esercizio 1921 cit., p. 19. 98 Relazione di Alberto Beneduce sull’Onc, 1921, in Mariani, fascismo e città nuove cit., p. 27. 99 L’Opera nazionale combattenti, le sue espropriazioni terriere e le Opere Pie, in «Corriere della Sera», 14 giugno 1922.

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Da lì a poco tempo Sansone annunciava nuovi criteri, che non furono di natura restrittiva o punitiva100, ma che rispondevano a un elementare principio di prudenza e di verifica dei comportamenti dei dirigenti locali. Non si volevano più avallare espropri pilotati dalle organizzazioni contadine dal momento che l’Opera aveva profuso un notevole e spesso improduttivo impegno finanziario a favore di cooperative inadempienti. Chi ha immaginato che l’Opera dovesse espropriare i fondi, concederli alle cooperative richiedenti, probabilmente non ha pensato che l’Opera avrebbe avuto la vita di una farfalla dalle ali iridescenti. Verremmo meno – concludeva Sansone – al nostro elementare dovere, se ci impressionassimo dei violenti ordini del giorno, o delle manifestazione non sorrette da un serio ed obiettivo esame del grave problema.101

Pertanto, si sarebbe evitato di concedere le terre alle cooperative con modesto capitale e anche di proporzionare l’estensione del terreno al numero dei soci. Le terre dovevano essere concesse ai coltivatori diretti, eliminando le funzioni del gabellotto. In teoria si sarebbe dovuto ripristinare una situazione di legalità tra le cooperative. Non si poteva insidiare il diritto di proprietà senza una contropartita, costituita dal reticolo di cooperative in grado di approntare i miglioramenti agrari dei fondi richiesti. Anche se Sansone fu scettico sulla possibilità che in Sicilia le cooperative potessero acquistare i latifondi espropriati dall’Opera, sperava, realisticamente, che almeno si sarebbero strutturate nel futuro delle vere e proprie affittanze collettive, in cui le funzioni del proprietario sarebbero state assunte dall’Opera e non dal gabellotto102. La Mariani, fascismo e città nuove cit. Onc Relazione del consigliere delegato al Consiglio d’amministrazione nell’esercizio 1921 cit., p. 14. 102 Onc, Relazione del consigliere delegato al Consiglio d’amministrazione nell’adunanza del 1920 cit., p. 23. 100 101

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presenza dell’antico intermediario era difficile da eliminare come l’Onc si auspicava, ma almeno poteva essere sostituita dalla cooperativa. Questa condizione, poteva pure rappresentare un margine di miglioramento, ma di certo non consentiva all’Onc di parlare di una moderna organizzazione del lavoro. 2.6 La difficile mediazione. Le terre incolte e la proprietà terriera Non fu l’Opera a regolamentare la concessione delle terre in Sicilia ma il decreto ministeriale denominato Visocchi emanato nel settembre del 1919103 per incrementare la produzione agraria e ristabilire l’ordine sociale. Sostanzialmente l’azione del decreto finiva per sovrapporsi a quella dell’Opera. Nell’insieme, si trattava di un pacchetto legislativo104: mentre si mantiene intatta la funzione dell’Istituto (Onc), si provvede a estendere a tutti gli agricoltori le provvidenze che regolano l’azione agraria dell’Onc.105

Il decreto giungeva in uno stato di occupazioni già avvenute. Fin dal 1917, l’Opera aveva alimentato le aspettative di accesso alla terra, ma non era riuscita a guadagnarsi la fiducia di cooperatori e cooperative. Sin dal giugno del 1919 le cooperative combattenti avevano sollecitato presso i ministeri competenti i provvedimenti per accelerare le operazioni di esproRd 2 settembre 1919, n. 1633. Oltre che dal decreto Visocchi, fu promulgato il cosiddetto decreto Falcioni, varato con Dl n.515 del 22 aprile 1920. Quest’ultimo, che ne rappresentava un aggiustamento in direzione più cautelativa in materia di attribuzione delle proprietà, intervenne per regolamentare la crescente ondata di invasioni delle terre culminata proprio in quell’anno. 105 Acs, Pcm, Gb, f. 3, 1919, Lettera del ministro del Tesoro al Presidente del Consiglio, s.d. 103 104

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prio dell’Onc e, in più di una occasione, espresso il timore che essa potesse col tempo «diventare un organo pleonastico»106, inadeguato sul terreno di una azione autonoma. Le richieste andarono a vuoto e di conseguenza, nell’autunno successivo, furono occupati i fondi reclamati. Di questo stato di cose se ne accorsero pure i proprietari che cominciavano a vedere nel decreto un pericolo maggiore di eversione rispetto ai più affondabili piani dell’Opera. Ciò fu spiegato in un intervento riportato dalla stampa del deputato latifondista Cencelli, chiamato poi da Mussolini a dirigere l’Onc negli anni Trenta: Il governo è intervenuto con un decreto che porta il nome del ministro Visocchi ma le popolazioni hanno interpretato il decreto in un modo speciale. Hanno cominciato a scegliere le terre meglio coltivate ed hanno ritenuto il decreto come una sanzione delle occupazioni già fatte e come un incoraggiamento a farne altre.

Il deputato insisteva sulla necessità che il governo provvedesse servendosi dell’Opera nazionale dei combattenti «affinché conceda la terra ai contadini superstiti che hanno combattuto ed ha a sua disposizione i mezzi sufficienti, ma disgraziatamente si è cristallizzata e burocratizzata»107. Se in principio l’ente aveva conosciuto l’opposizione dei proprietari, a distanza di poco tempo si assisteva a una invocazione di intervento da parte dei medesimi detrattori. Ma questo era solo un atteggiamento passeggero. In realtà, malgrado essi predicassero il contrario lamentandone l’inefficienza, erano ben felici che l’ennesimo tentativo di dirigismo pubblico del latifondo andasse lentamente agonizzando. Le lungaggini dell’azione governativa e dell’Opera erano 106

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Onc azione sociale e agraria, in «Il combattente», 28-29 maggio Il difensore del latifondo, in «Il Corriere di Catania», 28 dicembre

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denunciate da più parti. Luigi Sturzo nell’ottobre del 1919, aveva avvisato Nitti delle insurrezioni in alcuni centri della Sicilia108 (Riesi e Terranova) e chiedeva, in una lettera, immediate soluzioni «sì che il contadino possa avere il suo pezzo di terra da coltivare. L’Onc o una cassa Regionale, con l’intervento dello Stato, potranno provvedere ad indennizzare congruamente i proprietari»109. Uguale preoccupazione mostrava Raffaele Di Martino, il quale scriveva a Nitti: l’Onc sin dal Luglio scorso ha inviato in Sicilia parecchi ingegneri, facendo nascere grandi speranze nell’animo de combattenti, ma disgraziatamente è andata molto a rilento nel dar corso alle pratiche avviate […] Per il bene della mia isola, la scongiuro vivamente a voler far valere le ragioni di indole politica inerenti alla pericolosa situazione, per influire direttamente presso la Direzione Generale dell’Opera al fine di ottenere un esito rapido delle domande di espropriazione di feudi avanzate dai combattenti siciliani.110

Anche l’ufficio centrale delle cooperative combattenti siciliane, in un ottica di radicale dissenso politico verso la gestione centralizzata dell’Onc, ribadiva che l’unità organica ed amministrativa dell’Ente [doveva] essere contemperata con le esigenze di decentramento burocratico e funzionale, affinché l’Opera non rimanga, come è stato fino ad oggi, un organismo congestionato al centro ed anemico alla periferia.111

Si unirono al coro di protesta anche le molte cooperative combattenti siciliane che, al congresso regionale di CaltanisMarino, Partiti e lotta di classe in Sicilia cit., pp. 120-122. Acs, Pcm, Gb, f. 7, 1919, n.1463, lettera di Don Sturzo a Francesco S. Nitti, 12 Ottobre 1919. Tuttavia, gli anni immediatamente precedenti alla marcia su Roma i popolari diverranno i protagonisti dell’azione di politica agraria tenendo ben salde le redini del ministero dell’Agricoltura. 110 «Giornale d’Italia», 5 Febbraio 1920. 111 La Riforma dell’Opera Nazionale, in “Le cooperative combattenti. Organo dell’ufficio centrale cooperative combattenti in Siciliane e della Federazione cooperative combattenti della provincia di Catania”, s.d. 108 109

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setta del 29 e 30 marzo del 1920, dichiararono di insistere coi mezzi legali presso il governo «per consentire tutti i diritti dei combattenti riservandosi di provocare pubbliche agitazioni in caso sfavorevole [di assegnazione delle terre]» 112. Le prime risoluzioni dei casi di esproprio dell’Onc si ebbero nella seconda metà dell’ottobre del 1919113, quando iniziarono a funzionare le Commissioni arbitrali costituite a settembre. Fin da subito si percepì il rischio di un insuccesso dell’ente. L’azione agraria dell’Onc rischiava in Sicilia di sottrarsi al piano di riorganizzazione economico e sociale di Beneduce per tramutarsi in uno strumento funzionale alla sola ratifica della occupazione delle terre. In questo senso, l’istituzione nell’anno successivo (1920) dell’ispettorato ebbe il triplice scopo di regolamentare meglio l’applicazione dei decreti sulle terre, di dare un impulso all’azione agraria e di sopperire ai ritardi della gestione politica della concessione delle terre. I decreti coordinati assieme all’attività dell’ispettorato avrebbero dovuto contribuire al riordino temporaneo delle richieste delle terre e porre le premesse per una pianificazione statale. Del resto entrambi i provvedimenti derivavano dal medesimo nucleo legislativo di guerra e concorrevano a rinnovare l’azione dello Stato che si faceva più energica. La ricerca di Giuseppe Barone ha messo ben in luce l’interferenza dei decreti ministeriali sui piani fondiari dell’Onc che avrebbero invaso «la sfera d’azione […], limitandone di fatto le attribuzioni, con l’unico risultato di rendere inagibile ogni ipotesi di programmazione centralizzata degli interventi sul territorio»114. Non c’è ombra di dubbio che, in un’ottica di misura112 Acs, Mi, Ps, cat. C1, b. 49, Caltanissetta 1920, e anche Giovanni Sabatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 1974. 113 Deliberazione dell’Opera dei Combattenti, in «L’Ora», 3-4 ottobre 1919. 114 Barone, Statalismo e riformismo cit., p. 238.

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zione dei risultati ottenuti, le manovre dell’Onc siano state poco agevolate dall’ingresso a regime dei decreti sulle occupazioni delle terre, ma è altrettanto utile rivolgere l’attenzione anche al grave errore compiuto dall’Onc, di non aver dato grande importanza ai decreti Visocchi e Falcioni. Il Consigliere delegato dell’Onc, tornando a giudicare l’intera stagione del biennio 1919-20 in Sicilia, solo dopo che le terre erano già state frazionate dai decreti in piccoli lotti alle cooperative resesi protagoniste di azioni di forza, non poteva che constatare con rammarico un “imperdonabile errore”: l’avere affidato l’applicazione dei decreti “all’autorità politica”115. Per Sansone rafforzare la legislazione speciale sulle concessioni delle terre non era stata un’operazione controproducente. Lo divenne, semmai, nel momento in cui a gestire e a controllare la domanda di terra fu l’autorità politica mediante i prefetti, mentre spettava all’ispettorato farsi trovare pronto con i piani di trasformazione sulle terre che venivano requisite per effetto dei decreti. Dello stesso avviso fu Angelo Abisso che individuò nei rapporti tra l’Opera e l’attuazione dei decreti prefettizi un punto importante a difesa del cooperativismo combattente: Per molti fondi invasi è pendente la domanda di espropria presentata all’Opera Nazionale da parte di associazione di combattenti. È evidente che, se in casi simili l’azione dei prefetti precorresse per la sua celerità quella dell’Opera Nazionale e si mettesse con questa in contrasto, potrebbero nascere dolorosi incidenti. Si impone pertanto una coordinazione dell’attività dei prefetti con quella dell’ispettorato, che l’Opera Nazionale ha istituito in Sicilia.116

Oltre alle difficoltà a mediare la gestione prefettizia dei decreti, si aggiunse la difficoltà di costituire i collegi arbitrali provinciali per l’opposizione dei proprietari che, 115 Onc, Relazione del Consigliere delegato al Consiglio d’Amministrazione. Esercizio 1921 cit., p. 10. 116 La questione agraria in Sicilia, in «Giornale di Sicilia» cit.

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attraverso l’ostruzionismo legale, strozzavano la procedura degli espropri sul punto di arrivo. Se il nuovo principio d’esproprio aveva avuto una spinta in sede di rielaborazione teorica, era altrettanto vero che, ogni qual volta lo Stato tentava di applicare la disposizione relativa agli espropri, trovava la resistenza di forti coalizioni di interessi a difesa della proprietà terriera. I principali attori di queste forze erano i proprietari terrieri che si univano in vari raggruppamenti e diverse sigle e rappresentavano la reazione alla riforma del sistema di esproprio e d’indennizzo introdotta dall’Onc. Si trattava di vere e proprie lobby che mobilitavano schiere di avvocati, giudici e parlamentari contro le “mire spolatrici” dell’azione dei Collegi. Spesso queste lobby comprendevano le élite notabilari locali, mediatori tra gli interessi dei proprietari e quelli dei contadini, i presidenti di cooperative e i ceti contadini. Nonostante i ricorsi dei proprietari venissero respinti, provocavano ugualmente dei rallentamenti nelle procedure di esproprio. In questo senso Sansone, nel 1921, avrebbe annunciato la linea dura, senza più sconti a quelli che erano considerati dei “parassiti sociali”: voi [i proprietari] non rispondete ai doveri sacrosanti della proprietà. Voi non sapete, non potete, non volete occuparvi della vostra proprietà, impiegandovi capitali ed energie, perché esso renda – anche a beneficio generale – quello che può rendere. Ebbene, io vi tolgo la terra per fare quello che voi non avete voluto o potuto o saputo fare.117

I proprietari contestarono la costituzionalità dell’apparato legislativo dell’Onc e, in particolare, dei Collegi arbitrali. Essi non potevano essere legittimati dalla legge 661 Le direttive e il programma dell’Opera, relazione di Antonio Sansone in Operazione nazionale combattenti (a cura di), Relazione del consigliere delegato al consiglio d’amministrazione, esercizio 1921, Roma 1922, p. 18. 117

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Capitolo 2

del 22 maggio 1915, che concedeva al governo, durante la guerra, la facoltà di emanare leggi su urgenti e straordinari bisogni dell’economia nazionale. Quindi, le ragioni dell’Onc eccedevano l’ambito costituzionale specie per il diritto di essere giudicato da un giudice ordinario. Ma, ancora una volta, a tali obiezioni le sentenze stabilirono che la causa bellica, malgrado l’armistizio, perdurava fino alla pace. Di conseguenza, decadeva l’accusa di illegittimità dei Collegi. Infine, altro punto dello scontro era il prerequisito dell’esproprio. Secondo l’Onc la trasformazione fondiaria non investiva solo i terreni abbandonati alla coltura estensiva, ma anche l’utilizzo effettivo che se ne faceva. Non era importante se il fondo era in buone condizioni. Viceversa i proprietari reclamavano con forza solo la valutazione delle condizioni naturali dei fondi. I proprietari volevano dimostrare che i piani di trasformazione fondiaria dell’ente erano legittimi nelle zone da sottrarre al disordine idrogeologico118, ma non in quelle inserite in un coerente e compatto sistema produttivo costituito dalla grande azienda agraria cerealicola-pastorale. Come vedremo nei capitoli successivi, tutti questi ostacoli si condensarono in Sicilia dove si misurò l’efficacia dell’azione di riforma dell’ente.

118 Mercurio e Russo, L’organizzazione spaziale della grande azienda cit., p. 114.

3. Metamorfosi fascista

3.1 I nittiani sotto accusa Con il fascismo al potere l’Onc non fu liquidata, ma fu modificato il regolamento nella direzione di un maggiore verticismo e di un controllo dell’esecutivo. Il Consiglio d’amministrazione fu sciolto e con esso tutto il personale dirigente. Ciò si inquadrava nella più generale riforma della pubblica amministrazione varata da De Stefani tra il ’23 e il ’24, che intendeva ridurre la spesa pubblica e razionalizzare in senso gerarchico il personale delle amministrazioni pubbliche1. Con il Rd 18 marzo 1923 Mussolini sostituì il dimissionario Nicola Miraglia e nominò un commissario straordinario nella figura dell’on. Iginio Maria Magrini2 che, coadiuvato da Carlo Battistella, neo direttore generale nominato dal governo il 19 aprile in sostituzione dell’esonerato Antonio Sansone3, ebbe il compito di redigere un rapporto sulle funzioni passate e sulle prospettive future dell’Opera in relazione alle nuove disposizioni che sarebbero state emanate dal nuovo regolamento dell’Onc. Il commissariamento durò fino al settembre del 1924, ma già dopo due mesi dal suo incarico, nel maggio del Melis, Storia dell’amministrazione italiana cit., pp. 303-304. Magrini fu inviato anche in Sicilia nel 1923 con l’incarico di esaminare i casi di nuove concessione delle terre alle cooperative occupanti in accordo coi proprietari, in Caroleo, Il movimento cooperativo in Italia cit., pp. 279-283. 3 Acs, Pcm, 1923, b. 2-10/1-715, f. Opera nazionale combattenti, Lettere di Miraglia e Sansone al presidente del consiglio. 1 2

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Capitolo 3

1923, il commissario presentò un primo rapporto a Mussolini denso di accuse alla passata gestione, evidenziando l’inettitudine politica dei governi liberali. La prima critica alla gestione nittiana fu la mancanza di una leadrschip alla guida dell’ente in grado di non subire i condizionamenti esterni. Le espropriazioni di terre e le concessioni a cooperative artificiose sarebbero state conseguenza di influssi politici, esercitati da uomini di governo, da parlamentari, da organizzazioni economico-politico spinti ad eccessi da mestatori sociali e da speculatori.4

Ingenti estensioni di terreno sarebbero state espropriate a favore di quella o di quell’altra cooperativa alla quale poi non veniva concesso il contributo finanziario e nessuna assegnazione di terra. In sostanza, si ipotizzava che non era stata effettuata nessuna forma di controllo alla fonte sulla destinazione, sui canali del finanziamento e sulle procedure per la concessione dell’esproprio; né a valle: dopo il finanziamento, sarebbe venuto meno ogni contatto con i beneficiari senza che l’Opera potesse accertare come e in che cosa erano spesi gli anticipi per l’esproprio della terra e le bonifiche. La relazione è piena di interventi tesi a dimostrare il malcostume diffuso nelle gestione degli appalti e dei sussidi. Secondo il Commissario, «l’assillo delle gare sfrenate dei partiti, e delle agitazioni politiche, premevano sui dirigenti dell’Istituto, forzandone di continuo la volontà troppo debole […] per essere capace di opporre efficace resistenza» e rimprovera l’Opera di aver trascurato gli ex combattenti

4 Relazione al Governo del Commissario Straordinario per il Riordinamento dell’Onc., Roma 21 maggio 1923, in Mariani, Fascismo e città nuove cit., p. 34.

Metamorfosi fascista

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vantaggi personali hanno certo ritratto individui singoli, ed anche qualche singola località, ma con enorme sproporzione ed a tutto danno della generalità dei combattenti5.

Il dato rilevante è che i giudizi del Commissario straordinario non erano differenti dalle lamentele che Sansone, già nel 1921, rivolgeva contro le patologie di una gestione che oggi diremmo “politicizzata” dell’ente6. Di fatto, il clima di scontro politico-fazionario attorno all’Onc era già iniziato e proseguì fino al commissariamento. Sullo sfondo il contrasto tra l’Anc e il governo per il ridimensionamento della presenza degli ex combattenti nel Consiglio d’amministrazione dell’Onc a vantaggio di popolari e social-riformisti, una vicenda ricostruita da Giovanni Sabbatucci7. In primo piano, invece, v’era in gioco l’autonomia stessa dell’ente, difesa strenuamente da Sansone dall’assalto dei partiti e dal controllo del governo. Dunque, fino al commissariamento le vicissitudini dell’Onc si collocarono in un quadro politico instabile a causa delle divisioni in seno alla classe politica liberale, e caratterizzato da avvicendamenti negli organismi direttivi dell’ente. Da quest’ultimo punto di vista, Benduce, nella sua nuova veste ministeriale, diversamente da quando indossava i panni di tecnico, intese ricondurre la gestione dell’Onc nell’alveo governativo, e si incaricò di nominare una commissione di tre funzionari dello Stato allo scopo di «ispezionare la gestione dell’Onc e di accertare l’indirizzo della medesima in rapporto agli scopi ad essa assegnati»8. L’ispezione amministrativa non ebbe esisti concreti tali da produrre dei cambi al vertice dell’ente che, viceversa, rimase in carica. Ivi, p. 35. Onc, Relazione del Consigliere delegato al Consiglio di Amministrazione, Esercizio 1921 cit., pp. 5-20. 7 Sabatucci, I combattenti nel primo dopoguerra cit., pp. 149 ss. 8 Barone, Statalismo e riformismo cit., p. 223. 5 6

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Alla discussione intervenne anche Sansone per denunciare a Nitti non tanto l’ostracismo nei confronti dei consiglieri rappresentanti dei combattenti, quanto le manovre sotterranee di Beneduce, volte a subordinare la funzione e l’autonomia del consiglio d’amministrazione alla guida del governo: Pare che l’intenzione di Beneduce sia quella di sciogliere il consiglio ad ogni costo per ricostruirlo a suo modo. Quindi la voce diffusa e accreditata che non si può procedere alla nomina dei quattro perché il presidente (Miraglia) ha dato le dimissioni e da esse non vuole recedere. Di qui la probabilità di dover provvedere alla ricostituzione di tutto il consiglio. Ora tutto questo non è assolutamente vero. Evidentemente di ciò Miraglia è seccatissimo ed avrebbe effettivamente dato le dimissioni se non fosse stato (trattenuto) dalla preoccupazione di lasciarmi solo in questi non facili momenti. Non vi parlo di me. Non credo di aver goduto mai delle simpatie di Beneduce. D’altra parte il brutto mestiere di esecutori di espropriazioni non mi accaparra la benevolenze dei proprietari e di moltissimi politicanti. Odio, poi, tutto ciò che sa di demagogia e quindi, anche interessandomi delle masse non sono popolare. Ho con me però tutto il consiglio d’amministrazione nonostante che sia un piccolo parlamento. Ed il consiglio rispetta la mia indipendenza, che è garanzia per tutti. Nell’insieme mi spiego sempre più come le mie attitudini siano profondamente in contrasto con le esigenze politiche-parlamentari.9

Sansone affrontò inoltre il delicatissimo nodo dei finanziamenti e delle concessioni dei terreni descrivendo un vero e proprio assalto alla “carovana” pubblica. Egli divise la gestione dell’Onc dalla sua nascita fino al 1923, in due fasi: i primi anni segnati dallo sforzo di organizzare un istituto ampio per i compiti assegnatigli e privo di esperienza. Erano quindi comprensibili alcune ingenuità di gestione. Viceversa, gli ultimi tre anni erano trascorsi in un sistematico impantanamento burocratico delle pratiche, in una forma clientelare di assistenza dove non mancarono casi di corruzione. 9 Acs, CN, b. 94, f. 398c, Lettera di Sansone a Nitti, Roma, 16 aprile 1921.

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La consapevolezza di Sansone sulle controversa gestione dell’Opera non servì a evitargli l’allontanamento, né riuscì a completare importanti procedure di esproprio. La forte instabilità politica dei regimi liberali, derivante dalle ripetute crisi ministeriali e politiche, contribuì ad arenare già prima dell’avvento del fascismo il progetto designato in origine da Nitti di sviluppo degli enti autonomi. A questo punto appare evidente come le critiche di Sansone furono riprese e utilizzate successivamente dal commissario contro gli stessi nittiani. Non possiamo appurare con certezza se le accuse sottoscritte in 35 pagine di relazione corrispondano a verità. Sono comunque un documento indicativo e prezioso che mira dritto all’obiettivo che lo stesso Mussolini si era prefissato: la ristrutturazione dell’ente su nuove e solide basi autoritarie. 3.2 La ristrutturazione Magrini confermò le accuse contro la passata gestione al fine di giustificare l’operazione fascista dell’avvenuta liquidazione del Consiglio d’amministrazione e, cosa più rilevante, sostituì il modello dell’organizzazione produttiva basato sul cooperativismo con uno centralizzato e autoritario incentrato sulla formazione della piccola proprietà individuale10. Le iniziative cooperativistiche, con un andamento altalenante, non si arrestarono, almeno fino al tardo 1926-1927, e fino al 1923 non mutarono in modo sostanziale il loro atteggiamento nei confronti dell’Onc: esse – secondo Magrini – continueranno a picchiare alle porte e alle casse dell’Opera, con la stessa mentalità e gli stessi sistemi: ond’è che nel duro compito di difesa del patrimonio dei combat10

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Cfr. Gianni Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Laterza, Roma

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tenti contro le speculazioni, e nell’applicazione delle rigide, ma illuminanti norme di economia, i nuovi dirigenti dell’Istituto devono essere sorretti e coperti alle spalle dalla azione tutelatrice del Governo, contro le pressioni, le offensive, e le agitazioni che è dato ritenere non mancheranno.11

Era necessario mettere a tacere le pluralità di voci tramite il controllo rigido del Consiglio d’amministrazione. Non è un caso che furono avviati numerosi procedimenti ispettivi e restrittivi verso le cooperative agrarie ritenute, a torto o a ragione, complici di gravi inadempienze dal punto di vista tecnico e finanziario. Il fascismo pensò in questo modo, e da questo momento in poi (1923), di riutilizzare l’Onc come una grande “azienda” italiana per la ricostruzione di una nuova “era fascista”. Tuttavia, in questa prima fase si intese mostrare l’aspetto efficiente12, piuttosto che varare un “piano generale” d’intervento. L’ambizione di guidare la modernizzazione trovò nel fascismo nuovo vigore e, obbligato dall’assenza di un personale particolarmente esperto delle funzioni amministrative13, persuase molti dei tecnici e dei quadri intellettuali di età liberale a far parte del ristretto staff di governo del nuovo regime14. Così Mussolini avrebbe mobilitato le capacità di Beneduce, e di Arrigo Serpieri, nel campo della costruzione di enti economico-finanziari e nelle bonifiche. Da questo punto di vista, il fascismo rappresentò un banco di prova per tanti giovani formati nel primo decennio del Novecen11 Relazione al governo del Commissario Straordinario per il riordinamento dell’Onc. Roma, 21 Maggio 1923, in Mariani, Fascismo e città nuove cit., p. 37. 12 Alberto Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, Torino 1995; Paolo Ungari Ideologie giuridiche e strategie istituzionali del fascismo, in Il fascismo e i partiti politici italiani, il Mulino, Bologna 1977, p. 51. 13 Melis, Storia dell’amministrazione italiana cit., p. 296. 14 Ivi, p. 283.

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to. Il nittismo del 1919 e il fascismo, pur poggiando sul medesimo asse politica-burocrazia, ebbero finalità differenti: il primo era fautore di un “capitalismo organizzato” su aspirazioni democratiche; il secondo mutuò dal primo l’idea di una nuova concezione dello Stato, ubbidiente non più a una logica democratica, bensì a quella gerarchica15. Eppure, come ha scritto Lupo, era come se esistesse «un piano comune che consentiva a certe idee di circolare seppure tra gruppi politici contrapposti, sintetizzabile nel concetto di “competenza”»16, che giudicava vischioso il terreno della democrazia parlamentare e lente le sue macchinose procedure. In questo contesto, il primo regolamento legislativo subì una sostanziale modifica. Se nella concezione nittiana prevaleva una concezione funzionalista (agire sul meccanismo dell’offerta, in modo da favorire l’impiego di lavoro; modificare l’impianto giuridico per allentare il domino della grande proprietà terriera assenteista e della rendita parassitaria), col fascismo l’Opera cominciò a svuotarsi di contenuti e a convertirsi da istituzione elettiva e collegiale a istituzione gerarchizzata e strumento di decisione individuale. Il nuovo regolamento, approvato col Rd 3258 del 31 dicembre 192317, introdusse sostanziali modifiche alle disposizioni alterando il dispositivo del trasferimento della proprietà all’Onc. L’Opera fu messa sotto la stretta vigilanza del capo del governo. Il tragitto dell’assegnazione dei terreni, dalla segnalazione all’occupazione del fondo, fu reso più farraginoso. I poteri della magistratura speciale dei Collegi arbitrali18 furono limitati al semplice accertamento dell’esistenza o meno delle 15 Salvatore Lupo, Francesco Saverio Nitti, in Luzzatto, Dizionario del fascismo cit., pp. 228-31. 16 Lupo, Il fascismo cit., p. 55. 17 36 anni dell’Opera nazionale combattenti cit., pp. 21-23. 18 Il Regolamento per la costituzione ed il funzionamento del Collegio Centrale Arbitrale e dei Collegi Arbitrali Provinciali fu approvato

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condizioni tecniche e giuridiche che legittimavano l’intervento, lasciando il trasferimento di proprietà alle decisioni del capo del governo a cui era demandata la facoltà di procedere per decreto reale, sentito il parere del Consiglio dei ministri. Il provvedimento doveva essere emanato entro il termine di 75 giorni dalla presentazione della richiesta. Scaduto questo lasso di tempo, decadeva la procedura d’esproprio19. Il regolamento del 1923 colpì un altro caposaldo ovvero la soppressione del diritto di riscatto riconosciuto ai proprietari espropriati, sancito dall’ art. 18 del regolamento del 191920. In tal modo si intese eliminare un elemento giudicato instabile dell’azione agraria dell’Onc e propagandare la nuova retorica fascista contro le proprietà assenteiste, annunciando l’apertura dei cantieri della bonifica integrale. Infatti, il proprietario rientrato in possesso del fondo, con l’obbligo di sfruttare il terreno secondo le direttive agronomiche dell’Onc poteva, deliberatamente, eludere l’onere stesso, annullando, in breve tempo, gli sforzi compiuti dall’Onc. Non è un caso che l’art. 18 poteva essere esercitato solo dai proprietari che accettavano di versare all’ente il prezzo dell’espropriazione maggiorato dal valore dei fondi migliorati, e che si impegnavano ad accettare di utilizzare il fondo secondo le direttive agronomiche dettate dall’Onc. L’abolizione del diritto di riscatto fu solo in apparenza di ostacolo al ricompattamento della grande proprietà, in con il Rd 3258 del 31 dicembre 1923. Il Collegio centrale arbitrale fu ricostituito con Rdl in data 19 luglio 1924. 19 Il termine dei 75 giorni fu oggetto di critiche del commissario dal momento che la scadenza fissata poteva essere facilmente raggiunta. Ma, al di là del singolo articolo era tutto l’impianto del trasferimento delle terra a destare perplessità. 20 L’abolizione era stata auspicata fin dal 1919 dalla Lega nazionale delle cooperative perché contro «un diritto che i lavoratori della terra agitano in tutto il mondo e verso il quale la stessa mentalità della borghesia più moderna ha modificato il suo atteggiamento. Parliamo del diritto di rivendicazione delle terre!», Su l’Opera dei Combattenti, in «La Cooperazione Agricola», 23 Febbraio 1923.

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quanto, a seguito della svolta economica deflattiva, si sarebbe riconsegnata la piccola proprietà ai vecchi proprietari21. Nella realtà, questa modifica indeboliva la capacità di mantenere costante la dimensione dell’azienda e l’unicità degli indirizzi colturali, come pure limitava l’esecuzione delle opere di bonifica prima di qualsiasi concessione. Se, come diceva Magrini, i concessionari non eseguivano le opere di bonifica perché scoraggiati dalla causa del riscatto dei proprietari, è anche vero che l’art. 18 favoriva la continuità dei lavori di trasformazione riducendo la distanza tra le opere di miglioria e il frazionamento in piccole proprietà. Contrariamente alle valutazioni di Magrini, Sansone finché fu in carica difese il diritto di riscatto: credeva così di garantire l’esistenza di grandi aziende migliorate e ad alto reddito contro il mantenimento del “latifondo contadino”. Il 6 e il 7 ottobre del 1924 si insediò il nuovo Consiglio d’amministrazione dell’Onc costituito da 15 membri sotto la presidenza del conte Nasalli-Rocca22. In quella occasione fu votato l’ordine del giorno che prevedeva l’approvazione unanime della relazione finale del commissario Magrini23. Il voto favorevole fu per l’appunto unanime, riconoscendo al commissario «viva soddisfazione […] per aver saputo ristabilire i più cordiali rapporti con la massa organizzata dei combattenti, conferire all’Opera il più alto prestigio e assicurarle le più alte condizioni finanziarie-economiche per lo svolgimento del vasto programma rispondente alle finalità dell’Istituto»24. Il piano di ristrutturazione non mirò all’attuazione di un programma, quanto a un riordinamento finanziario e tecnico dell’ente. In esso era presente un tecnicismo esasperato e i Inea, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice cit. Esso fu ricostituito con il Rdl del 24 agosto 1924. Battistella fu confermato direttore generale. 23 Onc, Attività dell’Onc durante il periodo di straordinaria amministrazione, Roma 1924. 24 L’Opera nazionale combattenti nel periodo di straordinaria amministrazione (1923-1924), in «Problemi d’Italia», novembre 1924, p. 60. 21 22

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tratti di un conservatorismo privo di linee guide innovative. Il risanamento patrimoniale fu perseguito attraverso l’aumento di liquidità sia per mezzo dei recuperi delle anticipazioni sulle polizze di assicurazioni gratuite a favore dei combattenti, sia con la diminuzione degli impegni presi25. Ma se dal un lato furono eliminati gli sprechi, dall’altro, a causa della riduzione della spesa26, furono revisionati i progetti già esistenti, diminuiti gli interventi di bonifica e retrocesso il patrimonio fondiario precedentemente acquisito. Secondo il commissario, il patrimonio fondiario dell’Onc si era in parte costituito «più per le urgenze di indole esterna ed occasionale che non per l’attuarsi di un razionale disegno»27. Non sempre e non ovunque le espropriazioni e i relativi acquisti erano stati eseguiti in considerazione delle disponibilità tecniche e finanziarie. Di conseguenza non sempre fu possibile restituire il fondo al vecchio proprietario, senza gravare sul bilancio dell’Onc, sia per i diritti pre25 Il maggiore intervento fu il recupero di un ingente debito di 140 milioni, per mezzo del riscatto delle polizze relative alle operazioni rimaste insolute a scadenza. In un primo momento fu attivata un’intensa propaganda presso gli ex-combattenti per indurli a restituire le somme avute in anticipo, senza però produrre gli effetti sperati. In un secondo momento, nel maggio del ’24, l’Ina intervenne stipulando con l’Onc una convenzione nella quale fu stabilito un piano rateale di riscatto. Un’altra trattativa fu condotta a termine con l’Istituto nazionale di credito per la cooperazione. I 15 milioni, che nel 1920 l’Onc aveva destinato ad operazioni di credito mediante l’Istituto, furono vincolati maggiormente a favore di cooperative, ibid. 26 Il complesso programma delle bonifiche idrauliche aveva comportato un investimento di circa 60 milioni. L’impegno finanziario era stato aggravato dal costo delle varianti, in quanto la maggior parte dei progetti predisposti aveva carattere semplicemente di massima e molti lavori erano stati intrapresi senza regolari concessioni, e con scarsi controlli degli organi centrali. Pertanto, l’urgenza maggiore fu quella di assicurarsi i rimborsi statali, regolarizzando tutta la materia delle concessioni e trasformando in esecutivi i progetti esistenti di modo che lo Stato potesse avviare i necessari controlli e collaudi e ottenere una accelerazione dei rimborsi, ibid. 27 Ivi, p. 63.

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tesi dagli occupanti del fondo, sia dai proprietari. Tuttavia laddove tali retrocessioni poterono essere effettuate si riferirono a una superficie di 5000 ettari, per un valore di circa 10 milioni. In altri casi, un simile risultato si raggiunse con la vendita a scopo di smobilizzo, trasferendo al compratore l’obbligo dei miglioramenti e con pagamento in contanti, come ad esempio con le quotizzazioni. Il fine era di riconsegnare a Mussolini un ente ripulito dalle influenze dei partiti e di interessi che sarebbero stati “elemento di disordine e di discordia”28. Tuttavia, nel rinnovato rapporto tra il ceto politico e la burocrazia statale, il fascismo abbracciò una dimensione iper-politicista, e cioè una tendenza volta alla creazione di sempre nuove burocrazie parastatali, in cui «alla prudenza garantista, al legalismo strettamente universalista della prima burocrazia statale, si contrappone[va] la logica burocratica fondata sulla gestione della politica»29. In altri termini, il fascismo non lasciò molto spazio alla visione di una gestione tecnica della politica caldeggiata all’inizio e dallo stesso Magrini, fu invece proprio la politica del regime a prendere il sopravvento sui programmi ereditati dai nittiani. Da questo punto di vista, le critiche di Magrini alle modifiche che depotenziavano l’autonomia dell’Onc non furono gradite, e di conseguenza il suo piano di ristrutturazione non fu portato avanti fino alla fine. Magrini, al di là del personale dissenso alle nuove procedure di esproprio, temeva che attorno all’Onc si addensassero le pressioni di interessi privati coalizzati che, con l’avallo del governo, sarebbero diventate talmente forti da aggredire i gracili organi dell’Opera: Ivi, p. 67. Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 200; cfr. anche il prezioso contributo di Guido Melis, Due modelli di amministrazione tra liberalismo e il fascismo, ministero dei Beni culturali, Roma 1988, pp. 15 ss. 28 29

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Una politica terriera di qualche entità – affermava Magrini – esige l’impiego, sia pur prudente, di mezzi eccezionali; tutti i passati tentativi di colonizzazione interna, fondati sulla legge di espropriazione per causa di pubblica utilità o comunque sull’intervento diretto dello Stato, sono falliti per l’irresistibile pressione dei privati interessi. Queste considerazioni io ho ampiamente svolto nelle mie proposte, mettendo in rilievo le differenze, in questa parte, fra il vecchio e il nuovo Regolamento, e le conseguenze che sono da attendersi, e ho ripetutamente invocato la reintegrazione del precedente sistema di devoluzione dei terreni dell’Opera.30

L’auspicata linea dei “traghettatori” verso il fascismo, che intendeva sganciare l’ente dai legami con la democrazia, portatrice di una politica corruttrice e trasformista, sembrò fallire allorché segnata dalla continuità tra il modello “liberale” e quello fascista nella “gestione straordinaria dello Stato”. Sotto questo punto di vista, anche l’utopia tecnocratica del primo fascismo dovette cedere il passo a una ritrovata pratica non meno sottoposta a pressioni esterne. Del resto, le diverse posizioni interne al Cda dell’Opera − da una parte i supersiti dei nittiani (Beneduce, che a distanza di poco tempo diede ragione a Sansone sul pericolo della “deriva governativa” della gestione dell’ente, Petrocchi e Azzolini), fautori di un ritorno al regolamento del 1919, dall’altra tutti gli altri membri schierati a favore del regime − non si confrontarono. La partita si giocò altrove, nelle segrete stanze del governo che tendeva a espellere qualsiasi voce dissidente. 3.3 La fascistizzazione Visto in una prospettiva di medio e lungo termine, il regolamento del 1923 fu una fase transitoria verso la definitiva fascistizzazione dell’Onc. L’intero impianto normativo 30 L’Opera nazionale combattenti nel periodo di straordinaria amministrazione (1923-1924) cit., p. 64.

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fascista fu portato a compimento con il terzo regolamento legislativo ratificato dal Rd 1606 del 16 settembre 1926, che abrogò definitivamente i regolamenti del 1919. In primo luogo, fu soppresso il Consiglio d’amministrazione. In tal modo tutti i poteri di rappresentanza si concentrarono nella figura del Presidente, nominato per decreto dal capo del governo e coadiuvato da un direttore, prescelto sempre da Mussolini, e da un Consiglio consultivo di nove esperti designati dal ministero dell’Agricoltura con funzioni di mera consulenza tecnica. In questo modo il regime spazzava via ogni residuo democratico. L’aspirazione privatistica e autonomistica originaria naufragava a causa di una conduzione politicamente centralizzata. Dopo un nuovo breve periodo di commissariamento, dal marzo al settembre del 1926, in seguito alla svolta turatiana col cambio delle gerarchie in seno al partito e la conseguente elaborazione e successiva approvazione del 3° regolamento, l’avv. Angelo Manaresi31, già commissario, fu nominato presidente dell’ente fino al settembre del 1929. Privo di qualsiasi competenza tecnica, era stato scelto perché ritenuto un buon interprete dell’avvenuta burocratizzazione dell’ente, in piena sintonia con la politica di regime: eccessiva formalizzazione delle procedure, abolizione di ogni istanza di meccanismi elettorali, soppressione delle opposizioni al livello centrale come al livello provinciale. Ciò nondimeno, nell’opuscolo pubblicato dall’ente nel 1926, Manaresi, in piena sintonia con il suo precedessore Magrini, denunciò le modificazione introdotte dai nuovi regolamenti che, a parer suo, avevano «appesantito e complicato una procedura di esproprio, che unicamente dalla sua semplicità e snellezza traeva le ragioni della sua efficacia»32. Inevitabilmente, un nuovo “cambio della guardia” 31 Un passato da ex combattente, bolognese e futuro sottosegretario al ministero della guerra (1933). 32 L’Opera nazionale combattenti cit., p. 63.

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(1929) nelle nomine politiche investì anche l’Onc con la designazione di un Commissario del governo nella figura di Valentino Orsolini Cencelli fino al 1935 e in seguito dal 1935 al 1943 di un nuovo presidente, il barese Araldo Crollalanza. Quest’ultimo, di ascendenza nobiliare, divenne sottosegretario e poi ministro dei Lavori pubblici. Alla centralizzazione della struttura organizzativa corrispose anche la centralizzazione delle funzioni. Nel nuovo regolamento l’attività agraria diventò l’attività centrale dell’ente. Rispetto ai precedenti regolamenti legislativi, la complessa articolazione dell’istituto e gli strumenti del funzionamento subirono ulteriori modifiche. Queste si possono riassumere in: sostengo al sorgere di colonie, borgate rurali e nuovi centri abitati; estensione delle condizioni di espropriabilità, con l’aggiunta delle terre dei beni suscettibili alla riconversione industriale per la costruzione di centri di colonizzazione; mantenimento del procedimento di trasferimento del 192333. La più importante modifica interessò i fini statutari e rappresentò una cesura con i recenti trascorsi. Mentre i regolamenti abrogati avevano assegnato all’Opera il fine generico di promuovere le condizioni tecniche e civili per una maggiore produttività, il nuovo regolamento esplicitava le finalità e gli ambiti d’intervento «provvedendo all’incremento della piccola e media proprietà, in modo da accrescere la produzione e favorire l’esistenza stabile sui luoghi di una più densa popolazione agricola» e promuovere «la fondazione di colonie agricole o di nuovi centri abitati, chiamandovi specialmente agricoltori combattenti»34. In questo modo al progetto beneduciano, basato sulla diffusione della conduzione cooperativistica sostenuta dall’inArtt. 16 e 17 del Regolamento Legislativo del 1926. III regolamento legislativo. Titolo I. Gli scopi dell’Opera nazionale, artt. 1 e 3, in Onc, I 36 anni dell’opera nazionale combattenti (1919-1955) cit., p. 249. 33 34

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tervento pubblico, si sostituiva una decisa preferenza per le concessioni individuali, frutto delle finalità ruraliste della colonizzazione fascista che prevedeva la «formazione di un nuovo nucleo di piccoli proprietari, moralmente e tecnicamente preparati, consapevoli dalla funzione sociale della proprietà [che era tesa] a neutralizzare i velenosi fermenti che la grande industria, con gli ammassamenti operai, inevitabilmente sviluppa[va] nei centri contadini»35. I dispositivi del regolamento de1 1926 erano rivolti a risolvere uno dei problemi che aveva posto Alfredo Rocco36 nel suo discorso a Perugia nel 1925 fra gli obiettivi fondamentali della rivoluzione legislativa fascista, e cioè il problema dell’attitudine dello Stato di fronte al diritto di proprietà individuale: il proprietario terriero ha alti e precisi doveri sociali da adempiere, e quando tali doveri disconosca, non imprimendo, con il lavoro, i segni della propria personalità sulla terra, non merita la tutela dello Stato e deve coattivamente cedere la sua proprietà nell’interesse generale a chi se ne dimostri più degno37.

L’espropriazione per pubblica utilità fra il cittadino e il potere pubblico, entrambi considerati come autonomi soggetti di due distinte sfere giuridiche, ebbe in età liberale il carattere transitorio. Alla inviolabilità del diritto alla proprietà individuale era contrapposta la necessità di soddisfare un interesse generale. L’accordo tra espropriato ed ente espropriante si attuava sotto l’aspetto di un’alienazione subordinata a talune condizioni e formalità, la cui osservanza era garantita mediante l’intervento di un altro potere, quello della giustizia ordinaria. Lo Stato interve35 Una nuova forza di conservazione sociale, in L’Opera nazionale combattenti cit., p. 41. 36 Rocco D’Alfonso, Costruire lo Stato forte. Politica, diritto economia in Alfredo Rocco, Franco Angeli, Milano 2004. 37 Alfredo Rocco, Lo Stato e l’agricoltura meridionale, Roma 1925.

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niva solo per pagare un prezzo che spesso soddisfaceva, se non avvantaggiava, il proprietario, dovendo coprire il valore del fondo e ogni altro diritto preteso. Questa costruzione giuridica fu dapprima modificata dai governi del dopoguerra, e poi rigettata del tutto dal fascismo per ragioni ideologiche. Col nuovo regime non fu di certo evocata la funzione sociale del diritto di proprietà (rintracciabile invece nei piani di Beneduce del 1919), ma venne invece richiamata l’idea della compenetrazione della sfera del diritto individuale nella sfera del diritto dello Stato, che in successive elaborazioni diventò basilare nella concezione dell’ordinamento della società fascista. In base a questa fusione, il diritto di proprietà doveva essere trattato in funzione della sua attività giuridica, privata e pubblica e, quindi, non solo sotto l’aspetto di un mezzo rivolto esclusivamente a soddisfare i bisogni e le azioni dell’individuo, ma elemento integrativo della potenza economica, demografica e del progresso della nazione e dello Stato. La proprietà, come custode della ricchezza agricola, era la funzione dell’espansione del patrimonio agricolo della nazione. A questo punto, era scontato che, se il cittadino proprietario non era nelle condizioni, anche se non per colpe sue, di far in modo che il fondo soddisfaceva a quelle condizioni di diritto pubblico modificate, era necessario che sotto la tutela e la garanzia dello Stato e di una veloce procedura di accertamento, l’azione dell’individuo fosse sostituita dall’azione di un ente, come l’Onc. Ma dal punto di vista finanziario, già dal 1924 l’ente non era in grado di eseguire nuovi piani di espropri. Dal 1923 al 1925 l’Opera chiuse in negativo il proprio bilancio di sostegno al cooperativismo mentre il governo era impegnato nella colonizzazione agraria della Tripolitania38 dichiarando la demanialità di tutte le terre incolte della Libia39. 38

1922. 39

La quale decolla proprio nel 1923 col decreto Volpi del 18 luglio Il contratto di colonia che l’Onc definì per i coloni di Libia, fu lo

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Le bonifiche pontine rappresentarono un altro fronte del salasso di risorse che incrinò definitivamente la solidità finanziaria dell’ente. Nel 1935 il bilancio dell’Opera risultava nel suo complesso già impegnato di fatto per oltre 258 milioni, mentre le entrate si limitavano a 218 milioni, con un deficit di cassa di 40 milioni balzato alla fine di quell’anno a 60 milioni40. A determinare il dissesto finanziario contribuirono, in particolar modo, i cospicui investimenti nell’Agro pontino, che già al 31 dicembre 1934 avevano assorbito l’enorme cifra di 408 milioni di lire, a cui si sommarono 80 milioni circa stanziati nel bilancio del 1935 per il completamento dei lavori di esecuzione di nuove opere. Solo le edificazioni delle città costarono 125.000.000 di lire41. Il vasto programma di bonifica delle paludi pontine assorbì e immobilizzò tutte le restanti attività finanziarie dell’Opera (nuovi investimenti di bonifiche idrauliche, nuovi acquisti di fondi e richieste di attribuzioni di terreni) che alla fine del 1931 ammontavano ancora, complessivamente, per titoli pubblici e fondo di cassa a lire 103.127.128, costringendo l’ente ad attingere al credito oneroso. Oltre alle bonifiche nel Lazio, le cause del passivo furono varie e difficilmente risanabili in poco tempo. Vi erano innanzitutto le aziende agrarie che risultano deficitarie. Per questo motivo, nel 1935 l’Onc ridusse le previsioni degli utili aziendali a soli 2 milioni di lire, in confronto agli 8 o 10 riportati negli esercizi precedenti. Poi, ci si doveva confrontare con la scomparsa degli interessi (4-5 milioni) sul patrimonio finanziario dell’ente, assorbito quasi totalmente dagli investimenti pontini e non compensati dai redditi ricavati stesso utilizzato per la colonizzazione delle città pontine, e adottato in seguito per la colonizzazione del latifondo siciliano, Giarrizzo, Partiti di massa e intellettuali cit., p. 327. 40 Acs, Spd, Co, b. 509742, Relazione al Duce sulla situazione finanziaria dell’Opera nazionale combattenti, in rapporto ai contributi alle associazioni combattentistiche. 41 Ibid.

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dai nuovi investimenti; e infine vi era la mole degli interessi passivi sui mutui contratti nel corso degli anni. Per far fronte alla difficile situazione finanziaria, il presidente dell’Onc chiese e ottenne dal ministro dell’Agricoltura un provvedimento urgente per risanare i debiti dell’Onc contratti nei lavori della bonifica pontina. In particolare, si trattò di un «Contributo accordato dallo Stato di 9.500.000 a sollievo degli interessi dovuti sui prestiti e mutui contratti e da contrarsi dall’Opera stessa per l’esecuzione di opera di bonifica e di trasformazione fondiaria nella zona pontina»42. Assieme a questa richiesta ve ne furono altre che richiamavano l’urgenza del riscatto a breve delle anticipazioni e la riduzione dei contributi alle associazioni combattenti43. Ma la situazione finanziaria non accennò a migliorare, anche perché i lavori di bonifica nell’Agro pontino continuarono incessantemente. Del resto, le proposte per il nuovo funzionamento dell’Opera passarono non tanto attraverso la trasformazione fondiaria quanto sulle “fondazioni di colonie agricole”, così nel 1938 le nuove costruzioni rurali per l’appoderamento furono 1.266 per una spesa di 63 milioni44. Nel 1942, in seguito alla partecipazione dell’Italia alla Seconda guerra mondiale, l’Opera fu costretta nel Lazio a passare controvoglia dal regime mezzadrile a quello dell’assegnazione definitiva dei poderi a riscatto, alleggerendo di poco la pressione della spesa finanziaria e di gestione, mentre in Sicilia alla palude si sostituiva un altro male, il latifondo, altrettanto avvertito come un insopportabile “nodo irrisolto”.

Acs, Spd, Co, b. 509742, R. decreto del ministero dell’agricoltura. Acs, Spd, Co, b. 509742, Il ministro dell’Agricoltura al capo del Governo, Roma, 28 novembre 1935. 44 Asc, Spd, Co, b. 509742, Sviluppo dell’appoderamento nei vari compartimenti. 42 43

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3.4 Quotizzazioni e propaganda Se agli inizi degli anni Venti l’ispettorato poteva vantare una crescita del numero delle richieste di espropri e delle terre espropriate, con l’avvento del fascismo questo trend mutò e, rispetto al triennio 1920-1922, diminuirono il numero delle terre espropriate, la porzione di terre precedentemente acquisite e la possibilità di intervenire con le bonifiche45. Pertanto, nel 1925 molti dei progetti di bonifica approntati non furono completati. La crescita della “cultura dell’efficienza”, dopo la sperimentazione bellica, si concludeva con la vittoria fascista. Le politiche degli anni Trenta furono inclini alla piccola proprietà contadina e alla disgregazione della grande unità produttiva. La meta finale dell’appoderamento di singole famiglie agricole come nuovo ordinamento degli spazi fisici e sociali subentrava a quella della bonifica. Una sferzata ideologica che intese rivitalizzare le ragioni dell’“assalto al latifondo”46, con annessi i temi della sbracciantizzazione, della mezzadria, della proprietà coltivatrice, della moralizzazione delle masse rurali47. Questi argomenti trovarono un campo di sperimentazione e la piena applicazione con la legge sul latifondo siciliano del 2 gennaio 1940 e l’istituzione dell’Ente per la colonizza45 Opera nazionale combattenti (a cura di), Quotizzazione delle terre in Sicilia, Roma 1934, pp. 12 ss. 46 Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo cit., p. 464. 47 L’intervento era teso a ricondurre la varietà di rapporti di lavoro esistenti nell’economia latifondistica all’interno dello schema della mezzadria toscana riproponendo l’antica tematica positivista otto-novecentesche di Sidney Sonnino per garantire la stabilità sociale: residenza obbligatoria sul fondo, costruzione di case coloniche e di borghi, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Inchiesta in Sicilia, Vellecchi, Firenze 1974, vol. I, pp. 222-223; Sidney Sonnino, I contadini in Sicilia, G. Barbera, Firenze 1877; alcuni dei temi sonniniani furono poi ripresi da Nallo Mazzocchi Alemanni, La redenzione del latifondo siciliano. Opere e problemi, Palermo 1942; Manlio Pompei, Difesa dell’unità colturale. Maggiorascato rurale, in «La conquista della terra», settembre, 1938.

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zione del latifondo siciliano che si sostituì all’Onc48, diversamente da quanto era avvenuto par la bonifica del Lazio. Agli inizi degli anni Trenta, quando l’azione dell’Onc in Sicilia si sarebbe potuta estendere su oltre 15.000 ettari di cui erano pronti gli atti di esproprio, il regime costrinse l’ente ad abbandonare il campo della sperimentazione in Sicilia, per concentrare ogni suo sforzo economico e organizzativo sull’Agro pontino, destinato a costituire la punta di diamante della capacità logistica e realizzativa del fascismo nel campo agrario49. Il patrimonio di fondazione dell’Onc, che nel 1919 era di 300 milioni, fu prosciugato per le grandi bonifiche del Lazio e della Puglia. Nel 1935, a fronte di una spesa totale di 488 milioni di lire, concentrata maggiormente nell’esecuzione degli investimenti della bonifica pontina, 18 milioni furono stanziati per i nuovi investimenti delle bonifiche idrauliche, 9 per la dotazione delle nuove aziende agrarie, i miglioramenti fondiari e i nuovi fabbricati nelle vecchie aziende, e soltanto 12 per i nuovi acquisti di fondi e le nuove richieste di attribuzioni di terreni50. Di questi ultimi, i prestiti concessi alle cooperative siciliane furono di 8 milioni di lire51. Gli effetti di queste scelte non tardarono a avvertirsi. Mauro Stampacchia, Sull’”assalto” al latifondo siciliano nel 1939-1943, in «Rivista di storia contemporanea», ottobre 1978, pp. 586 ss., anche Ruini, Le vicende del latifondo siciliano cit., pp. 184-193; cfr anche Tino Vittorio, Il lungo attacco al latifondo: spiritara e contadini nelle campagne siciliane (1930-1950), Cuecm, Catania 1995. 49 Onc Sicilia (1919-1969), b. 57 f. 53, Contributo dell’Opera nazionale combattenti alla Riforma Agraria in Sicilia, relazione del dott. Sante Privitera, s.d. 50 Acs, Spd, Co, b. 509742, Relazione al Duce sulla situazione finanziaria dell’Opera nazionale combattenti, in rapporto ai contributi alle associazioni combattentistiche. 51 Inea, Inchiesta sulla piccola proprietà formatasi nel dopoguerra cit., p. 23. 48

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La grande opera, a elevati investimenti e concentrata in un unico luogo, compromise in Sicilia, Calabria e Campania la prosecuzione degli espropri già avviati e la realizzazione di medio-piccoli interventi di bonifica, capaci nell’insieme d’incidere significatamene. A seguito dei piani di colonizzazione fascista, la Sicilia perse definitivamente il primato a vantaggio di altre regioni dove si continuarono le bonifiche: il Lazio beneficiò dell’intervento dell’Opera su un area di 67.000 ettari, seguita dalla Puglia con 37.000 ettari e la Campania con 15.000 ettari. L’azione agraria dell’Onc in Sicilia coinvolse solo in minima parte le opere di bonifica52. Le terre acquisite dall’ispettorato non furono gestite attraverso la conduzione diretta, come nel caso del Tavoliere o dell’Agro pontino, ma con la conduzione indiretta, mediante le quotizzazioni, sotto la vigilanza dell’Onc che concedeva le terre alle cooperative nelle varie forme contrattuali. Lo scopo era creare le condizioni di vantaggio per la formazione della piccola proprietà e di mobilizzare in breve tempo i capitali impiegati per investirli in altre imprese a beneficio di territori dove il fascismo non aveva potuto estendere la sua azione, disperdendola in una miriade di interventi spesso marginali53. La via delle quotizzazioni indiscriminate prevedeva l’assegnazione definitiva delle terre con l’obbligo, solo formale, delle migliorie. La retorica fascista chiamava in causa «il valore della piccola proprietà coltivatrice, portatrice di un nuovo spirito di produzione, di lavoro, di sacrificio, di risparmio, mediante l’attaccamento alla terra»54, per mascherare la diffiOpera nazionale combattenti (a cura di), Bonifiche idrauliche e trasformazioni fondiarie compiute ed in corso al 31 dicembre 1926, Tip. Castaldi, Roma s.d. 53 L’unico esperimento di provvisoria gestione diretta di fondi fu tentato a Gela. Si vedano le conclusioni, cap. 54 Le realizzazione dell’Onc. Tenute di Sicilia frazionate e cedute ai combattenti, in «La conquista della terra», ottobre 1930, pp. 9-11. 52

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cile congiuntura di una nuova crescita demografica dovuta al blocco delle correnti migratorie e le esigenze di bilancio. Malgrado lo sforzo dell’ispettorato per approntare in tutta l’isola i sorteggi per la quotizzazione, qualsiasi slancio operativo era destinato a scontrarsi anche con gli eccezionali impedimenti ambientali. Quindi, all’impreparazione di molti organismi cooperativi e alle resistenze della proprietà, vi erano anche gli ostacoli di tipo “ecologici”, non meno essenziali nel determinare gli esiti dei miglioramenti agrari. Una condizione di difficoltà strutturale che era di impedimento a una qualsiasi bonifica attraverso le sole forze dei quotisti55. Quindi, né case, né pozzi, né strade, né canali di irrigazione furono approntati in maniera significativa56. Alla fine molti degli acquirenti rivendettero le terre non riuscendo a pagare il debito contratto al momento dell’acquisto o dell’affitto a causa della rivalutazione della lira del 1927, della discesa dei prezzi agricoli e degli scarsi raccolti. Il tentativo di innestare sulle vecchie strutture aziendali l’organizzazione su base poderale57, si impose con scarsi risultati sulle stesse opzioni tecnico-agronomiche, che erano i presupposti della bonifica integrale58. Il fascismo non riconobbe la questione della razionalizzazione delle acque come un tema 55 Mercurio e Russo, L’organizzazione spaziale della grande azienda cit., pp. 113-114. 56 Acs, Onc, Sicilia, b. 57 f. 53, Contributo dell’Opera nazionale combattenti alla Riforma Agraria in Sicilia, relazione del dott. Sante Privitera, s.d. 57 Si veda l’esempio del Tavoliere di Puglia in Francesco Mercurio, La frontiera del Tavoliere: Agricoltura, bonifiche e società nel processo di modernizzazione del Mezzogiorno tra ’800 e ’900, Amministrazione provinciale di Capitanata, Foggia 1990, pp.119-165; Piero Bevilacqua (a cura di), Il Tavoliere di Puglia: bonifica e trasformazione tra XIX e XX secolo, Laterza, Bari 1988; e più in generale Barone, Mezzogiorno e modernizzazione cit., pp. 280-289. 58 Giovanni Mira, L’opera nazionale combattenti dal 1919 ad oggi, in Opera nazionale per i combattenti e Riforma Agraria nel Mezzogiorno, Roma 1948, pp. 5-10.

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prioritario rispetto alle altre opere di trasformazione fondiaria, come invece andavano predicando i bonificatori negli anni Trenta59. Questo tentativo di costruire una campagna organizzata in modo estraneo dalle consuetudini, dalle convenienze produttive esistenti e dai vincoli ambientali preesistenti, fu la caratteristica principale dell’intervento dell’Onc nel Mezzogiorno fascista. Il fascismo finì per dettare un unico criterio d’azione, sia che si trattasse di condurre le opere di bonifica sia di sovrapporre al sistema della grande proprietà estensiva indirizzi colturali intensivi o addirittura di concedere solo le piccole e nude proprietà poderali. E a questa funzione “onnicomprensiva” dovevano servire gli enti in piena epoca fascista. La logica sostanzialmente fondiaria che ispirò l’Onc finì per adottare programmi di persuasione collettiva60. Fin dal 1925 sperimentò un’accorata azione di propaganda agraria finalizzata alla promozione del regime e giustificata dalla “necessità” totalitaria di elevare e di educare dal punto di vista tecnico-professionale le masse rurali. Dapprima la tecnica fu sperimentata tra i contadini del Lazio. In questa occasione lo stesso Mussolini si compiaceva dell’esperimento e ordinava: «di ampliare al massimo grado la adozione di simile sistema come il migliore e più suggestivo mezzo di educazione e persuasione»61. L’Opera, così, si 59 Nunzio Prestianni negli anni trenta sosteneva che: «mentre bonifica idraulica ed irrigazioni, consentono di aumentare il reddito da zero a cento, il beneficio delle altre opere di natura fondiaria, strade, case, sistemazioni, non importano sensibile utilità, e talora addirittura nulla, dal punto di vista del tornaconto economico», in Nunzio Prestianni, Le trasformazioni fondiario-agrarie in Sicilia, in Comitato promotore dei consorzi di bonifica nell’Italia meridionale e insulare, Roma 1930, p. 314. 60 Sul tema della propaganda del regime, Mino Argentieri, L’occhio del regime, Bulzoni, Roma 2003; Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, Laterza, Roma-Bari, 1979; sul tema della propaganda agraria, Margherita Bonomo, Autoritratto rurale del fascismo italiano: cinema, radio e mondo contadino, EdiArgo, Ragusa 2007. 61 La propaganda agraria cinematografica svolta dall’Opera nazionale combattenti, in «La Conquista della terra», febbraio 1930, p. 19.

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disponeva di coordinare e intensificare l’azione propagandistica, sollecitando le organizzazioni combattentistiche, sindacali, fasciste e delle cattedre ambulanti di Agricoltura. I primi cineambulanti (si trattava di furgoni attrezzati per la proiezione e forniti di autonoma sorgente di luce) iniziarono l’attività di propaganda nel maggio del 1927, riscuotendo successo tra le masse rurali che riempivano i luoghi delle proiezioni. La propaganda fu pianificata provincia per provincia su itinerari prestabiliti dall’Opera62. La direzione tecnica fu affidata ai direttori delle cattedre di Agricoltura con il compito di illustrare le proiezioni. La collaborazione dell’Onc con le cattedre ambulanti si dimostrò utile per l’organizzazione delle proiezioni nei singoli paesi delle provincie. In Sicilia, la propaganda dei cineambulanti cominciò il suo itinerario nel maggio del 1927 dalla provincia di Caltanissetta, facendo tappa in 12 centri rurali in soli 13 giorni63; subito dopo fu il turno della provincia di Agrigento, qui in soli 23 giorni si raggiunsero altrettante 23 località64. Le proiezioni erano svolte nelle piazze principali, più raramente in luoghi chiusi, come i grandi magazzini o nelle stalle private65. Per quanto riguarda il materiale filmistico in dotazione dell’Opera, era ben poca cosa e si limitava soprattutto alla diffusione dell’uso di fertilizzanti promossa dalla società Montecatini che aveva tutto l’interesse a pubblicizzare i suoi prodotti. Solo in un secondo momento l’Opera riuscì ad allestite speciali pellicole rispondenti alle esigenze specifiche di una più vasta iniziativa di propagan62 Ascl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 246, Il prefetto di Caltanissetta alle autorità provinciali e al direttore della Cattedra Ambulante, Caltanissetta 15 maggio 1927. 63 Ascl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 246, Giro di propaganda agraria nella provincia di Caltanissetta 24 maggio-8 giugno 1927. 64 La propaganda agraria cinematografica svolta dall’Opera nazionale combattenti cit., p. 26. 65 Ascl, Pregettura, Gb, II versamento, b. 246, Lettera del presidente dell’Onc Manaresi al Prefetto di Caltanissetta, Roma 12 maggio 1927.

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da con un accordo stipulato con l’Istituto Luce66 e con la diretta collaborazione di cultori di scienze agrarie67. La scelta dell’Istituto Luce era garanzia di una maggiore professionalità della ripresa visiva. Da questo punto di vista l’ente migliorò anche il furgone di trasporto dotandolo di autonomi altoparlanti e di uno schermo a telo ripiegabile68. Fu così creata un’apposita cineteca agraria dotata di pellicole che interessavano i principali settori dell’agricoltura69, la granicoltura, la cerealicoltura, la viti-vinicoltura, la olivicoltura e l’oleificio e altre colture specifiche, che illustravano l’azione dell’Onc. L’aspetto più interessante era che il materiale prodotto aveva un profilo localistico, illustrante la pratica colturale di ogni regione. Negli anni Trenta l’Opera, assieme all’istituto Luce, iniziò delle edizioni speciali di pellicole riguardanti le varie colture della Sicilia, della Puglia e della Calabria. Una strategia che teneva conto della varietà del pubblico che si aveva di fronte e che rendeva così facilmente comprensibili le proiezioni. Tuttavia, oltre alle pellicole sulle principali e più diffuse colture agrarie rispondenti alle colture agricole delle diverse regioni, si avvicendarono sullo schermo proiezioni di film e documentari patriottici, di propaganda del regime 66 Piero Bevilacqua, Il paesaggio nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2002. 67 Alessandro Sardi, Cinque anni di vita dell’istituto nazionale Luce, Istituto Luce, Roma 1930; per quanto riguarda l’istituto Luce si veda anche Ernesto G. Laura, Le stagioni dell’aquila: storia dell’Istituto Luce, Ente dello spettacolo, Roma 2000; e anche Francesca Anania e Piero Melograni, L’Istituto Luce nel regime fascista: un confronto tra le cinematografie europee, Istituto Luce, Roma 2006. 68 Nuovo furgone da proiezione cinematografica dell’istituto Luce per la propaganda agraria, in «Giornale Luce», 22 giugno 1932, documentario, durata 00.02.68, si trova in www.luce.it. 69 Agli inizi degli anni trenta il servizio dei cineambulanti passò definitivamente all’Istituto Luce che porterà a compimento il piano di una cineteca dell’Onc.

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a sfondo didattico-propagandistico a favore, ad esempio, della “battaglia del grano”70, i discorsi e i viaggi diplomatici di Mussolini e romanzi a sfondo sentimentale avente per oggetto il tema centrale della difesa della patria, della ruralità, delle gesta del capo del fascismo71. Quest’ultima tipologia di proiezioni serviva anche a introduzione delle altre pellicole ed era molto efficace e riscuoteva un particolare successo soprattutto in luoghi dove la cinematografia era completamente sconosciuta. Gli sforzi economici e propagandistici funzionarono come strumenti per imporre modelli di una nuova società agraria che, per mezzo della dura disciplina, dovevano pervenire a ridisegnare la geografia e la politica modernizzatrice e totalitaria del regime fascista. Quest’ultima era rivolta a mostrare il successo di un intervento fondiario limitato a incardinare le famiglie di braccianti, coloni e mezzadri in un ordinamento agrario estensivo. Ma, ridistribuire la proprietà latifondista in piccole e piccolissime quote o trasferire le famiglie di braccianti abitanti nei grossi e medi centri nelle campagne, non significava popolare la campagna e neppure che il regime avesse centrato l’obiettivo di colonizzare e modernizzare l’economia rurale. Svuotata di ogni velleità tecnicista, l’Opera non ebbe più l’autorità politica per sviluppare i suoi interventi di trasformazione dei latifondi in Sicilia. In seguito, all’esaltazione delle politiche di quotizzazione e appoderamento, attraverso l’innesto di uno stock di case e di 9 borghi rurali72, vi fu in alcuni casi una modificazione del territorio. Restavano le difficoltà tecniche ed economiche di riconversione di un sistema colturale latifondistico, l’incompatibilità fra il sistema estensivo e la piccola unità poderale e quindi la permanenza di un sistema estensivo e la piccola azienda agricola, che impediva la Ascl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 246, Lettera del presidente dell’Onc Manaresi al Prefetto di Caltanissetta, Roma, 12 maggio 1927. 71 Bonomo, Autoritratto rurale del fascismo italiano cit. 72 36 anni dell’Opera nazionale combattenti cit. 70

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formazione di una vera piccola proprietà coltivatrice autosufficiente, in grado di partecipare attivamente ai nuovi processi dello sviluppo capitalista, capace cioè di stabilizzarsi dentro le logiche e i segmenti di mercato. 3.5 Primi bilanci. L’intervento agrario dell’Onc in Sicilia fino agli anni Trenta L’ispettorato non godette di alcun potere autonomo. L’ufficio era solo una sezione distaccata di quella centrale che aveva sede a Roma. Da questo punto di vista non si trattava di un autentico decentramento di competenze, perché non vi era un trasferimento di risorse finanziarie. La sola autonomia concessa all’ispettorato era confinata a dirimere gli eventuali conflitti giuridici tra cooperative e proprietari nelle cause di espropriazione, attraverso continui sopralluoghi di funzionari locali che, sovente, agivano in un clima di mutevoli inconvenienti, se non di aperta ostilità e di insicurezza. Ciò non impedì tuttavia di ottenere risultati qualitativamente rilevanti, anche se sul piano quantitativo essi furono mediocri rispetto agli sforzi di partenza che interessarono nella sola Sicilia un complesso fondiario di oltre 100.000 ettari. Una quota questa molto maggiore rispetto ai modesti 12.175 ettari di terreni espropriati (10%), in parte trasformati e quotizzati nell’intero arco 1919-195573. Di questi, circa 10.200 ettari furono espropriati nel solo triennio 1919-1921, che corrispondevano alla metà delle terre espropriate nello stesso arco di tempo in tutto il territorio nazionale. Gli espropri nel 1921 non seguirono il ritmo accelerato del 1920. Addirittura, molte delle decisioni di esproprio furono relative a domande presentate nel 1920. Nel breve periodo (1920-1922), la Sicilia fu la 73

Ibid.

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regione dove rispetto al resto dell’Italia furono presentare il 60% di domande di attribuzione di terreni dalle cooperative agricole tra gli ex combattenti, e con il maggior numero di espropri di grandi latifondi, anche grazie all’accordo bonario sul prezzo74 (laddove era possibile) stipulato tra l’Onc e il proprietario terriero75. Per quanto riguarda tutti gli altri casi dove non si riuscì a raggiungere alcun accordo sull’indennizzo, si dovette procedere attraverso le sentenza dei Collegi arbitrali76. Qui l’ispettorato ha potuto svolgere una particolare azione con maggiore larghezza di quanto non sia avvenuto nelle altre regioni del Regno. Con l’avvento del regime, le espropriazioni crollarono circa del 70% a seguito dell’effetto di più cause combinate che inducevano all’acquisto. Tra queste: la retrocessione dei fondi per risanare i bilanci, la cessata agitazione sociale nelle campagne, la convenienza dei prezzi agricoli e dei prezzi dei terreni rivenduti ai contadini dall’Onc, e i contributi dell’ente ai concessionari. Pertanto, fino alla metà degli anni ’30, dei 21.654 ettari complessivi delle terre già quotizzate e assegnate a 12.015 coltivatori ex-combattenti in tutta Italia, ben 9.580 ettari circa si riferirono a espropriazioni e quotizzazioni di terre sottratte in Sicilia ad altrettanti 5.020 quotisti. Dai dati forniti dall’ufficio di Catania risulta che nel complesso furono acquistati e assegnati nelle varie province 25 fondi così suddivisi77: due feudi negli altopiani litoranei di Sciacca e Menfi in provincia di Agrigento per un totale di 915 ettari, nove feudi dell’estensione di 4.109 ettari in quel74 Opera nazionale combattenti (a cura di), Note e considerazioni sulla determinazione del prezzo dei fondi espropriati, Roma 1923. 75 L’accordo privato sull’indennizzo tra l’Onc e i proprietari terrieri, fu raggiunto a Gela, a Regalbuto e a Salemi e in in provincia di Palermo, Onc, Relazione del Consigliere delegato al Consiglio d’Amministrazione. Esercizio 1921 cit., p. 78. 76 I collegi arbitrali dell’Opera nel quindicennio 1919-1933 cit. 77 Inea, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice cit., p. 19.

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la di Caltanissetta, la maggioranza dei quali concentrati nella piana di Gela per un complesso di 1.670 ettari, due nella provincia di Catania con 399 ettari, quattro nell’ennese con 1.951 ettari, di cui ben il 70% ricadevano sul circondario di Regalbuto, 1.472 ettari divisi in sette fondi appartenenti al circondario di Francofonte in provincia di Siracusa, e solo il feudo Mokarta per la provincia di Trapani con una estensione di 752 ettari78. L’estensione delle quote ai 5.020 contadini non superava i 5 ettari. Questi dati si riferiscono solo ai procedimenti che raggiunsero gli scopi prefissati, mentre molte altre si arenarono o fallirono per cause diverse e in diverse fasi della procedura di acquisto o di esproprio. Il numero dei fondi che l’ente non riuscì a cedere a cooperative, o a gestirli e trasformarli in via diretta, fu più ampio e dimostra l’intensità delle risorse finanziarie e umane dispiegate dallo Stato. Alcuni di questi ex feudi, per un’estensione di poco più di 3.000 ettari distribuiti nel circondario di Ramacca, in provincia di Catania, e Ribera, in provincia di Agrigento, furono attribuiti all’Opera dal Collegio e restituiti ai proprietari per inadempienze delle cooperative79. Altri 435 ettari in provincia di Enna e nel siracusano furono assegnati all’Onc ma non espropriati, perché le locali cooperative li avevano nel frattempo acquistati e lottizzati. Nella provincia di Messina 756 ettari passarono in proprietà alle cooperative con il parziale ausilio finanziario dell’Opera stessa, viceversa altri fondi non furono assegnati dai Collegi. Il fronte maggiore dei fallimenti comprese ben 157 78 Per gli ex feudi del circondario di Regalbuto si veda la recente tesi di laurea di Francesca Barbano, La cooperativa agricola a Regalbuto e l’Opera nazionale combattenti 1919-1958, laurea in Scienze Politiche, Università di Catania, 2005-2006, relatore prof. Rosario Mangiameli. 79 Sul caso di Ribera rimandiamo al capitolo successivo.

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fondi distribuiti su una superficie di 60.000 ettari nelle province di Agrigento, Caltanissetta, Catania, Palermo, Siracusa e Trapani. Qui, le pratiche di attribuzione non furono portate davanti al Collegio per mancanza di serietà e capacità finanziaria da parte delle organizzazioni che, da tempo, ne avevano fatto richiesta. Infine, ci furono domande di esproprio lasciate cadere per svariati motivi. Questi casi riguardarono 24 fondi, estesi su un comprensorio di 17.500 ettari concentrati maggiormente nelle province di Enna e Palermo80. Nel complesso si trattava di un enorme patrimonio terriero di circa 88.700 ettari sfuggito al controllo dell’Opera. Ciò nonostante, accanto alle esperienze naufragate, è opportuno anche considerare i casi in cui l’intervento dell’Onc riscosse un moderato successo. In modo particolare nelle provincie di Enna e Caltanissetta, lungo gli altopiani e le pianure litoranee, di Agrigento, Catania e Siracusa, si ebbero discrete operazioni di bonifica, mentre a Francofonte dal 1920 furono attribuiti all’Onc gli ex feudi Ragameli e Borghesia. Nel primo feudo, suddiviso in 1.029 quote alla cooperativa “La Combattente”, furono dissodati ben 460 ettari, arginati torrenti, scavati canali di scolo, impiantati vivai su 5 ettari, collocati 16.335 mandorli, 1.531 olivi, 387.820 viti, 207.500 aranci, 6.935 fruttiferi diversi81. Nel secondo fondo, concesso alla cooperativa “Il Piave” e suddiviso fra 266 quotisti, dopo aver provveduto al restauro di vecchi fabbricati esistenti nel podere, e dopo aver curato il tracciamento della rete stradale, si provvide ad aprire nel seno della montagna alcune gallerie per circa 400 80 Dati da noi elaborati e presenti in Quotizzazione delle terre in Sicilia cit., pp. 5-8. 81 Sulla trasformazione dei fondi da parte delle cooperative si veda anche Carmelo Schifani, Sulla cooperazione agricola in Sicilia nel periodo tra le due guerre e dopo la seconda guerra, in Inea, «Rivista di economia agraria», anno V, 1950, pp. 77-78.

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metri, col risultato di rinvenire una portata d’acqua di 78 litri al secondo. Ciò valse la trasformazione di 92 ettari di terreno scosceso in rigogliosi aranceti82. Si delineavano così nuovi scenari dell’organizzazione dell’azienda agraria determinando uno sviluppo del territorio a macchie di leopardo83. I meriti indiscussi dell’Onc consistettero nel lavoro di agronomi, ingegneri e urbanisti per la definizione di organici programmi di pianificazione territoriale e di trasformazione fondiaria che segnavano il passaggio dall’organizzazione spontanea del territorio ai primi tentativi di pianificazione sociale ed economica dei circondari agrari. Il latifondo, dunque, restava il sistema economicamente più adatto alle condizioni presenti, anche se furono avviate soluzioni razionali al problema produttivo. Questo processo di modernizzazione, che avrebbe dovuto necessariamente scorrere sui binari della bonifica, non riuscì a determinare cambiamenti tali da ridisegnare le mappe territoriali in cui continuavano a prevalere massimi profitti con ridotti investimenti e una condizione ambientale segnata da vincoli molto rigidi84.

82 La documentazione sul caso di Francofonte è vasta ed è presente in Acs, Onc, Sicilia, b. 30 f. 10, b. 31 f. 11, b. 32 f. 15-16 e b. 33 f. 17-21. 83 Per una visione più completa delle trasformazioni agrarie in Sicilia, Nunzio Prestianni e Ettore Taddei, Sicilia, Inea studi e monografie, 7, Rapporti fra proprietà, impresa e manodopera nell’agricoltura italiana, Roma, 1931; Scrofani, Sicilia. Utilizzazione del suolo cit.; e il più recente Michele De Benedictis, L’agricoltura nel mezzogiorno: “la polpa e l’osso” cinquant’anni dopo, in «La Questione Agraria», 2, 2002. 84 Francesco Mercurio, Agricoltura senza casa. Il sistema di lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo, in Bevilacqua, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea cit., vol. I; Angelo Massafra e Salvatore Russo, Microfondi e borghi rurali nel mezzogiorno, in Bevilacqua, Storia dell’agricoltura cit., vol. I; Salvatore Lupo, Storia e società in Sicilia in alcuni studi recenti, in «Italia contemporanea», 154, 1984..

4. La guerra persa a Ribera

4.1 Luoghi fisici e sociali Gli ex feudi Gulfa Giumarella, Gulfa Panetteria, Castellana e Camemi si estendevano su una superficie di 1.500 ettari vicino Ribera, un medio centro agricolo di oltre 10.000 abitanti nell’altopiano dell’interno a 230 metri sopra il livello del mare nel lato meridionale occidentale della provincia di Agrigento, e dividevano la zona montuosa dell’interno da quella costiera. I fondi erano di proprietà di don Tristano Alvarez de Toledo y Gutierrez della Concha Duca di Bivona, senatore e Grande di Spagna e maggiore possidente del circondario. Nel solo territorio comunale di Ribera il duca possedeva nove feudi (circa 10.000 ha.), con possedimenti variabili dai 300 ai 600 ettari sui quali egli si limitava a riscuotere le rendite da Madrid senza intrecciare alcun rapporto con le comunità locali. Nel corso dei secoli, la rete dei poteri feudali del duca era rimasta intatta e gestita da una amministrazione unitaria, non frazionata. Il comm. Cascio era il fiduciario del duca e l’amministratore generale delle sue proprietà in Sicilia, il cav. Pietro Ciccarello, prosindaco di Ribera e fiduciario locale. L’assenteismo del proprietario si traduceva nella forma di un’apatia per qualsiasi tipo di investimento fondiario che aiutasse a intensificare la produzione aziendale e a migliorare la qualità dei prodotti. L’ordine economico e sociale dominante era quello latifondistico estensivo sovrastato dal grano e dal pascolo, e

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inframmezzato da qualche mandorleto e vigneto. I collegamenti viari erano scadenti. Per il trasporto di una salma di grano dai feudi a Girgenti o a Porto Empedocle non si poteva spendere mai meno di 5 o 7 lire, e solo nella stagione estiva1. I corsi dei fiumi e delle acque non erano regolati, la sicurezza nelle campagne era minima. Per il resto, il numero delle case coloniche e dei fabbricati per il ricovero era esiguo e quelle poche strutture esistenti versavano in uno stato di semiabbandono. I fondi erano amministrati per mezzo dell’affitto che fu rinnovato nel 1920 per altri 6 anni. Le piccole e medie proprietà, che cingevano il paese, erano in possesso di pochi nobili e notabili locali, come il barone Pasciuta e la potente famiglia dei Parlapiano Vella2 che già prima della guerra, grazie alla disponibilità di capitali e al collegamento con un forte movimento cattolico provinciale, aveva creato un reticolo di aziende agricole. In provincia di Agrigento era molto attivo il movimento delle Casse rurali attorno al sacerdote Michele Sclafani della diocesi di Agrigento3. Nel primo decennio, nella sola provincia agrigentina furono fondate ben 38 tra Casse rurali e cooperative confessionali. La fitta rete di enti cooperativi raccoglievano i risparmi dei soci attraverso il coordinamento di un’articolata struttura che faceva capo alle federazioni diocesane. Ad Agrigento, in particolare, dipendevano dalla Banca centrale cattolica San Gaetano4. 1 Giovanni Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, vol. VI, t. II, Bertero, Roma 1910, p. 303. 2 La famiglia dei Parlapiano Vella aveva una vastissima influenza sociale. L’anziano capostipite Antonio Parlapiano Vella, fu, fino all’anno della sua morte, nel 1903, il deputato del collegio di Bivona e fiduciario delle terre del Duca. 3 Cataldo Naro, Il movimento cattolico nell’area agrigentino-nissena (1870-1925), Sciascia, Caltanissetta 1986; Anna Caroleo, Le banche cattoliche dalla prima guerra mondiale al fascismo, Feltrinelli, Milano 1976. 4 Sindoni, Le cooperazioni di credito nelle campagne cit.; Giuseppe

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A Ribera, era stata costituita nel 1907 la cooperativa “San Giuseppe” su base confessionale che riuscì in poco tempo a diventare l’organizzazione economica più importante del territorio5 prendendo in affitto gli ex feudi Gulfa Giumarella, Panetteria del Monte, Castellana con un contratto fino al 1926, il feudo “S. Pietro” con un contratto fino al 1924, e alcuni vigneti (100.000) del fondo Camemi fino al 1922. Da questi luoghi di solidarietà collettiva organizzata passavano istanze che, nel tempo, modificarono la struttura stessa della società. Il risultato più importante fu l’emergere di nuovi protagonisti sociali, come i fratelli Antonio e Gaetano Parlapiano Vella, eredi dei vecchi notabili Parlapiano, che costruirono carriere politiche e fortune economiche attorno alla dimensione peculiare del cooperativismo. 4.2 Faide e fazioni politiche Due partiti municipali, l’uno facente capo all’ex deputato liberale Domenico De Michele6 di Burgio, l’altro ad Lo Giudice, Cooperazione di credito e agricoltura in Sicilia, 1895-1939: la cassa rurale di Randazzo, Librairie Droz, Genève 1984. 5 Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini cit., pp. 300 ss. 6 Il barone Domenico De Michele commerciante di olio e di cereali, sindaco di Burgio, divenne deputato nel 1903, nelle elezioni suppletive in seguito alla morte del deputato Parlapiano Vella. Alle elezioni del 1904 si presentò col blocco liberal-moderato riuscendo a sconfiggere Nitti, appoggiato dai fratelli Parlapiano, nipoti del defunto zio. Giuseppe Barone, Gruppo dirigenti e lotte politiche a S. Stefano Quinsquina dall’Unità al fascismo, in Id. (a cura di), Lorenzo Panepinto: democrazia e socialismo nella Sicilia del latifondo, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 1987, p. 57. Individuato dalle autorità della Ps come un mafioso e intimo amico di Vito Cascioferro, nella deposizione a favore di quest’ultimo per l’omicidio di Joe Petrosino, De Michele fornì l’alibi al Cascioferro. Acs, Mi, PS, b.34 Lotta politica nel collegio di Bivona”, Riservata del prefetto di Girgenti al ministero degli Interni, Girgenti 15 dicembre 1919, p. 6.

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Antonino Parlapiano Vella7 di Ribera della lista dei radicali di Guarino Amella, si contendevano, a Ribera, già prima della guerra, l’egemonia locale8. Solo dopo la sconfitta di De Michele alle elezioni con il suffragio allargato del 1913, Parlapiano Vella non ebbe alcuna opposizione locale9. La disputa politica tra i due candidati, anche dopo la proclamazione del vincitore, si svolse secondo una logica di contesa criminale. Per accaparrarsi in ciascuno dei 10 comuni i voti degli elettori, i due candidati fecero ricorso ai propri stretti contatti con l’organizzazione mafiosa in una sequenza di escalation di reati quali l’abigeato, le rapine, l’intimidazione e l’omicidio10. Entrambi i notabili facevano parte di un ampio circuito politico-delinquenziale che garantiva ai membri dell’organizzazione stipendi, protezione, aiuti vari, anche per sottrarli a eventuali responsabilità penali. La politica locale era a capo di un’industria di affari illegali capace di assumere sempre nuovo personale ai loro servizi, creando dove occorreva posti di campiere o di sorvegliante delle proprietà11. Il dualismo elettorale sfociò in una guerra Sulla vicenda si veda Salvatore Lupo, Quando la mafia trovò l’America, Einaudi, Torino 2008, pp. 24 e 29-30. 7 Parlapiano Vella aveva una propria organizzazione criminale mafiosa e si garantiva in ogni comune un elenco di uomini a lui fidati. Ad esempio a Lucca Sicula, tramite l’avv. Gestivo, s’impegnò a scarcerare Salvatore Genova, capo mafia locale e condannato per omicidio del sindaco di Lucca. Durante l’elezione, Genova iniziò a rubare gli animali che venivano restituiti soltanto dopo aver ottenuto la promessa di votare per Parlapiano. A chi non possedeva animali si mandavano lettere di minacce e intimidazioni. In Acs, Mi, PS, b.34, Rapporto del prefetto di Girgenti sulla lotta politica nel circondario di Bivona, s.d., 8 Sull’età giolittiana in Sicilia, Giovanni Schininà, Le città meridionali in età giolittiana: istituzioni statali e governo locale, Bonanno, Acireale 2002. 9 Acs, Mi, Ps, b. 88, Il prefetto sulla storia della politica in provincia di Gigenti, Girgenti 14 ottobre 1926, p. 1. 10 Acs, Mi, PS., b. 34, Rapporto del sottoprefetto Oddone, s.d. 11 È il caso di Gaetano Parlapiano Vella già sindaco di Ribera e

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tra cosche mafiose. A tal proposito, il prefetto di Girgenti racconta che a Ribera, storicamente feudo politico di De Michele e luogo di residenza della famiglia Parlapiano, i fautori di quest’ultimo, non potendo prevalere per il numero, vollero talvolta farsi valere per la violenza e di alcuni reati di sangue la causale va ricercata appunto nella competizione di parte; e valgan per tutti i casi tipici degli omicidi di Pietro Simonaro – che secondo il rapporto del prefetto era il capo mafia di Ribera – e Salvatore Genova e del mancato omicidio di Gaetano Perricone – appartenente al partito di De Michele, esecutore dell’omicidio di Simonaro – e quello di Giuseppe Vacante, fautore di De Michele che fu ucciso ad opera di Emanuele Simonaro, figlio dell’ucciso Pietro che aveva voluto vendicare la morte del padre.12

Questo scenario, caratterizzato da una sanguinosa “faida”, rifletteva sovente le mutevoli aggregazioni di interessi di famiglie, di raggruppamenti e di fazioni concorrenti tra loro per il controllo delle risorse pubbliche e private. Le competizioni si sviluppavano attraverso i canali delinquenziali dei circoli sociali e anche tra le organizzazioni contadine, a loro volta facenti parte dello spaccato verticale dei partiti personali. Così il deputato Antonino Parlapiano Vella esercitava la sua funzione di patronage locale contro gli avversari politici13, supportato dalla nota cooperativa “San Giuseppe” come solida base elettorale. Le cooperative svolgevano una funzione fratello del candidato del collegio, che riuscì a subaffittare uno stabilimento oleario e di molitura del grano allo scopo di concedere qualche posto di lavoro e di aprirlo gratuitamente al pubblico, in Acs, Mi, PS., b. 34, Telegramma del prefetto di Girgenti al ministero degli Interni, Girgenti 17 settembre 1913. 12 Acs, Mi, PS, b.34, “Lotta politica nel collegio di Bivona”, Riservata del prefetto di Girgenti al ministero degli Interni, Girgenti 15 dicembre 1919, p. 3. 13 Antonino Parlapiano Vella fu eletto deputato nelle elezioni del 1913 nella lista dei radicali di Guarino Amella contro i liberali del notabile De Michele. Nel 1919 passò tra le fila dei popolari.

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politica più efficace rispetto agli stessi partiti in quanto riuscivano a controllare il voto dei soci, a stabilire a chi spettassero le terre da coltivare e a chi erogare il credito. Non stupisce quindi l’aggregazione attorno a questi organismi, pronti a utilizzare lo strumento di un rinnovato controllo sociale. La cooperativa “San Giuseppe” funzionava anche da cerniera tra gli interessi dei notabili e dei grandi proprietari. In questo modo, il deputato Parlapiano consolidava la sua organizzazione politica e, di fronte al duca di Bivona, assumeva il ruolo di intermediario finanziario privilegiato. Da parte della proprietà, invece, la concorrenza tra le organizzazioni contadine aveva consentito il mantenimento della rendita fondiaria, controbilanciando l’effetto depressivo che l’emigrazione aveva su di essa; per questo motivo, dopo una iniziale resistenza, i proprietari avevano accettato il partenariato con le organizzazioni contadine14. Il potere dei Parlapiano Vella scaturiva da questa capacità di mediare e ottenere l’affitto diretto dei tre feudi “Gulfa Giumarella”, “Gulfa Panetteria”, “Castellana”. Ciò consentì di formare una piccola élite di contadini al servizio del deputato. Questi ultimi si strutturarono come organizzatori del contenitore clientelare del deputato. Alla vigilia della guerra, Antonino Palrapiano Vella e il fratello Gaetano, sindaco di Ribera, erano le personalità più in vista e potenti del paese. Le loro clientele erano ramificate all’interno della pubblica amministrazione, nella cooperativa, nella cassa rurale, nei circoli, e perfino tra i “clienti” ammalati dell’ospedale “f.lli Parlapiano”. L’ospedale fu un’opera di grande impatto nella cittadina di Ribera. Si trattava di dotare il paese del servizio pubblico di uno dei principali beni, la salute, e per questo motivo fu motivo di popolarità e di consolidamento delle reti clientelari della famiglia 14 Giuliano Procacci, Movimenti sociali e partiti politici in Sicilia (1900- 1904) in «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», Pisa 1959.

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Parlapiano. I lavori di costruzione dell’opera iniziarono nel 1903 su iniziativa degli zii dell’on. Parlapiano. Alla morte di quest’ultimi, essi lasciarono in eredità il completamento e l’arredamento dell’ospedale, che fu inaugurato nel 1917 solo dopo una lunga vertenza civile con la commissione provinciale di beneficenza e la congregazione di carità15. La mobilitazione contadina attorno alla questione delle terre incolte e l’irrompere di nuovi movimenti sociali e politici inclinarono il potere e il monopolio economico dei Parlapiano Vella. Lo slogan “la terra ai combattenti” fu una di quelle istanze maggiormente avvertite in questa provincia e, in breve tempo, a seguito dell’ampliamento del corpo elettorale, si creò un campo politico vergine formato dai reduci di guerra. La scadenza elettorale del 1919 e l’apertura di nuovi spazi della rappresentanza costituiva l’occasione per riequilibrare l’asse del potere locale dal momento che i confini politici dell’associazionismo combattentista non furono segnati dall’iniziativa del Parlapiano Vella, bensì da un suo ex alleato, il farmacista Liborio Friscia16, zio dell’on. Angelo Abisso17, che si mise a capo di un circolo di reduci in opposizione al notabile locale. Dinanzi all’attiva iniziativa dei combattenti, in una lettera inviata a 15 ACS, Mi, Abp, b. 166 (1916-18), Relazione sulla gestione temporanea, Ribera 27 gennaio 1916. 16 Liborio Friscia compare negli elenchi della P.s. della rete delinquenziale del Parlapiano. Nelle elezioni politiche del 1913 fu, probabilmente, suo fedele sostenitore. Nel 1919 Friscia appoggiò la lista dei demosociali di Guarino Amella contro il Parlapiano, Acs, Mi, Ps, b. 34. Rapporto del prefetto di Girgenti sulla lotta politica nel circondario di Bivona, s.d. 17 Più volte è stato fatto il suo nome. Nato a Sciacca, fu eletto deputato nel 1913 nelle file radicali. Volontario di guerra, egli rimase al fronte per vari mesi. Nel 1919 fu rieletto deputato, come esponente del gruppo del “Rinnovamento” confluendo poi nella democrazia sociale vicino alle ispirazioni dell’Anc. Leader dell’interventismo democratico agrigentino fu considerato il punto di riferimento dell’ala più radicale degli ex combattenti, a capo di una vasta rete di cooperative, tesa a sot-

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Nitti, Parlapiano manifestava i suoi timori le fazioni camorristiche, sfruttando la buona fede dei modesti agricoltori ne pervertono l’anima, lanciando promesse ineluttabili. Si sono raccolti molti combattenti in un circolo..., si insinua nell’agricoltore che solo lui ha diritto alle terre e che tutti i feudi di Ribera saranno divisi prima delle elezioni agli agricoltori stessi.18

Parlapano chiedeva, altresì, garanzie, poiché correva voce che a Ribera «non occorre[sse] più pigliar gabelle, in quanto presto le terre sar[ebbero state] divise dal governo gratuitamente»19. Nel mese di agosto Friscia, con il sostegno di Abisso, costituiva la cooperativa fra ex combattenti “Cesare Battisti” con circa 800 aderenti e chiedeva, tramite l’Onc, l’esproprio dei latifondi del duca affittati alla cooperativa “San Giuseppe” a 400 agricoltori. Si assisteva a un fenomeno esemplare prodotto da un impulso vertiginoso verso il cooperativismo i cui leader erano consapevoli delle possibilità di rompere, grazie allo strumento dell’intervento pubblico, vecchi equilibri sociali fondati sugli affitti. Le agitazioni tra le cooperative proseguirono per tutta l’estate e l’autunno intrecciandosi con le lotte elettorali che segnarono, però, la vittoria di Abisso. Dai verbali della “San Giuseppe” era vivo il timore di vedersi strappare le terre affittate fino al 1926. E, pur di non rinunciare a quelle terre, avrebbero utilizzato qualsiasi strumento, antrarre l’egemonia ai Parlapiano Vella, ma anche al cattolico Don Sclafani e al social riformista Enrico La Loggia. Il successo politico di Angelo Abisso scaturì anche dalla sua attività di avvocato presso le numerose cooperative e leghe contadine che gli garantirono una popolarità e una clientela politica tra i soci, in Acs, Mi, Ps, b. 34; Acs, Spd, Cr, b.78, Scheda del federale onorevole Angelo Abisso, Roma 3 ottobre 1927. 18 Acs, Mi, Ps, b. 104, Copia della lettera del deputato Parlapiano Vella al presidente del Consiglio, Ribera 28 agosto 1919. 19 Ibid.

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che illecito20. Queste preoccupazioni furono espresse dal ministero degli Interni che mise in preallarme il prefetto sulle reazioni che la cooperativa “San Giuseppe” avrebbe potuto avere dinanzi a un eventuale esproprio21. 4.3 L’insurrezione popolare L’intervento dell’Opera accese la lotta tra le due cooperative agricole, entrambe propaggini elettoralistiche dei due partiti capeggiati dagli onorevoli Angelo Abisso e i Parlapiano Vella. Nell’estate del 1919 la “Cesare Battisti”, iniziava a raccogliere le pratiche per espropriare i feudi del duca di Bivona. Nel mese di ottobre il Consiglio d’amministrazione dell’Opera deliberava a favore dell’esproprio «di due feudi del duca e a tal uopo sarebbesi recato sul posto un ispettore a visitare la terra»22. Alla fine del mese giunse da Roma il dott. Umberto Azzoli, un ingegnere di 37 anni, docente in Agraria, che ispezionò per tre giorni consecutivi i fondi per accertare se rientrassero nella categoria delle terre suscettibili di trasformazioni agrarie. La visita del “forestiero” produsse un clima di tensione, sia nel paese di Ribera, sia presso l’amministrazione centrale dei beni del duca che inviava all’ambasciata spagnola in Italia lettere di preoccupazione per l’illegittimità dell’azione dell’Onc, chiedendo misure a salvaguardia degli interessi del duca. Il prefetto, conoscendo la natura del contendere, dietro cui si celavano interessi di partito, suggeriva al ministero Acs, Mi, Ps, b. 68, lettera di Parlapiano Vella al presidente del consiglio, Ribera 25 ottobre 1919. 21 Acs, Mi, Ps, b. 68, Informativa del ministero degli Interni al Prefetto di Gigenti, Roma 7 novembre 1919. 22 Acs, Mi, Ps, b. 68, Telegramma del ministero degli Affari esteri al ministero dell’ Interno. Direzione generale Pubblica sicurezza, Roma 22 novembre 1919. 20

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degli Interni di cercare per entrambe le cooperative una soluzione nel caso che il proprietario avesse consentito alla vendita o all’esproprio23. Alle richieste della “Cesare Battisti”, Parlapiano Vella convocò nel dicembre del 1919 i soci della sua cooperativa, proponendo l’acquisto diretto dei feudi tramite un accordo con gli amministratori locali dei beni di don Tristano. Ma alla notizia che a fine mese il duca avrebbe visitato le proprietà per procedere alla vendita alla “San Giuseppe”, la cooperativa di Angelo Abisso minacciò l’occupazione delle terre. D’altro canto l’Opera, nel corso dell’autunno inverno del 1919, a causa della scarsa organizzazione interna, non era in grado di soddisfare alla domanda di esproprio. A tal rigaurdo per prevenire l’intensificazione dell’agitazione in prospettiva di una visita di don Tristano, il sottoprefetto chiese dei chiarimenti: far accertare se effettivamente, come assicura presidente cooperativa, esista tale deliberazione di esproprio e quali siano i propositi che intenderà adottare Ministero se qualora nulla esista e debba lasciarsi ampia facoltà vendita al proprietario proteggendo energicamente diritti.24

La risposta del prefetto e del ministero degli Interni non sciolsero l’equivoco sull’esistenza di una domanda di esproprio25. La carenza di comunicazione finì per paralizzare l’attività delle autorità di Pubblica sicurezza. Di fronte alle continue minacce di agitazioni, il sottoprefetto non riusciva a orientare la propria azione non esistendo traccia di un atto che mostrasse la richiesta di esproprio da parte dell’Opera. Di certo, l’arroventarsi del clima politico impedì 23 Acs, Mi, Ps, b. 68, Il prefetto di Girgenti Nannetti al ministero degli Interni, Girgenti 22 novembre 1919. 24 Acs, Mi, Ps, b. 68, Espresso del prefetto di Girgenti al ministero degli Interni, Girgenti 30 dicembre 1919. 25 Ibid.

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all’Onc di svolgere il lavoro tecnico-agrario e di concludere in tempi brevi la pratica dell’esproprio. Nel frattempo, il duca di Bivona giunse a Ribera accompagnato dal comm. Cascio e dal cav. Ciccarelli, con l’intenzione di vendere le sue proprietà ai migliori offerenti e a prezzi vantaggiosi, scongiurando l’espropriazione a favore dei combattenti. Il giorno dopo il suo arrivo, una delegazione della cooperativa “C. Battisti”, guidata da Paolo Perricone26 invitava il duca a non considerare le richieste di vendita avanzate dalla cooperativa di “San Giuseppe”, e lo informava sia dell’interessamento dell’Opera, sia di un telegramma di Abisso che annunciava l’imminente esproprio27. All’invito il duca rispose respingendo il telegramma, non considerandone il valore, e dichiarandosi disposto a prendere in considerazione le richieste degli ex combattenti qualora le trattative in atto con l’Opera si fossero concluse in breve tempo. In questo modo il duca di Bivona voleva temporeggiare cercando di trarre il massimo profitto28 dalla condizione di concorrenza tra le due cooperative. Gli ex combattenti, insoddisfatti dal colloquio, sequestrarono il duca spagnolo, impedendogli di uscire e di ricevere visite29, per un giorno Paolo Perricone nel 1913 faceva parte dello schieramento demicheliano di Ribera. A quanto pare, un suo parente, Gaetano Perricone, fu vittima di un tentato omicidio sferratogli dal clan dei Parlapiano. Nel 1919 si schierò contro il Parlapiano capeggiando la cooperativa di ex combattenti vicino alla lista radicale. 27 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 19, Lettera di Perricone a Sansone, s.d. 28 Luisa Accati, L’occupazione delle terre. Lotta rivoluzionaria dei contadini siciliani e pugliesi nel 1919-1920, in «Il Ponte», 10, ottobre 1970, p. 1281. 29 Dopo il colloqui con gli ex combattenti, il Duca, nel pomeriggio dello stesso giorno, ricevette la delegazione dei fedeli a Parlapiano per definire la vendita dei feudi. Senonchè, saputo dell’incontro, gli ex combattenti organizzarono una fitta sassaiola contro il palazzo ducale. La delegazione, impaurita dai dimostranti, fu fatta fuggire via da una porta di servizio, interrompendo così la trattativa. I gravissimi fatti di Ribera, in «L’Ora», 2-3 febbraio 1920. 26

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intero. La vigilanza delle squadre degli ex combattenti attorno al palazzo era talmente attiva che, come raccontano le cronache di quei giorni, «venne scoperchiata una cassa mortuaria per vedere se il duca si fosse camuffato da morto!»30. L’indomani, 26 gennaio, fu proclamata un’agitazione alla quale aderirono tutti i contadini. Il quadro di partenza, che aveva visto le due associazioni locali in lotta, entrava in crisi. Le trattative iniziate dalla “San Giuseppe” per l’acquisto delle terre aveva incontrato l’ostacolo nei 18 milioni richiesti dal duca contro i 9 offerti da Parlapiano31. Per questo motivo la “San Giuseppe” percepì che avrebbero potuto ottenere le terre con un metodo molto più sbrigativo e anche a buon mercato: «si convinsero che le pretese degli ex combattenti erano migliori delle loro in quanto non volevano essi acquistare terreni ma li volevano soltanto in enfiteusi»32. Presto abbandonarono il loro intermediario che li aveva fin lì appoggiati e interruppero le trattative solidarizzando con gli ex combattenti nell’intento di procedere in comune alla espropriazione dei beni del duca in conformità al decreto Visocchi. La condizione politica e sociale si evolveva in tempi e modi sempre più ineffabili rispetto ai centri di controllo del notabilato: L’ex deputato Parlapiano, dinanzi all’allontanamento dei soci della S. Giuseppe, ormai uniti alla “Cesare Battisti” e alla “Cassa Rurale”, si apparta, come egli stesso dichiara. La sera del 26 gennaio arriva da Palermo a Ribera il cav. Friscia che si accorge d’aver perduto un po’ di ascendente sui contadini, i quali ormai sanno agire da sé.33 I gravissimi fatti di Ribera, in «L’Ora», 2-3 febbraio 1920. Acs, Mi, Ps. b. 69, Riservata speciale del Tenente generale comandante del corpo di armata di Palermo al gabinetto del ministero della guerra, Palermo 3 febbraio 1920. 32 Ibid. 33 Acs, Mi, Ps, b. 69, Il prefetto di Girgenti al ministero degli Interni sugli esisti dei disordini sociali a Ribera, s.d. 30 31

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La folla dei mobilitati contro il duca si era svincolata da qualsiasi mediazione: a predominare era una forza centrifuga che allontanava la massa dei rivoltosi dal controllo delle classi dirigenti locali. Non valeva solo per i seguaci di Parlapiano Vella, ma anche per gli ex combattenti che non erano disposti a seguire le direttive prudenti e conciliatrici prospettate dall’Opera. Ben presto la situazione sfuggì di mano a chi aveva condotto le trattative. La mattina del 27 una folla di contadini inscenava la prima manifestazione per le vie del paese e davanti alla casa del duca. La manifestazione fu subito sciolta dal vice commissario che riferiva ai manifestanti che le loro richieste stavano per essere esaminate dal proprietario e dai suoi amministratori. Così la mattina del giorno successivo (28 gennaio) una folla immensa si accalcava sotto l’abitazione di don Tristano chiedendo impazientemente la concessione delle terre. Si può leggere il racconto di quella giornata da un diretto protagonista, il cavaliere Ceccarini, intervistato da Giovanni Lorenzoni a distanza di anni dall’accaduto. All’epoca, trovandosi nella residenza del duca, fu soggetto alle ire popolane e si salvò – per sua stessa confessione – per puro miracolo: La folla si reca sotto questo palazzo del duca e comincia una fitta sassaiola. I pochi carabinieri del luogo intervengono, ma sono sopraffatti e ridotti all’impotenza della folla armata. Il palazzo sembrava dovesse venir messo da un momento all’altro a sacco ed a fuoco. Il duca di Bivona, cugino del re Alfonso, dice: «Mettiamoci a disposizione della folla». Scende lo scalone assieme al commendatore Cascio, fa aprire il portone e sereno e calmo dinanzi alla folla minacciosa: «Eccomi da voi», dice. «Cosa volete?» Un urlo uscì dalla folla: «Viva il Duca!». Lo prendono e lo portano a spalle alla sede della cooperativa “S. Giuseppe” verso la quale si riversa il più gran numero di dimostranti. Alla sede della cooperativa il duca, senza però che gli venisse usata violenza materiale, viene obbligato a firmare i contratti di cessione in enfiteusi perpetua dei suoi feudi. Intanto davanti al suo palazzo era rimasta una moltitudine di gente

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urlante, alla quale l’idea del saccheggio aveva ormai fatto girare la testa. Era la feccia della popolazione che reclamava la sua parte.34

L’episodio di Ribera35 che isolò il paese «da tutte le comunicazioni col di fuori, tagliando le linee telegrafiche e telefoniche»36 non fu il frutto di una esplosione irrazionale delle masse contadine. Non si trattò, insomma, di una jaquerie, come è stato proposto37, anche se i paragoni diacronici rimangono affascinanti. Queste ultime erano esplosioni di rivolta violenta, priva di obiettivi strategici e spinta da esasperanti condizioni. Viceversa a Ribera esisteva un tessuto sociale estremamente inserito nei vasti reticoli di circoli, casse rurali, cooperative, partiti politici. Quei contadini che misero a ferro e fuoco la residenza del proprietario, mantennero una direzione politica, poiché erano gli stessi che prima di allora avevano cercato di mettere in atto le migliori strategie politiche per accedere alla terra attraverso una compravendita oppure accogliendo i tecnici dell’Opera. Oltretutto, secondo le cronache riportate dai giornali, la notte precedente l’assalto al palazzo, il duca era stato informato che si stava preparando il saccheggio della casa, e che per compiere tale impresa sarebbero stati reclutati alcuni favaroti (abitanti di Favara), «specializzati – si diceva – in simile impresa»38. L’episodio insurrezionale non fu per nulla un fatto isolato, semmai una conseguenza della crisi del latifondo accelerata dai provvedimenti statali. Il resoconto del tenente generale Basso riconduce la causa della rivolta nell’interpretazione contadinista del decreto Visocchi. 34 Giovanni Lorenzoni, Dal diario di viaggio di un sociologo rurale attraverso la Sicilia, Ferrara 1937, p. 43. 35 Anche Gravi torbidi a Ribera, in «Giornale di Sicilia», 2-3 febbraio 1920. 36 Ibid. 37 La tesi sull’esistenza di una jaquerie a Ribera è stata avanzata dallo storico Marino in Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini cit. 38 I gravissimi fatti di Ribera cit.

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La massa della popolazione imbevuta di idee storte e esagerate nei riguardi della portata di quel decreto e quindi insofferente di ogni indugio nell’ottenere ciò che essa credeva le spettasse semplicemente di pieno diritto, […] invase a mezzodì il palazzo.39

In più, gli echi dei fatti tragici di Riesi e le numerose agitazioni agrarie in tutta l’isola, testimoniavano e confermavano ulteriormente la crisi generale. Infine, l’episodio in sé svelava un contesto aggregativo caratterizzato da vincoli interclassisti e destinato a resistere a qualunque ipotesi di iniziativa riformatrice dell’Opera a vantaggio di programmi redistributivi, per mezzo dell’affitto o l’enfiteusi40. Solo all’indomani della firma della concessione delle terre alla popolazione di Ribera, fu permesso al duca di ripartire. Sulla carrozza della via di ritorno, il proprietario, impressionato dall’accaduto, si sarebbe confidato col sottoprefetto asserendo che non aveva alcuna «intenzione di accondiscendere a tutte le pretese dei contadini». La grave questione – concludeva il prefetto – non può dirsi definita e potrebbe risorgere più seria, se non si dovessero concludere i contratti di enfiteusi.41

4.4 Un casus diplomatico internazionale Giunto a Roma, don Tristano mobilitava l’ambasciata spagnola contro i ritardi delle autorità pubbliche italiane. Acs, Mi, Ps. b. 69, Riservata speciale del Tenente generale comandante del corpo di armata di Palermo al gabinetto del ministero della guerra, Palermo 3 febbraio 1920. 40 I decreti prefettizi del 15 dicembre disciplinarono le controversie e i casi di avvenuta occupazione di terra: In tutta la provincia su un ammontare di 11.077 ettari occupati, 3.704 furono poi concessi dai decreti prefettizi, I decreti per i terreni incolti nella provincia di Girgenti, in «L’Ora», Palermo 17-18 dicembre 1920. 41 Acs, Mi, Ps, b. 69, Il prefetto di Girgenti al ministero degli Interni dir.ge. della Ps, Girgenti 2 febbraio 1920. 39

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L’ambasciatore si rivolgeva al governo italiano auspicando che il «penoso incidente non ven[isse] a turbare le relazioni di cordiale amicizia che [in quel momento esistevano] tra i due paesi, [e avrebbe preso] tutte le disposizioni necessarie affinché una volta epurati i fatti, il duca di Bivona otten[esse] la giusta riparazione dovutagli»42. In un secondo momento il duca sollevava la questione della regolarità del contratto per evitare l’esproprio delle sue terre. Secondo il dispaccio dell’ambasciata spagnola questo doveva annullarsi, dal momento che i contadini di Ribera avrebbero «costretto il duca, sotto pena di morte, a firmare un compromesso di cessione in enfiteusi delle sue proprietà»43. Il profilarsi di un incidente diplomatico tra le due nazioni sembrava inevitabile. L’opinione pubblica spagnola aveva gonfiato oltremisura il caso siciliano. La stampa giornaliera con titoli sensazionali rivelava l’avvenuto sequestro in Italia del duca e le violenze di cui sarebbe stato vittima. Il senatore spagnolo Saenz de Quejana manifestava l’intenzione d’interrogare il ministro degli Affari esteri e di esigere che il governo iberico attuasse i dovuti reclami, allo scopo di garantire la vita e i beni dei cittadini spagnoli domiciliati in Italia. Il marchese di Lema, all’interrogazione del senatore de Quejana, rispose limitandosi a leggere il telegramma che gli era stato inviato dall’ambasciatore e in cui si faceva una breve cronaca dei fatti riferiti dal duca: «salvai la vita ed ottenni la libertà firmando un compromesso di cedere parte delle terre in enfiteusi. La casa ducale saccheggiata completamente con perdita considerevole»44. Quindi doveva considerarsi nullo il compromesso estorto sotto la pressione di minacce. 42 Acs, Mi, Ps, b. 69, Traduzione della copia spedita dal Marchese di villa Urrutia all’ambasciata italiana, Roma 30 gennaio 1920. 43 Acs, Mi, Ps, b. 69, Telegramma del ministero degli Affari esteri al ministero degli Interni, Roma 4 febbraio 1920. 44 Acs, Mi, Ps, b. 69, Telegramma del duca di Bivona all’ambasciatore spagnolo, Roma febbraio 1920.

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Il più importante quotidiano conservatore l’«Abc», commentando l’accaduto, chiudeva l’informazione giornaliera esprimendo: «energica e viva protesta contro l’atto di vandalismo sindacalista di cui [era] stato vittima un membro dell’aristocrazia spagnola […] non per il titolo nobiliare di cui [era] insignito ma bensì per essere egli un cittadino spagnolo»45. Gli opinionisti dell’«Abc» erano certi di interpretare il sentimento spagnolo e speravano che il governo straniero intimasse l’Italia a procedere a una riparazione dell’offesa subita come deterrente a simili atti contro cittadini spagnoli residenti in Italia, «la vita e gli averi dei quali d[oveva]no essere, per lo meno protetti come [era]no protetti in Ispana la vita e gli averi dei sudditi straneri»46. L’unica voce fuori dal coro delle proteste era quella de “Il Sol” che in un articolo dal titolo eloquente “i vespri siciliani”, sosteneva da sinistra, che l’incidente accorso al duca di Bivona era da attribuire a fenomeni d’ordine economico-sociale, comuni a tutti i paesi, «e per i quali non era da invocare l’intervento della diplomazia»47. In Italia le conseguenze dell’incidente diplomatico ricaddero sull’Onc, individuata la responsabile degli incresciosi fatti di Ribera per aver rallentato i programmi di esproprio. Raffaele Di Martino scriveva a Nitti che, dopo aver suscitato grandi speranze nell’animo dei combattenti siciliani, si rischiava di vanificare l’operato di tanti ingegneri e agronomi: «Ora il tempo stringe – affermava il rappresentante dell’Anc – perché se i feudi non saranno espropriati prima del 31 marzo non potranno essere occupati dai combattenti nel settembre prossimo»48. 45 Acs, Mi, Ps, b. 69, lettera del ministero degli Affari esteri direz. Gener. Degli affari privati al ministero degli interni, Roma 24 marzo 1920. 46 Ibid. 47 Ibid. 48 In «Il Giornale d’Italia», 18 gennaio 1920.

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Su questa scia procedeva tutta la stampa conservatrice contro “la rivoluzione bolscevica” dei contadini siciliani con la complicità di Nitti e Sansone. Dalle colonne de «Il Giornale d’Italia» si ribadiva il ritardo dell’Opera, responsabile delle rivolte contadine: [l’Opera] da sei mesi ha promesso l’espropriazione dei beni del duca di Bivona, ma non ha avuto cura di dare sollecita[re] la pratica. Pare che il provvedimento sia stato preso soltanto l’altro ieri, per riparare in fretta alla gravissima agitazione già scoppiata49.

Un attacco così duro e diretto all’Opera non poteva che preoccupare il governo. Nel febbraio, il ministro degli Interni chiedeva al presidente dell’Opera informazioni sull’esproprio a favore della “Cesare Battisti”50. Sansone chiarì che la richiesta era stata presentata al Collegio arbitrale centrale il 27 gennaio, e cioè il giorno prima dell’esplosione dell’ira popolare. Nonostante il Collegio era in possesso della documentazione per decidere dell’esproprio51, quest’ultimo procedeva con lentezza. Solo il 21 marzo del 1920 il Collegio dispose l’assegnazione al patrimonio dell’Opera dei fondi di proprietà del duca52. La decisione definitiva fu assunta nel giugno del 192053 e nel luglio, per evitare ulteriori agitazioni, i beni espropriati furono acquisiti54. Il caso diplomatico si complicava a causa dell’espro49 Gravi disordini a Ribera. Le terre del duca di Bivona sono divise, in «Il Giornale d’Italia», 4 febbraio 1920 50 Acs, Mi, Ps, b. 69, Lettera del ministero degli Interni indirizzata al Presidente dell’Opera nazionale combattenti, Roma 22 febbraio 1920. 51 Acs, Mi, Ps, b. 69, Telegramma n. 29511 dell’Opera nazionale combattenti al ministero degli Interni , Roma 26 febbraio 1920. 52 Acs, Mi, Ps, b. 69, Lettera del consigliere delegato dell’Opera nazionale combattenti A. Sansone al ministero dell’Interno, Roma 3 aprile 1920. 53 Acs, Mi, Ps, b. 69, Telegramma n. 9099 del ministero degli Affari esteri al ministero degli Interni, Roma 20 aprile 1920. 54 Acs, Mi, Ps, b. 69, Telegramma n. 9906 del prefetto della provincia di Girgenti Nannetti al ministero degli Interni, Girgenti 22 luglio 1920.

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prio delle terre del cugino del re spagnolo, e diventava una questione di diritto internazionale volta a esautorare l’intervento legislativo italiano. Poteva essere applicata la legislazione sull’esproprio per pubblica utilità a un proprietario straniero? Il governo di Madrid sperava che la questione venisse ridiscussa fra i due governi55 e in in un telegramma inviato al ministero degli affari esteri l’ambasciatore spagnolo affermava che «da nessuna legislazione è ammessa l’espropriazione ed occupazione senza pagamento del prezzo. [Esso] non è stato pagato né depositato sicché il duca è rimasto privo e delle terre e del denaro»56. Questa volta il governo italiano reagì sostenendo che in circostanze simili, i trapassi avvenivano in forza di una legge sovrana territoriale, ugualmente applicabile a cittadini nazionali e stranieri57. 4.5 La ritirata dell’Opera nazionale combattenti La contesa locale si concludeva momentaneamente a favore degli ex combattenti. Nel mese di agosto fu stipulato il contratto di affitto delle terre del duca per soli due anni tra la cooperativa “C. Battisti” e l’ispettorato58, ma erano rimasti esclusi il resto dei contadini che già lavoravano sui feudi espropriati. Inoltre l’Onc non possedeva una mappa anagrafica delle singole cooperative. Quanti ex combattenti e in quale proporzione al numero del totale dei soci 55 Acs, Mi, Ps, b.69, Nota del ministero degli Affari esteri al ministero degli Interni, Roma 20 maggio 1920. 56 Acs, Mi, Ps, b. 69 Telegramma del ministero degli Affari esteri al ministero degli Interni, Roma 8 agosto 1920. 57 Un esempio fu il feudo Garrisi-Mucina di 2000 ettari in territorio di Petralia Sottana (Palermo) del conte di Pena Ramiro espropriato dall’Onc con decisione definitiva il 27 giugno 1920. 58 Acs, Onc, Sicilia,b. 2, f. 19, Verbale della cooperativa “Cesare Battisti”, Ribera 29 agosto 1920.

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erano presenti nella cooperativa “C. Battisti”e quanti ne figuravano in quelle escluse dal contratto di affitto. L’“autenticità” di ex combattente degli aderenti alle cooperative fu motivo di ulteriore conflitto che si generò attorno alla concessione. A generare i sospetti sulla regolarità anagrafica della “C. Battisti” furono le proteste delle nascenti cooperative “l’Agircola” e “Reduci di guerra” vicine ai Parlapiano, che cercavano di inglobare a sé gli ex combattenti esclusi dal contratto di affitto. Nel tentativo di spegnere i focolai di agitazione, Sansone aveva fatto intendere alle cooperative concorrenti che non era possibile ritornare su atti compiuti al costituirsi di una nuova cooperativa. Tuttavia intimò alla “C. Battisti” di pubblicare le clausole del contratto di concessione. A distanza di una settimana il paese fu tappezzato da manifesti che riportavano l’art. 4 del medesimo contratto. In esso vi era l’obbligo per la cooperativa concessionaria di ammettere come soci tutti gli ex combattenti esclusi che ne avessero fatto domanda entro la fine di settembre (1920), pena la rescissione del contratto nel caso che si dovesse, in seguito a indagini, accertare che un numero di autentici ex combattenti del luogo che possano aspirare alla concessione di terre e in numero di rappresentare almeno il quarto dei combattenti iscritti nella cooperativa concessionaria, non si trovino iscritti oggi a detta cooperativa concessionaria, né si iscriveranno come soci, ma che si costituiranno tra loro in apposita cooperativa agricola e facciano domanda all’Opera entro il mese di settembre prossimo di voler usufruire delle concessioni delle terre separatamente dalla cooperativa concessionaria medesima.59

In questo modo l’Opera legittimava le proteste di chi era stato escluso al fine di regolarizzare la posizione degli ex combattenti e mettere tutti in grado di beneficiare della concessione delle terre. Le nuove cooperative potevano così 59 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Manifesto dell’Associazione combattenti Cesare Battisti, Ribera 31 agosto1920.

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presentare il reclamo all’Opera che lo trasmetteva alla cooperativa concessionaria, la quale, a sua volta, poteva presentare le proprie riserve. Su questa documentazione interveniva il giudizio inappellabile dell’Onc che, alla fine, anziché procedere alla risoluzione parziale dell’affitto, poteva imporre alla cooperativa già concessionaria di includere nel sorteggio delle quote i soci delle altre cooperative combattenti che ne avevano diritto in proporzione del numero di iscritti. Il mancato possesso del “titolo” di combattente diventava la principale accusa rivolta ai concorrenti nella corsa all’affitto delle terre. Di conseguenza, secondo il presidente della “Reduci di guerra”, la maggioranza degli ex combattenti agricoltori di Ribera faceva parte della sua cooperativa. Viceversa nella “C. Battisti” «gli agricoltori combattenti rappresenta[va]no appena il terzo degli iscritti, mentre i due terzi [era]no operai, muratori, calzolai, emigrati, e individui non del paese»60. Quindi, si chiedeva all’Opera di riconsiderare la concessione temporanea «onde evitare ingiustizie, gravissime rappresaglie, che [avrebbero potuto] dar luogo a scioperi danneggiando la produzione nazionale»61. In questo clima, la “Reduci di guerra” inviò la domanda di concessione ai sensi dell’art. 4 del contratto già stipulato. L’Opera fu avvisata e contemporaneamente intimidita di ciò che sarebbe potuto accadere se non avesse accolto la richiesta. In realtà, al di là dell’improvvisa propaganda “pro combattente” del presidente della “Reduci”, si celava il timore di Parlapiano Vella che l’Opera avrebbe potuto saldare alleanze con la fazione rivale. La strumentalizzazione dell’Onc piegata agli interessi dei partiti locali faceva parte della logica competitiva del paese ed era destinata nel lungo periodo a misurare l’efficacia dell’intervento pubblico. Intanto, l’azione dell’Onc Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, il presidente della cooperativa “Reduci di guerra” al presidente dell’Opera nazionale combattenti, Ribera 6 settembre 1920. 61 Ibid. 60

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soffriva anche dei soliti impedimenti provenienti dal potere del duca di intercedere diplomaticamente presso il governo italiano. Dopo la sentenza del Collegio aribtrale centrale, le parti contendenti iniziavrono le trattative per pattuire il prezzo dei fondi. L’offerta avanzata dall’Opera fu di 2 milioni ma i legali del proprietario la considerarono molto lontana dal soddisfare le richieste dell’assistito. L’accordo saltò e la pratica passò al Collegio arbitrale provinciale che applicò l’art. 17 del regolamento legislativo in cui era specificato che il prezzo da assegnarsi ai proprietari era determinato sulla base dei redditi normali netti, e cioè proporzionato alla produzione data dal fondo secondo la coltura in uso sin all’epoca dell’espropriazione62. Respinta ogni istanza, il Collegio fissava, nel maggio 1922, in lire 3.180.231 l’ indennizzo al duca63. Alla vertenza sulla determinazione del prezzo dei fondi si sovrappose la questione del rinnovo della concessione delle terre, che scadeva nell’agosto del 1922. Per scongiurare una diversa destinazione dell’affitto, il presidente della “C. Battisti” nominava con urgenza una delegazione per contrattare con l’Opera l’assegnazione definitiva64. Un nuovo contratto, viste le scadenze agrarie e le condizioni ambientali sfavorevoli, diventava prioritario anche per l’Onc, che doveva provvedere a una qualsiasi tempoSecondo l’Onc si doveva tener conto degli estagli dei contratti di locazione, mentre il duca sosteneva che si dovevano considerare i prezzi correnti e la svalutazione della moneta. Nello specifico, il collegio provinciale avreva assegnato un prodotto in grano molto più basso del suo valore che valutava a L.60 il quintale, un prezzo minore di oltre la metà di quello di L. 132 dell’annata 1919-’20 e di quello di L. 145 nel 1920-’21, che fu il primo reddito ricavato dall’Onc. Acs, Dg, b. 1, Reclamo del duca di Bivona al Collegio Arbitrale Centrale contro l’Onc e la decisione del Collegio Arbitrale Provinciale sull’indennità, Roma 8 giugno 1922. 63 Acs, Onc, Dg, b. 1, Sentenza del Collegio Provinciale Arbitrale nella controversia tra l’Onc e il duca di Bivona, Gigenti 18 maggio 1922. 64 Acs, Onc, Sicilia, b. 2, f. 21, Verbale dell’assemblea dei soci della cooperativa “C. Battisti”, Ribera 6 agosto 1922. 62

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ranea assegnazione, perché le terre potessero essere preparate per la coltura dell’annata agraria successiva. Pertanto, fu rinnovato il contratto annuale (dal 31 agosto 1922 al 31 agosto 1923) di “gabella” a favore della cooperativa di Paolo Perricone. Da questo punto di vista, non solo non fu soddisfatta la richiesta della concessione definitiva, ma le condizioni contrattuali riproponevano uno scenario in cui i piani di trasformazione fondiaria e le bonifiche idrauliche, prerequisiti fondamentali che giustificavano l’intervento dell’Opera, furono accantonati dall’ente medesimo. Inoltre, la natura del contratto sanciva una sproporzione tra i doveri della cooperativa nei confronti dei nuovi proprietari e le reali capacità dei concessionari di migliorare la qualità delle coltivazioni, di aumentare la produzione. Per fare solo qualche esempio, la corresponsione del canone di affitto si aggirava intorno al 5% sull’importo del prezzo dei fondi che l’Onc doveva corrispondere all’ex proprietario. Questa misura indicativa non poteva essere ridotta per nessuna ragione o per un eventuale cattivo raccolto. Per l’annata agraria corrispondente alla scadenza del contratto, il canone era di 120.000 lire, cifra non inferiore a quella che praticava il duca. L’affitto, inoltre, era concesso per l’uso delle ordinarie colture e per i pascoli, escludendo ogni innovazione, e non si poteva pretendere alcun rimborso pubblico da parte dell’Onc su miglioramenti non preventivamente autorizzati. La cooperativa concessionaria era così sottoposta alla supervisione dell’Onc che controllava l’impegno dei soci agricoltori di coltivare i terreni da “buon padre di famiglia” e, secondo le migliori regole della pratica locale, sanciva le norme generali da far rispettare a tutti i coloni: non esportare stallatico dai fondi, non rivendere per sé i prodotti, mantenere in buono stato i fabbricati, non disperdere l’utilizzazione delle acque, non far uso di servitù. In caso di innovazioni, furti e abusi di qualunque tipo, ciascuno doveva rispondere direttamente all’amministrazione centrale. L’Opera, infine, si riservava

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la libertà di esercitare controlli e ispezioni sui fondi concessi, sulle registrazioni contabili, sulle deliberazioni sociali, sull’andamento tecnico e amministrativo delle cooperative. A carico dell’Onc c’erano solo le imposte fondiarie che però dovevano anch’esse essere pagate a ogni scadenza con il denaro della cooperativa concessionaria, poi conteggiate all’atto del pagamento del canone di affitto65. Questa rigidità delle condizioni contrattuali faceva parte della pianificazione agraria dell’Onc, specie in Sicilia, dove ci si scontrava spesso con l’incapacità delle cooperative locali di attuare i programmi di miglioramento dei latifondi. In linea di principio l’ente aveva preteso tutte le migliori garanzie di solvibilità, serietà, e di apolitico cooperativismo agricolo, svelando una diffidenza nei riguardi della cooperativa riberese e della situazione ambientale generale caratterizzata da una forte conflittualità politica. Tuttavia, a distanza di pochi mesi dalla stipula del nuovo contratto di concessione, l’Onc trovò il modo di risolvere sia la complessa vertenza dell’indennità con il duca, sia i dubbi sulle regolarità amministrative e sulle garanzie economiche delle cooperative locali in lotta tra di loro per la concessione delle terre espropriate. Nell’ottobre del 1922 l’Onc riconsegnò i fondi espropriati ai precedenti proprietari, poiché la cooperativa non aveva “adempiuti gli obblighi assunti verso di essa”. Onde il consiglio d’amministrazione con deliberazione ha dato al costituito consigliere delegato ampi ed illimitati poteri per la sistemazione definitiva dei detti fondi, di concederli cioè in utenza a miglioria con diritto di acquisto, retrocederli al precedente proprietario, oppure di venderli a cooperative o a singoli richiedenti.66 65 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 19, Copia del contratto di concessione tra l’Ispettorato per la Sicilia e la cooperativa “C. Battisti”, Catania 30 agosto 1922. 66 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 20, Atto di retrocessione fondi duca di Bivona, 18 ottobre 1922.

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La cooperativa concessionaria, secondo il giudizio dell’Opera, non solo non aveva svolto alcuna opera di miglioramento fondiario, ma non aveva offerto garanzie economiche tali da consentire il semplice pagamento del canone annuo, la quota di ammortamento di capitale o le consuete anticipazioni per i lavori. In occasione del bilancio annuale del 1921, Sansone esplicitò con toni amari il comportamento “sleale” della cooperativa riberese: L’Opera è rimasta sola contro tutti e non è stata sorretta neppure dagli ex combattenti di Ribera. I quali, avendo già i fondi in possesso, a condizioni derisorie, molto probabilmente pensano che può essere anche loro interesse di aiutare il proprietario a mantenere viva ed insoluta la questione… a tempo indeterminato, per esimersi dalla regolare concessione definitiva, che importa l’obbligo di un deposito cauzionale e l’obbligo dei miglioramenti.67

Il duca di Bivona, scaduto il contratto di locazione alla cooperativa, sarebbe rietranto così in possesso dei fondi, senza però poter richiedere alcun risarcimento per eventuali deterioramenti dello stato colturale, né concedere alcun rimborso per possibili miglioramenti. Nel caso in cui le cooperative avessero voluto acquistare i fondi retrocessi, l’operazione sarebbe stata garantita tramite l’Opera. La decisione finì col favorire gli acquisti diretti piuttosto che i contratti di utenza a miglioria. In tal modo fu abbandonato un metodo per sperimentare la capacità collettiva di conduzione di un fondo. I toni del conflitto sociale si accesero nuovamente, ma questa volta contro l’Opera, poiché, a giudizio di Perricone, questa aveva dapprima «mille agricoltori ex combattenti, incoraggiati migliorare feudi opera nazionale loro affittati, promessa concessione definitiva», e subito dopo li aveva inspiegabilmente e “cinicamente traditi”68. L’eco dello Onc, Relazione del consigliere delegato al Consiglio di Amministrazione cit., p. 45. 68 Acs, Mi, Ps, b. 68, Telegramma di Perricone al ministero degli Interni, Ribera 27 ottobre 1922. 67

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scompiglio provocato dalla decisione dell’Onc giunse fino a Roma: Questa cooperativa Cesare Battisti forte oltre mille combattenti e mutilati dopo ottenuto Onc concessione quattro feudi venne improvvisamente privata retrocessione proprietario. Terre vennero divise, trasformate, migliorate impiego lavoro capitale. Pregasi vivamente disporre annullamento inconsulto atto Onc evitare luttuosi dolorosi incidenti.69

L’atto di retrocessione mise a soqquadro i precedenti equilibri: spiazzò la compagine abissiana e offrì spazio di manovra ai Parlapiano Vella. Questi ultimi mobilitarono “l’Agricola” e la “Reduci” a trattare con gli amministratori del duca la vendita dei fondi. Il paese di Ribera divenne nuovamente teatro per le mediazioni del prefetto, il quale ottenne la rinuncia de “l’Agricola” e della “Reduci” sulle terre già concesse alla “Cesare Battisti”, mentre quest’ultima, in accordo con gli amministratori del duca, avrebbe diluito il pagamento del canone arretrato, rimanendo provvisoriamente in possesso delle terre70. 4.6 Onc v/s “Cesare Battisti” Chiusa la spinosa vertenza sul prezzo di indennità, per l’Onc si aprì un altro fronte della contesa contro la cooperativa “C. Battisti”. L’intero 1923, e parte del 1924, furono segnati da un’aspra vertenza legale tra l’Onc, arroccata a difesa della causa del provvedimento di retrocessione da essa emanato, e la cooperativa dell’Abisso che invece denunciava a più riprese l’illegittimità dell’atto. 69 Acs, Mi, Ps, Atti Diversi 1898-1943, b. 1, Telegramma n. 30545 del presidente della Cooperativa «C.Battisti» Perricone Paolo a Mussolini, Ribera 31novembre 1922. 70 Acs, Mi, Ps, b. 68, Raccomandata del prefetto di Girgenti al ministero degli Interni sui disordini a Ribera, Girgenti 8 novembre 1922.

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Nel ricorso, i dirigenti della cooperativa sostenevano, contrariamente a quanto affermavano i tecnici dell’Opera, di aver avviato, con l’avallo dell’ente, la trasformazione dei fondi in piantagioni di vigneti e albereti e l’esecuzione di opere di bonifica. Queste opere sarebbero continuate per i due anni successivi con un impiego di oltre 3 milioni di lire sotto la supervisione dell’Opera, che varie volte avrebbe visionato, tramite perizia tecnica, le terre trasformate. A fine contratto, nel 1922, l’Onc avrebbe poi chiesto alla cooperativa di stipulare la concessione definitiva, domandando un cospicuo acconto sul prezzo. Secondo questa versione, i concessionari che avevano già impiegato ingenti somme nelle bonifiche, avrebbero depositato ragguardevoli somme presso il Banco di Sicilia. Tuttavia, secondo quanto dichiarava Perricone, i versamenti a nulla erano valsi, dal momento che, a sua insaputa, il Consiglio d’amministrazione dell’ente aveva regalato al duca non solo le terre, ma anche le migliorie recate alla terra e l’obbligo a pagare al proprietario gli affitti per gli anni trascorsi, non attraverso la corresponsione degli interessi sull’indennità ma a terraggi. Contro la deliberazione, quindi, la cooperativa espose le sue ragioni che si possono riassumere e schematizzare in tre punti: 1. lo scopo della concessione non riguardava l’affitto per ordinaria coltura, perché altrimenti l’Opera avrebbe violato gli artt. 1, 8 e 11 del regolamento legislativo. Il contratto doveva, dunque, considerarsi come un impegno per la concessione definitiva, regolata temporaneamente con un contratto di affitto; 2. l’Onc non aveva solo autorizzato, ma spinto la cooperativa a eseguire migliorie; 3. dopo la firma del contratto di locazione biennale, l’Opera aveva offerto un contratto condiviso dai soci della cooperativa, i quali avevano versato somme presso il Banco di Sicilia. La cooperativa chiedeva l’annullamento della delibera-

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zione dell’Opera e un contratto di concessione definitiva a norma dell’art. 26 del regolamento legislativo71. Il Collegio non si pronunziò prima della primavera del 1924 e, intanto, Angelo Abisso72 cercava di trovare la sponda politica giusta a difesa della cooperativa e di guadagnarsi così i favori di qualche figura ministeriale. Neppure l’Onc rimase indifferente e, nel mese di marzo, depositò al Collegio arbitrale centrale la sua difesa contro il ricorso della “C. Battisti”, ribaltando completamente la versione della cooperativa. Secondo gli avvocati dell’ente, prima della scadenza del contratto di concessione la “C. Battsti” era stata sollecitata a versare il deposito cauzionale necessario per i fondi espropriati. A tale invito, nonostante le continue insistenze, la cooperativa non aveva mai risposto, neanche dopo la scadenza. La legislazione in materia di esproprio consegnava al nuovo ente una responsabilità politica. Le terre potevano e dovevano essere espropriate a condizione che, una volta confiscate, venissero sottoposte a seri piani di trasformazione agraria. Nel caso di Ribera, considerate le inadempienze della cooperativa, sembrava che la migliore soluzione fosse quella della restituzione dei fondi al proprietario, l’unico soggetto capace di realizzare una qualche trasformazione fondiaria. Nel braccio di ferro con la cooperativa, l’Onc difese la sua deliberazione contro gli “immaginari” diritti che secondo la cooperativa derivavano dall’atto di locazione, e ne contestò uno per uno i punti più salienti73. Circa il presunto impegno per la concessione definitiva, Sansone affermò che il contratto del 1920 era una sempli71 Acs, Onc, Dg, b. 3 f. 23, Ricorso della cooperativa “C. Battisti”contro l’Opera nazionale combattenti e il conseguente atto di retrocessione 18 ottobre 1922, Roma 24 gennaio 1923. 72 Acs, Onc, Dg, b. 3 f. 23, Copie delle comunicazioni del Collegio Arbitrale Centrale del 26 febbraio, 14 e 18 marzo 1920. 73 Acs, Dg, b. 3 f. 23, Controdeduzioni depositate al Collegio Arbitrale Centrale dell’Opera nazionale combattenti contro la cooperativa “C. Battisti”, Roma 27 marzo 1923.

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ce convenzione di locazione senza alcun impegno per il futuro. Sulle migliorie vantate dalla cooperativa, il contratto di locazione sanciva che l’affitto era stato dato per l’uso ordinario delle colture, a esclusione di ogni altro intervento straordinario. In tal caso non si sarebbe rimborsato alcun intervento di miglioramento non preventivamente autorizzato. Nel contratto si sottolineava l’impossibilità di giungere a una concessione definitiva, a causa di speciali garanzie e affidamenti che la cooperativa non era in grado di fornire, né per il passato, né per il futuro. Scopo del contratto non era quindi quello di concedere i fondi in utenza a miglioria ma in modo ordinario per sottoporre la cooperativa di Ribera a un periodo di esperimento. Al di là delle ragioni esposte da entrambe le parti, il condizionamento politico del duca era stato all’origine della diffidenza dell’Onc nei riguardi dell’associazionismo contadino di Ribera. Inoltre, le premesse per un intervento pubblico del riassetto fondiario erano state alterate da un’intensa conflittualità politica che, alla lunga, aveva scoraggiato l’Onc nel portare a termine il compito di affidare a una locale cooperativa la funzione sociale di trasformare e di bonificare le terre espropriate. A riprova di ciò, v’era la denuncia di Angelo Abisso che delimitava i confini della controversia dentro uno scenario di manovre politiche. Egli concentrò l’attenzione sul fallimento politico dell’operazione, ponendo in secondo piano le difficoltà tecnico-giuridiche dell’operazione di concessione, come invece erano state dedotte dall’ente. In una nota inviata al Collegio arbitrale centrale, il deputato evidenziava come la concessione alla cooperativa “C. Battisti” aveva determinato due correnti si ostilità. La prima creata dal proprietario il quale, come si è visto, fece agire il governo e l’ambasciatore di Spagna contro l’ esproprio. L’innesco della crisi diplomatica avrebbe avuto degli effetti deleteri sull’azione dell’Onc. Secondo Abisso, un ambasciatore spagnolo era stato ritirato sotto la richiesta del governo italia-

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no per essersi rivolto in termini considerati insolenti, mentre il governo spagnolo aveva subordinato la visita in Italia del Re di Spagna e l’approvazione dei trattati di commercio tra i due paesi alla sistemazione delle pendenze col duca. La seconda corrente ostile era stata determinata «dalle manovre di un prete di Ribera, organizzatore di cooperative a tinta popolare, il quale [aveva chiesto] protezione ed aiuto all’onnipotente don Sturzo»74. Con molta probabilità si trattava dell’Arciprete Licata, organizzatore del Ppi, della Cassa rurale cattolica e, probabilmente, anche della cooperativa “San Giuseppe” sponsorizzata da Parlapiano Vella. Secondo Angelo Abisso, per risolvere la vertenza dell’indennizzo sarebbe bastato sacrificare qualche milione in più, dando al duca un prezzo superiore alle aspettative. Quest’ultima offerta che l’Opera stava per proporre non avrebbe soddisfatto le pretese di don Sturzo il quale «voleva uccidere la cooperativa “C. Battisti”, perché gli impediva l’allargamento in Ribera di una delle sue numerose clientele elettorali»75. Abisso intese svelare una verità che secondo lui era stata taciuta. Dietro la rinuncia dell’Onc esisteva una trama politica per le mire espansive del partito popolare a danno dei combattenti. Il richiamo a Sturzo, nel ruolo di astuto manovratore, per sabotare l’azione dell’Opera poteva pure sembrare eccessivo, tuttavia la concorrenza tra le cooperative era stato un elemento visibile che aveva contribuito a creare quella situazione. Dunque, l’Opera era stata condizionata politicamente. Questa verità era talmente sconveniente che era stato necessario trovare due espedienti per confutarla. Il primo tentativo era stato quello di far redigere un rapporto all’Opera per dimostrare, contrariamente al vero, che i fondi non erano stati migliorati e che anzi si era verificato un peggio74 Acs, Dg, b. 3 f. 23, Nota per la “C. Battisti” di Angelo Abisso al Collegio Arbitrale Centrale, s.d., p. 1. 75 Ivi, p. 1, corsivo nostro.

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ramento colturale. La deliberazione dell’Onc trovava così un’apparente giustificazione nel fatto che la cooperativa non avrebbe adempiuto agli obblighi di concessione. Ora l’Opera Nazionale cambia rotta, nega la concessione, e sorvola la questione delle migliorie. Ma se nessuna concessione ci fu come l’Opera sostiene, come mai poteva la cooperativa venir meno ai suoi obblighi?76

Le pretese dell’Opera, per l’Abisso, cozzavano con la realtà, con le leggi e con la morale. Quand’anche l’Onc avesse avuto la facoltà di restituire i fondi, essa non aveva alcuna legittimità nel riconsegnare le terre senza il rimborso delle migliorie. L’Abisso si appellò all’art. 13 del regolamento legislativo secondo cui il proprietario poteva ottenere le terre nel caso in cui avesse pagato le migliorie e non come stava accadendo, procurando al proprietario un lucro di parecchie centinaia di migliaia di lire. Il secondo espediente era consistito nel chiedere agli ex combattenti di Ribera il versamento di 800 mila lire. L’Opera avrebbe dovuto conoscere le difficili condizioni economiche cui versavano i soci della cooperativa e, secondo quanto prescriveva il regolamento, l’ente doveva fornirli dei mezzi finanziari e tecnici per giungere alla trasformazione dei fondi. Viceversa, secondo quanto denunciò l’Abisso, l’ente lasciò che i contadini investissero sui fondi tutti i loro risparmi e in seguito pretese l’anticipo. I contadini non avrebbero potuto versare la cifra dovuta, sia per gli investimenti fatti nei fondi sia perché si erano succedute pessime annate di raccolto a causa della siccità. Tutto ciò non rappresentava che un pretesto per «mandare a monte l’opera di redenzione del proletariato agricolo felicemente iniziata a Ribera e fare in modo che al duca, oltre a corrispondere le gabelle non spettantegli, si restituissero i fondi raddoppiati di valore; e fare in modo 76

Ivi, p. 2.

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che il “deus ex machina” di tutta questa faccenda, il reverendissimo don Sturzo, ottenesse una vittoria elettorale»77. Il lungo excursus accusatorio dell’Abisso svelò dei retroscena interessanti sulla contesa politica tra cattolici e combattenti nella provincia agrigentina. Con molta probabilità, in tutta questa vicenda vi era stato un concorso di colpe. Da una parte le inadempienze della “C. Battisti”, taciute del tutto nel documento, incapace di sostenere i costi e priva della competenza professionale per attuare i programmi dell’Opera, e dall’altra lo sfondo della lotta elettoralistica dove anche le pressioni esterne svolsero un ruolo determinante nelle decisioni dell’Onc. Alla fine, malgrado le continue pressioni sul governo centrale, il documento di Abisso non fu preso in considerazione dal Collegio che, nell’aprile del ’23, restituiva in via definitiva le terre all’antico proprietario. 4.7 Uscita d’emergenza La responsabilità del fallimento dell’azione dell’Onc era ricaduta su tutti i protagonisti della vicenda, ad esclusione del duca che era riuscito a dirigere a suo vantaggio i conflitti interni alla società locale. Conflitti che non accennarono a placarsi tanto che fu necessario l’intervento indiretto della Presidenza del Consiglio dei ministri che adottò un procedimento di ricomposizione dei contrasti. A sorpresa, il ruolo di mediazione fu garantito dall’Opera stessa che assicurò alla cooperativa di Abisso il proprio soccorso nell’acquisto degli stessi fondi retrocessi78. La nuova trattativa tra l’Onc e l’amministrazione del proprietario portò a un prezzo fissato attorno ai 4 milioni Ivi, p. 4 Acs, Mi, Ps, Atti Diversi 1898-1943 b. 1, Telegramma del presidente della Cooperativa «C.Battisti» Perricone Paolo a Mussolini, Ribera 3 gennaio 1924. 77 78

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e mezzo. Il Banco di Sicilia si impegnava a intervenire con un’operazione di mutuo fondiario, secondo le condizioni della banca che la cooperativa era obbligata a soddisfare, fino alla misura massima dell’80% del prezzo di stima. La transazione si sarebbe svolta con il doppio passaggio delle terre dal duca all’Onc e da questa alla “C. Battisti”. Quest’ultima era obbligata a eseguire la quotizzazione, con la preferenza assoluta di tutti gli ex combattenti del paese, e un minimo di trasformazioni colturali che valevano a giustificare l’intervento dell’Opera. A tale scopo l’Onc si mise in contatto con l’amministrazione della banca affinché quest’ultima precisasse l’entità del mutuo che intendeva elargire e, contemporaneamente, invitò Pietro Di Stefano a prendere a sua volta contatti con la direzione locale del Banco di Sicilia affinché procedessero alla stima del prezzo finale. Nello stesso tempo, l’Onc ricuciva i rapporti con la cooperativa per assicurarsi che quest’ultima rivolgesse alla sezione del credito agrario del Banco di Sicilia la domanda di mutuo, finora mai presentata e senza la quale la banca non poteva deliberare. In questa occasione, l’Onc pretese dalla cooperativa un codice di comportamento tale da offrire solide garanzie per l’acquisto e, quindi, regolari deliberazioni d’assemblea alla presenza dell’Ispettore. La cooperativa doveva infine fare chiarezza sulla regolarizzazione della posizione dei suoi soci e deliberare da subito il pagamento parziale dei fondi, versando il relativo impegno nelle casse dell’Onc79. Di seguito, tra il 9 e il 15 gennaio del 1924, scattò l’ispezione di Di Stefano sulle condizioni per l’acquisto dei fondi80. Nell’occasione, l’ispettore presenziò alla riunione del Consiglio d’amministrazione della “C. Battisti” la quale Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Raccomandata dell’Opera nazionale combattenti all’Ispettorato per la Sicilia dell’Onc, Roma 29 dicembre 1923. 80 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Raccomandata dell’Ispettorato per la Sicilia all’Opera nazionale combattenti, Catania, 19 gennaio 1924. 79

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accettò la doppia modalità di acquisto dei fondi81. Tuttavia, come riferì Di Stefano, nessuno dei soci era in grado di anticipare una somma in conto prezzo per il finanziamento dell’acquisto82. Ad annata agraria inoltrata l’agricoltore aveva già impiegato le sue risorse nel lavoro agricolo, e la restituzione dei fondi aveva determinato una tale sfiducia che nemmeno i soci più abbienti, senza nuove garanzie, avrebbero anticipato i loro risparmi. Semmai un qualche versamento si sarebbe potuto sperare dopo il raccolto, e cioè verso settembre. Cosicché, al prezzo da pagare al proprietario, l’Opera era costretta ad aggiungere la differenza del netto ricavato dall’operazione di credito della banca. Secondo i calcoli di Di Stefano, questa differenza, resa maggiore dalla somma di sovraprezzo di rivendita per compenso di spese e perdite subite, variava da 1.500.000 a 2.000.000 di lire83. Le considerazioni dell’ispettore invitavano l’Opera a considerare il finanziamento dell’acquisto senza il concorso dei quotisti come un atto da evitare, anche se era necessario richiederlo. In merito alla conduzione dei fondi, l’Ispettore notò che effettivamente la quotizzazione era avvenuta sin dal 1920, al tempo della concessione temporanea. Risultò altresì che parecchi soci avevano già eseguito alcuni miglioramenti e pertanto si avvertì l’Opera che, per ragioni di prudenza ed economia, venisse rispettato lo stato di fatto, perché non era ammissibile rifare l’assegnazione dei lotti. Da parte sua la cooperativa assicurò che, oltre ai 773 quotisti esistenti al momento dell’ispezione, se ne poteva soddisfare un altro centinaio con i lotti ancora disponibili e con quelli che eventualmente potevano rendersi tali. In questo modo la maggior parte dei contadini ex combat81 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Deliberazione consiliare della cooperativa “C. Battisti” di Ribera del 13 gennaio 1924 82 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Raccomandata dell’Ispettorato per la Sicilia all’Opera nazionale combattenti, Catania 19 gennaio 1924. 83 Ivi, p. 2.

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tenti, circa 600 tra soci o non soci, potevano veder soddisfatte le loro aspirazioni. La cooperativa accettò ogni controllo amministrativo contabile e la direzione tecnica dell’ete, pagandone le spese. Infine, durante il raccolto, un funzionario di fiducia dell’Opera avrebbe riscosso i versamenti rateali dei soci in conto acquisto.84 L’indagine di Di Stefano abbracciò pure la questione della regolarizzazione della posizione dei soci della cooperativa. In essa, fino a dicembre, risultavano iscritti circa 513 soci. 485 erano regolarmente iscritti: di cui 67 con sottoscrizione e i restanti 418 intervenuti all’atto costitutivo, non essendo stata per loro necessaria la sottoscrizione. Tuttavia non si sapeva quanti di questi 418 erano ancora soci di fatto della cooperativa85. In sostanza, Di Stefano considerò che per un centinaio dei 513 mancavano le sottoscrizioni richieste e, quindi, legalmente costoro non potevano considerarsi soci. La maggioranza erano contadini (di cui solo 20 dichiaravano di essere dei braccianti) ma solo 2/5 erano degli ex combattenti86; la cooperativa rivale “San Giuseppe” di matrice confessionale con minori iscritti aveva, in proporzione, una maggiore presenza di ex combattenti87. Quest’ultima condizione riguardava principalmente il gruppo dirigente costituito in maggioranza da non combattenti. Inoltre, si accertò che essi appartenevano al ceto borghese, dei contadini agiati, di piccoli possidenti di piccoli capitali, terreni, animali, o immobili, niente a che vedere con un’estrazione contadinista. Anche finanziariamente la situazione apparve critica. Nel bilancio annuale del 1924 risultava un utile di Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Deliberazione consiliare della cooperativa “C. Battisti” di Ribera del 13 gennaio 1924, p. 5. 85 Ivi, p. 4 86 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Relazione sulla Cooperativa Cesare Battisti di Ribera. Notizie generali, s.d., p. 5. 87 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Relazione sulla Cooperativa S. Giuseppe di Ribera. Notizie generali, s.d., p. 15. 84

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184.000 lire88, mentre in realtà, secondo le indagini più approfondite dell’ispettorato, risultò un debito che si aggirava intorno alle 200.000 lire89. La consistenza finanziaria della società era di solo L. 2.300 contro un deposito di 332.543 lire della più antica e solida cooperativa “San Giuseppe”. Il pessimo stato di salute era stato determinato dalla retrocessione dei fondi e aggravato dalle malversazioni durante il periodo di gestione del ragioniere che dovette in seguito espatriare in America90. La severità dei giudizi di Di Stefano sulla cooperativa non gli impedirono comunque di vedere quale unico rimedio l’acquisto dei fondi a favore di quella imponente massa di contadini. Tuttavia, anche questa soluzione, a metà tra l’esproprio e la compravendita privata, produsse nel medio e lungo periodo vantaggi ai soli proprietari e ai notabili che ritornarono a essere i protagonisti di una nuova negoziazione delle terre. 4.8 Critica fascista Nella profonda provincia agrigentina gli echi della marcia su Roma si udirono solo tra la fine del 1923 e gli inizi del 1924. La tarda configurazione del nuovo regime nell’isola coincise con le scelte di governo di bloccare i processi di trasformazione fondiaria avviati dall’Opera. I provvedimenti economici di questo biennio (come il ripristino del dazio sul grano) rappresentavano un’avance a quella proprietà fondiaria che aveva diminuito il peso politico in relazione ai processi del primo dopoguerra. Il nuovo protezionismo cerealicolo si configurava come un buon veicolo 88 Acs, Onc,Sicilia, b. 2 f. 21, Cooperativa “C. Battisti”. Bilancio consuntivo al 31 dicembre 1924. 89 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Raccomandata dell’Ispettorato per la Sicilia all’Opera nazionale combattenti, Catania 19 gennaio 1924, p. 5. 90 Ivi, p. 5.

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della convergenza tra fascismo e ceti proprietari. Questi ultimi avevano chiesto una ridefinizione dei rapporti tra proprietà e gruppi del capitale pubblico impegnati nei progetti di bonifica. Allo stesso modo reclamavano il recupero della piena disponibilità della terra e la definitiva chiusura del processo postbellico di mobilità sociale. Ciò sarebbe stato realizzato, in via generale, col passaggio dalla fase inflattiva a quella deflattiva del 1926 che congelò il mercato fondiario e ricacciò verso i gradini più bassi della società molte delle nuove figure sociali. Nel nostro caso, l’avvento del fascismo segnò in sequenza il tramonto del piano di trapasso mediato dall’Onc, la rinnovata disponibilità del duca a trattare la vendita delle terre e la disponibilità di acquisto dei Parlapiano Vella. Viceversa, la promessa dell’Opera di vendere alla “C. Battisti”, a causa dell’apertura della libera contrattazione, diventava meno certa per la debolezza finanziaria della cooperativa stessa. Questo stato di cose offriva spazi per un nuovo accordo in sordina tra i fratelli Parlapiano Vella e il duca che inaugurò, a sua volta, una stagione di conflitti, rendendo più aspra la contesa della lotta per la terra e per il potere nel periodo fascista. D’altronde, il ritrovato protagonismo finanziario dei fratelli Parlapiano Vella, si scontrò col rinnovato vigore politico di Abisso. Quest’ultimo seppe tuffarsi nell’avventura fascista (1923), sia pur con qualche sospetto di opportunismo presto confutato dal prefetto: «non deve credersi che sia il partito di Abisso che si faccia sgabello del fascismo per rafforzarsi, ma è il fascismo che acquista realmente forza e compattezza dai numerosissimi elementi staccatisi [i quali] si sono appoggiati all’on. Abisso […] L’attività del Pnf fu da me e dall’on. Abisso galvanizzata»91. La lotta tra le due fazioni fu sorda, continua, assillante e non risparmiò neppure i molteplici aspetti della vita municipale. Su impulso di Abisso, il prefetto, già nell’estate del 91 Acs, Mi, Gb Finzi, b. 6, Situazione del fascismo in provincia di Girgenti. Il prefetto di Girgenti a sua eccellenza Finzi, s.d.

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1923, conveniva sull’opportunità di procedere allo scioglimento dell’amministrazione comunale di Ribera presieduta dal sindaco Gaetano Parlapiano Vella per sospetto di gravi irregolarità amministrative. Qualche mese più tardi la scelta totalitaria del regime, inaugurata dal viaggio di Mussolini in Sicilia nel maggio del 1924, di dar battaglia alla mafia identificata col sistema della democrazia clientelare, fu l’occasione per l’Abisso di promuovere, attraverso l’iniziativa del prefetto, un’inchiesta contro i suoi rivali politici. L’asse politico costituito dall’Abisso e dal prefetto fu denunciato dal Parlapiano in una lettera inviata alla Presidenza del Consiglio dei ministri, in cui spiegava che il pretesto dell’azione contro l’amministrazione fosse stato il rifiuto «di un progetto per l’impianto di una centrale elettrica presentato da un certo Sava ed appoggiato strenuamente da certo Liborio Friscia, zio materno dell’Abisso»92. I conflitti fazionari erano mascherati dalle nuove ideologie del regime. Secondo l’indagine prefettizia, la questione del progetto per l’illuminazione elettrica non era centrale93. L’inchiesta aveva inchiodato l’amministrazione con accuse gravissime: La maggioranza consiliare fa capo al fratello del sindaco, Gaetano Vella il quale trovasi sotto processo per associazione a delinquere. Un assessore trovasi in carcere per gravi reati, due consiglieri sono latitanti perché imputati di associazione a delinquere, altri sei sono pregiudicati. L’amministrazione ha comme[sso] abusi e irregolarità senza fine con lo sperpero del pubblico denaro e con l’abbandono di più urgenti problemi… Si è abusato in nomine di avventizi negli uffici del comune per favorire la clientela elettorale del partito che tiene l’Amministrazione trascurando i concorsi per le definitive sistemazioni del personale.94 92 Acs, Mi, Comuni, b. 2069, Lettera di Antonino Parlapiano Vella alla Segreteria Particolare del Duce, Palermo 10 giugno 1924. 93 Acs, Mi, Comuni b. 2069, Comunicazione del prefetto di Girgenti al ministero degli Interni sulla situazione del comune di Ribera, Girgenti 11 luglio 1924. 94 Acs, Mi, Comuni b. 2069, Relazione del prefetto di Girgenti al

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Il ministro dell’Interno Federzoni firmò il decreto di scioglimento dell’amministrazione comunale95 e provvide alla nomina, a metà di agosto, del commissario straordinario. Un primo colpo fu sferrato contro uno dei fratelli Parlapiano Vella, per frenare i piani del fratello di acquisto delle terre del duca. L’accusa di mafia ai Parlapiano Vella poteva anche dimostrarsi fondata, ma aveva innanzitutto la funzione di ostacolare la candidatura dei Parlapiano alle elezioni politiche del ’25 in quanto ciò avrebbe messo in difficoltà il fascismo locale, contrario a impostare la lotta politica attono alla questione delle terre. Tuttavia, se Parlapiano fosse riuscito a ottenerle, avrebbe consolidato la propria posizione elettorale facendo leva su una rete clientelare così forte da soppiantare il fascismo. Da questo punto di vista l’Abisso rappresentava il paladino, l’uomo su cui era caduta la scelta del regime in provincia di Girgenti. Il fascismo avrebbe appoggiato l’intento del deputato di opporsi alla vendita delle terre al Parlapiano. In un abile gioco delle parti, Abisso scriveva a Mussolini che l’ipotesi di cedere i fondi ai «nostri nemici, che si sono esibiti per ragioni politiche, costituirebbe per noi una grande sconfitta»96. La compra-vendita delle terre ridiventava un affare politico. A conferma di ciò stava il fatto che Parlapiano capeggiava tre cooperative locali, di cui una apparteneva alle due sezioni combattentiste ed era composta di circa duecento individui accusati, secondo le direttive fasciste, d’associazione a delinquere e sovversivismo. Nel ridisegnare le alleanze il prefetto si schierò apertaministero degli Interni sulla proposta di scioglimento del comune di Ribera, Girgenti 18 luglio 1924 95 Acs, Mi, Comuni b. 2069, Appunto per sua eccellenza il ministro su proposta scioglimento consiglio comunale, s.d. 96 Acs, Pcm, 1924, f. 3.1-1, n. 1367, Lettera di Angelo Abisso a Mussolini, 15 ottobre 1924.

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mente con la soluzione proposta da Abisso, di convincere nuovamente l’Opera ad acquistare i fondi. L’Opera avrebbe dovuto concedere le terre ai circa 500 contadini che già le possedevano e che attendevano solo l’annuncio del provvedimento del governo e corrispondere al duca l’intera somma pattuita di lire 4 milioni e mezzo, oltre all’estaglio del 1924. I pagamenti, scartata la possibilità dell’operazione finanziaria del Banco di Sicilia, che non intendeva offrire prestiti al buio alla cooperativa, dovevano avvenire con mezzi propri dell’ente. Quindi tutti i possessori di quote dovevano mostrarsi disposti a pagare, sia pure con qualche facilitazione, il prezzo delle terre occupate. Ma il Consiglio d’amministrazione della “C. Battisti”, per effetto del verbale del 24 agosto del 1924 ai sensi del Rd 64 del 24 gennaio 192497, aveva già deliberato lo scioglimento: «riesce alla società difficile o quasi impossibile l’acquisto di altre terre, dato che ogni ulteriore attività dell’ente non può tradursi che in rischio e quasi certamente in una perdita per tutti i soci»98. Nei mesi precedenti la sua liquidazione, Paolo Perricone aveva inviato a Mussolini una richiesta di soccorso99. Malgrado i tentativi, le condizioni rimasero precarie, tanto è vero che lo stesso Perricone assieme ad altri dirigenti passarono nel partito di Parlapiano per gli aiuti finanziari. Di lì a poco tempo il prefetto optò per lo scioglimento della cooperativa100. L’alleanza tra Abisso e il prefetto non trovò sbocco e si indebolì di fronte alla solidità dei Parla97 Il decreto fascista costrinse le associazioni agricole a sciogliersi o a confluire nel nuovo sindacato fascista e nell’Opera nazionale dopolavoro . 98 Acs, Mi, PS, Ao, b. 9, Verbale assemblea dei soci della cooperativa “C. Battisti”, Ribera 24 agosto 1924. 99 Acs, Mi, Ao, b. 9, Telegramma di Paolo Perrone a Mussolini, Ribera 8 ottobre 1924. 100 Acs, Mi, Ps, b. 88, Telegramma del prefetto di GIrgenti al ministero degli Interni, Girgenti 22 gennaio 1925.

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piano. La maggioranza della popolazione rurale militava nelle strutture associative di quest’ultimo. Talmente era ampia la sua clientela che si muoveva libero di contrattare direttamente col duca l’acquisto privato delle terre rimanenti. L’operazione fascista di spezzare la catena clientelare che legava il notabile alla popolazione si presentò estremamente complicata, tant’è che divenne più cauta a fare la guerra diretta all’ex deputato, consapevole che su questo terreno v’era una profonda identificazione tra gli interessi della comunità e quelli privati. Verso il mese di febbraio la vertenza fu definita a vantaggio della famiglia dei Parlapiano Vella. Essi erano gli unici che avevano la disponibilità finanziaria immediata per comprare vasti appezzamenti di terra. Oltretutto, il duca agì ancora una volta sulle alte cariche del regime e attraverso il sottosegretario di Stato comunicò al ministero degli Interni di disporre affinché gli organi locali evitassero atteggiamenti pregiudizievoli alla definizione delle vertenza. Un nuovo intervento dell’Opera fu definitivamente accantonato e, senza rimpianti, essa si defilò dalla trattativa giudicata un azzardo. Il partito dell’Abisso segnò una sconfitta appesantita dalle gravi accuse rivolte dai suoi nemici a lui e al prefetto, quest’ultimo denunciato di essere stato “l’instrumento incosciente dell’Abisso”. Se l’on. Abisso fa il fascista a Roma, qui continua a fare il capomafia. L’Abisso si serve del fascismo per rafforzare e moralizzare tutta la vecchia “cricca” della democrazia sociale, che in questa provincia si appoggia nella mafia. Su 42 comuni 16 demosociali, gli altri tutti sciolti dal prefetto101.

Le terre furono affittate alle tre cooperative, la “Reduci di guerra” (verso cui affluirono molti soci della “C. Batti101 Acs, Mi, Gb Finzi, b. 6, In.ten.Giuseppe Vaccaio, capit.Ettore Sapio, Avv. Ignazio Fiore, dott.Santo Bidona, a S. E. Finzi, s.d.

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sti” che già occupavano delle terre), “l’Agicola” e la “San Giuseppe” (la sola a garantire affidabilità finanziaria nella gestione dell’affitto), sotto la direzione dei campieri di Parlapiano che le subaffittarono ai soci delle stesse cooperative e nel contempo prepararono una quotizzazione tra i membri della loro clientela102. La prima conseguenza politica dell’acquisto delle terre da parte di Parlapiano s’ebbe con la sostituzione del commissario del comune contro il volere di Abisso che si appellò presso il ministro degli Interni sottolineando il «significato politico di ostilità alla deputazione ed al fascismo provinciale»103. Ma la rivincita dei Parlapiano durò molto poco. I suoi avversari politici riorganizzarono le fila sotto la protezione delle autorità locali e, su impulso di Liborio Friscia, furono utilizzati i rancori popolari contro gli alti canoni per mobilitare le masse e cacciare i Parlapiano dal paese a furor di popolo. Gaetano finì addirittura al confino104 mentre il fratello cercò di fermare la pratica di esproprio che Friscia aveva nuovamente inviato all’Onc. Sono tre anni che io debbo tollerare le sopraffazioni più inaudite e subire le vendette più atroci – scriveva Parlapiano Vella nel 1927 al prefetto di Girgenti. Nei pubblici comizi si aizza il popolo contro di me. Non vi ha domenica, non vi ha festa o ricorrenza di cui non si approfitti per espormi all’odio delle masse ignoranti cui si offre il miraggio dell’esproprio delle terre possedute da me e dai miei fratelli.105 102 Acs, Mi, Ps, C. G1, b. 35: Agrigento, schede sulle cooperative di Ribera. 103 Acs, Mi, Comuni b. 2069 , Lettera dell’Abisso a Ferderzoni, s.d. 104 Gaetano Paelapiano Vella dopo il confino fascista tornò a esercitare l’auctoritas mafiosa, accusato dell’omicidio del sindacalista Accursio Miraglia nel 1847, Relazione della questura di Agrigento, 16 Aprile 1947, in Commissione antimafia, Documentazione allegata alla relazione conclusiva, vol. III, t. I, pp. 276-8, Tipografia del Sentato, Roma, cit. anche da Lupo, Storia della mafia cit., p. 203. 105 Acs, Mi, Ps, b.198, Lettera di Parlapiano al prefetto di Agrigento, Agrigento 5 maggio 1927.

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E a Mussolini inviava le denuncie per una situazione considerata ingiusta di cui egli stesso non avvertiva le colpe. La persecuzione nasce dal fatto che la consorteria che è attorno ad Abisso si è creduta vulnerata nei suoi interessi da un’azione del regime, nella quale i Parlapiano furono onesti e disinteressati strumenti per solvere un problema che atteneva ad una necessità internazionale. Poiché infatti i Parlapiano erano lontani dal pensare che una lusinghiera designazione potesse essere fatta sul loro nome... chiamati da sua eccellenza di Scale e S.E. Suardo che si dicevano ancora incaricati da voi, o duce, e da S.E. Federzoni, fecero atto di prontezza fascista e cooperarono coi loro mezzi perché le terre del duca di Bivona fossero redente dagli abusi di una invasione. Questo fatto, che necessariamente veniva a ledere gli interessi dei parenti, dei sostenitori e dei protetti del deputato Abisso che erano quelli che le terre avevano invaso e nelle terre si erano infeudati con l’apparenza di una cooperativa, portò l’ira di essi contro la famiglia Parlapiano.106

Lo scenario delineato da Palapiano Vella confermava la tesi che essi godevano di maggiori simpatie presso le alte cariche dello Stato, mentre nel contesto locale trovavano ormai una ferrea ostilità. Dal 1927 la successiva reazione anti-Abisso del prefetto Mori in Sicilia107 provocò ulteriori scomposizioni del sistema politico locale108. I feudi del duca acquistati da Parlapiano furono oggetto di vani tentativi di riportare una certa attenzione dell’Opera che non mostrava alcun interesse a riaprire la vicenda. La strumentalizzazione politico-elettoralistica dei gruppi dirigenti sui piani di trasformazione del latifondo pregiudicò l’azione 106 Acs, Mi, Ps, b. 198, Lettera di Parlapiano a Mussolini, Roma 29 luglio 1927. 107 Parte della documentazione del periodo fascista e lo scioglimento delle cooperative si trova in Acs, Mi, PS, Ao b. 9; Lupo, Storia della mafia cit., p.188; cfr. anche Christopher Duggan, La mafia durante il fascismo, Rubbettino, Soveria Manneli 1996. 108 Acs, Mi, Ps, b. 198, Riservata della prefettura di Girgenti al ministero degli Interni circa il ricorso contro la situazione fascista ad Agrigento e contro l’On. Angelo Abisso e altri, Agrigento 20 luglio 1927.

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dello Stato e con essa risucchiò nel vortice del fallimento l’intero movimento cooperativo.

5. La gestione mafiosa dell’ex feudo Polizzello

5.1 Quadri ambientali L’ex feudo Polizzello è stata la più grande proprietà terriera in Sicilia oggetto dei piani di trasformazione dell’Onc. Il fondo si trova in territorio di Mussomeli1, nella provincia di Caltanissetta, in prossimità di Villalba. Fin dal XVI secolo esso apparteneva alla famiglia nobiliare dei Trabia che nel circondario possedeva oltre 4000 ettari. Mussomeli con il 69%2 aveva una estensione proporzionale di latifondi superiore alla media dell’intera provincia. I latifondi occupavano zone sempre maggiori di territorio sia nelle vicinanze dei centri abitati sia lontano da essi, e le aree non latifondistiche erano i pochissimi boschi sparsi e le alte quote collinari difficilmente coltivabili3. L’ex feudo Polizzello si estendeva su una superficie totale di 1.986 ettari4 circa, e la sua configurazione era abbastanza irregolare, simile a una testa di lupo. Le vie d’accesAlcune notizie storiche su Mussomeli in età moderna e contemporanea si trovano in Giuseppe Sorge, Mussomeli dall’origine all’abolizione della feudalità, Sigma, Palermo 1989; Nino Raviotta (a cura di), Ricerche storiche su Mussomeli, Paruzzo, Caltanissetta 1995; Giacomo Cumbo, Mussomeli: tra otto e novecento (1892-1910), Lussografica, Caltanissetta 1995. 2 Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini cit., pp. 355-360 e 361. 3 Ibid. 4 Questo dato è riferito al vecchio catasto di Mussomeli art. 9645, mentre col nuovo catasto degli anni cinquanta alla pagina 10060 gli ettari risultavano essere circa 1.917 in Acs, Onc, Sicilia, b. 8, f. 27, Ufficio tecnico erariale di Caltanissetta, estratto semplice del comune di Mussomeli, s.d., pp. 1-8. 1

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so più comode al fondo riguardavano la strada provinciale Mussomeli-Villalba, che lo attraversava per un lungo tratto. Tutto il fondo giaceva in collina e in bassa montagna. La sua altitudine variava dai 270 metri circa fino a raggiungere la massima quota di 870 metri nel punto più alto della località rimboschita della “Montagna”. La maggior parte dei contadini che si recavano a lavorare nel fondo come avventizi, coloni, affittuari, provenivano da Mussomeli che nel primo ventennio del Novecento era un grosso centro agricolo di oltre 11.000 abitanti5. Accanto all’attività agricola cresceva una florida e dinamica pastorizia che era l’attività prevalente e distribuiva nei numerosi mercati locali i prodotti della carne e quelli lattiero-caseari. Nei primi anni del Novecento, in seguito alla grande ondata di emigrazione, il ritorno di denaro contribuì alla formazione di una locale cassa rurale, che investì nei settori produttivi dell’economia locale, ma anche al miglioramento di alcuni servizi pubblici, come l’erogazione di luce e acqua, che furono inaugurati proprio in quegli anni6. In tutto il fondo esistevano appena 11 fabbricati rurali sparsi, come i ripari e le abitazioni stagionali per i coloni. Nella parte centrale del fondo si trovava il nucleo aziendale e direzionale dell’attività produttiva, la grande masseria della famiglia nobiliare dei Trabia. Era l’accorpamento principale e comprendeva una vasta costruzione con un’area complessiva di quasi 2.000 mq. Vi erano stalle capaci di contenere numerosi capi di bestiame, quattro magazzini, una panetteria, tre camere con cucina, un pollaio e una tettoia. Seguivano altre strutture rurali, di poco inferiori alla prima, che rendevano possibile la dimora di poche famiglie coloniche, 5 Istituto centrale di statistica, comuni e loro popolazione ai censimenti dal 1861 al 1951, Roma 1960. 6 Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini cit. p. 268; più specificatamente si veda Salvatore Cardinale, La cassa piccolo credito agrario di Mussomeli, Palermo 1924.

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e comprendevano ciò che il principe di Trabia considerava un segno di progresso per le condizioni della sua proprietà, ossia un’aula e 21 are di terreno coltivabile adibite a scuola elementare per l’insegnamento delle rudimentali tecniche agrarie7. Le strutture erano state donate nel 1899 a titolo gratuito al comune dal proprietario grazie alla mediazione del sindaco Desiderio Sorce che era anche l’amministratore locale dei beni di casa Trabia8. In tal modo si riproduceva quel microcosmo comunitario conseguenza di una dinamica “spontanea” del paesaggio delle zone dell’interno cerealicolo9. Eppure, nel corso della seconda metà del XIX sec., a causa delle censuazioni dei beni ecclesiastici e della quotizzazione dei terreni demaniali, accanto alla masseria tradizionale cominciarono ad affiancarsi delle tipologie simili di unità fondiarioaziendali, abbastanza ampie ma più razionali e dinamiche. Questi cambiamenti, pur nei loro limiti, mostravano i segni di un’avvenuta trasformazione. È il caso, ad esempio, dell’ex feudo Canzirotti, sempre in territorio di Mussomeli, anch’esso di proprietà dei Trabia, che fu investito da una rivoluzione agraria condotta direttamente dal possidente. Questo fondo fu colonizzato da famiglie contadine e mediante cisterne, serbatoi e piccole sorgive furono forniti d’acqua. La coltura dei cereali e della sulla furono intensificate, mentre furono introdotte la coltura del mandorlo, del pistacchio e la vigna10. Questo modello di azienda mista, in Scuola pratica di agricoltura Principe di Trabia, in «Giornale di Sicilia», 13-14 marzo 1920. 8 Angelo Barba, Chiesa e società nello sviluppo storico di Mussomeli, vol. II, Parruzzo Editore, Caltanissetta 1998, p. 63. 9 Mercurio e Russo, L’organizzazione spaziale della grande azienda cit., in particolare pp. 95-108, nei luoghi tipici del latifondo cerealicolo vi sarebbe stata la lenta riorganizzazione di uno spazio precedentemente costruito. 10 Antonio Vacirca, Il problema agrario in Sicilia, Alberto Reber, Palermo 1908, p. 106. 7

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parte trasformata con piantagioni arboree e in parte tenuta a coltura estensiva, rappresentò un vero (forse, l’unico) ideale di progresso per molti proprietari. E non è un caso se si ritrovò questo modello nelle zone dove maggiori erano i vincoli ecologici. Qui, la compresenza di opposte tendenze, la salvaguardia delle rendita e l’attitudine all’investimento, rovesciavano lo schema classico di una Sicilia totalmente priva di differenziazioni e di mobilità sociale11. Nel caso del fondo Polizzello, la famiglia Trabia non coniugò questo doppio ideale. Lo stato colturale che ne conseguì non poteva che assecondare l’andamento tipico del grande latifondo cerealicolo12, col sistema della rotazione terziaria e l’introduzione di timide migliorie. Il seminativo semplice dominava incontrastato su oltre il 70% dell’intera superficie produttiva. La produzione dei cereali rappresentava l’unica sorgente di reddito contadino e la maggiore rendita proprietaria. A questa attività prevalente seguiva il pascolo e circa 40 ettari di incolto produttivo. Nonostante il paesaggio agrario fosse poco differenziato, non mancavano zone di forte discontinuità. Erano presenti poco più di 35 alberi di mandorlo, fico, e fichi d’india in buone condizioni, collocati in prossimità dei fabbricati, mentre a nord della casa Trabia vi era un piccolo orto dove si coltivavano pomodori, meloni, cetrioli e zucchine. Questi erano i pochi esempi di progresso, dal momento che la natura del terreno e la presenza della zona malarica nelle quote più basse impedivano sia la naturale piantagione di colture estensive sia una stabile permanenza di coltivatori. Lo stato di arretratezza era da imputare, in ultima analisi, al disordine idrogeologico. L’intero fondo non presentava alcuna opera di sistemazione idraulico-agraria e per Lupo, I proprietari terrieri nel mezzogiorno cit., pp. 143-144. Acs, Onc, Da, b. 8, f. 114, Relazione sul fondo ex feudo Polizzello (fondi “Quarto di Rose”, “Intanalepre” e “Gelso”) in territorio di Mussomeli (provincia di Caltanissetta) s.d., pp. 1-10. 11 12

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circa 6 ettari era sommerso dalle acque del Belice in piena13. Il territorio, solcato da valli e piccole conche, favoriva il formarsi di numerosi torrenti e ruscelli affluenti del Belice e Fiumicello. Alcuni di questi torrenti, come il Chiapperia e il Mandra Nera, erano incassati, profondi e con le sponde soggette a frane. Altri, come il Belice, il Fiumicello e il San Frangiore, erano superficiali con sponde affatto sistemate e, dunque, ugualmente apportatori di erosioni durante il periodo delle piene. Per di più il disordine delle acque provocava a valle vasti pantani malarici. In queste condizioni, la colonizzazione era di difficile diffusione. Solo agli inizi degli anni Venti il municipio costruì una conduttura per portare 40 metri cubi al giorno fino alla strada provinciale Mussomeli-Villalba. Questa fu la sola opera, il che dimostrava come fosse forte qualsiasi remora all’investimento, considerato un onere per la proprietà, e anche quanto fossero irrisorie le risorse pubbliche locali14. Per quanto riguarda il regime di affitto, già prima della guerra, il fondo era stato suddiviso in due grandi parti, e concesso, nel 1915, al proprietario-gabellotto Calogero Sapia, originario di Mussomeli15. Il contratto aveva la durata di sei anni con scadenza nel 1921. Il restante fondo era stato dato in affitto a Ignazio Gangitano e ai fratelli La Lumia, quest’ultimi grandi gabellotti e notabili originari di Canicattì, i quali possedevano un network politico provinciale che aveva permesso a uno di loro, Ignazio La Lumia, di diventare parlamentare nel 1913 grazie all’apporto dei Trabia. Il loro contratto aveva una durata che andava dal 1910 al 1922. Questi stessi fondi venivano, come di consueto, suc13 Theobald Fischer, La penisola italiana, Unione tipografico-editrice, Torino 1902, pp. 324 ss. 14 Acs, Onc, Sicilia, b. 8, f. 27, Relazione tecnica del dott.A.Lo Porto sul feudo Polizzello, s.d., pp. 7-10. 15 Acs, Onc, Sicilia, b. 26, f. 28, Relazione sui dati di affitto e di compravendita rilevati per la provincia di Caltanissetta e Petralia Sottana, p. 20.

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cessivamente subaffittati e ceduti spesso con patti di natura verbale a numerosi mezzadri e piccoli coloni. 5.2 “combattenti” e mafiosi La vicenda della gestione mafiosa dell’ex feudo Polizzello balzò all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale nel secondo dopoguerra ma ebbe inizio nel primo, quando l’esplicarsi degli avvenimenti legati ai tentativi di riforma del latifondo pilotati dall’Onc misero in moto nuove dinamiche sociali, provenienti dalle istanze rivendicative delle masse contadine, dalle pressioni dei proprietari in soccorso, e a mantenimento, dell’inviolabilità della proprietà privata e, infine, dai cosiddetti mediatori mafiosi, capaci di utilizzare i vantaggi derivati dai legami con la società e la proprietà per estendere, influenzare ed elargire protezione alla comunità in cambio del controllo delle risorse economiche16. Il problema generale della terra, che in Sicilia discendeva dalla questione degli “usi civici” tardo-ottocentesca, e che nel secolo successivo era avvertito in stretto riferimento alla questione dei patti agrari e della presenza della figura sociale del gabellotto, fu oggetto, già ai primi di settembre del 1919, delle legislazioni speciali dello Stato17. Ciò nonostante, l’azione dell’Opera in provincia di Caltanissetta giunse tardiva rispetto ai piani preannunciati dal governo, sì da trovare una situazione già gravida di crescenti tensioni e conflitti sociali18. In questo contesto, Mussomeli partecipò attivamente Paolo Pezzino, Mafia: industria della violenza. Scritti e documenti inediti sulla mafia dalle origini ai giorni nostri, La Nuova Italia, Firenze 1995. 17 Sulle vicende circa l’applicazione dei decreti per l’occupazione delle terre incolte o mal coltivate si vedano le relazioni del prefetto Guadagnini in ACS, ministero degli Interni, Ps, cat.C1, 1920, b.57 . 18 Marino, Partiti e lotta di classe in Sicilia cit.; Giuseppe Miccichè, Dopoguerra e fascismo in Sicilia, Editori Riuniti, Roma 1976. 16

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alla seconda ondata di agitazioni nelle campagne19 dove, tra il 24 e il 25 settembre del 1920, un gruppo di ex combattenti, «in attesa decisioni associazione nazionale a cui hanno presentata istanza, occuparono feudi […] Polizzello»20. L’azione di invasione delle terre, diramata a tutte le sezioni e sottosezioni dei combattenti dall’organo dell’ufficio centrale delle cooperative combattenti siciliane, sarebbe dovuta iniziare simultaneamente in tutti i comuni della provincia la mattina del 2721. La motivazione fu illustrata dal foglio di propaganda dell’ufficio centrale delle cooperative combattenti siciliane: L’Opera nazionale combattenti, sotto la pressione dei socialisti, dei cattolici e del Governo, indugia nelle esproprie, per dar tempo ai proprietari di vendere le terre richieste dai combattenti. Non potendo perdere tempo in isterili e inascoltate proteste, è urgente che i combattenti procedano alla diretta valorizzazione della loro forza22.

Le occupazioni cominciarono prima della data annunciata, «perché la notizia trapelò e le varie associazioni di non combattenti non vollero farsi prevenire nell’invasione dei feudi, pur senza nemmeno prospettarsi lo scopo preciso cui miravano»23. Piuttosto che procedere alle invasioni Luigi Orsenigo, Note sulla invasione delle terre in Sicilia, in «L’Italia agricola», 15 febbraio 1921; Giuseppe Rocca, L’occupazione delle terre incolte da parte delle associazioni di agricoltori, in «La riforma sociale», maggio-giugno 1920. 20 Acs, Mi, Ps, cat. C1, 1920, b.63, telegramma del prefetto Guadagnini al Presidente del Consiglio, Caltanissetta 25 Settembre 1920. 21 “Le cooperative combattenti”, organo dell’Ufficio Centrale delle cooperative combattenti sicliane, Catania, 20 gennaio 1921. L’Ufficio centrale cooperative combattenti siciliane raccoglieva le federazioni cooperative combattenti delle varie province. Queste istituzioni facevano a loro volta riferimento alla Federazione italiana delle cooperative fra combattenti, guidata dal dirigente nazionale dell’Anc Labadessa. 22 Acs, Mi, PS, cat.C1, 1920 b. 63, Bollettino delle Cooperative combattenti siciliane, s.d. 23 Acs, Mi, PS, cat. C1, 1920, b.63, telegramma del prefetto Guadagnini al Presidente del Consiglio, Caltanissetta ottobre 1920. 19

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delle terre sic et sempliciter, si procedette verso quelle che erano state già richieste all’Onc. Difatti, secondo il prefetto di Caltanissetta Guadagnini, l’occupazione del feudo poteva essere stata subordinata ad altri fini riconducibili ad una anticipata frettolosa esecuzione di ordini partiti da Roma e da Catania alle varie sezioni locali dei combattenti, allo scopo di fare una specie di grandiosa manovra dimostrativa sia contro l’Opera Nazionale dei Combattenti, tarda, a lor credere, nell’aderire alla richieste delle sezioni, sia contro il Governo, accusato di scarso fervore nel concedere fondi adeguati all’acquisto delle terre domandate.24

L’occupazione del fondo Polizzello fu condotta da un’attiva pattuglia locale di ex combattenti che, a inizio dello stesso anno (gennaio 1920), avevano fondato la Società anonima cooperativa “La Combattenti” di Mussomeli, allo scopo di avere l’assegnazione del fondo per mezzo dell’Opera. Non è superfluo ricordare come il fenomeno della formazione dei gruppi di “combattenti e reduci” dilagò oltre misura e che i partiti, attraverso cui si articolava la vita pubblica locale, negli anni successivi alla guerra rimodularono le strategie e le alleanze in relazione alla nuova ideologia combattentista. La cooperativa era formata da una larga base contadina guidata da un ceto medio rurale, il quale, impoverito dalla crisi del latifondo, aspirava a un godimento più ampio delle risorse. Le conseguenze della guerra avevano segnato duramente i già fragili equilibri dell’economia agricola locale. La crisi economica che ne conseguì fu appesantita, tra l’altro, dal progressivo abbandono delle terre coltivate e di quelle destinate al pascolo e, dunque, dalla drastica riduzione della produzione cerealicola25 non controbilanciata da una moderna organizzazione capitalistica dell’impresa. 24 Acs, Mi, PS, cat. C1, 1920, b.63, telegramma del prefetto Guadagnini al Presidente del Consiglio, Caltanissetta ottobre 1920. 25 Barba, Chiesa e società cit., pp. 81-82.

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Il suo presidente Antonino Armanno era il figlio di un piccolo possidente locale che, «assieme al Sorce Francesco di professione campiere», era stato già segnalato dalla Ps come «individuo sospetto di appartenere all’emergente cosca delinquenziale»26. Gli altri dirigenti, Antonino Valenza, Vincenzo Messina, il segretario Calogero Cimò, indossavano la doppia veste di organizzatori dei nuovi reticoli associativi paesani e di promotori dei circuiti criminali locali che, allo stesso modo di organizzazioni orizzontali, si componevano su scale provinciali. Attorno alla cooperativa, a causa dell’allargamento dell’offerta di partecipazione politica, di un’ampia domanda del mercato illecito e dei legami parentali tradizionali, gravitavano molti altri elementi della nascente cosca mafiosa dei cosiddetti “campieri di Mussomeli”. In origine l’organizzazione criminale faceva parte di un’ampia struttura di gruppi di famiglie che si estendeva, a maglie larghe, sull’intera provincia nissena. V’era un capo che garantiva l’esistenza di stabili relazioni tra i vari gruppi. Qui, affluivano i gregari (per lo più pastori), tra cui i più in vista erano i fratelli Messina e Calogero Collura di Mussomeli27. Così, un primo nucleo mafioso locale si formò per via dei vincoli di amicizia e per i servizi criminosi resi ai “briganti” Varsalona, Randazzo e Gallo di Canicattì. Silvestre Messina poté così avere il posto di campiere nel fondo Polizzello che ben presto «diventò altro luogo di rifornimento per la serie di delitti che i gregari andavano consumando»28. 26

1932.

Ascl, Prefettura, Gb, II versamento b. 22, segnalazione della Ps,

27 Ascl, Ca, Tribunale di Caltanissetta, processi, b. 431, Sentenza del dicembre del 1929 della corte di Appello di Palermo contro Messina Silvestre +102. 28 Ascl, Ca, Tribunale di Caltanissetta, processi, b.431, Sentenza del dicembre del 1929 della corte di Appello di Palermo contro Messina Silvestre +102.

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Con la scomparsa dei briganti Randazzo e Gallo il gruppo criminoso di Mussomeli si consolidò. Messina riuscì a farsi riconoscere con il titolo di “Capitanu”, ossia come massimo esponente della mafia coalizzata di Mussomeli e ad esso si accostarono i capi mafia dei paesi limitrofi. Inizialmente si praticavano reati come furti, rapine, abigeati, oltre a omicidi commessi per dissidi o rivalità interne29. È questo il periodo in cui la nascente cosca fu impegnata in un sanguinoso conflitto tra i vari gruppi provinciali, anche contrapposti tra loro, finalizzato al contenimento della banda gangitana dei Dino30, che voleva sconfinare a Sud per imporre il controllo sui feudi e i pascoli nei territori al confine con la provincia di Palermo e costruire così nuovi collegamenti per il traffico di animali rubati e di uomini sequestrati31. Immediatamente dopo la guerra, la cosca era in grado di darsi una struttura organizzativa e gerarchica dai connotati inconfondibili. L’intensificarsi dei reati quali il ricatto, l’omicidio, le minacce con lesioni, le estorsioni a mezzo di lettere anonime e l’abigeato, rappresentava non solo la spia della recrudescenza del fenomeno, ma anche l’indizio di una maggiore localizzazione degli affiliati all’interno di un circuito di relazioni estorsive che aveva il centro di potere proprio a Mussomeli. Quindi si era potuto accertare l’esistenza di un gruppo numeroso, organizzato e compatto di individui, in gran parte nativi del paese nisseno, che avevano rafforzato i vincoli del sodalizio criminoso, che avevano per capi alcuni soprastanti e campieri del luogo. Tra i boss della cosca si segnalava Silvestre Messina già soprastante nel fondo PolizSulle attività illecite si veda anche Ascl, Ca del Tribunale di Caltanissetta, b. 35, Sentenza del 7 ottobre 1931 contro Termini +20. 30 Relazione dell’Ispettore di Ps, Di Blasi, 15 settembre 1926, in Commissione antimafia, vol. IV, t. V, Tipografia del Senato, Roma, p. 339. 31 Cfr. John Dickie, Cosa nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza, Roma-Bari 2005. 29

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zello, Giuseppe Genco Russo32, Calogero Collura, i membri della famiglia Sorce intesi “facci ranni” (faccia grande), Francesco Tulumello, Pietro Spinnato. Tra gli affiliati invece emergevano i fratelli Messina, Giuseppe Costanzo, i fratelli Genco Russo, Calogero Castiglione, Salvatore Termini, Gaetano Canalella inteso “Lu Biancu”, Antonino Valenza, Antonino Barcellona33. Quest’ultimi due, oltre a Genco Russo, erano soci ed esponenti di spicco della cooperativa34. La presenza massiccia tra le fila dell’organizzazione mafiosa di campieri e di pastori divenuti soprastanti, oltre a rappresentare un caso abbastanza consueto, era dovuta anche alla crisi agraria del dopoguerra che indusse a radicali trasformazioni nella conduzione del suolo. La crisi causò il passaggio da una rotazione ternaria a quella biennale. Ciò ridusse di molto lo spazio disponibile per i pascoli, Un profilo sul boss Genco Russo su Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, I boss della mafia, prefazione di Girolamo Li Causi, Editori Riuniti, Roma 1971. 33 La cosca si divise solo nel 1925 in due fazioni contrapposte in occasione della vendita del feudo Salina da parte del proprietario Tasca di Bordonaro. Ne derivò una vera e propria «guerra» tra i Sorce «facci ranni» e i Messina per chi doveva avere la parte più consistente dell’affare, lasciando dietro una scia di omicidi consumati tra il maggio e l’agosto del 1925. La pace fu firmata nell’agosto dello stesso anno in contrada Minnita di proprietà del boss Pietro Spinnato: cfr. Estratto di verbale della PS interprovinciale, Caltanissetta 6 giugno 1927, in Ascl, Ca, Tribunale di Caltanissetta, processi, b. 437. È probabile che della famiglia dei Sorce facesse parte Santo Sorge (poi cambiato di cognome, forse per errata trascrizione della “g” al posto della “s”), emigrato in America tra gli anni venti e trenta, non si sa se per la guerra di mafia o durante l’operazione Mori, divenne nel secondo dopoguerra un importante intermediatore nel traffico internazionale della droga. Lupo, Quando la mafia trovò l’America cit., p. 169. 34 Ascl, Tp di Caltanissetta, b.254, sentenza del 19 luglio 1930 contro Messina +79,; Id, Cdp di Caltanissetta, sentenze penali anni 193031, b.1, sentenza del 24 gennaio 1931 contro Mesiina Silvestre + 79; vedere anche Da Mussomeli. Retate di delinquenti a Mussomeli e paesi vicini, in «L’Ora», 15-16 gennaio 1931. 32

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con la conseguente crisi del settore. Per questo motivo, la concessione delle gabelle era funzionale all’incremento dell’abigeato. Pertanto, l’importanza di possedere delle terre gabellate non risiedeva solo nella possibilità di speculare sull’affitto, quanto nel fatto che esse funzionassero spesso da raccordo strategico per il traffico illecito del bestiame, che era il più diffuso nel circondario di Mussomeli35. L’attività di abigeato era esercitata su larga scala, con una rete articolata e diffusa sul territorio e una divisione interna dei ruoli, poiché viceversa non sarebbe stato possibile rubare, trasportare, occultare e rivendere gli animali per le distanze notevoli delle masserie36. L’ex feudo Polizzello divenne il quartier generale degli affari illeciti della mafia di Mussomeli: nella zona denominata “montagna”, nelle case del boss Giuseppe Tulumello, si nascondevano la maggior parte delle mandrie trafugate e si svolgevano i summit in forma di scampagnata tra i campieri e gli affiliati per decidere le strategie comuni. La cosca mafiosa avvelenava le fonti dell’economia locale, riuscendo a infiltrarsi nel tessuto associativo e a comandare le nuove leve delle organizzazioni di massa. Dunque, non furono i contadini nullatenenti37, piccoli coloni e mezzadri, e neanche quelli che possedevano solo 35 cfr. Gravissimo abigeato a Mussomeli. 100.000 lire di animali rapinati dai malfattori in «Giornale di Sicilia», 16-17 gennaio 1920; Il record di abigeato, in «Giornale di Sicilia», 28-29 gennaio 1920. 36 Ad esempio la famiglia Genco Russo rifletteva al suo interno la divisione dei compiti funzionale alla rete criminale attorno all’abigeato e al monopolio del mercato delle carni. Se alcuni componenti della famiglia avevano in gabella delle terre, la filiera del taglio, della preparazione e della commercializzazione delle carni era gestito da Vincenzo Genco Russo, fratello di Giuseppe, che possedeva una bottega da macello nel paese in Ascl, Ca del Tribunale di Caltanissetta, b. 35, Sentenza del 7 ottobre 1931 contro Termini +20. 37 Raimondo Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Liviana editrice, Padova 1988, p. 51. L’autore propone una più convincente spiegazione sull’origine sociale dei mafiosi rispetto a Her-

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qualche esiguo appezzamento di terra attorno all’abitato, a sfruttare lo strumento della cooperazione, ma figure sociali intermedie, molte delle quali già inserite nelle reti di affari illegali, che, approfittando degli stravolgimenti sociali ed economici del primo dopoguerra, aspiravano ad ascendere ai gradi più alti della società: rappresentanti paesani del ceto professionale, ex pastori arricchitisi coi traffici illeciti, soprastanti, commercianti, affittuari di feudi. La sigla combattentistica fu subordinata agli interessi di questa “borghesia” rurale che, nel generale contesto, fu almeno al suo esordio il gruppo capace di interpretare le istanze “progressiste” di trasformazione fondiarie avanzate su scala nazionale. 5.3 L’alto e il basso Nel maggio del 1920 la Cooperativa inoltrò all’Onc la domanda per la richiesta di esproprio del fondo Polizzello tramite l’ufficio di Catania, ma per tutta l’estate non ricevette risposta dal Consiglio d’amminstrazione dell’ente. Ciò finì per creare un malcontento tra i soci che avevano auspicato un immediato appoderamento per iniziare i lavori di semina. Le richieste furono accolte dopo sei mesi di estenuante attesa. Le minacce di agitazioni su scala regionale e le successive azioni di forza da parte del movimento combattentistico locale avevano persuaso l’Opera ad accelerare la pratica di esproprio per timore che la situazione potesse sfuggire di mano. Il consigliere delegato Antonio Sansone a metà di novembre deliberava che i fondi erano «suscettibili di importanti trasformazioni colturali e presenta[va]no in modo speciale, i caratteri per una proficua assegnazione ad agrinan Hess, il quale sosteneva che l’origine del mafioso è da ricercare tra le classi più umili. La piena confutazione dell’equazione mafia = povertà, in Salvatore Lupo.

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coltori ex combattenti»38. La macchina dell’Opera entrava così in azione, mettendo a dura prova la sua legislazione. Il piano di trasformazione fondiaria39 fu redatto nella sede di Roma secondo le indicazioni di massima fatte pervenire dall’ispettorato siciliano. Esso prevedeva, oltre ai piani di appoderamento secondo la formula del contratto d’utenza a miglioria, i vincoli di trasformazione colturali, a cui il fondo doveva essere assoggettato. La prima opera da eseguire consisteva in un cospicuo aumento della superficie produttiva, soprattutto in quelle parti del suolo dove era più difficile intervenire, attraverso la raccolta delle numerose pietre che impedivano il largo sfruttamento del suolo. Successivamente, si sarebbe dovuto procedere con la sistemazione idrogeologica. Infatti, secondo i tecnici dell’Onc, parte dei massi si potevano adoperare per la sistemazione delle sponde del fiume Belice, del torrente Fiumicello e di altri valloni, che solcavano il fondo, con la costruzione di appropriati argini, e parte poteva essere utilizzata per la costruzione di fossi di scolo e di qualche fogna per un più facile smaltimento delle acque piovane, specialmente in quei tratti dove il terreno era poco permeabile per la sua natura argillosa. Conclusa la fase preliminare, necessaria per la sistemazione generale del fondo, il piano prevedeva alcune indicazioni circa le nuove coltivazioni da impiantare, di natura prevalentemente arborea e arbustiva. Ad esempio, nei punti più alti si potevano piantare file di mandorleti e ulivi, da associare nei primi anni a colture erbacee; nelle zone di collina si dovevano aggiungere alberi di pistacchi, mentre nella zona valliva si suggeriva la vite. Lungo le sponde del torrente Fiumicello, dove esisteva già una superficie di 4 38 Acs, Onc, Da, b. 8, f. 114, Richiesta di attribuzione del feudo Polizzello del consigliere Sansone al Collegio Centrale Arbitrale, Roma 15 novembre 1920. 39 Acs, Onc, Da, b. 8, f. 114, Trasformazioni a cui i fondi possono essere assoggettati, Roma 26 Ottobre 1920 pp. 8-10.

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ettari a frutteto, si indicava di far crescere dei “filari di robinie”, per rassodare il terreno in modo da poter ampliare il frutteto con colture specializzate di pesche, prugne e mele. I restanti 1.287 ettari, invece, potevano essere convenientemente trasformati con nuove colture arboree e arbustive. Specificatamente, nella zona a est di Casa Trabia doveva essere piantata una corona di mandorli, ulivi e qualche fila di pistacchi, mentre nelle rimanenti estensioni si prevedevano piantagioni di viti alternati a mandorleti e frutteti diversi. Infine, in prossimità della zona chiamata “Mandra Rossa”, su una superficie di 15 ettari, si prevedeva l’impianto della vite specializzata40. Non sappiamo se il progetto dell’Opera rifletteva la realtà ambientale e se la cooperativa aveva la preparazione tecnica e il supporto finanziario per eseguire gli indirizzi colturali e le prescrizioni di miglioramento necessarie per stipulare i contratti. Si può solo ipotizzare che esisteva un certo margine di distanza tra i propositi dell’ente e le capacità di realizzazione. Di certo il gruppo dirigente della cooperativa aveva poca esperienza nella gestione della programmazione dei lavori di migliorie così come erano stati pianificati dall’Opera. Nondimeno da parte dei cooperatori prendeva corpo la sensazione che il progetto di riforma fosse stato calato dall’alto, come qualcosa di estraneo ai consueti patti agrari, e senza tenere in considerazione l’unico desiderio delle masse contadine: il possesso privato di un pezzo di terra. A suscitare forti diffidenze era la formula del riscatto riconosciuto ai proprietari. Questa clausola era destinata a essere utilizzata in modo strumentale dai cooperatori, ai quali non piaceva l’idea di perdere il controllo sulle terre, tanto meno piaceva ai contadini, che temevano, una volta subentrato nuovamente il proprietario, di non godere 40

Ibid.

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più del contratto stipulato con l’Onc, e neanche allettava il gruppo mafioso a cui venivano sottratti la funzione di mediatore sociale e il controllo sulle gabelle. Infine, anche gli stessi proprietari non accettavano di subire quella che consideravano un’operazione anti-economica: dovevano soggiacere alle sentenze di esproprio emesse con un risarcimento poco superiore alla quantità necessaria a un eventuale investimento nell’acquisto di un fondo migliorato. La soluzione di gran lunga migliore sarebbe stata quella di vendere il fondo, o parti di esso, in via privata. La pratica di esproprio suscitò la reazione dei Trabia. Ma, a differenza di molti “colleghi”, il principe Pietro Lanza intese procedere non tanto vendendo le terre prima della sentenza della magistratura speciale, cercando ossessivamente dei possibili acquirenti, quanto impedendo a ogni costo l’intervento pubblico. Per raggiungere questo obiettivo – secondo i Trabia – era necessario resistere agendo in due direzioni e su livelli differenti: da un lato sabotare i piani dell’Onc attraverso l’influenza del grande proprietario nel ruolo di parlamentare, il quale avrebbe sfruttato le personali conoscenze delle alte sfere della politica nazionale, e dall’altro rinsaldare il groviglio dei rapporti politici in periferia, per ricontrattare nuovi patti con i notabili locali e stipulare accordi economici vantaggiosi con la società locale. Il primo passo compiuto dal principe di Trabia fu quello di denunciare alla Direzione generale di Ps la “violenta occupazione” delle sue terre «cui coltura sfugge ogni requisizione legale»41 e di protestare per la violazione del diritto e per i «danni gravissimi in vista imminente semina»42 invocando immediati provvedimenti per la tutela dell’ordine pubblico. La segnalazione non mirava solo a ripristinare l’ordine 41 Acs, Mi, PS, cat. C1, 1920, b. 63, il segretario capo della presidenza alla Direzione generale della Ps, Roma 7 ottobre 1920. 42 Ibid.

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pubblico, ma era rivolta a spostare l’attenzione sulla violazione del diritto di proprietà da parte di un ente dello Stato più che da un’associazione contadina locale, e ciò perché il principe di Trabia era consapevole che l’invasione del fondo era stato un’azione dimostrativa contro i ritardi dell’Onc, piuttosto che un’iniziativa rivolta contro di lui. Come spesso accadeva, la battaglia a difesa delle proprietà diventava un affare politico e vedeva contrapporsi due schiramenti: da una parte i proprietari refrattari a qualsiasi ipotesi di esproprio; dall’altra il dirigismo statalista dei tecnici dell’Onc. Lo scontro si sarebbe giocato sul terreno sociale del cooperativismo e, proprio in tale scacchiere, appariva meglio attrezzata l’opzione privatista piuttosto che quella pubblica, capace di tessere il reticolo di relazioni personali e d’alleanze con i gruppi delle élite locali, di offrire maggiori garanzie contrattuali e di concedere contemporaneamente occasione di promozione sociale. Nel frattempo, i proprietari si premurarono di redigere le argomentazioni divergenti in rapporto al progetto di trasformazioni colturali. La copiosa documentazione fu spedita al Collegio arbitrale, con l’intento di rallentare i tempi della pubblicazione della sentenza finale. Il rapporto faceva leva sull’impossibilità di approntare modifiche sostanziali all’azienda latifondista, valutata come l’unica forma di organizzazione agraria possibile, e sul fatto che alcuni interventi effettuati dalla proprietà privata stavano pian piano producendo benefici effetti. L’intero feudo, secondo quanto scriveva il principe, costituiva una della unità colturali a granicoltura più importanti dell’intero territorio nisseno «per lo approvvigionamento granario statale, stante la magnifica organizzazione dell’azienda la quale […] rende[va] possibile la valorizzazione di quelle terre, eminentemente frumentarie, con alta produttività»43. 43

Acs, Onc, Da, b. 8, f. 114, Deduzioni nell’interesse del principe di

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Nell’insieme, veniva elogiata pure l’intera struttura di appoderamento, sottolineando che molte delle costruzioni esistenti, come la fattoria e la scuola professionale di agricoltura erano state il frutto dell’investimento della proprietà terriera. Si sosteneva con una certa insistenza che la colonizzazione non poteva estendersi oltre una certa superficie, a causa dei limiti naturali legati al problema della reperibilità delle acque. Un aspetto che, secondo il punto di vista dei privati, i tecnici dell’Opera avrebbe trascurato di evidenziare nel progetto, “causando facili illusioni”44. Al di là della ferma opposizione nei confronti di qualsiasi segnale di cambiamento dell’indirizzo colturale, era evidente la richiesta polemica al governo nazionale di maggiori attenzioni per la crisi economica del settore della produzione del grano, anche a scapito delle altre produzioni agricole. Il fatto stesso di distogliere queste terre da quella che era considerata una destinazione “naturale”, costituiva secondo i grandi latifondisti «un attentato incosciente alla produzione nazionale, la cui insufficienza [costringeva] già a cercare all’estero, ed a così alto prezzo, il grano» mancante. Argomentazioni protezionistiche venivano mescolate a ragioni più tecniche nel valutare complessivamente un progetto ritenuto irragionevole. Si consideravano da escludersi da un razionale piano di coltivazione gli impianti di piante arboree e arbustive o addirittura irrigue, come i mandorleti, i pistacchieti, gli uliveti e i frutteti, e in generale qualunque piantagione che esigesse colture intensive, a causa della natura del terreno, per la presenza di vaste zone in alta quota non adatte a quel tipo di colture e anche per la presenza della malaria in pianura, che impediva la permanenza del coltivatore suoi luoghi di lavoro. Trabia Pietro Lanza Branciforti alla domanda di espropriazione dell’ex feudo Polizzello ad istanza dell’Opera Nazionale combattenti, Palermo novembre 1920. 44 Ibid.

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La colonizzazione esisteva e prosperava, nei limiti consentiti, e non c’era da dar luogo a vaste piantagioni, ad eccezione di qualche raro appezzamento qua e là, che non poteva affatto assumere il carattere di importante trasformazione: «Se tali potessero considerarsi – concludeva il principe di Trabia – siffatte piantagioni, per tutte le terre in Sicilia [...] potrebbe giustificarsi l’epropriazione»45. La soluzione auspicata dai proprietari, in alternativa ai piani dello Stato, era quella di quotizzare in piccoli lotti quelle stesse terre richieste dall’Onc, e destinarli ai numerosi coltivatori. Fino ad allora tutti i contratti avevano avuto una breve durata. Coi nuovi contratti dai 9 ai 18 anni si sarebbe introdotto il pagamento in natura, considerato la forma più equa di canone perché proteggeva dall’andamento fluttuante dei prezzi alimentari. Gli affitti scadevano nel ’22 e, di fronte a questa opportunità, lo stesso principe non nascondeva l’idea redditizia di rinnovarli al più presto salvaguardando così il possesso delle terre. Bastava poco quindi – dicevano i possidenti – per ristabilire la generale soddisfazione degli agricoltori e dei proprietari: semmai, a turbare la concordia di classe era stata l’opera deleteria di una certa propaganda di Stato, a cui si era aggiunta «l’azione insidiosa di agitatori politici di varia natura e specie, i quali minavano le basi di un fecondo benessere sancito dai sicuri contratti di affitto»46. Sul banco degli imputati c’era ache la cooperativa di Mussomeli. Il Principe di Trabia non esitò a denunciare il bluff dietro il quale si nascondeva la mancanza dei mezzi per attuare il piano di trasformazione agraria, auspicando un’istanza per procedere contro la cooperativa. Tuttavia, il vero obiettivo era l’Onc e la possibilità che si formasse una qualsiasi aggregazione politica locale o associativa autono45 46

Ibid. Ibid.

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ma in grado di minacciare o diminuire l’antica “autorictas” nobiliare. Il rinnovamento passava attraverso queste vie e i nuovi attori della lotta politica erano le cooperative, e non gli antichi partiti o i vecchi notabilati che, in questa particolare fase, perdevano consensi e potere47. Su questo terreno scivoloso e così poco differenziato tutte le spinte corporative e gli interessi di classe dovevano confrontarsi e concorrere, perché, attraverso la dimensione del conflitto sociale, la specifica lotta per la terra si trasponeva in fenomeno di carattere politico. 5.4 Il ritorno alla gabella Fino a qui la cooperativa era stata il terminale periferico del progetto nazionale di “riforma” agraria, in concorrenza diretta con la proprietà per l’acquisto della terra. La nuova fase di intervento dello Stato scardinava i precedenti equilibri al punto da amplificare di molto il ruolo delle nuove organizzazioni sindacali investite della funzione di mediatori di nuove trasformazioni sociali ed economiche. Di fronte al protagonismo della società rurale, il principe Trabia riuscì a escogitare una sua soluzione per riportare a suo vantaggio la questione dell’ex feudo Polizzello, respingendo sia la prassi illegale delle occupazioni sia lo strumento legale dell’esproprio. La strategia migliore secondo lui era di evitare che le istanze dei cooperatori si saldassero definitivamente con le procedure dell’Onc. In effetti, continuare il convulso braccio di ferro con l’ente pubblico non avrebbe garantito la risoluzione del problema dell’esproprio. Quindi, il principe di Trabia si affrettò a entrare nel meccanismo delle relazioni dell’associazionismo contadino, distinguendo tra quelli che ne facevano parte come semplici utenti di un servizio e gli 47

Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo cit., p. 376.

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organizzatori politico-sindacali che si trovavano a pilotare e mediare le trasformazioni in atto. Quest’ultimi dovevano essere i destinatari di una proposta di accordo-mediazione tra le parti interessate. In questo modo i proprietari si mostrarono decisi a rinegoziare direttamente con la cooperativa la nuova possibilità di un affitto delle terre Polizzello, al fine di neutralizzare la carica “eversiva” innescata dall’Opera, togliendole lo strumento del cooperativismo. In questo modo, la proprietà poté prospettare un ritorno al grande affitto, ma questa volta la funzione dei gabellotti venivano assorbite dalla cooperativa. L’intera operazione fu condotta in breve tempo. Quasi parallelamente al reclamo contro l’esproprio, l’amministratore dei Trabia invitò i dirigenti della cooperativa a contrattare l’offerta di gabella di una parte del fondo. Ai primi di dicembre del 1920 Antonino Armanno e Antonino Valenza si dichiararono persuasi a rinunciare all’esproprio e inviarono una missiva al principe di Trabia «con la quale si presenta[va]no i desiderata della Cooperativa in merito alla gabella»48. La cooperativa cambiava interlocutore, cercando da questo scambio di trarne dei vantaggi. L’accordo privato fra le parti fu stipulato poco dopo, senza avvisare l’Opera. Il contratto prevedeva l’affitto di soli 847 ettari (molto meno di quanto richiesto nell’esproprio)49. In concorrenza con il piano dell’Onc, il contratto di gabella sanciva la miglioria con l’obbligo di cambiamenti significativi alle condizioni di arretratezza del fondo. I miglioramenti erano molto simili a quelli già presenti nei piani dell’Onc: costruzione di case coloniche per il popolamento della campagna, sistemazione delle sorgenti, 48 Acs, Onc, Da, b. 8, f. 114, Estratto della deliberazione del consiglio d’amministrazione della cooperativa “la Combattenti”, Mussomeli 5 Dicembre 1920. 49 Acs, Onc, Da, b. 8, f. 114, Copia del contratto di gabella, Palermo 13 dicembre 1920.

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costruzione di pozzi e cisterne per favorire l’impianto di mandorleti, uliveti, pistacchieti e vigneti. Complessivamente fu fissata la durata di 29 anni, conclusi i quali alla cooperativa sarebbe stato riconosciuto il diritto di essere, a parità di condizioni, preferita a ogni altro concorrente per quanto riguardava l’affitto, l’enfiteusi, o la vendita50. A queste condizioni la cooperativa accettò e solo a giochi fatti consegnò copia della deliberazione di rinuncia all’esproprio al Collegio arbitrale, assieme a tutta quanta la documentazione inviata dal proprietario riguardante il contratto di gabella. C’è da chiedersi, a questo punto, chi trasse profitto dalla operazione. Innanzitutto il proprietario che, al pari di altri proprietari, non aveva gradito la presenza delle cooperative, e tanto meno degli enti espropriatori come l’Onc. Con il ritorno alla gabella e cambiando solo l’interlocutore degli affari, egli poteva ritenersi soddisfatto poiché, mantenendo il regime dell’affitto, era riuscito nell’intento di custodire intatta la rendita e di salvaguardare la proprietà. In verità, tutta la categoria dei latifondisti, in questa particolare congiuntura, stava ricontrattando le proprie posizioni economiche e non solo, mediando tra l’interesse proprio e quello delle spinte contadine all’acquisto di terra, incamerando liquidità e liberandosi di situazioni politicamente ed economicamente non più sostenibili, oppure, come nel caso nostro, ritornando alla vecchia gestione degli affitti. Cosi, progressivamente e in ordine sparso, i proprietari agivano secondo le nuove indicazioni suggerite dai più “illuminati” esponenti del partito agrario siciliano: respingere l’offensiva contadina e dello Stato su quelle terre ritenute suscettibili di trasformazioni o già migliorate, rinnovando gli affitti e vendendo tutte le altre. In tal modo, i proprietari avrebbero riguadagnato posizioni economiche e prestigio. 50

Ibid.

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Secondariamente, a ricavare benefici dal contratto di affitto fu certamente la cooperativa medesima che poté garantire a tutti i suoi soci l’accesso immediato e diretto alla terra nelle vesti di ente intermediario, sostituendosi ai precedenti gabellotti nella gestione dello statu quo. In questo nuovo assetto, i suoi dirigenti erano stati intercettati dal gruppo affaristico mafioso, che aveva condotto l’intera operazione e che avrebbe gestito anche il subaffitto, traendo da queste operazioni vantaggi economici e prestigio sociale non indifferenti. Infine, la stessa base della società rurale ebbe tutto l’interesse a mantenere certe forme contrattuali, poiché avvertì paradossalmente come una minaccia la fine delle figure degli intermediari, sia che fossero singoli gabellotti sia che si trattasse di cooperative, e con essi tutti quei ruoli subordinati, che erano propri dei rapporti di produzione nel latifondo. D’altronde, la pianificazione economico-sociale proposta dall’Onc poteva apparire ai contadini come l’inizio di un’intensa fase di proletarizzazione, di fronte alla quale anche le piccole figure di compartecipante e di colono, che erano legate alla tradizionale asprezza delle condizioni contrattuali, offrivano, quantomeno, la possibilità di una differenziazione sociale, una maggiore mobilità, e sistemi maggiormente protettivi nell’accesso diretto alla terra51. La convergenza di queste tre opzioni su cui si distribuivano differentemente i vantaggi derivanti dal contratto d’affitto, portò alla definizione di un blocco sociale composto da proprietari, gabellotti e contadini, che avrebbe impedito qualsiasi ipotesi di intervento pubblico. La cooperativa, formata in prevalenza da pastori, affittuari, soprastanti, possidenti, professionisti e da uno sparuto numero di mezzadri e giornalieri, divenne il trait d’union tra le istanze di difesa della proprietà e la domanda di terra proveniente da larghi strati della società contadina. 51 Rosario Mangiameli, Gabellotti e notabili nella Sicilia dell’interno, in «Italia contemporanea»,156, 1984, pp. 55-67.

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E si candidava a essere il luogo adatto per la nuova scalata sociale e politica di diverse figure sociali: il ceto notabilareprofessionista, che poteva speculare e guadagnare prestigio politico; gli affittuari, tra i più diretti interessati, perché pensavano di potere accrescere le terre in gabella e la propria condizione sociale; i mezzadri che non celavano l’ambizione di raggiungere l’affittanza, mentre il semplice contadino aveva la possibilità di ottenere in totale sicurezza un pezzo di terra in coltivazione, e di conseguenza maggiore quantità assicurata di lavoro e di prodotto alimentare. L’adesione come socio della cooperativa inseriva il contadino in un status di relazioni sociali privilegiate. In questo modo le aspirazioni della massa contadina mal si combinava con i progetti dell’Onc, che prevedevano contratti uguali per tutti i soci. Sicché le difficoltà operative incontrate dall’Opera derivarono proprio dal tenace trasformismo degli interessi comuni coagulati attorno ai proprietari e alle élite che, a livello locale, egemonizzavano le organizzazioni di massa. Il cemento sociale, assicurato dai legami corporativi, era forgiato da un nuovo gruppo dirigente contadino che garantiva la sostanziale tenuta del blocco agrario. L’agitazione agraria, come ebbe a denunciare il deputato socialista Arturo Vella52, si rivelò nel medio periodo portatrice di elementi rivoluzionari per i mezzi adoperati (occupazione dei feudi e richiesta di esproprio), ma conservatrice per il fine (ritorno ai vecchi contratti di gabella). Infatti, risulterebbe arduo rintracciare, nella multiforme composizione sociale dei protagonisti, un progetto rivolto a riformare i rapporti che legavano l’economia latifondistica con la società. La crisi dell’economia del latifondo aveva sì prodotto nuovi soggetti in grado di pilotare i processi di trasformazione economica, ma aveva finito per consolida52 La crisi agraria in Sicilia, Discorso pronunciato alla Camera dal deputato Arturo Vella, in Atti parlamentari, Camera dei deputati, Legislazione XXV, I sessione, tornata del 6 dicembre 1920, p. 6318.

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re su nuove basi un blocco sociale in grado di svincolarsi dalla morsa della programmazione centralizzata. 5.5 I retroscena dell’accordo. Mafia e cooperativismo La questione dell’affitto del feudo, tuttavia, non si esaurì con la firma del contratto e fu riaperta proprio quando sembrava ormai risolta. A complicare il quadro di riferimento delineato fino a quel momento, fu il presidente della “Combattenti” che, in palese controtendenza, tentò di riportare il caso nuovamente sotto l’ombrello dell’Opera. La vicenda appare controversa. A distanza di un mese dalla firma del contratto di gabella, il presidente Antonio Armanno inviò una lettera diretta al Collegio arbitrale e anche a Sansone per spiegare in sei punti i motivi secondo cui la procedura di esproprio non doveva arrestarsi, malgrado la presenza di una documentazione che attestava, proprio con la sua firma, il compromesso di affitto delle terre raggiunto tra la cooperativa e il proprietario. Secondo l’Armanno, la cooperativa era stata tratta in inganno dagli amministratori di casa Trabia, i quali, per mezzo del rappresentante locale l’avvocato Francesco Sorge, andavano dicendo che l’Onc non avrebbe espropriato il fondo sia per mancanza di adeguati mezzi finanziari sia perché il principe Trabia non avrebbe esitato a intervenire con la sua influenza politica, in qualità di senatore e padre di un sottosegretario di Stato. Fu a questo punto che, secondo la versione del presidente della cooperativa, nascondendo l’avvenuta deliberazione del consiglio d’amministrazione dell’Opera Nazionale circa l’esproprio, [gli amministratori] indussero la Cooperativa ad accettare un atto di gabella trentennale per meno di un terzo dei fondi stabiliti, in corrispettivo di una deliberazione di rinunzia alla domanda di espropria fatta dalla Cooperativa all’Opera nazionale combattenti.53 53

ACS, Onc, Da, b. 8, f. 114, Lettera inviata dal presidente della

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La vicenda in realtà svela la presenza di due trattative che, probabilmente, si svolsero contemporaneamente su due livelli paralleli, quello più in alto tra l’Opera e i Trabia, e quello locale tra la cooperativa e i Trabia. Nel complesso i due differenti piani non si incrociarono mai e difettarono, sia nell’uno sia nell’altro caso, di comunicazione politica. Di conseguenza, lo stesso Armanno, appena venuto a conoscenza della deliberazione dell’Opera, si sarebbe subito precipitato personalmente, esattamente 5 giorni dopo la firma del contratto di gabella, a protestare presso la famiglia Trabia «per l’imboscata alla quale [la cooperativa] era stata tratta». La vicenda toccò la punta massima della sua ambiguità con la revoca della deliberazione di rinuncia inviata dalla cooperativa all’Onc, seguita dalla diffida dell’ufficiale giudiziario intimante al principe di Trabia a ritirare la copie del contratto di gabella e della deliberazione di rinuncia all’esproprio da parte della cooperativa con l’eguale motivazione: «perché entrambi inefficaci e dipendenti da errore nel quale fu indotta la cooperativa per artifizio e malizia dell’Amministrazione di casa Trabia»54. In realtà, appare difficile pensare che la cooperativa sia stata davvero la preda designata di una trappola costruita dall’amministratore di casa Trabia per strappare con l’inganno un contratto d’affitto descritto dalla stessa cooperativa come iniquo, dal momento che dal contratto di gabella risultava chiara l’intenzione della cooperativa di esigere l’affitto. Così come è difficile ipotizzare, anche se pur probabile, che tra la cooperativa e l’Opera non esisteva alcun livello di comunicazione, soprattutto in relazione a importanti pratiche di esproprio da espletare, e per di più su un fondo così esteso. cooperativa al collegio centrale arbitrale e a Sansone, Mussomeli 30 gennaio 1921. 54 ACS, Onc, Da, b. 8, f. 114, Atto giudiziario, Roma 16 febbraio 1921.

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Purtroppo, la frammentarietà della documentazione in nostro possesso giunge fino a un certo punto e non ci consente di comprendere con esattezza i motivi per i quali la cooperativa tentò di stracciare un contratto precedentemente stipulato. Possiamo solo avanzare qualche ipotesi realistica e il più possibile aderente alle dinamiche e alle relazioni sociali esistenti in quel tempo: il tentato dietrofront da parte della “Combattenti” poteva essere il manifestarsi di una dialettica interna alla cooperativa, per cui una fazione continuava a chiedere l’esproprio e un’altra no. Oppure una specifica modalità di ricatto nei confronti del proprietario per aumentare gli ettari dati in affitto e condizioni di canoni maggiormente vantaggiosi. Inoltre, dai pochi indizi emersi, risulterebbe che le pressioni politiche del principe di Trabia potevano risultare determinanti nell’orientare le decisioni della cooperativa che, in principio, si sarebbe maggiormente fidata delle garanzie offerte dal proprietario. Inoltre, l’appartenenza della famiglia Trabia all’establishment politico romano avrebbe potuto contribuire ad allontanare l’interessamento diretto dell’Opera alle terre del feudo Polizzello. A conforto di questa ipotesi è significativo sottolineare come l’ispettorato non si interessò mai di seguire da vicino quello che stava accadendo a Mussomeli e che nemmeno da Roma giunsero segnali di incoraggiamento a procedere con l’esproprio delle terre del principe di Trabia. Ma, forse, ciò non basta. Sarebbe più opportuno cercare all’interno dei rapporti di forza che regolavano la vita associativa della cooperativa e nei crescenti profitti di cui si rese protagonista. Infatti, per capire lo “strano” atteggiamento della cooperativa basta considerare che tra i suoi soci più influenti, che convinsero i contadini ad abbandonare l’idea dell’esproprio, vi erano esponenti di primo piano della cosca mafiosa di Mussomeli, e che a mediare tra la proprietà e la cooperativa nell’assegnazione della gabella c’era l’avvocato Francesco Sorge, l’amministratore dei beni dei Trabia, grande elettore e notabile locale che i rapporti di polizia inter-

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provinciale indicavano spesso come l’intermediario politico in tanti affari illeciti della cosca, comprese le estorsioni55. La comprovata partecipazione dei mafiosi alla cooperativa emerse in occasione del processo penale che si inaugurò l’11 marzo 1929 presso il Tribunale di Caltanissetta contro “La Combattenti”56. Gli imputati erano i dirigenti come Antonino Armanno, Vincenzo Messina, Vincenzo Amico, Calogero Cimò, Antonino Valenza, affianco a mafiosi del calibro di Giuseppe Genco Russo, Alfonso Barcellona, Giuseppe Seminara. Le indagini misero in luce episodi di corruzione, appropriazione indebita di denaro, falsificazioni di bilanci, incendio e danneggiamento dei locali per distruggere i documenti contabili, intimidazioni, estorsioni, truffa nella determinazione dell’estaglio a danno dei soci, a partire dal 192057. Nel generale clima politico a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, il fascismo inaugurò un’azione repressiva per disarticolare le aggregazioni politiche o associative nella periferia. Sotto questa lente, il processo alla cooperativa di Mussomeli non appariva un fatto di per sé eclatante. Come in tanti paesi siciliani, anche qui la svolta normalizzatrice e di “bonifica sociale” del regime non avrebbe risparmiato le “centrali a-fasciste” dei circoli paesani, le associazioni, i bar, le cooperative «annidate nei tessuti virulenti dei paesi»58. Al di là del giudizio storico generale sull’azione repressiva del prefetto Mori59, il dato più importante è che dai Ascl, Ca, Processi, b.431, Corte di Appello di Palermo.Relazione motivata nel procedimento penale contro Messina +102, Caltanissetta 16 giugno 1928. 56 Il processo alla cooperativa fra i Combattenti di Mussomeli, in «Giornale di Sicilia», 9 ottobre 1929. 57 Ascl, Tp di Caltanissetta, Processi, b. 957-958, f. 1781/1, processo contro la cooperativa “La Combattenti” del 27 gigno1929. 58 Lupo, Il fascismo: la politica in un regime totalitario cit. 59 Sul giudizio si vedano le tesi di Duggan, La mafia durante il fascismo cit.; cfr. Lupo, Storia della mafia cit. 55

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documenti processuali è emersa l’esistenza di una struttura criminosa in grado di controllare l’intera attività economico-finanziaria della cooperativa. Il principale capo d’imputazione a carico della cooperativa ipotizzava l’esistenza di persone indicate come “mafiosi” che avrebbero indirizzato le scelte dei dirigenti della cooperativa in una direzione piuttosto che in un’altra. Genco Russo e altri furono accusati di avere, in concorso di reato assieme ai membri del Consiglio d’amministrazione della cooperativa come Vincenzo Messina, il segretario Calogero Cimò, e il magazziniere Antonino Valenza, con intimidazione e minaccia, costretto una parte dei soci della cooperativa suddetta a votare la lista di amministratori in cui erano compresi gli uscenti e per avere con violenza impedito ad altri soci della cooperativa stessa di partecipare alle elezioni votando la lista di opposizione, facendoli allontanare dalla sala dove le elezioni si svolgevano e raggiungendo l’intento.60

Attraverso le informazioni dei testimoni, l’accusa poté sostenere che in una summit tenutosi a Polizzello nella casa di Alfonso Barcellona, quest’ultimo aveva dato incarico a Salvatore Giovino, magazziniere dell’amministrazione di Casa Trabia, di riferire ai contadini, tramite i dirigenti, che nel caso in cui non avessero votato per la lista degli amministratori uscenti sarebbero state loro tolte le terre61. Nella cooperativa si era consolidato un gruppo che si opponeva a quello dominante. Questo si lamentava che, malgrado l’assemblea generale dei soci avesse deliberato il cambio dello 60 Commissione antimafia, VII legislatura, doc. XXXIII n.4/1, Documentazione varia riguardante la personalità e l’attività di Giuseppe Genco Russo e in particolare, la compravendita del feudo “Graziani”, doc. 144. Fascicolo personale di Giuseppe Genco Russo, aggiornato al 3 Febbraio 1964, trasmesso alla questura di Caltanissetta foglio n.10, vol. IV t. II, Tipografia del Senato, Roma, p. 43. 61 Ascl, Tp di Caltanissetta, Processi, b. 957-958, f. 1781/1, processo contro la cooperativa “La Combattenti” del 27 guigno1929.

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statuto e la trasformazione della cooperativa da società anonima a società in nome collettivo, gli attuali amministratori non avrebbero tenuto conto di questa decisione. La conseguenza maggiore del passaggio statutario sarebbe stata quella di determinare una partecipazione più ampia nella gestione della cooperativa aggirando le funzioni del Cda. Inoltre, dalle indagini dei Carabinieri emerse che la cooperativa, nel prendere il fondo in locazione, aveva accettato la clausola, a vantaggio sia della proprietà sia dei dirigenti, di scioglimento della locazione nel caso in cui la cooperativa per qualsiasi motivo avesse mutato la propria costituzione. La mafia, quindi, con un cambio della guardia dei vertici societari temeva di perdere il controllo della gabella e i privilegi pattuiti coi proprietari, a cominciare dal posto di soprastante ricoperto da Silvestre Messina. In questa fitta trama di interessi, la mafia, già in possesso del fondo, per evitare che altri se ne impossessassero, era entrata nel cooperativismo a dirigerne le operazioni. Le minacce alla lista di opposizione, e persino la vicenda del precedente dietrofront del presidente Armanno, sono dunque interpretabili alla luce dei fatti intimidatori emersi durante il processo, e dentro un contesto di garanzie degli interessi della cosca. Relativamente alla violenza privata debbo precisare che 10 giorni prima delle elezioni compilai la lista di opposizione agli amministratori uscenti e chiesi che venisse affissata nei locali sociali. Mi fu risposto dal Messina e da Cimò che non era necessario e decisi di non presentarla più. Due giorni prima delle elezioni io mi decisi di non presentare più la lista di seguito a propaganda ostile sorta in quanto si diceva che non votando per gli uscenti i contadini perdevano le terre. Preciso che il Ferreri che era stato compreso nella lista di opposizione si ritirò dalla candidatura.62

62 Ascl, Tp di Caltanissetta, Processi, b. 957-958, f. 1781/1, processo contro la cooperativa “La Combattenti” del 27 gigno1929. Dichiarazione al processo del testimone ed ex socio della cooperativa Salvatore Palermo.

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In quest’ottica, promosse un gruppo dirigente alleato e cointeressato nella suddivisione dei profitti dell’impresa e bloccò sul nascere, attraverso l’intimidazione e la minaccia, i tentativi di un rinnovamento delle cariche societarie, che avrebbero liberalizzato il monopolio mafioso sul mercato della terra. L’oleata macchina dell’organizzazione politico-mafiosa fu abile a sfruttare la mobilitazione sociale del dopoguerra canalizzando e organizzando la spinta contadina verso la terra in cooperative controllate dalle loro personali cosche. In questo modo essa riuscì a disarticolare il blocco fondiario tradizionale ante guerra acquisendo il centro vitale degli affari, ovvero il controllo delle gabelle. Tutta l’operazione mafiosa della gestione del fondo Polizzello passava attraverso il risultato finale del passaggio dall’assegnazione della gabelle dalla scala provinciale a quella locale. Per la cosca locale era prioritario superare la fase del mercato provinciale degli affitti, che nel feudo Polizzello aveva prodotto fino ad allora l’assegnazione delle gabelle da Palermo a persone non residenti a Mussomeli, e collocarli sul mercato locale. Attraverso questa operazione figure come quella di Giuseppe Genco Russo e Silvestre Messina acquistavano potere e un rilevante patrimonio. In particolare, Genco Russo, sebbene agli occhi degli inquirenti appariva come vero e proprio nemico della società, descritto come persona temutissima nelle campagne che «spesso avvalendosi di tale triste fama, sfrutta[va] il contadino giornaliero per far lavorare con pochi centesimi la terra che [teneva] in gabella»63, riuscì a personificare la nuova figura dell’inter63 Commissione antimafia. VII legislatura, doc. XXXIII n.4/1, Documentazione varia riguardante la personalità e l’attività di Giuseppe Genco Russo e in particolare, la compravendita del feudo “Graziani”, doc. 144. Fascicolo personale di Giuseppe Genco Russo, aggiornato al 3 Febbraio 1964, trasmesso alla questura di Caltanissetta foglio n. 34, vol. IV t. II, Tipografia del Senato, Roma, p. 91.

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mediario del latifondo, collocandosi in mezzo tra l’unico proprietario delle vaste tenute del circondario e la comunità rurale. Visto da questa angolazione, il mafioso non corrispondeva allo stereotipo del notabile interessato allo status, chiuso all’interno della sua comunità a fare il guardiano del feudo, su cui si modella l’immagine di una mafia tradizionale64. Questo ritratto è perlomeno parziale, perché sottovaluta la complessità dei rapporti sociali e delle aspettative da cui la mafia stessa traeva forza e autonomia. Infatti, in questo caso, la mafia si modellava come struttura capace di offrire la propria tutela alla comunità, ricavandone come contropartita un crescente profitto economico. La vicenda di Genco Russo mostra, altresì, come, nella crisi del latifondo, la figura del mafioso si avvicinava a quella del notabile che, con strumenti “progressisti”, quali l’associazionismo agricolo, ma con finalità affaristico-criminali, si faceva portavoce dei nuovi processi di democratizzazione (le leve economiche degli enti pubblici, l’allargamento della partecipazione politica) che attraversavano la società nel dopoguerra. Di converso, era “progressista” pure l’apparato propagandistico dei gruppi dirigenti della cooperativa, allo scopo di intercettare il consenso delle masse e inserirsi nel circuito politico delinquenziale. Controllando il movimento contadino e trovandosi nella posizione strategica di un “moderno colletto bianco”, i mafiosi riuscirono a orientare la cooperativa verso l’accordo con i Trabia, indossando i panni non tanto dei difensori del diritto di proprietà, che non avrebbe arrecato alcun vantaggio, quanto piuttosto quelli ben più remunerativi di moderni organizzatori di imprese. In questo modo la mafia accresceva la propria autonomia economica: nella fattispecie la gestione della gabella consegnò agli esponenti della cosca parecchie salme di terra65. 64 65

Lupo, Storia della mafia cit., p. 175. Per fare solo un esempio a Giuseppe Genco Russo spettarono la

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La mafia non solo era interessata ai profitti ma aveva la necessità di mantenere direttamente la gestione del feudo, e quindi il controllo su tutto il personale impiegato, per continuare a svolgere indisturbata e in sicurezza i traffici illeciti. Questo modo di operare della cosca emerse dalle rivelazioni delle indagini sul caso del tentato assassinio del gabellotto Antonino Sorce nell’agosto del 192266. I mandanti furono individuati nelle persone di Silvestre Messina, Giuseppe Genco Russo e altri che volevano impedire che Sorce, ben visto dall’amministrazione Trabia, potesse essere assunto come soprastante del fondo. E in effetti Sorce era un uomo stimato dai Trabia, tanto è vero che lo stesso Messina – a quanto dicono le indagini – finse di farsi raccomandare dal Sorce stesso, che poi andò a ringraziare. La questione si risolse con la “raccomandazione” del soprastante mafioso mediante l’amministratore locale dei proprietari. Il controllo del fondo Polizzello fu anche il trampolino di lancio per altre operazioni finanziarie: la gestione dell’ex feudo Malpertugio tramite la cooperativa “La Pastorizia”67 fondata nel 192168, controllata dalla medesima cosca e dedita all’impresa zootecnica, anche se il patrimonio di animali era di provenienza illegale69; la concessione dei rimanenti 2/3 della terra chiesta in esproprio (vale a dire 1.070 ettari gestione in gabella di ben sette salme e 13 tumuli di terra denominata “Mandrarossa”. 66 Ascl, Ca del Tribunale di Caltanissetta, b. 35, Sentenza del 7 ottobre 1931 contro Termini +20. 67 “La Pastorizia” era, in misura maggiore de la “Combattenti”, filiazione diretta della cosca mafiosa (o la “famigerata associazione dei pastori” come era anche chiamata dagli inquirenti), controllata dai vari Sorce, Messina, Genco Russo, Collura. Luogo di incontri era il circolo Borgensatico, sorto come propaggine ricreativa dei soci della cooperativa, in Ascl, Tp di Caltanissetta, b. 254, sentenza del 19 luglio 1930 contro Messina +79. 68 Ascl, Prefettura, Gb, II versamento b. 360, Elenco delle cooperative e degli istituti di credito esistenti nella provincia di Caltanissetta, s.d. 69 Nell’ex feudo Malpertugio erano avvenute le principali attività

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del feudo Polizzello) con in più i feudi Valle e Reina, per un totale di 1.900 ettari. E ancora, si intrecciavano relazioni finanziarie con istituti bancari e, addirittura, si investivano i proventi in quote azionarie di altre imprese. In questo modo la mafia inaugurò un vero e proprio trend affaristico, impegnata a eliminare la concorrenza interna e a controllare completamente i mercati della terra, degli affitti e le risorse economiche di interi circondari agrari. Il controllo economico e sociale sul proprio territorio era pressoché totale e la suddivisione delle sfere di influenza con altre cosche era stato dimensionato su scala locale. Era, tutto considerato, il sistema per contrattare in modo indolore un ruolo nell’ambito dello sviluppo capitalistico all’interno di una società profondamente rurale. 5.6 All’assalto dell’Onc Il ruolo di patronage assunto dalla mafia nelle doppie vesti del cooperatore e dell’imprenditore aveva ottenuto il consenso delle masse per sostenere la sfida dell’intervento pubblico. Osservando la vicenda dal versante della società, i programmi colturali, della costituzione della proprietà collettiva, erano stati avvertiti dalla stessa società come iniqui, perché non abbastanza interclassisti e tali da esaltare solo un’unica tipologia di figura, il colono, senza tener conto della complessa stratificazione dell’ambiente rurale. Nell’isola, poi, la questione agraria rimandava interamente alla tipologia del contratto. Quindi, più che l’acquisto, le cooperative preferivano di gran lunga l’affitto. Di conseguenza aspiravano a subaffittare liberamente esse stesse la terra ai propri soci o ad altri contadini invece che sobbarcarsi le onerose spese di trasformazione fondiaria e di un di abigeato. Qui, era il centro dove si svolgevano i traffici per il recupero dietro compenso, per la vendita e il riciclaggio della refurtiva.

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eventuale acquisto. Similmente, i contadini erano maggiormente disponibili a mantenere un lavoro subaffittato dal locale gabellotto, che poteva pure essere la cooperativa, piuttosto che diventare degli appoderati disciplinati e uniformati da ignoti tecnici di un ente pubblico. In questo senso, l’intento della cooperativa “La Combattenti” appare, a questo punto, chiaro. Un gruppo affaristico mafioso, i cui rappresentanti appartenevano in maggioranza al ceto non contadino, fiutò la possibilità di operare un grosso affare su un fondo con una estensione considerevole. Per voce del suo presidente fecero leva sulla possibilità di chiedere l’esproprio delle terre per mezzo dell’Opera, minacciando, in questo modo, direttamente i proprietari, col tacito obiettivo finale di firmare a tempo debito l’accordo del contratto di gabella col medesimo proprietario. Nel 1921 Antonio Sansone, prima di richiedere al Collegio arbitrale centrale l’annullamento della richiesta di esproprio avanzata dalla cooperativa, aveva presentato una domanda per una temporanea sospensione del provvedimento, al fine di eseguire un’ispezione e accertare le dinamiche dei fatti70. Fino ad allora l’Onc non aveva mai seguito la vicenda, se non attraverso qualche formale scambio epistolare, fidandosi, in un primo momento, della buona fede della locale cooperativa. Gli accertamenti sul caso Polizzello non condussero a cambiamenti significativi della situazione che si era determinata. L’ispezione si limitò a ben poca azione. Gli emissari giunti da Roma accompagnati dai tecnici di Catania esaminarono superficialmente le pratiche di richiesta dei fondi da parte della cooperativa e conclusero la visita notificando lo stato di cose esistenti in discontinuità con la precedente stagione delle occupazioni delle terre: «l’Opera ha fatto quello che ha potuto in tema di espropriazione dei 70 Acs, Onc, Da, b. 8, f. 114, Il consigliere delegato Sansone al Collegio Arbitrale Centrale, Roma 14 marzo 1921.

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terreni e continua ad agire nei limiti stabiliti dalla legge»71. Il verdetto fu molto esplicito: impossibilità di esibire la richiesta di attribuzione delle terre all’Opera. In questo modo nessuna domanda di esproprio fu presentata davanti al Collegio per insufficienza di elementi dimostrativi della serietà e capacità di acquisto da parte delle organizzazioni che ne avevano fatto richiesta72. La cooperativa “La Combattenti” di Mussomeli, stretta da legami di tipo mafioso, rientrava tra quelle sospette di avere chiesto la terra al solo scopo di soddisfare interessi personalistici piuttosto che trovare soluzione a questioni di ordine tecnico, economico e sociale generale. Lo sforzo di Antonio Sansone di elaborare dei criteri selettivi nella scelta delle cooperative non produsse risultati significativi. Ormai era troppo tardi perché i criteri potessero essere applicati e, di conseguenza, funzionare nelle singole realtà periferiche. A Mussomeli i notabili locali erano riusciti a utilizzare i moderni strumenti dello Stato per assumere un ruolo determinante nel controllo monopolistico delle risorse. Né furono trascurabili le pressioni da parte dei Trabia, forti al punto da influenzare l’Onc ad abbandonare qualsiasi volontà di impegnarsi a risolvere in proprio favore l’intera vicenda. Il caso si chiuse definitivamente nell’ottobre del 1922, quando il Consiglio d’amministrazione deliberò la rinunzia alla richiesta di attribuzione e, un mese dopo, il presidente del collegio centrale diede esecuzione alla decisione. Il meccanismo della lotta per il controllo del passaggio dei fondi, nonché dei cospicui capitali, attraverso la mediazione dei dirigenti della cooperativa, costituì il perno intorno al quale ruotò allo stesso tempo la formazione di nuove gerarchie nella scala economico-sociale e nella distribuzio71 Acs, Mi, Ps, b. 63, telegramma di Sansone al ministro degli interni, Roma 6 ottobre 1920. 72 Onc, La quotizzazione di terre in Sicilia cit., p. 6.

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ne del potere politico a livello locale, e in alcuni casi anche nelle sue connessioni con il centro nazionale73. Tutto il meccanismo della compra-vendita e degli affitti si qualificò come una ricca e ulteriore occasione per una redistribuzione delle risorse. Questa vicenda è utile nel dimostrate che il passaggio del sistema di potere del latifondo nella nuova e più articolata situazione economica e sociale del dopoguerra era imprescindibile da un’accorata operazione mimetica di occupazione mafiosa della nuova realtà cooperativa che, in ultima analisi, servì alla ridefinizione di un ruolo più consono alla nascente società di massa. 5.7 Continuità fascista Il nuovo regime si preoccupò di recidere ogni riferimento alle precedenti applicazioni dei nuovi criteri nei rapporti giuridici con le cooperative. Nel generale contesto di ristrutturazione dell’ente, ogni pratica avente come oggetto una controversia giurisdizionale tra l’Onc e i proprietari terrieri, subiva progressivamente dei rallentamenti a vantaggio di quest’ultimi. Inoltre, il regime si preoccupò di azzerare ogni forma di associazionismo locale e di ridimensionare il ruolo di mediazione della mafia con la società e con lo Stato. Ma nel caso di Mussomeli sembra che tutto ciò non abbia avuto seguito. Anzi, è plausibile affermare a questo punto che il fascismo non intervenne a disarticolare l’assetto delle gerarchie sociali e i rapporti dominanti tra il gruppo notabiliare mafioso e la proprietà terriera. Non è, forse, un caso che, tra l’ottobre e il novembre del 1929, si concludeva il processo alla cooperativa e di riflesso alla cosca mafiosa di Mussomeli. L’esito del processo fu l’assoluzione piena e, pertanto, il mantenimento delle funzioni della coopera73

Lupo, Tra centro e periferia cit., pp. 48-49.

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tiva74. Del resto, dopo i primi anni in cui il regime intese dialogare con la classe dei proprietari, l’azione antimafia s’era posta l’obiettivo di superare ogni mediazione per avere un rapporto diretto con le masse, o per meglio dire con il mondo delle categorie. Da questi orientamenti totalitari si ebbero gli imponenti raduni, alla presenza di Mori, dei campieri, delle guardie campestri, dei soprastanti, dei curatoli, proprio nella piazza di Mussomeli, dove in massa nel maggio del 1929 confluirono dalle province di Caltanissetta, Palermo e Agrigento75 per ricollocarsi dentro l’alveo degli interessi dei ceti proprietari, una volta passata la stagione della concorrenza del cooperativismo. Il contratto di gabella stipulato tra la cooperativa “La Combattenti” e i principi di Trabia fu rinnovato nel 1933 e successivamente nell’agosto del 1940. Il 5 dicembre dello stesso anno fu nuovamente confermato per la durata di 18 anni di complessivi 882 ettari (30 in più rispetto alla quota precedente). Il sistema di conduzione riproduceva in parte quello della mezzadria e in parte l’affittanza diretta. Le famiglie impiegate nel lavoro erano circa 211 per una popolazione lavorativa di 1000 unità. La superficie media occupata da ogni famiglia era di 4 ettari, insufficiente al fabbisogno giornaliero. Le coltivazioni a rotazione biennale si limitavano a soddisfare la produzione del grano su un’estensione di circa 400 ettari e della fava su una superficie di 350. Per il resto, si seminava rispettivamente a foraggio e lenticchie, mentre solo una piccola parte era destinata a migliorie con piccoli vigneti e fruttiferi vari. L’allevamento e la produzione del bestiame si aggirava intorno agli 800 capi tra equini, bovini, 74 Ascl, Tp di Caltanissetta, b. 250, Sentenza tribunale penale del 7 novembre 1929; Gli imputati assolti nel processo della cooperativa tra i combattenti di Mussomeli, in «Giornale di Sicilia», 8-9 novembre 1929. 75 Ascl, Prefettura, GB, II versmento, b. 22, Il prefetto Mori al presidente della federazione provinciale fascista degli agricoltori di Caltanissetta, Palermo 10 maggio 1929.

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caprini e suini. Invece risultavano carenti i ricoveri, le case e i pozzi: solo 11 case tipiche, 9 pagliai e 173 i ricoveri comuni molto fatiscenti e dalla struttura precaria. Per tutta la durata del ventennio, l’accordo tra le parti rimase invariato anche quando sopraggiunse la legge del 2 gennaio 1940 sull’appoderamento. «La società locataria – si legge dal contratto di gabella – dovrà quindi mantenere nel possesso dei lotti appoderati i mezzadri già immessi dalle autorità fasciste e sindacali. Resta vietato il subaffitto»76. Nell’ottobre dello stesso anno (1940), la cooperativa “La Pastorizia” stipulava con i Trabia il contratto di gabella di 953 ettari per la durata complessiva di 18 anni. Anche qui le terre erano condotte principalmente a mezzadria. Le famiglie coinvolte erano 180 e godevano dell’affitto di 5 ettari ciascuna. I sistemi di coltivazione prevedevano la rotazione triennale, pascolo-grano, ed erano caratterizzati da una forte prevalenza (610 ettari) di terreni seminati a grano e a fava (270 ettari). Per il resto, poco più di 60 ettari erano equamente suddivisi per la coltivazione delle lenticchie e del foraggio, mentre appena 8 erano destinati all’utilizzo di terreni migliorati a castagneti. I capi di bestiame ammontavano a circa 640, suddivisi tra le varie specie. Non v’era l’appoderamento stabile: solo 16 le case tipiche, 20 quelle comuni e 30 i pagliai. Il sistema idrico insufficiente, i 20 pozzi non potevano soddisfare un’agricoltura ricca, differenziata e stanziale. Complessivamente, quindi, più della metà del suolo era seminato a grano (1.010 ettari) e fava (620), mentre su una irrilevante superficie di 28 ettari furono sperimentati alcuni miglioramenti. I pochi investimenti permettevano solo l’uso dei vecchi attrezzi per l’usuale coltivazione del terreno: aratro a chiodo, aratrino in ferro e zappa. Le condizioni di vita dell’esigua popolazione che abitava stabil76

Acs, Onc, Sicilia, b. 43, f.14, contratto di gabella, s.d.

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mente nel fondo restarono scadenti. Il feudo, in base alla legge del 2 gennaio 1940, fu soggetto alla colonizzazione per una fascia di 1,5 km a destra e a sinistra della strada provinciale Mussomeli-Villalba, ma l’unica opera autorizzata dal proprietario tra il 1940 e il 1941 fu la costruzione di 28 case coloniche lungo la strada, delle quali una risultò essere diroccata e le altre 27 trascurate e antigieniche. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, le due cooperative funzionavano da vere e proprie agenzie di collocamento. La gestione dei fondi dava lavoro a più di 2000 unità lavorative, rappresentanti di circa 400 famiglie, ma tale numero si sarebbe potuto elevare se solo si fosse ridotta l’estensione di alcune quote assegnate a taluni dei soci della cooperativa “La Pastorizia”. Quest’ultima, infatti, raggruppava di 50 soci, che detenevano la maggior parte dell’affitto del terreno coltivato e lo subaffittavano raggirando gli obblighi sindacali del 1927 che ne vietavano la pratica77: su 633 ettari erano impiegati quasi 210 coloni in proprio, e sui restanti 320 ettari 16 famiglie con il sistema della colonia classica. Allo stesso modo, solo pochissimi soci dirigenti detenevano 236 ettari del terreno affittato dalla cooperativa “La Combattenti”, mentre sui rimanenti 614 ettari vi lavoravano circa 250 subconcessionari con una media di 3 ettari a persona. Per quanto riguarda l’affitto dei pascoli, i quotisti concedevano, ciascuno come meglio credeva, la propria terra a pascolo. I proprietari rimanevano estranei all’affare. In tali condizioni si inseriva Silvestre Messina a cui i soci, per compenso ai vari servizi offerti, cedevano gratuitamente i pascoli, che egli rivendeva dividendo i profitti col cognato Calogero Palumbo e, in proporzione, con gli altri aderenti alla cosca. È importante evidenziare che a controllare l’accesso al mercato della terra erano i medesimi gruppi che dirigevano il reticolo di cooperative in grado di contrattare liberamente 77

Mulè, Studio-inchiesta sul latifondo siciliano cit., p. 24.

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con la proprietà anche l’aumento progressivo dell’estaglio annuale78, che andava a gravare direttamente sui redditi della manodopera dei moltissimi subconcessionari. Significativa era, per esempio, la circostanza che la cooperativa “La Pastorizia” fosse – come abbiamo già detto – ristretta a 50 soci, mentre i 953 ettari di terreno tenuti in affitto erano coltivati da quasi 200 famiglie coloniche. Era evidente che molti dei primi traevano anch’essi, dall’economia generale del fondo, profitti soddisfacenti. Il fascismo non interferì nell’accordo tra gli amministratori di Trabia e il gruppo locale dominante. Accordo garantito da un concorso di interessi economici, strappato con la violenza e il ricatto e suggellato dalla stipula di un comune accordo contro le politiche pubbliche del dopoguerra. Gli amministratori avevano accettato di dividere accuratamente il vasto latifondo in due grosse parti, affittandolo alle due cooperative che riflettevano al loro interno un identico organigramma di potere. Calogero Castiglione e il cognato Genco Russo appartenevano entrambi alla cooperativa “La Pastorizia”; un figlio di Castiglione era dirigente della “Combattenti”. Genco Russo fu prima consigliere e poi presidente della Combattenti nel secondo dopoguerra. I figli di Vincenzo Messina, fondatore della “Combattenti”, erano tutti iscritti quali soci alla “Pastorizia”; così come il presidente della “Pastorizia” e consigliere della “Combattenti”, Giuseppe Sorce, zio di Antonino Valenza e imparentato con Calogero Collura, era legato 78 Nel decennio 1921-’31 l’estaglio era di 1.122 quintali, mentre dal 1933 con la legge del 1940 e la firma di un nuovo contratto questa quota si innalzò fino a raggiungere i complessivi 1.505 quintali di grano dovuti ai proprietari dopo ogni raccolto, pari a 249.950 lire. L’estaglio dell’ex feudo Polizzello era sproporzionato rispetto al regime dei canoni vigenti in altri feudi limitrofi e di proprietà dei Trabia, come nel caso dell’ex feudo “Sampria” e in quelli di “Valle” e “Reina”. Acs, Onc, Sicilia, b. 43, f.12, Calcoli dei funzionali dell’Onc di Catania sugli estagli pagati dal 1940 al 1949, s.d.

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da vincolo di comparaggio ai Genco-Russo e divenne nel secondo dopoguerra esponente della Dc di Mussomeli. Si trattava dell’identica cosca mafiosa che, scampata al tentativo moresco di disarticolazione dei poteri locali, esercitò un regime monopolistico delle risorse locali. Nel medio e lungo periodo l’influenza mafiosa condizionò anche il superamento degli ostacoli fisico-ambientali, considerati prerequisiti essenziali nell’analisi tecnica dei piani di miglioramento dell’Onc. Quest’ultimi furono accantonati dal momento che sul fondo gravava il peso di una classe politico-imprenditoriale che continuò a esercitare il regime improduttivo del subaffitto, contravvenendo a qualsiasi direttiva di sviluppo programmato.

6. Menfi e l’assalto (vincente) al latifondo

6.1Tra mare e terra L’ex feudo Fiori si estendeva su una superficie di 565 ettari nella costa meridionale della provincia di Agrigento1, tra il litorale marino e il centro abitato di Menfi2. L’economia prevalente del circondario era cerealicola-pastorale, interrotta dalle colture più varie, viti, olivi, sommaco e cotone3. Il seminativo occupava tutta la parte meridionale e settentrionale del circondario. Il vigneto occupava la zona costiera, gli arborati e i seminativi alberati (olivi e mandorli) formavano una specie di fascia centrale che si estendeva da oriente a occidente. Il pessimo stato delle condizioni viarie penalizzava gli scambi commerciali, soprattutto dei prodotti granai, deprimendo i circuiti dell’economia locale ai livelli di un modesto autoconsumo. Tuttavia Menfi si distingueva per l’attività di export di alcuni prodotti locali come il vino e soprattutto il carciofo. Questa pianta era coltivata fuori rotazione e in genere non necessitava di notevoli investimenti, costituendo una lucrosa attività tanto per gli agricoltori, quanto per il gruppo di commerciati e spedizionieri locali. Il prodotto, infatti, era sostenuto dagli alti prezzi e 1 Apfv, Rapporto di perizia riguardante la divisione dell’ex feudo Fiore, Palermo ottobre 1912. 2 Per alcuni riferimenti di storia locale segnaliamo Francesco Bilello, Menfi nella storia, C. Bilello, Menfi 1969; Gioacchino Mistretta, La marina di Menfi. L’ambiente naturale, lo sviluppo storico e le attività economiche, Siddharta Club Menfi, Menfi 1997. 3 Lorenzoni, Inchiesta Parlamentare sulle condizioni dei contadini cit., p. 310.

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richiesto dai mercati di Palermo, Roma, Milano, Genova e Napoli4. Inoltre, la favorevole congiuntura di metà ’800 aveva introdotto stabili elementi di dinamismo economico con l’apertura delle vie di comunicazione marittime e ferroviarie, attraverso la costruzione dell’imbarco doganale di Porto Palo e la strada ferrata che collegava a Castelvetrano, per esportare più rapidamente i prodotti verso i principali porti del Mediterraneo e del nord Africa, contribuendo a caratterizzare la città di Menfi alla stessa stregua dei più moderni e fiorenti centri litoranei dell’isola. Se il commercio rappresentò un volano di distribuzione della ricchezza locale, anche la congiuntura emigratoria ebbe l’effetto di far aumentare i salari del ceto contadino5 concentrato nei centri urbani. Nel territorio non esistevano dei fabbricati rurali abitati permanentemente dalle famiglie coloniche. Le poche costruzioni erano adibite per gli animali durante il periodo dei lavori agresti o per sorvegliare i campi nei periodi precedenti ai raccolti. Il fenomeno di spopolamento della campagna era dovuto, in primo luogo, alla malaria che infestava la zona costiera. I contadini, poi, non coltivavano quasi mai un fondo di ampiezza tale da costituire da solo il centro della loro attività, per cui coltivavano diversi fondi, talora molto piccoli, posti a grande distanza l’uno dall’altro, e quindi il loro lavoro e i loro capitali erano durante il ciclo agrario dislocati, di volta in volta secondo i bisogni, nei vari fondi, che nel loro insieme costituivano un’unica impresa. In queste condizioni, l’abitazione in paese offriva non pochi vantaggi oltre a costituire un’abitudine secolare6. L’accentramento urbano aveva una sua funzionalità, era il luogo di servizio alla produzione di quelle fasi del lavoro 4 Inea, Rapporti fra proprietà, impresa e mano d’opera nell’agricoltura italiana, IX, Sicilia, Roma 1931, p. 25. 5 Ivi, p. 311. 6 Inea, Monografie di famiglie agricole. IX Contadini siciliani, Roma 1935, p. 138.

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agricolo non riproducibile nei campi7. Inoltre, nei paesi si formavano quelle reti di solidarietà parentale, clientelare, comunitarie che rappresentavano il cemento sociale e di sostentamento collettivo di ogni paese8. La maggior parte del fondo era in pianura e quando ci si avvicinava al mare si incontravano vere e proprie dune di sabbia9. Sempre nella zona costiera, lungo la spiaggia e vicino ai due torrenti d’acqua, si avevano terreni dunosi e alluvionali10, che «forma[va]no argine al deflusso delle acque pluviali, le quali in inverno ristagnando [...] costitui[va]no delle grandi superfici di terreni margiosi»11. Dunque, il deflusso delle acque vicino ai fiumi, per la formazione di cordoni dunali lungo la spiaggia, ristagnava nel periodo estivo formando delle vere e proprie paludi acquitrinose estese per circa 50 ettari dove era «facile che la malaria infieris[se]»12. Nei primi anni del Novecento, la costruzione di un nuovo pozzo d’acqua aveva migliorato la fertilità del fondo che era coltivato per 385 ettari a seminativi nudi, 110 ettari a pascoli, mentre 67 ettari rimanevano terre acquitrinose. Ciononostante, per la naturale fertilità del terreno, il fondo era uno dei più produttivi della Sicilia. Prima del 1856 i proprietari erano i Pignatelli D’Ara7 Biagio Salvemini, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età moderna, in Id. (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi. La Puglia, Einaudi, Torino 1989, p. 114; cfr. anche Massafra e Russo, Microfondi e borghi rurali nel mezzogiorno cit., p. 217. 8 Lupo, Storia e società nel Mezzogiorno cit., in particolare pp. 7075; cfr anche Piero Bevilacqua, Quadri mentali, cultura e rapporti simbolici della società rurale del mezzogiorno, in «Italia contemporanea», 154, 1984, pp. 75-76. 9 Apfv, Progetto di bonifica del fondo Fiori allegato alla domanda di esproprio dell’Onc, Roma gennaio 1920. 10 Inea, Monografie di famiglie agricole cit., p. 133. 11 Apfv, Rapporto di perizia riguardante la divisione dell’ex feudo Fiore, Palermo ottobre 1885. 12 Lorenzoni, Inchiesta Parlamentare sulle condizioni dei contadini cit., p. 311.

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gona, grandi latifondisti del circondario. Poi, in quella data, il fondo fu venduto per la somma di 41.970 onze alla famiglia Varvaro di Palermo13, titolari di una delle più importanti ditte nel settore del commercio marittimo di tessuti della Sicilia e promotori-fondatori della Lloyd siciliana, società per azioni di assicurazioni marittime e terrestri14. Ciò determinò una inversione di rotta nell’entità degli investimenti. Con l’introduzione delle migliorie, tramite il trasporto e l’utilizzo dei concimi chimici, la produttività aumentò e si tradusse in una diversa conduzione del fondo con rotazioni di sei anni del seminativo: favagrano-ringrano (o orzo o avena)-sulla-grano15. In tal modo, i nuovi proprietari non si limitarono all’acquisto della proprietà fondiaria, ma avviarono un certo dinamismo organizzativo nella conduzione del fondo, mutuato dalle attività commerciali. L’obiettivo era quello di raggiungere un’organizzazione aziendale articolata in un piano colturale misto in cui comparivano zone di vigneto, oliveto e seminativo, in modo da avere anche la possibilità di ammortizzare, con la rendita cerealicola, le lunghe attese della produzione delle colture arboree, il rischio di investimento e anche le perdite subite dal settore intensivo nelle cattive annate16. Si trattava di un modello binario di interdipendenza produttiva, mosso da una mobilità finanziaria che dall’attività commerciale si trasferiva alla pro13 Apfv, Contratto di vendita degli ex feudi Fiori e Terranova con annesso magazzino tra i sig. Varvaro e il principe Ettore Pignatelli presso il notar Girolamo Guarnaschelli Ganci, Palermo 1 giugno 1856. 14 Pubblicazione in Il Lloyd Siciliano: 1885-193, Roma 1935 (Opera pubblicata in occasione del cinquantenario di fondazione della Compagnia siciliano). 15 Acs, Giunta Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia. Resoconto stenografico degli interrogatori fatti a Girgenti addì 11/04/1908, b. 5, p. 61. 16 Barone, Egemonie urbane e potere locale cit., p. 221; al riguarda anche Lupo, Il giardino degli aranci cit.

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prietà fondiaria, e poi dalla terra di nuovo alla mercanzia. In questo caso, la disponibilità di fertili terre, la posizione geografica del fondo, la presenza di un porto e l’esistenza di una qualche “vocazione” nelle direttrici del commercio, suggerirono alla famiglia di grandi commercianti palermitani di investire in un territorio, luogo di confine non solo materiale tra i vasti latifondi e l’agricoltura ricca. 6.2 Nuove élite Oltre all’ex feudo Fiori, i Varvaro comprarono anche il feudo confinante denominato “Terranova”. I due fondi furono successivamente assegnati separatamente ai due eredi, Giuseppe e Francesco Varvaro. Quest’ultimo morì nel 1879, e la proprietà del fondo Fiori fu attribuita ai suoi tre figli, Alessandro, Edoardo e Roberto, dall’atto di divisione dell’eredità con il loro zio Giuseppe, stipulato nel 1885, che sanciva la spartizione delle proprietà tra i due rami della famiglia. Successivamente, nel 1912, il fondo fu diviso in tre parti uguali, ognuna delle quali fu assegnata ai tre eredi17 e nel gennaio del 1919, in seguito alla morte di Roberto Varvaro, la terza quota ereditata fu venduta dalla moglie e dal figlio Giorgio Varvaro in metà di ciascuna ai fratelli Alessandro ed Edoardo18. Nell’atto di acquisto del fondo era stato sancita l’osservanza del contratto di gabella stipulato dal principe Pignatelli. Il mantenimento di uno status quo contrattuale determinò un rallentamento delle migliorie fondiarie. Il vincolo d’affitto poté essere modificato dai nuovi proprietari nel 1899 quando il feudo fu concesso in gabella fino al 191919 al cavaliere Apfv, Per la proprietà e la libertà del fondo Fiori dei sigg.Varvaro, s.d. Apfv, Copia autenticata della vendita fatta dai signori Adelia Centurini vedova Varvaro e singor Giogio Varvaro a favore dei signori Edoardo ed Alessandro Varvaro, Palermo 5 giugno 1919. 19 Acs, Onc, Dg, b. 1 f. 12, Copia di contratti di gabella fatto dai signori Varvaro si sig.cav. Santi Bivona Prima. 17

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Santi Bivona20, possidente e affermato medico oculista di Menfi. Originariamente, fu a capo del gruppo dei deputati provinciali liberali Miccichè-Amato-De Michele e nel 1903 fu eletto sindaco21. Poi, nel corso degli anni, passò nell’emisfero radical-nittiano e infine in quello sturziano, avendo come punti di riferimento i deputati Miccichè-Parlapiano Vella, fino ad aderire, in età avanzata, al fascismo22. Da questo punto di vista, l’emergere di gruppi politici Santi Bivona, Scritti storici su Menfi e il suo territorio, a cura di Gioacchino Mistretta, Sciacca 1997. Esiste anche una piccola biografia professionale, Francesco Valenti, Biografia del dott. Santi Bivona, Sciacca 1951. 21 L’affermazione politica di Bivona inizia prima della sua elezione a sindaco, quando nel 1887 fu nominato nella commissione comunale per lo studio delle sorgive e poi membro del consiglio provinciale. In questi anni egli affrontò il tema del risanamento ambientale. La sua attività scientifica gli valse grande popolarità e la possibilità di guidare in municipio un gruppo laico-riformatore di ispirazioni democratico-risorgimentali, vincendo nel 1903 la competizione amministrativa contro la fazione clerico-moderata del sindaco uscente Gaspare Giambalvo. Fu sindaco fino al 1916. Sfruttando la favorevole congiuntura della spesa pubblica dei primi anni del ’900, fu artefice di importanti opere pubbliche come la costruzione di strade, il completamento dell’ospedale civile e la banchina del borgo marino di Porto Palo, piccolo snodo del commercio marittimo verso i porti del Mediterraneo, allontanando il centro menfitano dallo spettacolo degradante di alcuni paesi come la vicina Gibellina. Sulle proposte di risanamento ambientale del giovane medico: Santi Bivona, Pro veritate, 1897, pp. 18 ss.; cfr., Id., Menfi: sanitariamente com’è e come dovrebbe essere, 1899; Id., Fognature e sistemazione stradale di Menfi, Sciacca 1919; Sulla finanza municipale vedere Giovanni Carano Donvito, Dati sulle finanze locali del Mezzogiorno, sta in Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, vol. VII, t. III, Roma 1909, in particolare, pp. 131-166; Sui servizi pubblici in età giolittiana si veda Barone, Egemonie urbane e potere locale cit, pp. 251-257; infine, sul paragone con Gibellina, dopo venti anni dal suo ultimo viaggio in Sicilia, Giovanni Lorenzoni descrisse sconsolato alcuni paesi della provincia agrigentina come dei luoghi lasciati a un deplorevole abbandono, in Lorenzoni, Dal diario di viaggio di un sociologo rurale cit., p. 24. 22 Cfr. Gaetano Riggio, Vita e cultura agrigentina del ’900, Sciascia editore, Caltaniessetta1978. 20

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interpreti delle istanze più dinamiche del territorio si saldò con quelle dei nuovi proprietari, impegnati nella definizione di nuovi profitti, nella doppia veste di rentiers e di capitalisti. In tal modo, l’asse Varvaro-Bivona ridefinì i nuovi equilibri locali dei rapporti proprietari-affittuari, il cui centro di attività si spostò nei settori dell’imprenditoria, del commercio, delle infrastrutture, della coltura intensiva, del terziario urbano e dell’assegnazione delle gabelle su scala locale. Così, nei primi anni del ’900 fino allo scoppio della guerra, la città di Menfi poté godere di un relativo progresso grazie alle solide relazione del partito municipale dominante con i circuiti del potere economico-finanziario. Sul versante della campagna, la diminuita pressione demografica connessa alla congiuntura migratoria, che nel circondario di Sciacca presentava la più alta percentuale di partenze oltreoceano della Sicilia23, determinò alti salari e un rialzo dei prezzi dei prodotti agricoli. Tutto ciò, unito alle rimesse degli emigranti e all’intervento statale nel credito agrario, contribuì allo sviluppo degli enti cooperativi nella gestione delle affittanze collettive che, nella provincia agrigentina, ebbero una espansione senza precedenti, al punto da realizzare delle articolate strutture per la finanza locale24. Tuttavia, a Menfi il movimento cooperativo attecchì con una certa difficoltà. La principale cooperativa agricola locale “Napoleone Colaianni” si costituì a ridosso del primo conflitto mondiale, nel 1912, in concomitanza con una nuova ripresa del movimento cooperativistico siciliano dopo il lieve regresso del quadriennio 1907-1910. Quindi, la cooperativa non era riuscita a operare sul mercato degli 23 Lorenzoni, Inchiesta Parlamentare sulle condizioni dei contadini cit., pp. 730 ss.; cfr Vouchting, La questione meridionale cit, pp. 226 ss. 24 Ci riferiamo alle federazione diocesana fondata da Don Michele Sclafani e alla federazione delle cooperative laiche di Enrico La Loggia, in Acs, Giunta Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni dei contadini cit., pp. 39-43 e 58-60.

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affitti dal momento che il sopraggiungere della guerra aveva sospeso qualsiasi tipo di attività al suo nascere. L’incedere della guerra non rappresentò l’unico ostacolo. Infatti, si frapposero altri tipi di impedimenti, soprattutto di natura politica. A raccontare le difficoltà iniziali fu proprio un esponente della cooperativa: I suoi [della cooperativa] primi passi furono modesti e difficili. Lo scopo principale di ottenere terre in affitto per farle poi coltivare dai propri soci, non lo si poté praticamente raggiungere fino a che, puntando sulle gelosie politiche di due candidati locali al Parlamento, la cooperativa non si gettò risolutamente nella lotta in favore di uno di essi, ricevendone in compenso quell’appoggio morale e politico grazie al quale poté superare le difficoltà iniziali.25

Lo sviluppo o meno di una cooperativa, quindi, dipendeva dall’inserimento di essa all’interno del circuito politico. Anche nel caso della cooperativa di Menfi, la capacità di sopravvivenza non si misurava nell’abilità della medesima di concorrere contro il gabellotto nell’assegnazione degli affitti, quanto, invece, nell’abilità di costruire un ramificato tessuto assistenziale attorno a cui si organizzavano i diversi ceti sociali, per realizzare il controllo sociale e canalizzare il consenso a favore di quello o di quell’altro notabile. Solo con queste modalità di organizzazione politica una società rurale poteva inserirsi nei moderni circuiti economici e accedere più facilmente alla gestione delle risorse. Non è un caso che le fortune della cooperativa “N. Colaianni” cominciarono quando essa si legò alle clientele dell’emergente élite politica nelle elezioni del 1913. Anzi, fu l’estensione al voto che spinse nella direzione di costituire la cooperativa menfitana, con la prospettiva di accelerare il ricambio della classe politica26, entrare nei Lorenzoni, Dal diario di viaggio di un sociologo rurale cit., p. 30. Barone, Egemonie urbane e potere locale cit., pp. 279-307; cfr. anche Id., La modernizzazione difficile cit. 25 26

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meccanismi del controllo sociale e indebolire la funzione di patronage dei ceti dei proprietari fondiari. Il fondatore e l’organizzare della cooperativa era Giuseppe Volpe, un ex garzone, reduce di guerra che, nell’arco di pochi anni, riuscì a diventare l’uomo di fiducia delle reti clientelari di Angelo Abisso, mettendosi a capo di diverse cooperative tra Menfi e Sciacca. Allo stesso modo di Liborio Friscia a Ribera27, la cooperativa di Volpe si impegnò su scala provinciale a favore del nuovo notabile in opposizione ai deputati giolittiani del collegio, De Michele e Amato, mentre su scala locale, la macchina elettoralistica di Volpe contese l’egemonia municipale alla classe dominante rappresentata dal Bivona. 6.3 Terra di conquista Tornato dal fronte, Giuseppe Volpe, riorganizzò in pochi mesi la cooperativa rimasta inattiva negli anni del conflitto. Soggetti economici e forze politiche entravano nei dispositivi redistributivi delle risorse contenuti nelle offerte del governo. Ciò accadeva perché, in qualche maniera, la dinamicità economica era il riflesso di un’altrettanta vivacità politica. In questa nuova fase di ricostruzione delle reti associative locali, Volpe non incluse solo i vecchi soci, ma riuscì ad allargare l’iscrizione anche ai reduci, agli invalidi, alle famiglie orfane e ai mutilati di guerra28. In poco tempo, esaurita l’ondata emigratoria, fu anche ricostituita la locale sezione dell’Anc con a capo l’avv. Barbera. E ancora, per fronteggiare il costo sempre più crescente dei prodotti, 300 soci della cooperativa “N. Colaianni”, assieme ad altri contadini non combattenCit. cap. IV. Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Missiva della cooperativa e della sezione dei combattenti di Menfi, Menfi 7 luglio 1920. 27 28

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ti, costituivano l’anno successivo (1920) una cooperativa di consumo sempre denominata “Napoleone Colaianni”. In questo modo i soci della cooperativa di produzione potevano accedere ai generi alimentari distribuiti da quella di consumo. Le due cooperative, assieme alla sezione dell’Anc, erano tra loro in «ottimo accordo, perché [era]no costituite in massima dagli stessi elementi»29. In particolare la sezione dei combattenti era nata per “discendenza” dall’antica cooperativa “N. Colaianni”30. Così, controllando una gran massa di contadini, Giuseppe Volpe fondò un’altra cooperativa denominata “Angelo Abisso”. Pertanto, già tra il 1919 e il 1920, Volpe era riuscito a mettere in piedi una importante rete di organizzazioni solidaristiche e di clientele politiche capaci di raccogliere migliaia di persone, tra soci, semplici aderenti, invalidi, mutilati e numerosi nuclei familiari destinatari dei servizi offerti dalle cooperative. Una nuova forza sociale che non aspettò molto per reclamare risorse e un protagonismo politico. Nel giugno del 1919, con l’aiuto del deputato Angelo Abisso, la cooperativa “N. Colaianni” chiese all’Onc l’esproprio dell’ex feudo “Fiori”31. Il fondo, essendo uno tra i più fertili, non poteva aderire ai criteri stabiliti dall’ente, ma nel gennaio del 1920, l’Opera deliberò a favore dell’attribuzione del fondo32. Anche in questo caso, l’aspettativa dei richiedenti si scontrò con le lungaggini dell’ente, creando un clima di agitazione tra i soci della cooperativa. Tra l’altro, gli echi dei fatti di Ribera giungevano fino a Menfi. Qui, gli ex combattenti, nel tentativo di forzare i tempi di decisione dell’Opera, inscenarono diverse dimostrazioni 29 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Relazione sulla lega agricola Napoleone Colaianni di Menfi, notizie generali, s.d. 30 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Missiva della cooperativa e della sezione dei combattenti di Menfi, Menfi 7 luglio 1920. 31 Onc, Relazione del consigliere delegato al consiglio d’amministrazione. Esercizio 1921 cit., p. 45. 32 Apfv, Richiesta di esproprio dell’Opera dell’ex Feudo Fiori al Collegio Centrale Arbitrale, Roma 31 gennaio 1920.

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di protesta e occuparono tutti i feudi e le proprietà del cavaliere Bivona33. La richiesta di attribuzione del fondo poggiava sullo stato di arretratezza, dal momento che era stato «conce[sso] in subaffitto annualmente a diversi coltivatori metà del seminativo a cereali, mentre il cav. Bivona teneva per sé la parte a pascolo permanente e l’altra metà del seminativo [...] a riposo»34, «utilizzando metodi di conduzione irrazionali e improduttivi»35. Il progetto di bonifica puntava al riordino idrico del suolo e prevedeva di prosciugare le terre paludose scavando dei fossi di scolo in prossimità dei due torrenti confinanti ai margini esterni del fondo e, in secondo luogo, di costruire dei pozzi assorbenti o di raccolta «delle vene di acqua sotterranea ai quali sar[ebbero stati] applicati [...] motori a vento, data la vicinanza del lido marittimo, per sollevare l’acqua e servirsene per l’irrigazione»36. I benefici del piano di irrigazione comprendevano due zone di 50 e 60 ettari acquitrinosi e lasciati al pascolo, e altri 40 ettari presso i pozzi da cui poteva essere “sollevata” l’acqua37. In questo modo l’area sarebbe stata trasformata in orti e agrumeti. Compiuta la bonifica idraulica si procedeva alla trasformazione colturale con gli impianti di mandorleti, uliveti, frutteti e vigneti, assieme alle coltivazioni di cerali. Una particolare condizione del feudo era la vicinanza al mare. Per questo motivo fu proposto di proteggere le colture arboree, specie il mandorlo e la vigna, dalle burrasche marine e anche dall’avanzata della sabbia con dei “frangivento”, simili a una barriera contro il vento e la sabbia, Da Menfi. Agitazione di agricoltori, in «Giornale di Sicilia», 13-14 febbraio 1920. 34 Apfv, Progetto di trasformazione del fondo “Fiori”, s.d. 35 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Dati sugli affitti dei latifondi in provincia di Girgenti, Roma 30 novembre 1923. 36 Apfv, Progetto di trasformazione del fondo “Fiori”, s.d. 37 Ibid. 33

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dietro ai quali coltivare la vigna, soprattutto uve da tavola che prosperavano con un certo vigore proprio nella sabbie marine. Il piano dell’Opera faceva leva, quindi, sul binomio bonifica-trasformazione fondiaria. Il primo intervento, sarebbe stato realizzato direttamente dall’ente, mentre il secondo era lasciato al lavoro dei contadini. Il piano fu contestato dal prof. Puviani, direttore della cattedra ambulante di Calatanissetta e perito di fiducia dei Varvaro, con una relazione sull’utilità della bonifica che i proprietari rivendicavano di avere predisposto da molto tempo. Tutto il programma tracciato dall’Opera fu giudicato inesatto nelle misure e nelle valutazioni del fondo. La severità del giudizio era dettata non solo dal tentativo di preservare il diritto di proprietà, ma anche dalla convinzione che l’intervento «risentiva pure delle errate indicazioni e delle false promesse avanzate da chi evidentemente [teneva] all’esproprio di Fiori più per l’interesse proprio che per quello razionale della produzione»38. Dal punto di vista tecnico fu rifiutata la pretesa dell’ente di conciliare i tempi della bonifica idraulica con quella agraria. Di contro, si faceva notare come la bonifica idraulica avesse bisogno di un lungo tempo per produrre i primi effetti benefici e, dopo di ciò, bisognava aspettarne altrettanti per godere i vantaggi delle trasformazioni fondiarie. A tal proposito, il perito sosteneva, viceversa, che la bonifica agraria e quella idraulica dovevano procedere su binari paralleli. Ma il punto più qualificante della relazione consisteva nella reazione dei proprietari all’ipotesi di diminuire la superficie a seminativo a favore degli innesti della coltura arborea. Le stime del perito riproponevano uno schema collaudato a difesa della cerealicoltura e dell’interesse nazionale contro 38 Apfv, Relazione di sopralluogo eseguito nel feudo “Fiori” di proprietà dei sigg. Varvaro in comune di Menfi, circa la suscettibilità di bonificamente, Palermo 12 febbraio 1920, pp. 1-11.

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i programmi dell’Opera definiti antinazionali39. Non era del resto la prima volta che la propaganda della proprietà terriera utilizzava a suo favore la polemica liberista contro i programmi di spezzettamento del latifondo40. Dunque, era inutile impiantare gli alberi laddove esistevano le terre migliori, semmai era necessario scartare i terreni meno redditizi e intensificare quelli a vocazione granaria. L’unica modifica accessibile era nei sistemi di conduzione. Scaduto il contratto di affitto, metà del fondo seminativo sarebbe stato dato in gabella ai coltivatori locali, l’altra metà in mezzadria41. Infine, si replicò anche all’accusa di assenteismo ritenuta falsa, dal momento che i proprietari avevano predisposto prima dell’intervento dell’Onc l’impianto di vigneti42. Si trattava di 70 ettari concessi con contratti ventennali a circa 65 famiglie coloniche. Per i terreni acquitrinosi, invece, la soluzione consigliata era di lasciarli a pascolo, dal momento che la produzione di carni e latticini era considerata molto più importante rispetto agli ortaggi e alla frutta43. A difesa del diritto di proprietà, dunque, emergevano diverse domande. Dal momento che la bonifica interessava solo a una parte corrispondente a un 1/11 dell’intero fondo, esso poteva considerasi soggetto a importanti trasforIvi, p. 6. Ci riferiamo alla polemica di Ghino Valenti già ampiamente citata. 41 Apfv, Relazione di sopralluogo eseguito nel feudo “Fiori” di proprietà dei sigg. Varvaro in comune di Menfi, circa la suscettibilità di bonificamente, Palermo 12 febbraio 1920, p. 8. 42 L’interesse all’investimento sarebbe risalito a due anni prima della richiesta di attribuzione dell’Opera, in coincidenza con la fine del contratto di gabella (1918) e all’acquisto della quota degli eredi del defunto Roberto da parte di Edoardo e Alessandro Varvaro, Apfv, Note inviate al Collegio Centrale Arbitrale contro la domanda dell’Opera nazionale combattenti per l’attribuzione del fondo Fiori, 19 marzo 1920, p. 8. 43 Apfv, Relazione di sopralluogo eseguito nel feudo “Fiori” di proprietà dei sigg. Varvaro in comune di Menfi, circa la suscettibilità di bonificamente, Palermo 12 febbraio 1920, pp. 9-10. 39 40

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mazioni? E ancora, visto che i proprietari dimostravano di voler bonificare il fondo, investendo denaro e stipulando i contratti di affitto, era conveniente per l’Opera sostituirsi all’iniziativa privata laddove questa mostrava segni di vitalità e interesse per la produzione? 6.4 L’Onc tra due fuochi Il lungo contenzioso legale ingaggiato dai Varvaro contro l’Onc iniziò nel 1920. A rappresentare nelle sedi legali la famiglia proprietaria fu l’avvocato Gaetano Vassallo, marito di Rosa Varvaro (figlia di Alessandro), e fratello di Ernesto Vassallo deputato dei popolari che si contrapponevano alla democrazia sociale dell’asse Abisso-Amella. I punti salienti della linea di difesa dei proprietari erano già contenuti nella relazione tecnica del perito, allegata alla richiesta di annullamento della procedura di esproprio44. Inoltre, si citava l’insegnamento dell’agronomo, il prof. Caruso, che avvertiva come «in Sicilia non conv[enisse] sotto le piante arboree coltivare piante erbacee, perché impedi[va] no le frequenti serchiature, tanto necessarie per ritardare l’ulteriore prosciugamento del terreno»45. E, in effetti, i primi tentativi di impianto voluti dagli stessi Varvaro erano tutti falliti. Infine, si sottolineò il rinnovato interesse dei proprietari verso gli impianti di vigneti, utilizzato in sede legale per dimostrare che l’azione dell’Onc non aveva fondamento. Non mancavano gli espliciti riferimenti alla situazione sociale e politica di Menfi. I proprietari stigmatizzarono il fatto che la sezione dei combattenti era stata creata solo po44 Apfv, All’onorevole Collegio Arbitrale per l’Opera nazionale dei combattenti, Palermo 14 febbraio 1920, pp. 1-10. 45 Apfv, Note inviate al Collegio Centrale Arbitrale contro la domanda dell’Opera nazionale combattenti per l’attribuzione del fondo Fiori, 19 marzo 1920, p. 6.

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chi giorni prima la richiesta di esproprio, “in provetta”, in occasione delle elezioni del 1913, ubbidendo a una logica di antagonismi personali, ai fini di eleggere qualche deputato locale in opposizione al politico avversario di turno. La valutazione finale dell’avvocato Vassallo insisteva sull’incostituzionalità del regolamento legislativo dell’Opera in quanto alcuni obiettivi di miglioramento erano stati già soddisfatti dai proprietari. In particolare, s’era abolito l’intermediario, frazionato il fondo e concesso 83 lotti a vigneto, 50 lotti a seminativo dell’estensione di 3 e 7 ettari a 80 piccoli agricoltori46 e 31 lotti per la vendita. Non ultimo, s’era dato l’affitto a ex combattenti che costituivano la maggior parte dei 190 coloni presenti nel fondo. Come poteva fare di meglio la stessa Opera? A meno che «per ragioni politiche si voleva sostituire una massa di reduci con un’altra»47. Per tutta risposta, l’Opera non contestò né l’esistenza di un risvolto politico-elettoralistico della vicenda, né l’investimento dei proprietari nei vigneti, anzi l’ente avrebbe apprezzato il loro sforzo: «se tutti i [soggetti all’esproprio] dell’Opera facessero così [come i Varvaro], esproprie di fondi di privati non ne verrebbero»48. Tuttavia l’Opera era persuasa che il piano di miglioramento dei proprietari apparteneva più a una strategia difensiva, tesa a far cadere il fondamentale vincolo delle trasformazioni fondiarie come premessa necessaria all’esproprio. A questo punto l’Opera giudicò inutile il piano dei proprietari perché in ritardo rispetto a quello presentato dai periti dell’ente. D’altronde, essa si sentiva sotto tiro, per i ritardi nelle procedure di esproprio e nell’aver «avuApfv, Note aggiunte alle deduzioni dei sigg Varvaro ... contro la richiesta dell’Opera nazionale combattenti per l’espropria del fondo Fiori, Palermo marzo 1920, p. 1. 47 Apfv, Note inviate al Collegio Centrale Arbitrale contro la domanda dell’Opera nazionale combattenti per l’attribuzione del fondo Fiori, 19 marzo 1920, p. 12. 48 Ivi, p. 8. 46

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to una speciale predilezione per i proprietari della Sicilia», espropriando su un totale di 9 feudi «8 in Sicilia, e uno solo nel resto del Regno, e fra tutti uno solo appartenente ad un ente pubblico»49. L’intera vicenda rischiava oltremisura di trascinarsi nelle sedi legali, combinando alternativamente azione giudiziaria e lotta politica tra due grandi centrali del potere, quello della proprietà terriera, che «reclamava tutta l’attenzione e la sollecita cura dei proprietari terrieri e delle loro organizzazioni di classe»50, e quello delle reti clientelari dei politici di professione. Solo alla fine del mese di marzo del 1920 il Collegio arbitrale centrale51 dichiarava inattendibile la richiesta di incostituzionalità del regolamento dell’Opera avanzata dai proprietari e confermava l’impianto della proposta di esproprio: il fondo era suscettibile di importanti trasformazioni colturali poiché si trattava di terreni a colture estensive praticate con l’antico periodo del riposo, privo di piante arboree e predisposto alla bonifica idraulica. Per quanto riguarda la valutazione sulla “buona volontà” dei proprietari a trasformare una parte del fondo in vigneti, la sentenza ammise l’uso strumentale e propagandistico dei piani di trasformazione dei proprietari in funzione anti-esproprio, in quanto al momento della sentenza la fisionomia del fondo non era cambiata, e ciò avvalorava la tesi della necessità degli intereventi di bonifica. Ma ancora una volta i Varvaro ricorsero contro queste ultime affermazioni52 sollevando altre questioni. Questa volta si fece leva sull’art. 13 del regolamento legislativo dell’Onc Apfv, Pro-memoria per la difesa contro il decreto di espropria delle terre per l’Opera nazionale combattenti, s.d., p. 4. 50 Ivi, pp. 5-6. 51 Apfv, Sentenza del Collegio Centrale Arbitrale di attribuzione del feudo Fiori all’Opera nazionale combattenti, Roma 27 marzo 1920. 52 Apfv, Opposizione al Collegio Centrale Arbitrale, 10 maggio 1920, pp. 1-8 . 49

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che disciplinava la materia del riscatto delle terre bonificate da parte dei proprietari. Secondo l’avvocato Vassallo, il regolamento contraddiceva le finalità dell’Opera, poiché dopo gli sforzi finanziari e umani della bonifica, i proprietari potevano riappropriarsi delle terre, e quindi che senso avrebbe avuto prometterne la ripartizione? Questi temi della modalità contrattuale e del riscatto avrebbero messo l’Onc al centro di una lunghissima vertenza legale tra i proprietari e la cooperativa. 6.5 L’affitto provvisorio Le istanze dei Varvaro contro la sentenza di esproprio furono accompagnate un mese dopo da una lettera dei medesimi rivolta al ministro dell’Agricoltura Micheli. In essa vi si leggeva sia un accorato appello al nuovo governo di interessarsi del caso, sia una denuncia contro Nitti, colpevole di essere stato allo stesso tempo, in modo ambiguo, a favore di misure protezionistiche e, successivamente, di aver architettato un decreto luogotenenziale per espropriare un fondo ben coltivato a grano per impiantarvi ulivi, mandorli e agrumi53. L’appello al ministro popolare serviva anche a ribadire un concetto che rappresentava il nucleo forte della retorica dei ceti proprietari nei confronti delle politiche degli espropri: «non v’è terra, in astratto, che non sia suscettibile [di modificazioni]. Criterio [che] va necessariamente integrato con l’altro: che la trasformazione sia economicamente utile, senza di che sarebbe aberrante»54. Nel mese di luglio i Varvaro presentarono un altro reclamo 55. Questa volta l’istanza presentava una novità. Se53 Apfv, Lettera di Edoardo e Alessandro Varvaro al ministro dell’Agricoltura, Palermo giugno 1920. 54 Ibid. 55 Apfv, Controdeduzioni della famiglia Varvaro alla sentenza del Collegio Centrale Arbitrale, Roma 4 luglio 1920, pp. 1-17.

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condo i proprietari, l’intervento dell’Opera avrebbe scatenato una conflitto tra i soci della cooperativa e le famiglie a cui erano state promesse delle quote che, dopo la sentenza, rischiavano di non conseguire. Addirittura, molti contratti di affitto erano stati già stipulati a 200 coloni, alcuni dei quali avevano già preso possesso di una parte del fondo nel mese di aprile (1920), di conseguenza fu richiesta l’esclusione dall’esproprio di questa parte del fondo. Molti di questi affitti erano stati concessi ai combattenti per contrastare l’egemonia della cooperativa di Giuseppe Volpe, che a sua volta cercava di accelerare la pratica di esproprio per evitare l’occupazione del fondo da parte di tutti gli affittuari dei proprietari. Ciò che si verificò dopo fu una corsa ad accaparrarsi le maggiori e le migliori porzioni del fondo. Da un parte la sentenza a favore dell’Onc, che spingeva al possesso delle terre56, dall’altra gli affittuari, i mezzadri e i coloni, che avevano già sancito contratti di mezzadria e, in alcuni casi, di vendita coi proprietari, esigevano le stesse terre, generando grande confusione. A spuntarla fu la cooperativa di Giuseppe Volpe che, in attesa della sentenza sulla definizione dell’indennizzo, ricevette l’affitto provvisorio del fondo57. Il contratto fu firmato ai primi di settembre (1920) tra Di Stefano e i dirigenti della cooperativa, Giuseppe Volpe e Giuseppe Vetrano, rispettivamente presidente del Consiglio d’amministrazione e presidente dell’Assemblea dei soci. L’assegnazione provvisoria del fondo scaturì non solo dall’assenza della determinazione del prezzo di indennizzo, ma anche dalla scadenza del “tempo naturale” per la coltivazione del terreno e la preparazione dell’annata agraria. 56 Apfv, Verbale di immissione in possesso da parte dell’Opera nazionale combattenti, Palermo 23 luglio 1920. 57 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Estratto in copia conforme del libro delle deliberazioni del Consiglio d’amministrazione della cooperativa agricola N.Colajanni, Menfi 29 agosto 1920.

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Il contratto ebbe la durata di due anni, prorogabili per un altro biennio, per un canone annuo di 40.000 lire. La brevità del contratto di affitto comportò «l’uso dell’ordinaria colturale cerealicola»58, congelando in tal modo i programmi di bonifica. I pochi interventi consentiti dovevano essere preventivamente concordati e autorizzati dall’ente. L’Opera riproduceva solo un modello parziale di conduzione diretta che si esprimeva nel divieto, più formale che reale, di introdurre nuove servitù e di stipulare contratti di sub concessione, e disponeva del controllo sull’andamento tecnico-finanziario della cooperativa. Tuttavia, l’ente pur essendo proprietario e amministratore del fondo, nel rapporto con la cooperativa, ricalcava i precedenti sistemi di conduzione per mezzo della gabella59. Alla firma del contratto, la ferma volontà dei proprietari, con l’aiuto di Micheli, di salvare la parte più fertile60, modificò parzialmente la sentenza del Collegio arbitrale centrale con una nuova sentenza (ottobre del 1920), che attribuì ai proprietari i 38 lotti di terra (70 ettari) che, «per la lunga durata della mezzadria, [...] e la concessione fattane a 66 [famiglie di] lavoratori, gran parte dei quali [...] ex combattenti, pon[eva]no in essere uno stato di cose, dal quale [era] dato ripromettersi l’attuazione almeno parziale, ma concreta, delle finalità cui tende[va] l’Opera con l’organizzazione agraria»61. Viceversa, la richiesta di restiAcs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 12, Scrittura di locazione del fondo Fiori alla cooperativa Napoleone Colajanni di Menfi per l’annata 1920-1922, Catania 7 settembre 1920, p. 7. 59 Anche nella corresponsione delle imposte fondiarie l’Onc delegava la responsabilità e gli oneri del pagamento alla cooperativa. La somma veniva poi detratta dal pagamento del canone, in Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 12, Scrittura di locazione del fondo Fiori alla cooperativa Napoleone Colajanni di Menfi per l’annata 1920-1922, Catania 7 settembre 1920, p. 8. 60 Apfv, Relazione di perizia per l’impianto a vigneto in ex feudo Fiori, Menfi 16 agosto 1921. 61 Apfv, Ordinanza definitiva del Collegio Centrale Arbitrale, Roma 29 ottobre 1920, p. 7. 58

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tuzione dell’intero fondo non fu accolta, perché non era «destinata a sortire i vantaggi che l’Opera si ripromette[va] dalla colonizzazione e quotizzazione [perché] il colono è portato a migliorare la propria quota poiché conta che un giorno ne diverrà proprietario»62. Ed è proprio con la promessa di vendita delle quote, malgrado la clausola del diritto di riscatto, che la cooperativa si preparava a redistribuire le quote ai soci. 6.6 La quotizzazione provvisoria All’indomani della stipula del contratto provvisorio, la cooperativa procedeva alla quotizzazione mediante sorteggio pubblico nel quale furono assegnati 581 lotti ai soci, esclusa la striscia retrocessa ai proprietari. Una procedura che incontrò non poche difficoltà, suscitando un vespaio di polemiche. Inizialmente le quote dovevano essere sorteggiate tra tutti i combattenti, gli invalidi e i mutilati di guerra, a esclusione, secondo regolamento, dei non combattenti63. La condizione richiesta per concorrere al sorteggio era il preventivo deposito della metà del canone di affitto. Alla fine, delle 581 quote rimasero una cinquantina non sorteggiate per mancanza di concorrenti capaci di versare l’acconto64. Queste quote non assegnate furono concesse ad altri sorteggiati che così ne vennero ad avere più di una. Di seguito, una cinquantina di quote furono anch’esse abbandonate da altri assegnatari: piccoli proprietari e affittuari che avevano concorso per la comodità di potere «in essa seminare il foraggio per gli animali più facilmente utilizzaIvi, p. 6. Acs, Sicilia, b. 1, f. 11, Resoconti della cooperativa sulle denunce di corruzione nella procedura di sorteggio delle quote, s.d. 64 Ibid. 62 63

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bile perché vicino al paese»65. Quando la cooperativa, per rispondere alle richieste dell’Opera sulle garanzie del deposito, sollecitò gli assegnatari al pagamento del «primo acconto di 300 lire a quota [...], questi 50 borgesi [...] preferirono migliorare i propri e non quelli che potevano essere riscattati dagli ex proprietari e, quindi, lasciarono la quota»66. Per riassumere, delle 581 quote ne furono concesse circa 486 a 412 quotisti di cui, però, la stragrande maggioranza, 354 circa, ebbero solo una quota, 48 ne ebbero 2, 4 addirittura 3 lotti, mentre solo 6 quotisti ne ebbero 467. Restavano poco meno di un centinaio di quote da distribuire, la metà delle quali sarebbero state assegnate a quei 41 contadini che ne avevano fatto già richiesta senza, però, versare l’anticipo e che le avevano in affitto e le coltivavano, mentre l’altra metà rimasero da assegnare68. Man mano che le quote venivano attribuite, molti dei quotisti si ritiravano e chi ne possedeva già una o più di una acquisì le quote che erano state lasciate libere69, sì da incrementare complessivamente la differenza tra il numero delle quote e i quotisti disponibili a versare il canone. A beneficiarne, dunque, furono in pochi. Dagli elenchi dei quotisti, gli assegnatari con più lotti erano superiori di quelli dichiarati, tuttavia ciò che già allora destava la perplessità di molti esclusi dal sorteggio non era tanto il numero dei quotisti aventi più quote, quanto alcune assegnazioni a vantaggio di persone legate tra di loro da vincoli familiari o di appartenenza politica. Si verificarono casi in cui le assegnazioni non rispettavano i criteri minimi sanciti dall’Opera: di essere un ex combattente, Ibid. Ibid. 67 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Prospetto riassuntivo dell’assegnazione delle quote ai soci della cooperativa N.Colajanni in ex feudo Fiori, s.d. 68 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Elenco soci risultanti all’elenco 20 febbraio 1921. 69 Lorenzoni, Dal diario di viaggio di un sociologo rurale cit., p. 30. 65 66

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un lavoratore della terra, di non praticare il sub affitto, di attuare un modello di colonizzazione stabile. I casi più eclatanti riguardarono i membri della famiglia Vetrano, originariamente affittuari e piccoli proprietari. Giuseppe Vetrano, dirigente della cooperativa ed esponente del partito municipale abissiano fu beneficiario di 4 lotti, come pure i suoi due fratelli Gaspare già proprietario e Vincenzo che ne ebbe 1 al momento del sorteggio e poi altri 3. Tutti e tre i fratelli non erano degli ex combattenti70. Simile trattamento di privilegio fu riservato a Giuseppe Volpe assegnatario, assieme al suocero Giuseppe Campo “non combattente”, di parecchi lotti71. I vincoli parentali erano però meno incisivi dell’appartenenza politica. La base sociale della cooperativa era formata da un reticolo interclassista che permise ai diversi ceti medio-alti delle professioni (medici, avvocati, agenti di assicurazioni, veterinari) e dell’artigianato (falegnami, barbieri, calzolai), di accedere, assieme ai piccoli possidenti e proprietari, quasi tutti non combattenti, a più quote di terra, relegando i ceti più bassi, braccianti e piccoli mezzadri al possesso di appena una quota di terra. Ne conseguì, contrariamente ai regolamenti dell’Opera che prescrivevano la conduzione diretta della quota, la pratica diffusa del sub affitto. Si verificarono casi in cui le quote furono assegnate a commercianti residenti a Palermo o addirittura vi era chi aveva assegnato più lotti per i figli emigranti in America72. Nei primi mesi del 1922 Giuseppe Vetrano rinsaldò la sua influenza divenendo sindaco di Menfi, e molti tra gli assegnatari di più lotti coprirono cariche di consiglieri e assessori comunali73: Giuseppe Volpe fu assessore assieme 70 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Elenco approssimativo assegnatari dei lotti dell’ex feudo Fiori, s.d. 71 Ibid. 72 Ibid. 73 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Elenco degli assegnatari dei lotti dell’ex feudo Fiori per conto della cooperativa Colajanni in Menfi, s.d.

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ad altri due dirigenti della cooperativa; su 30 consiglieri comunali, 19 erano soci. Fiori è stato ed è la roccaforte politico-elettorale dell’on. Abisso. In Menfi i maggiori elettori di esso e rappresentati politici locali (sindaco, pro-sindaco, assessori, consiglieri comunali, provinciali), sono i rappresentanti e dirigenti della cooperativa concessionaria, i cui componenti figurano di fronte all’Opera in numero 382, ma di fatto non sono che poco più di un centinaio, perché ciascuno di essi possiede parecchi lotti, e i prezzi più grossi possiedono, naturalmente, anche i lotti più ricchi.74

I legami di natura politica erano, dunque, più forti di qualunque altro vincolo poiché a decidere a chi concedere le quote era il medesimo gruppo di riferimento del partito municipale e della cooperativa. Il combattentismo fu la vernice “ideologica” della mobilitazione sociale. La bandiera del nuovo radicalismo attorno al tema della richiesta di terra servì a consolidare posizioni di egemonia e carriere politiche. Si trattava di partiti che veicolavano nuove idee e interessi “contadinisti” tramite il ricambio della classe dirigente, in alterativa alle coalizioni «a difesa di vecchi interessi dei ceti proprietari»75. La politica si esprimeva meglio attraverso le diverse modalità di organizzazione dei servizi rivolti alla società. Non importava se e quanti fossero gli ex combattenti nelle cooperative. Esse rappresentavano il principale contenitore e il moderno canale di accesso alle risorse a garanzia di una mobilità lavorativa e sociale76. Ben presto il movimento cooperativistico guidato da Giuseppe Volpe assunse un ruolo preminente in altre operazioni finanziarie. Oltre all’ex feudo “Fiori”, furono quotizzati 150 ettari, suddivisi in 50 particelle, del feudo Apfv, Appunti dell’avvocato Vassallo, s.d. La lista democratico riformista, in «La democrazia», Girgenti 18 ottobre 1919. 76 Cfr. Sabatucci, I combattenti nel primo dopoguerra cit. 74 75

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“Bertolino Scifitelli”77, e altri 50 ettari dalla concessione di una parte del feudo “Bertolino Grande”. I successi conseguiti dalle cooperative non furono esenti da sospetti di irregolarità nelle procedure di lottizzazione. Lo “scandalo” esplose all’interno della sezione dei combattenti. Alcuni quotisti e gli esclusi dal sorteggio indirizzarono una lettera all’Onc per accusare i loro dirigenti di “camorra affaristica”78 nella redistribuzione delle quote. Secondo i firmatari della missiva, i migliori e i maggiori lotti di terra erano stati dati ai dirigenti e ai congiunti di essi, persone che, per professione e condizione sociale, non coltivavano la terra, essendo commercianti, calzolai, falegnami, muratori; e subaffittavano le terre, speculandoci sul prezzo, contravvenendo ai regolamenti79. Inoltre la lottizzazione, contrariamente al progetto di bonifica, non era stata estesa ai terreni pascolativi, a beneficio esclusivo di pochi. In particolare, il presidente e l’amministratore della cooperativa, secondo l’accusa, limitarono la lottizzazione a una parte della stessa, dando la rimanente parte in subaffitto a persone estranee, raggirando le stesse direttive dell’Opera. Addirittura sorse il sospetto che alcuni lotti precedentemente assegnati erano stati arbitrariamente tolti per essere assegnati a persone che, a loro volta, furono sostituite da altri quotisti, speculando sulla differenza del prezzo dell’estaglio80. E precisamente, accadeva che il prezzo dell’estaglio di 40.000 lire, pagato dalla cooperativa all’Onc, era lo stesso che il cav. Bivona pagava ai proprietari, mentre l’amministrazione della cooperativa, per 77 Acs, Mi., P.S., serie atti diversi (1898.1943), b. 1 (1923-1924), Occupazione feudo Scifitelli in comune di Menfi; I decreti per i terreni incolti in provincia di Girgenti, in «L’Ora», 12 gennaio 1921. 78 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Denuncia di alcuni membri della sezione ex combattenti contro dirigenti cooperativa N.Colaianni all’Opera Nazionalnale Combattenti, Menfi 8 febbraio 1921. 79 Ibid. 80 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Copia del ricorso spedito nuovamente all’Opera nazionale combattenti, s.d.

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la parte ceduta a lotti e per quella data in affitto a persone estranee, ricavava più del doppio della somma richiesta. In effetti ad ogni passaggio di mano del lotto il prezzo dell’affitto lievitava e dunque un tipo di ripartizione così articolato era funzionale alla formazione di un sistema clientelare81. Alle denuncie seguì una breve inchiesta dell’ispettorato per accertare la regolarità finanziaria della cooperativa e che ebbe esiti favorevoli ai dirigenti. Sul piatto della bilancia pesava di più la riuscita, sia pur parziale, dell’operazione di esproprio e della quotizzazione. Così, nella relazione, l’ispettore non diede seguito alle numerose denunce82. I dirigenti – concludeva il rapporto – erano «brava gente desiderosi di una vita migliore [...] ma privi di conoscenza e di esperienza, di una linea da seguire»83. Dai documenti dell’ispezione risultarono, comunque, delle irregolarità negli elenchi dei soci. Numerosi combattenti consegnarono all’ispettorato i documenti con le regolari polizze per la richiesta di una quota di terra. Ma non essendo presenti negli elenchi non furono presi in considerazione. L’ispezione si concluse con la generica raccomandazione a regolarizzare per il futuro le iscrizioni a favore dei combattenti, di tenere distinta le cooperativa dall’associazione combattenti e di compilare i registri contabili. 81 In virtù dei decreti prefettizi del 7 novembre 1920, la cooperativa “N. Colajanni” fu autorizzata a occupare temporaneamente l’ex feudo “Bertolino grande”. Nel frattempo Vetrano si accordava con la proprietaria per la compra-vendita di alcuni ettari. L’operazione di Vetrano permise successivamente alle cooperative “N. Colaianni” e “Angelo Abisso” di comprare i restanti ettari delle due tenute. L’ex feudo “Bertolino grande” fu acquistato nel 1923 dalla cooperativa “Angelo Abisso” al prezzo di 980.000 lire. Il prezzo di rivendita delle singole quote ai soci fu maggiore di quello sborsato ai proprietari. Apfv, Compromesso di vendita dell’ex feudo Bertolino tra la baronessa Arone e Giuseppe Volpe, Sciacca 8 aprile 1922; Lorenzoni, Dal diario di viaggio di un sociologo rurale cit., p. 31. 82 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 12, Relazione sulla Lega Agricola Napoleone Colainanni di Menfi, s.d. 83 Ibid.

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L’atteggiamento di tolleranza nei riguardi della cooperativa di Menfi scaturiva dalla forza politica e clientelare e dal peso specifico dei suoi dirigenti che, malgrado i sospetti di corruzione, sapevano opporsi e, a seconda delle circostanze, anche stipulare accordi con il ceto dei proprietari. Questo polimorfismo costituiva la bussola che orientava il rapporto, a volte conflittuale e a volte cordiale, tra il cooperativismo agricolo e l’Opera. 6.7 La battaglia sull’indennizzo Nel corso del 1922 i Varvaro persero le cause presso i tribunali ordinari, ma si prepararono ad aprire un fronte decisivo della battaglia legale, ossia quello sulla indennità del prezzo di esproprio. Secondo Antonio Sansone, le azioni legali intraprese fino a quel momento dai proprietari nei tribunali civili dello Stato, avevano la funzione di ostruire l’esproprio o, nel migliore dei casi, elevare il prezzo di indennizzo. Non appena si sono usate tutte le leve per spingere i proprietari innanzi al Collegio Provinciale Arbitrale, l’Opera è stata citata per inadempienza agli obblighi della legge e in definitiva per la retrocessione del fondo, salvo – beninteso – il risarcimento di tutti i danni.84

La questione era di vitale importanza per l’Onc. Se la strategia dei proprietari si fosse rivelata vincente, sarebbe bastato che quest’ultimi, espropriati delle loro terre, accentuassero l’ostruzionismo per via “legale” in merito alla procedura d’indennità, per obbligare l’Opera a restituire, dopo qualche anno, i fondi espropriati. Diversamente, i proprietari ebbero l’urgenza di bloccare le procedure di indennizzo nel momento in cui intuirono l’accordo tra Di Stefano e Volpe per una risoluzione defi84 Onc, Relazione del consigliere delegato al consiglio d’amministrazione. Esercizio 1921 cit., p. 46.

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nitiva della proprietà del fondo a favore della cooperativa. Quest’ultima, in vista della scadenza del contratto di gabella dell’agosto 1922, rinnovato successivamente per un solo anno85, era pronta alla raccolta degli acconti «ritenendo conveniente stabilire la misura dell’anticipo in £ 100 per tumulo di terra, così da lasciare a tutti la possibilità di divenire proprietari delle quote che attualmente detengono e a tutti dare il tempo necessario per procurarsi le somme occorrenti limitando la data di chiusura per la consegna degli anticipi al 31 agosto»86. D’altronde le entrate al 30 giugno del 1922 fecero registrare un saldo al netto positivo tra la riscossione delle gabelle e le imposte da pagare per conto dell’Opera87. Dopodiché, «non appena si [fossero] eseguiti i primi versamenti all’ispettorato di Catania»88, la cooperativa, con l’aiuto del Banco di Sicilia, avrebbe inoltrato nel mese di luglio l’istanza all’Onc per la concessione definitiva del fondo89. La procedura per la determinazione del prezzo era stata già avviata ai primi di aprile dal Collegio arbitrale provinciale di Girgenti poiché le parti non erano riuscite a trovare l’accordo sul prezzo del fondo. Pertanto, non potendo tener conto dell’atto di gabella, occorreva accertare il reddito mediante calcoli desunti dalla probabile produzione dedotta nelle annate agrarie del periodo 1915-191990. In questo 85 Acs, Onc, Sicilia b. 1, f. 12, Contratto di affitto del fondo Fiori alla cooperativa Napoleone Colaianni per l’annata 1922-1923, Catania 16 ottobre 1922. 86 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Verbale dell’assemblea dei soci della cooperativa “Napoleone Colaianni”, Menfi 15 marzo 1922. 87 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Situazione finanziaria della cooperativa” N.Colaianni” al 30 giugno 1922. 88 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Verbale dell’assemblea dei soci della cooperativa “Napoleone Colaianni”, Menfi 15 marzo 1922. 89 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Istanza della cooperativa “N.Colaianni” all’Ispettorato per l’Onc in Sicilia, per la concessione definitiva dell’ex feudo Fiori, Menfi 10 luglio 1922. 90 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 12, Decisione del Collegio Arbitrale Provinciale sulla controversia per l’ indennità del prezzo dell’ex feudo “Fio-

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modo, il prezzo fissato dal Collegio per l’indennizzo fu di 1.400.000 lire91. Ma la decisione scontentò tutti. Secondo il parere dell’ente, i criteri di calcolo erano stati desunti da «presunzioni che non trova[va]no conferma nemmeno nei sistemi di conduzione normali dei latifondi della Sicilia»92. Dall’altra parte, i Varvaro si limitarono a sottolineare l’errore nelle stime93, dal momento che la somma stabilita risultava essere meno della metà del valore reale94. Alla fine, entrambi si appellarono al Collegio arbitrale centrale per contrastare il giudizio del Collegio provinciale. La vicenda si prolungò fin alla fine del 1923. Il Collegio provinciale aveva cercato una mediazione, ma l’Opera non intendeva pagare un prezzo così alto e scaricare i costi sulla cooperativa, preoccupata dalla possibilità del riscatto del fondo da parte dei proprietari95. Inoltre, la ristrutturazione finanziaria del commissario straordinario Magrini prevedeva un contenimento delle spese e la retrocessione di quei fondi dove il prezzo da pagare ai proprietari era superiore ai preventivi di spesa. ri” tra i Varvaro e l’Opera nazionale combattenti, Girgenti 21 giugno 1922. 91 Dal seminativo si calcolò un reddito di lire 70.000, dall’attività del pascolo (sia di maggese, sia quello permanente) lire 13.380 per un totale di 83.580 lire. Detraendo da questa somma tutte le varie spese generali si aveva un totale di 56.580 lire. La somma di 1.400 lire derivava dalla capitalizzazione al 4%, tasso equo in rapporto alle condizioni del fondo. Dati estrapolati in Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Decisione del Collegio Arbitrale Provinciale sulla controversia per l’ indennità del prezzo dell’ex feudo “Fiori” tra i Varvaro e l’Opera nazionale combattenti cit. 92 Ibid. 93 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Ricorso dei Varvaro presso il Collegio Centrale Arbitrale per riformare la sentenza del Collegio Arbitrale Provinciale, Palermo 5 agosto 1922. 94 Afpv, I Varvaro per la retrocessione dell’ex feudo Fiori, Menfi dicembre 1922. 95 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Ricorso dell’Onc presso il Collegio Centrale Arbitrale per riformare la sentenza del Collegio Arbitrale Provinciale, Roma 1 agosto 1922.

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Ma nel caso dell’ex feudo “Fiori”, Magrini non si discostò dalla linea già solcata dal suo predecessore Sansone. E, nell’esposto al Collegio centrale arbitrale, l’Opera insistette sul fatto che per una precisa determinazione del reddito nominale: «nessuna ragione aveva il collegio di Girgenti di abbandonare la base sicura del canone di affitto, per avventurarsi in un’analisi difficile»96. Il pomo della discordia era il calcolo preciso dell’estaglio precedente all’esproprio. Da questo punto di vista l’Opera era decisa a dimostrare che, «date le condizioni del fondo, [...] il canone di affitto di L. 20.000 stabilito fino al 1918 si dovesse considerare inferiore a quello meritevole dal fondo stesso»97. Così, una volta stabilito il canone si doveva sottrarre la parte riferibile alla striscia di terra del fondo già retrocessa ai proprietari. Sull’esatta stima dell’estaglio per la determinazione del reddito nominale, i proprietari impugnarono nuovamente il ricorso del commissario straordinario, dal momento che «l’atto di affitto non p[oteva] dare alcun elemento attendibile e d[oveva] ritenersi inesistente. Onde si apr[iva] necessariamente l’adito alla stima secondo il reddito del fondo cioè alla stima analitica». Secondo l’avvocato Vassallo, confortato dal parere di Ludovico Mortara, l’insigne giurista ed ex presidente della commissione che aveva sancito la nascita del regolamento legislativo dell’Onc, chiamato a esprimersi sulla corretta interpretazione dell’art.17 del regolamento, non si poteva accettare il reddito presunto di 40.000 lire perché si sarebbe dovuto aggiornare al prezzo cambio oro corrente al tempo dell’attribuzione98. Così pure il coefficiente di caAcs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Istanza dell’Onc contro i Varvaro per la determinazione del prezzo di indennizzo presentata al Collegio Centrale Arbitrale, Roma 6 giugno 1923. 97 Ibid. 98 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, “Parere Mortara” presentato dall’avvocato Vassallo per i signori Varvaro all’udienza del 17 novembre 1923 contro l’Opera nazionale combattenti, Roma novembre 1923 96

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pitalizzazione, come accadeva nelle libere vendite di terreni in buone condizioni, non avrebbe dovuto superare il 3%. Procedendo verso questa valutazione del reddito, si sarebbe ricavata la cifra di 173.402 lire99. A tali conclusioni giunse anche Mortara, il quale annotava che il fondo era in piena «produttività col sistema della coltura intensiva, conforme alla pratica locale, al tempo dell’espropriazione, dando abbondante raccolto di frumento, di altri cereali, di legumi, oltre il pascolo. Si tratta[va] dunque – secondo il giurista – di terreni il cui reddito normale era del più alto valore»100, e quindi, «la somma richiesta rimane[va] di gran lunga inferiore al livello che raggiunse negli ultimi anni il prezzo di mercato dei fondi di buona e proficua coltivazione, quali presenta[va] il fondo Fiori»101. Infine, sugli esosi esborsi i proprietari denunciarono che la stessa cooperativa Colaianni che fa suo baluardo Fiore?! pagava le terre in contrada Quarto di Casa e Porcheria della estensione di circa salme 65, e di qualità e valore di gran lunga più scadente al prezzo di L. 16.200 per ogni salma.102

Non si comprendeva, dunque, il motivo per cui si dovevano fare degli sconti sul feudo “Fiori”. In realtà, Mortara puntava, e neanche troppo velatamente, a sancire l’illegittimità dell’esproprio in quanto il fondo “Fiori” non rientrava nella classe dei terreni che il legislatore aveva sancito col terzo 99 Acs, Dg, b. 1, f. 12, Copia dell’ istanza presentata dai Varvaro contro l’Opera nazionale combattenti, Roma 17 novembre 1923. Il prezzo totale così calcolato era più del doppio di quello determinato dal Collegio Provinciale. 100 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Pro-veritate Varvaro-Opera nazionale combattenti. Memorie difensive di Ludovico Mortara a favore della famiglia Varvaro, Roma novembre 1923, pp. 1-9, in particolare p. 8. 101 Ivi, p. 9. 102 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Avanti il Collegio Centrale Arbitrale per i signori Varvaro contro l’Opera nazionale combattenti, Palermo 5 dicembre 1923.

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comma dell’art. 9 del decreto 16 gennaio 1919103. Il tema dell’illegittimità dell’esproprio, connesso al valore del terreno, era il punto di forza della difesa dei proprietari, i quali ritenevano che coltivando a vigneti una striscia del fondo retrocessa, avrebbero potuto trasformare con successo l’intero fondo. Le considerazioni di Mortara, politicamente schierato contro il commissario Magrini, non potevano non innescare le polemiche. Nell’occasione Magrini si limitò a ribadire un concetto già messo in luce da Sansone: se le ragioni espresse da Mortara e dai Varvaro sulla illegittimità dell’esproprio avessero determinato l’inapplicabilità dei regolamenti legislativi dell’ente quali terreni si sarebbero potuti espropriare […] dato che tutti i proprietari, qual più qual meno, coltivarono a modo loro e secondo gli usi della loro regione i loro terreni.104

Dopo lunghe discussioni fra periti, agronomi, magistrati e avvocati, il Collegio centrale emise la sua sentenza agli inizi di dicembre del 1923. In essa fu riconosciuta l’infondatezza del criterio utilizzato dal Collegio provinciale, poiché per determinare il reddito normale netto del fondo era necessario basarsi sul canone d’affitto al momento dell’attribuzione. Di conseguenza non potevano essere prese in considerazione le previsioni dei redditi formulati dai proprietari. Il canone, in base agli aumenti delle imposte e della svalutazione della moneta nel 1919, fu calcolato di 55.800 lire. Di questa cifra i Varvaro non si accontentarono pretendendo un importo di almeno 170.000 lire, sostenendo che era indispensabile integrare il conteggio analitico dei prodotti del fondo e il tasso di inflazione. Ma anche queste richieste non furono accolte nel giudizio. Similmente, circa Ivi, p. 7. Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Note aggiunte inviate dall’Opera nazionale combattenti al Collegio Centrale Arbitrale, Roma 23 novembre 1923, pp. 1-9, in particolare p. 8. 103 104

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il tasso di capitalizzazione, la sentenza accolse le indicazioni dell’Opera considerando il tetto del 4,50%, sicché, capitalizzando il reddito netto, si fissò il prezzo di indennizzo finale in 903.100 lire105. Questa volta si accontentò l’Opera, ma allo stesso tempo fu agevolata solo in parte nel difficile trapasso del fondo alla cooperativa. 6.8 Regime e sospetti Con il fascismo al potere, i fratelli Varvaro chiesero al nuovo governo un cambiamento di rotta a difesa della proprietà privata, e reclamarono con scrupolose missive indirizzate a Mussolini la retrocessione del fondo, come per le terre del duca a Ribera106: L’ex feudo Fiori, a ragione chiamato il gioiello della contrada, era preparato a una coltura intensiva e frazionata. Il direttore generale dell’Opera […] compreso di ciò, aveva promesso che avrebbe lasciato svolgere proficuamente queste iniziative; ma prevalsero le pressioni politiche e il feudo fu espropriato attraverso una serie di illegalità e di violenze […]. La locale Lega Colajanni, baluardo elettorale del Deputato, […] s’immise in possesso […]. Nella ripartizione delle terre, i bocconi migliori toccarono ai dirigenti o congiunti di dirigenti, non contadini […] e tanto meno combattenti. Dopo due anni e mezzo non è stata iniziata alcuna trasformazione. E mentre la striscia di terreno, allora retrocessa ai proprietari è già trasformata in un rigoglioso vigneto che forma l’ammirazione degli stessi ispettori dell’Opera, tutto il resto del feudo, continua a essere coltivato con gli stressi sistemi di prima, ma con assai più scarsi risultati per insufficienza di mezzi di concimazione e di lavoro. I componenti della cooperativa, sfiduciati, non vogliono e non possono né trasformare né pagare il prezzo del terreno che il proprietario ha il diritto di riscattare. In tali condizioni i feudi del Duca di 105 Acs, Onc, Dg, b. 1, f. 12, Decisione del Collegio Centrale Arbitrale tra i fratelli Varvaro e l’Opera nazionale combattenti in riferimento alla determinazione del prezzo già stabilito dell’ex feudo Fiori, Roma 8 dicembre 1923, pp. 1-14, in particolare p. 13. 106 Si veda il caso di Ribera supra al cap. IV.

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Bivona, sono stati recentemente restituiti dall’Opera al proprietario. Lo stesso si chiede sia fatto pel feudo dei sigg. Varvaro. L’essere un cittadino italiano non da diritto a una protezione minore di quanto possa averne e ne ha avuto un cittadino spagnuolo.107

All’Opera fu imputata la mancata trasformazione colturale e la fallita finalità sociale. L’esproprio era stato il frutto di un clima intriso di “demagogismo” a fini elettorali. L’esempio della retrocessione delle terre del duca di Bivona rappresentava un precedente a favore della restituzione del fondo108. In un’altra lettera del maggio 1923 i proprietari spiegavano i motivi tecnico-agrari della richiesta di retrocessione. Soprattutto nella zona acquitrinosa del fondo, il suolo non offriva una convenienza economica per un altro tipo di coltura. La natura del terreno e la posizione in rapporto al livello del mare, non avrebbe offerto la possibilità immediata di una bonifica idraulica109. Inoltre, il ritardo nell’esecuzione dei lavori da parte della cooperativa, secondo i proprietari, era da attribuire anche all’Opera che cominciava a nutrire dubbi sulla convenienza di una tale bonifica110. In effetti la perplessità e lo scetticismo sulla serietà della cooperativa affioravano lentamente e, per questo motivo, l’Opera fu disposta ad ascoltare le ragioni dei proprietari. All’orizzonte si sarebbe profilato un accordo, poi fallito, tra l’amministratore delegato dell’Opera, Battistella, e i fratelli Varvaro: il primo era disposto a restituire le terre espropriate ai legittimi proprietari, con la garanzia della dichiarazione scritta di quest’ultimi nella quale si impegnavano a sollevare l’Onc dalle responsabilità e proteggerla dalle rappresaglie della cooperativa111. 107

1922.

Apfv, Lettera dei fratelli Varvaro a Mussolini, Menfi 24 dicembre

108 Apfv, L’avv.Vassallo, per la retrocessione dell’ex feudo Fiori, Palermo dicembre 1922. 109 Apfv, Riassunto esposto proprietari, s.d. 110 Apfv, Per la retrocessione dell’ex feudo Fiori, Roma 26 maggio 1923. 111 Apfv, Appunti dell’avvocato Vassallo cit.

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I termini dell’accordo si trovano tra gli appunti e i fogli personali dell’avvocato Vassallo che denunciava, ancora una volta, le manovre dietro le quinte di Angelo Abisso, pur di impedire la soluzione dell’accordo privato sfavorevole a quest’ultimo112. Nei fatti ciò era possibile. Se, infatti, nel 1920 la bilancia dell’azione agraria dell’Opera era inclinata a favore degli interessi delle cooperative, nel 1923, conclusa l’intensa fase degli espropri, diventava più difficile indirizzare nuove azioni contro i proprietari e la bilancia dell’attività dell’Opera si riequilibrava anche per ragioni finanziarie, orientata a lasciar cadere i casi sconvenienti. Ma pure Abisso da lì a poco tempo avrebbe ricontrattato la sua posizione all’interno dei nuovi equilibri politici in provincia di Agrigento. La forza politica del deputato di Sciacca fu confermata da Vassallo, il quale ridisegnò la mappa del potere abissiniano, contrassegnata da una forte continuità col passato e allo stesso tempo da una più estesa rete di controllo sociale113. Lo scontro sull’ex feudo “Fiori” si rinnovava all’interno del fascismo e delineava i nuovi schieramenti tra le diverse fazioni già in lotta tra di loro. Abisso, per mantenere in vita le sue personali clientele, fece sorgere delle sezioni fasciste composte da persone di sua fiducia114. Le tensioni si acuirono proprio nel 1923, quando il prefetto, alleato di Abisso, ribaltava lo schema di un presunto abissinismo denunciato dal fiduciario provinciale del Pnf Narciso Dima, sostenendo che per forza di cose i fasci della provincia erano stati costituiti da elementi tratti in prevalenza dal partito demo-sociale di Abisso115. Dopo un breve periodo Ibid. Ibid. 114 Acs, Mi, b. 88, Il prefetto sulla storia della politica in provincia di Gigenti, Girgenti 14 ottobre 1926, p. 5. 115 Acs, Pcm,1924, b. 3,1-1,1367, Il prefetto al capo del gabinetto del consiglio dei ministri. Situazione del fascismo in provincia di girgenti al 27 ottobre 1923, Girgenti ottobre 1923. 112 113

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di compromesso tra il prefetto e il fiduciario, fu quest’ultimo a denunciare il prefetto di essere il braccio “armato” al servizio del deputato, per sciogliere «le amministrazioni comunali, poi affidate a commissari uomini di Abisso e Amella»116, e prevalere in tutte le sezioni fasciste della provincia. Per tutta risposta, il fiduciario fu accusato di eleggere gli esponenti del partito popolare117 a nuovi segretari dei fasci al fine di contrastare il dominio di Abisso118. Così a Menfi, il prefetto accusava il fiduciario di avere messo a capo del fascismo locale l’anziano dott. Bivona, «di ambienti sturziani, avversario politico su scala locale del Volpe e dell’Abisso, il quale fece nominare segretario politico Ravadà, intimo congiunto del segretario politico provinciale del Pp, avv. Molinari»119. E, nel frattempo, Bivona e altri firmatari, inviavano una lettera a Finzi per sollecitare il governo a indagare sul fascismo nei 16 comuni dove, secondo gli accusatori, regnava Abisso120, e anche a Menfi, dove sul gruppo dirigente locale si addensavano gravi sospetti di corruzione. Vetrano ebbe un procedimento penale per pascolo abusivo e una perquisizione perché accusato di rapina121, mentre Volpe fu individuato come Acs, Pcm,1924, b. 3,1-1,1367, Il fiduciario della provincia di Girgenti a S.E.Mussolini, Girgenti 14 novembre 1923. 117 Acs, Pcm, 1924, b. 3,1-1,1367, Il prefetto di Girgenti al segretario del Pnf Francesco Giunta, Girgenti 5 dicembre 1923; anche Acs, Pcm, 1924, b. 3,1-1,1367, Il prefetto di Grigenti Reale al ministero dell’Interno, Girgenti 11 dicembre 1923. 118 Acs, Mi, Ps, b. 88, Il prefetto sulla storia della politica in provincia di Gigenti, Girgenti, 14 ottobre 1926, p. 8. 119 L’avv. Molinari assieme all’avv. Puglia difendevano i Parlapiano Vella nel conflitto politico-giudiziario contro Abisso. Acs, Pcm, 1924, b. 3,1-1,1367, Il prefetto di Girgenti Reale al segretario del Pnf Francesco Giunta, Girgenti 11 dicembre 1923. 120 Acs, Pcm, 1924, b. 3,1-1,1367, Lettera firmata da Giuseppe Vaccaro, Ettore Sapio, Ignazio Fiore, Santi Bivona a S.E. Aldo Finzi, sottosegretario di Stato dell’Interno, Girgenti novembre 1923. 121 Acs, Mi, Ps, 1927-’28, b. 197, Il prefetto di Girgenti al capo del 116

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l’esecutore degli ordini di Abbisso e suo rappresentante in alcune operazioni finanziarie122. Alle accuse di abissinismo si sommarono altre più gravi che stigmatizzavano una gestione torbida del fondo da parte di alcuni dirigenti della cooperativa. Si trattava di rivelazioni già note alla direzione dell’Opera perché segnalate già nel febbraio del 1921, in seguito alle presunte irregolarità nella procedura del sorteggio dell’assegnazione delle quote. Questa volta, alcuni, dichiaratisi quotisti, denunciarono lo status coercitivo dei coloni nel fondo123. Come si ricorderà, l’Opera aveva lasciato la conduzione del fondo in affitto alla cooperativa che, a sua volta, concedeva in sub affitto le quote. Nel giugno (1923), l’Opera aveva notificato lo sfratto alla cooperativa comunicandole che nel mese di settembre avrebbe dovuto lasciare il fondo124. Da qui la corsa dei dirigenti all’acquisto ma, «col pretesto di raccogliere fondi per la compra dell’ex feudo […] impegna[va] no la vendita dei lotti […] ed [aveva]no tempo fa riscosso £ 300 per ogni quota di 3 tumuli di terreno»125. I dirigenti avrebbero, così, minacciato i coloni per mezzo delle guardie campestri municipali per costringerli a pagare 300 lire in più di quelli già richiesti. Quindi l’obbligo per le famiglie insolventi di lasciare il fondo, pena il sequestro della produzione. E se qualcuno «era tentato di portare i covoni fuori del feudo (del resto in pieno diritto di farlo) [era] stato poi con la forza obbligato a riportarlo nel feudo governo. Ricorso di Girolamo Coffari contro l’on. Angelo Abisso segretario politico dei Fasci di Agrigento, Girgenti 18 agosto 1927. 122 Nel 1923 ebbe il compito di salvare la cooperativa di Ribera dalla retrocessione dei feudi del duca. 123 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Lettera di alcuni soci della cooperativa “N. Colaianni” all’Ispettore dell’Onc in Sicilia, Menfi 30 giugno 1923. 124 Apfv, Copia dell’atto di congedo dell’Opera notificato alla cooperativa N. Colaianni di Menfi. 125 Acs, Onc, Sicilia, b. 1, f. 11, Lettera di alcuni soci della cooperativa “N. Colaianni” all’Ispettore dell’Onc in Sicilia, Menfi 30 giugno 1923.

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nuovamente o a sborsare le 300 lire angariamente richieste, o parte di tale somma»126. Le segnalazioni sulla gestione intimidatoria della cooperativa erano aggravate anche da una condizione di crisi generale della produzione del fondo che investiva quelle famiglie coloniche che possedevano appena una quota di pochi ettari a fronte di chi, invece, speculava col sub-affitto, o semplicemente aveva avuto assegnate più quote. Da circa due anni il feudo non riusciva a soddisfare il fabbisogno dei coltivatori e come essi stessi sostenevano: «minaccia[va] di diventare peggio, privo com’[era] d’indirizzo di regolare coltura e rotazione agraria»127. Secondo molti degli affittuari, la crisi era dovuta anche all’eccessivo frazionamento del terreno, ai metodi arretrati di conduzione e alla mancanza di mezzi di lavoro per i miglioramenti previsti nel piano di esproprio. Quest’ultima considerazione coincideva col punto di vista dei proprietari, i quali, non si sa se consapevolmente o strumentalmente, presentarono esposti a sostegno dei ricorsi e delle denunce dei firmatari. Sembrava che i denuncianti avevano a cuore l’interesse e il destino della proprietà del fondo, mentre i proprietari indossavano le vesti dei combattenti nell’interesse del coltivatore. Uno scambio di ruoli, una inversione delle parti che era la spia dei rapporti interclassisti che dominavano il mondo rurale siciliano e che solo l’appartenenza politica riusciva a rompere e a polarizzare in campi contrapposti. I diversi reclami giunti nella sede dell’ispettorato per sgominare l’«ibrido stuolo di lottisti dove [era]no più gli intermediari speculatori, che i combattenti coltivatori diretti», non potevano che aggiungere pressione ai dirigenti dell’Opera. Attraverso l’inchiesta i proprietari speravano 126 127

Ibid. Ibid.

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nel nuovo indirizzo del commissario dell’Onc128 che, per il momento, annunciava di voler approfondire il caso, auspicando la restituzione del fondo. 6.9 L’inchiesta dell’ispettorato L’inchiesta dell’ispettorato di Catania fu eseguita nei primi giorni di luglio del 1923. Fin da subito, i dirigenti della cooperativa, preoccupati per una restituzione delle terre ai proprietari, si rivolsero alle alte sfere del governo per mezzo di Michele Bianchi129. Quest’ultimo fatto fu denunciato dallo stesso avvocato Vassallo che esortava l’ispettore ad accertare la verità delle cose130. Nei locali della cooperativa l’ispettore interrogò i dirigenti, i firmatari delle denunce e i rappresentanti dei proprietari131. La relazione dell’inchiesta è molto interessante perché svela i rapporti di forza tra i diversi interessi in campo. Essa è composta da tre parti. La prima parte è dedicata all’indagine interna alla cooperativa dove furono menzionate le difficoltà organizzative già evidenziate nel 1921. Da un calcolo approssimativo era possibile stabilire un numero di 87 aderenti soci fondatori di cui 31 partecipavano al subaffitto e alla quotizzazione del fondo. Di questi, 19 erano combattenti, 5 smobilitati e 7 non combattenti132. Tutti gli altri 500 destinatari delle quote dovevano ancora regolarizzare la loro posizione, non avendo presentato la domanda di ammissione133. La seconda parte dell’inchiesta è quella più importante 128 Apfv, pro-memoria dell’avv.Vassallo per la chiesta restituzione del fondo Fiori. Menfi maggio-giugno 1923. 129 Apfv, Momorandum del sig.Varvaro, s.d. 130 Apfv, Pro-memoria dell’avv.Vassallo, s.d. 131 Acs, Sicilia, b. 1, f. 11, Inchiesta sulla cooperativa “Napoleone Colaiannni” di Menfi, Catania 7 luglio 1923, pp. 1-37. 132 Ivi, p. 4. 133 Ivi, p. 4 .

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perché si accertò la veridicità delle denunce. Nella relazione Di Stefano scrisse: mi sono state presentate da certo Ramo Giovanni accompagnato da Indelicato Giovanni e Alesi Gioacchino, guardiani e dipendenti dall’amministrazione Varvaro, ex proprietaria del fondo, tre denunzie scritte.134

Dall’indagine sul luogo emerse che tra i firmatari delle tre denunce, molti dei quali comparivano in tutti e tre i reclami, non erano né combattenti né quotisti e, fatto ancora più strano, neanche ex quotisti, che poi rinunciarono all’acquisto come lo stesso Giovanni Ramo. Tra i firmatari solo in pochi erano quotisti e combattenti. Tra questi, Carmelo Prinzivalle e Domenico Romeo che si erano «presentati separatamente e per affermare che altri si [era] servito abusivamente del loro nome, smentendo la denuncia, anzi il Romeo eccitato voleva farne oggetto di una querela»135. Non ultimo il caso di Antonino Marrone, ex combattente, quotista e consigliere comunale di maggioranza che pagò perfino il secondo acconto di prezzo e, quindi, non sembrò attendibile la denuncia in suo nome. Per questi motivi Di Stefano dedusse che le firme erano false. A riprova di ciò, c’erano casi in cui alcuni dei firmatari delle denunce non erano a conoscenza di aver apportato la firma o completamente analfabeti. Alla fine, i firmatari risultavano essere i guardiani e i coloni della striscia di terra retrocessa ai Varvaro e, quindi, i dipendenti dei proprietari. A questo punto dell’indagine, l’ispettore ipotizzò che i firmatari intesero agire in soccorso della proprietà. Pertanto, le lettere-denuncia erano state scritte da chi che era stato in qualche modo spinto ad agire nel suo stesso interesse perché, da ex quotista, aveva rinunciato al lotto per andare a lavorare alle dipendenze dei Varvaro, oppure era stato persuaso che prima o poi il fondo sarebbe ritornato ai le134

Ivi, p. 13.

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gittimi proprietari e quindi tanto valeva divulgare notizie allarmanti e indurre gli affittuari a non versare la quota. Questo era il punto qualificante dell’inchiesta perché rivelava il difficile contesto in cui era costretto ad agire l’Onc. Era evidente che attorno all’ipotesi di esproprio esisteva una coalizione di interessi avversa e organizzata. Alle resistenze dei proprietari si sommavano le persone che vivevano del feudo e sul feudo, nonché gli interessi di un ceto sociale descritto come “classi abbienti e civili” appartenenti al partito politico locale che era stato sconfitto dal «partito dei contadini e degli ex combattenti che si identifica[va] con la cooperativa»136. Fu questa coalizione avversa all’esproprio ad architettare l’apparato delle denuncie. La tempistica non fu causale, poiché proprio nell’estate del 1923 scadeva il contratto d’affitto alla cooperativa. Da parte proprietaria, quindi, fu sufficiente diffondere l’infondata notizia che l’Onc non avrebbe rinnovato l’affitto alla cooperativa come era accaduto a Ribera137, per creare un clima di ansia e di scoramento tra i quotisti. In tal modo, molti dei quotisti erano stati consigliati a rinunciare alla quota e a non versare alcuna somma in conto prezzo, perché prima o poi il fondo sarebbe retrocesso ai proprietari dal momento che nella «cooperativa si sperperava denaro, si rubava e si abusava»138. Questa alterazione della percezione dei fatti era emersa dalle interrogazioni dell’ispettore ai dipendenti dei fratelli Varvaro, ma anche ai numerosi quotisti che si avvicinavano a chiedere se dovevano versare il secondo conto d’acquisto, oppure ritirare il primo versamento in vista della “paventata” notizia della retrocessione del fondo139. Per Ivi, p. 14. Ivi, p. 7. 137 Ivi, p. 11. 138 Ivi, p. 35. 139 Ivi, pp. 11-12. 135 136

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tutta risposta Di Stefano consigliò loro di fronteggiare gli attacchi, ma non poteva esimersi dal concludere che In queste condizioni i quotisti meno abbienti, i più pavidi, hanno rifiut[ato] di versare l’anticipo o di completarne l’acconto già pagato. La cooperativa, pertanto, ha dovuto giustamente ricorrere alle minacce e ai mezzi coercitivi, di cui ad essa si vuol fare un grande addebito di prepotenza ed inganno verso i poveri quotisti. Si aggiunga poi la propaganda veramente efficace sulla incertezza del definitivo possesso della terra da parte dei quotisti anche in caso di concessione, a causa del diritto di riscatto che gli ex proprietari hanno fatto sapere costantemente di volere esercitare, per comprendere la defezione e lo abbandono di molte quote. Poiché è umano – concludeva Di Stefano – che nessuno potrà serenamente accingersi ad investire nella quota una somma di sforzi pecuniari e di lavoro in terra che egli detiene a titolo provvisorio e che difficilmente crede possa rimanere sua.140

L’inchiesta rilevò, quindi, che all’origine delle esclusioni volontarie dei quotisti non v’era il comportamento ostile della cooperativa, bensì l’azione di gabellotti, guardiani, semplici coloni, alle dipendenze degli amministratori dei fratelli Varvaro, per intralciare l’attribuzione definitiva del fondo. In merito al sorteggio, nessuna irregolarità fu accertata, né fu dimostrato che le quote abbandonate e incamerate dai dirigenti erano tra le migliori. Così i non combattenti beneficiari furono inclusi nel sorteggio man mano che le quote erano state abbandonate volontariamente. Si trattava, secondo l’inchiesta, di parenti di ex combattenti defunti. Simile provvedimento fu tollerato per i quotisti che non risultavano essere coltivatori diretti chi è che non sa che il carrettiere, il fabbroferraio, il muratore, e perfino il barbiere ed il sarto dei piccoli paesi rurali diventa per necessità o per opportunità anche contadino o comunque piccolo agricoltore diretto, non tralasciando di fare il mestiere?141 140 141

Ivi, pp. 34-35. Ivi, pp. 33.

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Al gruppo dirigente della cooperativa non gli si imputò alcun affare privato. A Volpe, ad esempio, non gli si rimproverò di aver tratto dai suoi incarichi professionali smodati guadagni. Anzi gli fu riconosciuta la modesta proprietà di «2.50 ettari (4 quote) del feudo espropriato, grazie al riconoscimento dei suoi paesani»142, e le benemerenze di organizzatore delle masse di contadini nei ruoli di consigliere provinciale, assessore comunale, presidente di cooperative, segretario comunale dei sindacati fascisti «e questa fu la base preponderante se non unica della sua attività». In questo modo, il regime volle mantenere solidi rapporti con una delle più forti organizzazioni politicocooperativistiche della Sicilia, capace di riscattare la condizione “dell’umile classe locale di contadini” contro “l’organizzazione padronale”. Infine, la terza parte dell’inchiesta riguardava lo stato del piano di trasformazione del fondo. Una volta distribuite le quote, l’Opera realizzò studi particolareggiati sulla trasformazione del fondo (vedi tab. 6.1). Per il momento l’Opera accettava che i pascoli non venissero trasformati, ma soltanto bonificati con semplice sistema di affossature superficiali. Secondo la tabella dovevano rimanere allo stato di seminativo e pascolo permanente solo 224 ettari, mentre tutto il resto avrebbe subito trasformazione fondiaria. Quanto alle accuse di inadempienza delle trasformazioni, quest’ultime furono smentite dal momento che per apposita clausola contrattuale era stato inibito alla cooperativa di apportare modificazione allo stato colturale del fondo. Tuttavia, ci furono casi in cui si realizzarono trasformazioni colturali con l’impianto di 16.200 vigneti per un totale di 20 mila lire di investimenti.

142

Ivi, p. 8.

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Tabella 6.1

6.10 L’alienazione del fondo e le resistenze corporative Il procedimento di denuncia dei proprietari nei confronti della cooperativa si concluse, inaspettatamente, mettendo a nudo l’esistenza di una fitta rete di legami tra i proprietari, i notabili locali e i contadini, che su base locale contrastava quella di Angelo Abisso e di Giuseppe Volpe. Nondimeno, la conclusione dell’inchiesta nel dicembre del 1923 coincise con l’abolizione del diritto di riscatto, sancito dal 2° regolamento legislativo dell’Opera. Questo provvedimento fu determinante nella partecipazione dei fratelli Varvaro alla nascita nel 1924 del «Consorzio tra i proprietari espropriati e i loro rappresentanti legali contro l’Onc», con sede a Roma presso la casa dei principi del Drago144. Si trattava di un raggruppamento di proprietari allo scopo di delineare una comune strategia di difesa contro le disposizioni legislative dell’Opera, dopo il fallimento delle azioni individuali, infrante contro ciò che essi dicevano essere «gli speciali privilegi concessi all’Opera»145. Ivi, p. 26. Apfv, Consorzio tra gli aventi diritto a terre espropriate o minacciate di esproprio da parte dell’Opera nazionale., lettera del comm. Giuseppe Santacroce all’avv. Vassallo, Roma 31 dicembre 1924, pp. 1-3. 145 Ivi, p. 1. 143 144

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In realtà, il consorzio nasceva, come abbiamo già ricordato, dall’esigenza di opporsi al nuovo decreto sull’abolizione del diritto di riscatto poiché aggravava la situazione e cancellava l’unico strumento per recuperare le terre. Anche se, sul diritto di riscatto, le posizioni dei proprietari non erano state coerenti. In un primo momento il riscatto non era stato accolto benevolmente perché aveva reso ridicolo il prezzo di indennizzo, ma quando fu abolito i proprietari non ne furono contenti anche se, a partire dal 1927, cominciarono ad acquistare le terre, precedentemente espropriate, per altre vie. Nel nostro caso la posizione dell’avv. Vassallo era, in linea di principio, per la difesa del diritto di riscatto. Del nuovo regolamento non si criticava solo l’abolizione dell’articolo ma la sua retroattività «non solo per le espropriazioni posteriori al decreto stesso, ma, contro ogni principio di logica, di diritto e di giustizia, anche per espropriazioni anteriori»146. Così, gli antichi proprietari si sarebbero trovati nella situazione «di dover subire tutti i torti dell’antica legge e tutti i danni della nuova»147, e cioè un prezzo irrisorio senza il rimedio del riscatto. E difatti, abolito tale diritto, i Varvaro chiesero di riconsiderare il prezzo nominale calcolato dal Collegio arbitrale centrale perché il valore del fondo, come era stato stabilito, era giustificato solo dalla clausola del riscatto che adesso non esisteva più148. Su questa linea difensiva i fratelli Varvaro intrapresero nuovi appelli civili presso il Tribunale di Roma, senza però riuscire mai a ottenere risultati significativi149. Tuttavia l’azione del Consorzio si tradusse solo in una 146 Apfv, Ai proprietari delle terre espropriate dall’Opera Nazionale pei Combattenti. Lettera di Vassallo ai proprietari del Consorzio, s.d. 147 Ibid. 148 Ibid. 149 Apfv, Istanza di appello dei Varvaro contro la sentenza del Tribunale di Roma del 18 luglio-9 agosto 1922, Roma 18 marzo 1924; e anche Sentenza della Corte d’appello di Roma sull’istanza dei Varvaro del 18 marzo 1924, Roma 23 novembre 1924 e nuova sentenza 11 febbraio 1925, in Apfv, Promemoria Varvaro, Roma 27 maggio 1924.

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fase più intensa dell’ostruzionismo legale degli avvocati. Leggendo i nomi dei partecipanti, molti di essi appartenevano alla grande proprietà terriera del Lazio, della Basilicata e della Sicilia. Inoltre, il consorzio assumeva una logica che non disdegnava di far uso delle connessioni con la politica per raggiungere gli obiettivi di interesse corporativo. In Sicilia, del resto, il Consorzio non era la prima forma di resistenza corporativa degli interessi dei proprietari terrieri. La nascita del Partito agrario siciliano, nel 1920, può far ipotizzare l’idea di una convergenza di interessi di lunga durata contro l’azione dell’Onc150. Tuttavia, dal 1925 in poi, a incidere maggiormente sulle varie retrocessioni ai proprietari non furono le pressioni del blocco corporativo, bensì la nuova scelta del regime di concentrare le risorse nella realizzazione della bonifica dell’Agro pontino. Abolito il diritto di riscatto, molti dei rapporti cordiali precedentemente istaurati tra i funzionari dell’Opera e i proprietari mutarono. Nel rinnovato clima Angelo Abisso agì presso il ministero degli Interni (Finzi) per sollecitare l’Opera alla definizione del prezzo del fondo a favore della cooperativa151. La fiducia verso Abisso e nei riguardi del governo, protagonista dell’abolizione del riscatto, indusse i dirigenti a firmare, nel gennaio del 1924, il passaggio di proprietà del fondo, che avrebbe avuto effetto completo solo quando la cooperativa avrebbe pagato l’intero prezzo152. Per i proprietari ciò era l’ennesima prova che l’Abisso nutriva interessi affaristici dal momento che il fondo era «mal coltivato, una parte [...] abbandonata e la cooperativa per poter raccogliere il denaro necessario al pagamento del prezzo di acquisto Apfv, L’Opera Nazionale dei Combattenti, in «Bollettino della Confederazione dell’Agricoltura Siciliana», Organo del Partito agrario siciliano e della Società degli agricoltori siciliani, 6-9, II, lugliosettembre 1921. 151 Apfv, Memorandum avv.Vassallo, s.d. 152 Apfv, Atto di vendita dell’ex feudo Fiori tral’Opera nazionale combattenti e la cooperativa Napoleone Colaianni, Roma 26 gennaio 1924. 150

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[aveva] trattato la vendita di una parte dei terreni pascolativi che secondo la perizia, per giustificare l’espropria, [avrebbero dovuto] essere trasformati a coltura arborea»153. Il pagamento doveva essere effettuato in 5 rate dal 1924 al 1928 comprensive del 5% di interessi. In tale lasso di tempo il fondo fu concesso con contratti di utenza a miglioria con diritto di acquisto. Così, la cooperativa, se voleva acquistare il fondo, era obbligata a eseguire a proprie spese tutte le trasformazioni colturali e i miglioramenti previsti nell’ordinanza di attribuzione, consistenti nell’obbligo di adottare una coltura avvicendata, l’impianto di colture arboree e arbustive specializzate e di colture ortive dove era possibile l’irrigazione154. Oltre a ciò l’Onc obbligava la cooperativa di assicurare al concessionario un prodotto sufficiente per il sostentamento familiare e di vietare qualsiasi forma di sub concessione delle quote loro assegnate prima dei 10 anni155. 6.11 Una vittoria fascista? L’atto di promessa di vendita rappresentò il prologo di una vicenda che si risolse a vantaggio dei quotisti. La cooperativa ne uscì anch’essa rafforzata e, a differenza di quanto accadde in altre zone della Sicilia, non subì l’opposizione del regime. Viceversa, ricevette gli elogi dal governo per il conseguimento dei risultati sociali della sua azione agraria. Lo dimostra il corposo memoriale difensivo presentato dai Varvaro nel gennaio 1925 alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ancora una volta i proprietari contestavano il primato dei regolamenti dell’Onc rispetto Ibid. Apfv, Piano di trasformazione allegato all’atto di vendita, Roma 26 gennaio 1924. 155 Ibid. 153 154

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alle normative della giustizia ordinaria, e finivano per reclamare vivacemente: la persistente inadempienza dell’Opera cui torna molto comodo se non pur necessario non pagare il prezzo, godersi il fondo e non trasformarlo. Frustrando il riscatto, a coronamento di tanta opera, essa fa di tutto per impedire l’invocato intervento del magistrato ordinario, il che abbiamo fede, non le sarà consentito.156

Ma l’appello Varvaro si rivelò quasi inascoltato dagli alti gerarchi fascisti: In merito alla premure da te fattemi, ti avviso che la Presidenza del Consiglio dei Ministri, da me interessata per la questione dell’ex feudo “Fiori”, mi ha comunicato che sul memoriale dei sig. Varvaro si è dovuto richiedere all’Onc qualche chiarimento. Allo stato delle cose, non può darsi però alcun affidamento circa la possibilità di restituzione del feudo e di aumento del prezzo.157

Per il regime fascista, l’azione dell’Opera a Menfi, sia pur con le difficoltà imputabili alle resistenze dei proprietari e alle lotte politico-locali, assumeva i contorni di un discreto successo. Se allo scadere del 1928 la transizione di vendita alla cooperativa avrebbe avuto un esito positivo, il regime si sarebbe vantato di aver sconfitto la piaga del latifondo in Sicilia. Nel quinquennio 1924-1928 i quotisti, spinti dalla volontà di riscattare le quote, impiegarono i risparmi nelle opere di bonifica, per le quali nessun contributo era stato richiesto. La difficoltà finanziaria dei coltivatori già dopo il primo anno di attività fu superata grazie alla mediazione dell’Opera presso il Banco di Sicilia. Nel 1926 l’istituto bancario siciliano concedeva una cedola fiduciaria di 600 mila Apfv, Memoria difensiva dei sig.Varvaro contro l’Opera nazionale combattenti, Roma 15 gennaio 1925, pp. 1-28, in particolare, p. 28. 157 Apfv, Missiva del ministro Federzoni all’avv. Enrico Parisi, Roma 9 settembre 1925. 156

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lire per la costituzione di una cassa agraria da affiancarsi alla cooperativa. La sua attività si concentrò nella concessione di prestiti per l’acquisto di sementi e fertilizzanti158. Con l’acquisto si formò una classe di piccoli proprietari ma si ebbero anche casi di rivendite. L’abbandono dei quotisti spinse la cooperativa nel giugno del 1928 a cambiare lo statuto sociale in modo da stipulare l’atto definitivo d’acquisto e autorizzare l’Onc a vendere direttamente ai singoli soci massima parte del fondo già quotizzato159. Nell’occasione Volpe scandì parole solenni: Ancora pochi giorni e poi coloro i quali hanno cercato sempre di portare la discordia fra voi, umili lavoratori della terra, ma disciplinati e compatti dovranno ancora una volta persuadersi che per loro non esiste speranza alcuna.160

In realtà, come vedremo, la composizione sociale della cooperativa, con la vendita individuale sarebbe mutata di molto, e chi si apprestava a comprare la quota non era certo l’umile lavoratore della terra o il nullatenente. Pochi mesi dopo la scadenza del contratto sarebbe scattata la verifica dei lavori eseguiti nel fondo, pena la decadenza del diritto di acquisto definitivo161. A termine del sopralluogo l’ispettorato riconobbe l’impegno della cooperativa nel realizzare, in buona percentuale, il piano di miglioramento prescritto dall’Opera. Il fondo era stato diviso in 585 quote di poco meno di un ettaro l’una. La parte rimanente del fondo, circa 64 ettari di terre acquitrinose, fu prosciugata dalla cooperativa che contribuì al riRealizzazioni cooperativistiche in Sicilia, in «Giornale di Sicilia», 15 maggio 1932. 159 Acs, Sicilia, b. 1, f. 11, Verbale dell’assemblea dei soci della cooperativa “Napoleone Colaianni”, Menfi 5 giugno 1928. 160 Ibid. 161 Acs, Sicilia, b. 1, f. 11, Verbale di verifica delle condizione del fondo “Fiori”, Menfi 5 dicembre 1928. 158

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assetto idrico del circondario. Il prosciugamento secondo le relazioni tecniche era stato ottenuto secondo il piano di trasformazione, tramite una rete di fossi di scolo di circa 7.000 metri162. Un risultato importante per l’ispettore fu: «il dissodamento con mezzi meccanici in modo da restituire quelle terre alla produzione»163. La coltura dominante rimaneva quella cerealicola in alternanza con quella leguminosa da seme e da foraggio (fava e sulla). Tuttavia, fu introdotta anche una discreta varietà colturale, come gli ortaggi sia irrigui sia asciutti (carciofo, pomodoro, cavolfiore, melenzane), e la vite consociata a fruttiferi diversi (mandorli, ulivi, peri, meli). I vigneti furono estesi su circa 9 ettari, le terre coltivate a carciofi su 29 ettari. Nella zona acquitrinosa, vi si coltivarono il pomodoro e il cavolfiore, potendo ricevere il beneficio dell’irrigazione. Ciò che si era realizzato a Menfi fu una pianificazione sull’asse bonifica-irrigazione e, subordinatamente, la trasformazione colturale. Quest’ultima azione fu tra i risultati più acclamati, anche perché condusse, malgrado la riduzione dei prezzi, a un aumento diversificato della produzione e quindi a un maggiore benessere dei coltivatori. Ma, senza le opere di bonifica e soprattutto senza l’utilizzo disciplinato dell’acqua, non si sarebbe potuto trasformare nemmeno un ettaro di terra paludosa. L’intenso lavoro idraulico fu sottolineato anche da Giovanni Lorenzoni nel suo viaggio in Sicilia nel 1933: Il più bel trionfo dei contadini lo troviamo nelle zone basse, irrigue. Ove prima erano “margi” ossia terreni incolti o acquitrinosi, sono ora vigneti intercalati con alberi da frutto, carciofeti e pomodori.164

162 Acs, Sicilia, b. 1, f. 11, Verbale di verifica delle condizione del fondo “Fiori”, Menfi 5 dicembre 1928, p. 3. 163 Ibid. 164 Lorenzoni, Dal diario di viaggio di un sociologo rurale cit., pp. 31-32.

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Capitolo 6

Similmente, si sentì rispondere da uno dei quotisti: guardate voscenza, qua ci stanno 800 viti, tutte piantate da me e qualche dozzina di alberi da frutto e carciofeto. Quando io presi il terreno non v’era nulla: eran dei margi incolti come quelli che vedete nel feudo vicino, non ancora quotizzato.165

Ma se Lorenzoni sottolineava l’impresa tecnico-agraria, il regime fascista, viceversa, avrebbe enfatizzato l’azione sociale dell’opera di trasformazione, mettendo in evidenza l’alto spirito di sacrificio individuale dei quotisti, sorretti da altrettanti valenti dirigenti della cooperativa166. Le trasformazioni agrarie del feudo “Fiori” sarebbero state considerate dal regime, non solo il risultato di un intenso lavoro di bonifica collettiva, ma soprattutto un tipico esempio di trasformazione agrario-fondiaria, felicemente compiuta mediante il frazionamento del latifondo in piccole proprietà terriere167. Il regime celebrava la redenzione del latifondo attraverso l’azione della piccola proprietà. L’ideale di una modernizzazione autoritaria della campagna soppiantava la considerazione agli elementi tecnici della trasformazione. Così, si divulgava una tipologia di contadino “menfitano” legato alla caratteristica del regime fondiario, dove la proprietà era stata quasi tutta frazionata. Ma ben presto il fondo subì, come accennato, anche una trasformazione del regime di proprietà. Una volta acquistato dalla cooperativa per una somma di 1.200.000 lire, esso fu rivenduto ai singoli soci e quotisti. La crisi dei prezzi dei prodotti agricoli sul finire degli anni Venti provò duramente la classe di questi piccoli proprietari, specie di quelli che avevano dovuto ricorrere al credito. E di seguito, anche la Ibid. Realizzazioni cooperativistiche in Sicilia, in «Giornale di Sicilia», 15 maggio 1932. 167 Quotizzazioni di terre in Sicilia cit., p. 26. 165 166

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congiuntura sfavorevole degli anni Trenta causò la rivendita di queste piccolissime proprietà. I nuovi acquirenti erano generalmente benestanti, artigiani e contadini abbienti che non praticavano la conduzione diretta delle quote. Quindi, nonostante la propaganda celebrativa fascista delle realizzazione “rurali” e gli elogi del ministro dell’Agricoltura Acerbo al “patriota e fascista” Giuseppe Volpe168, uno studio dell’Inea fotografava una realtà più articolata di quella del mezzadro e del colono stabile nel fondo169. Alla fine di ogni annata agraria la media delle famiglie riusciva a coltivare in tutto circa 6.75 ettari di terra e con rapporti contrattuali dei più svariati dal momento che, come affermava un contadino, «mò, i prezzi sono diminuiti, ma ho più prodotti; però per campare devo lavorare assai»170. Durante il fascismo, l’attenzione alle dinamiche della valorizzazione della crescita della piccola proprietà e ai temi della colonizzazione della campagna legata al mito del risanamento sociale, si scontrò con le congiunture economiche assai penalizzanti. Ciò nonostante, l’inalterato regime di proprietà e di conduzione, i miglioramenti introdotti dal lavoro instabile di molti quotisti proprietari e di quelli saltuari dei mezzadri, uniti alle bonifiche introdotte dall’Onc avrebbero sortito, nel lungo periodo, il loro effetto benefico.

Realizzazioni cooperativistiche in Sicilia, in «Giornale di Sicilia», 15 maggio 1932. Giuseppe Volpe fu poi nominato delegato provinciale dell’ente nazionale della cooperazione per le provincie di Agrigento e Trapani. 169 Inea, Monografie di famiglie agricole. IX Contadini siciliani cit., pp. 149-150. 170 Lorenzoni, Dal diario di viaggio di un sociologo rurale cit., p. 32 168

7.1 Assonanze conclusive

7.1 Altri successi e insuccessi A Salemi, l’ex feudo Mokarta, con i suoi 750 ettari di estensione, era il più grande fondo della provincia di Trapani. Nel 1919 le uniche piantagioni erano la fava, la sulla e tutto il resto grano. Pur essendo abbondante di acqua, e tutta “acqua potabilissima”1, il disordine idrogeologico del suolo, con «le acque, che sgorga[va]no, disperdendosi inutilizzate», provocava ampie zone infestate dalla malaria. E anche se erano stati adottati miglioramenti con l’utilizzo di concimi chimici, non possedeva delle moderne rotazioni razionali.2 Il fondo era di proprietà del Collegio di Maria di Monreale e preso in affitto fin dal 1906 dalla cooperativa “Agricola” di Salemi3 di ispirazione socialista. Nel 1913, la cooperativa, forte di circa 200 soci chiedeva e otteneva il rinnovo del contratto fino al 1925. L’interesse per il feudo Mokarta anticipò di poco l’impianto dell’ispettorato in Sicilia. Precisamente, nell’estate del 1919, l’Onc raccolse informazioni sul latifondo, e dal momento che si trattava di un terreno produttivo, prevalAcs, Onc, Sicilia, relazione sull’ex feudo Mokarta, giugno 1919, b. 37, f. 17. 2 Inchiesta Parlamentare sulle condizione dei contadini meridionali, Sicilia, vol. VI, t. I, parte II, p. 448. 3 La cooperativa era stata fondata nel 1904 e faceva parte del fitto tessuto delle affittanze collettive che godeva della legge Sonnino sul credito agrario, in Acs, Onc, Sicilia, b. 37, f. 15. 1

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sero le ragioni dell’esproprio e di un intervento che potesse bonificare e trasformare le colture esistenti. L’Opera presentò domanda di acquisizione nel settembre del 1919, ma sul caso scoppiò uno scandalo. L’anno prima la proprietà aveva deciso di vendere il fondo per trattativa privata e guadagnarci sul prezzo che, da 750.000 lire del 1917, raddoppiò nel 1918. Le potenzialità produttive del fondo avevano convinto alcuni privati a formalizzare l’offerta di acquisto tra cui il direttore della cooperativa “Agricola”, Alberto Giacomazzi Mistretta, già locataria dell’ex feudo, che offrì la somma più alta di 1.400.000 lire. Ma l’operazione finanziaria al momento di essere conclusa fu bloccata: pare che della cosa si sia interessata la politica locale, perché la cooperativa di Salemi […] è socialista e contraria al deputato del collegio di Salemi [Lo Presti] e quindi [pare che] questi si sia interessato a fare intervenire l’Associazione Combattenti, per impedire l’acquisto alla cooperativa.4

L’asta fu congedata e la proprietà accettò il prezzo di 1.350.00 offerto dall’associazione dei combattenti di Salemi, sbaragliando la concorrenza socialista5. Il 22 dicembre 1919 il Collegio centrale arbitrale ordinava il passaggio del fondo al patrimonio dell’Onc. La proprietà si oppose, motivando che il contratto di affitto con la cooperativa “Agricola” era inestinguibile, pertanto la suddivisione in lotti poteva avvenire solamente alla scadenza dell’affitto. Tuttavia il 30 marzo 1920 il Collegio centrale arbitrale confermava il trasferimento all’Onc, respingendo il ricorso del Collegio di Maria. Le trasformazioni maggiori prevedevano la raccolta Sullo scandalo dell’ex feudo Mokarta, in «L’Ora», Palermo 15-16 luglio 1919; e ancora gli articoli comparsi sempre sul quotidiano palermitano il 16-17 luglio, 24-25 luglio, 25-26 luglio, e 25-27 luglio. 5 Ibid. 4

Assonanze conclusive

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delle acque e la viabilità interna che dovevano essere eseguite dall’Opera. Solo dopo queste trasformazioni il fondo sarebbe stato suddiviso in diversi appezzamenti di estensione variabile6. Nel frattempo, l’intervento dell’Onc, aveva incoraggiato la formazione di una cooperativa combattentista, “La combattente”, istituita qualche giorno prima della sentenza di trasferimento. I fondatori e i dirigenti della cooperativa erano anche i rappresentanti del partito di maggioranza municipale7 e della locale sezione del combattenti. Verosimilmente, la costituzione della cooperativa era stata caldeggiata dall’Opera stessa per avere un interlocutore privilegiato nella trasformazione del latifondo. Tra l’altro, Di Stefano, in una lettera inviata all’Onc, aveva chiesto di sciogliere il contratto di affitto della cooperativa “Agricola” e di stipularne uno nuovo con “La combattente”. Si profilava un braccio di ferro tra le due cooperative. In gioco v’era il controllo della principale risorsa locale, gli equilibri delle forze politiche. Nell’estate del 1920 la cooperativa socialista respinse l’accordo proposto dall’Onc che prevedeva la compartecipazione alla gestione del fondo. Essa riuscì a condurre l’ex feudo Mokarta fino all’agosto del 1925, nonostante Di Stefano le chiedesse di «riconsegnare bonariamente prima della scadenza il fondo all’Opera»8. Nel settembre 1924 la cooperativa “Agricola”, fece un ultimo tentativo per aggiudicarsi il latifondo, cercando di convincere l’Onc che: 6 Acs, Onc, Sicilia, relazione sull’ex feudo Mokarta, giugno 1919, b. 37, f. 17. 7 Il presidente de “La Combattenti” era l’avvocato Giovanni Passalacqua, assessore nell’amministrazione comunale di Salemi, guidata dal sindaco avv. Baldassarre Lo Presti, massimo esponente locale del partito radicale, il quale restò in carica dal 1910 al dicembre del 1923, quando l’amministrazione fu sciolta dal regime fascista. 8 Acs, Onc, Sicilia, b. 36 f. 11, Lettera di Di Stefano al Presidente della Cooperativa Agricola, Catania 26 agosto 1921.

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La cooperativa “La Combattente” non potrebbe rispondere allo scopo così come la nostra Cooperativa, perché di nuova formazione pur contando circa 500 soci; essi non sono tutti agricoltori, né tutti combattenti, essendo una cooperativa a forma mista. La stessa, si può dire, non funzioni; non ha terre in affitto, né lavori in corso. […] I migliori elementi e più capaci a mantenere in attività la Cooperativa si sono allontanati o disinteressati ed essa pertanto resta in balia della delinquenza.9

Forse l’“Agricola” avrebbe dato maggiori garanzie rispetto a “La combattente”, anche perché sembrava essere in linea con le finalità e gli interessi dell’Onc, che nulla avrebbe potuto obiettare, visto che sarebbero stati tutelati perfino gli interessi di tutti i soci ex combattenti di entrambe le cooperative. Tuttavia Di Stefano preferì rispettare il patto col gruppo dirigente locale: noi siamo troppo impegnati con la precedente Cooperativa richiedente la quale, pur non affidando molto sulla sua organizzazione, è ufficialmente la Cooperativa locale degli ex combattenti. Non credo, per tanto, prudente e possibile allo stato delle cose negare ad essa la concessione convenuta e concederla ad altra cooperativa sia pure in condizioni di maggiore convenienza e garanzia per gli interessi dei singoli ex combattenti e per i fini dell’Opera stessa.10

Il fondo sarebbe stato ceduto alla cooperativa di combattenti il 16 dicembre 1924. Il 9 ottobre 1925 l’ispettorato procedette alla quotizzazione del fondo che fu diviso in 345 lotti. Ma già il 13 ottobre veniva spedito all’Onc un memoriale firmato da un comitato di agitazione in cui si denunciavano le procedure poco trasparenti nell’assegnazione delle quote: Tra i concorrenti e anche tra i dirigenti […] vi sono alquanti pregiudicati, che costantemente, ed a vergogna di un paese civile, hanAcs, Onc, Sicilia, b. 36 f. 13, Lettera del Presidente della cooperativa Agricola alla Direzione Generale dell’Onc, Salemi 4 settembre 1924. 10 Acs, Onc, Sicilia, b. 36, f. 11, Lettera di Di Stefano all’Onc, Catania 25 ottobre 1924. 9

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no portato sempre in seno alla Cooperativa la nota della violenza, caratteristica della mafia.11

I componenti del comitato di agitazione insistevano perché agli usurpatori fosse tolta la terra, evitando però di indicare «quali fossero i circa 30 non degni»12. La protesta fu sostenuta dal segretario del Pnf locale, il quale invitava Di Stefano a intervenire «con i mezzi di cui dispone[va], per sanare eventuali ingiustizie e per calmare gli animi già eccitati dei reclamanti»13. Per tutto ciò, nel gennaio del 1926, scattò l’inchiesta dell’Onc la quale accertò, contrariamente ai dati che aveva trasmesso la cooperativa, che dei 337 quotisti, 210 erano combattenti, 109 non lo erano. La relazione dell’ispettorato svelò anche gli interessi delle fazioni attorno alla questione della quotizzazione: uno scontro dentro al fascismo tra il fiduciario locale, appoggiato dal deputato ex nasiano Giuseppe Rubino che aveva a Salemi una sua roccaforte elettorale, e il presidente della cooperativa fascistizzata, appoggiato dall’on. Lo Presti, fratello dell’ex sindaco che aveva guidato il trasferimento del fondo alla cooperativa “La Combattenti”. Alla fine le parti stabilirono una tregua dove si sarebbe ottenuto dal Prefetto lo scioglimento del Consiglio di Amministrazione della Cooperativa e la nomina di un triunvirato, si sarebbero indette subito dopo le elezioni amministrative; a elezioni avvenute si sarebbe fatta cessare la agitazione per le terre di Mokarta, lasciando lo “stato quo”. All’Opera si faceva quindi preghiera di non emettere alcun provvedimento sulla quotizzazione fino a tali elezioni amministrative.14 11 Acs, Onc, Sicilia, b. 37, f. 17, Copia memoriale del comitato di agitazione, Salemi13 ottobre 1925. 12 Acs, Onc, Sicilia, b. 38, f. 18, Relazione del funzionario Salvatore Miceli a Di Stefano, Catania 5 novembre 1925. 13 Acs, Onc, Sicilia, b. 37, f. 17, Lettera del Segretario politico del Fascio di Salemi Mario Scurto a Di Stefano, Salemi 14 ottobre 1925. 14 Acs, Onc, Sicilia, b. 38, f. 18, Relazione del funzionario Salvatore Miceli a Di Stefano, Catania 5 novembre 1925.

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Essenzialmente, le quotazioni politiche di Giuseppe Rubino erano calate a causa dello scontro col prefetto Mori cui «subentrò nelle simpatie del Fascio locale l’ex on. le Lo Presti da Salemi»15, ma risalirono nuovamente quando Mori fu trasferito nel 1925. In seguito, la tattica attendista del nuovo prefetto provocò l’accordo per la scalata alla cooperativa, mista di “loprestiani” e “rubiniani”. Nella relazione del funzionario dell’ispettorato, Miceli concludeva che per i 30 famosi quotisti non contadini o non combattenti, i fratelli Lo Presti, capi del partito, riconoscevano nelle conversazioni private il titolo secondo equità, se non secondo giustizia, a trattenere la quota loro sorteggiata, bene ricordando che se essi [gli avversari] non avessero consentito..., molto probabilmente sarebbe stato perduto per tutti i combattenti di Salemi il beneficio dell’esproprio di Mokarta.16

Alla fine il comitato di protesta svelò i nomi dei quotisti indiziati. Tra essi comparivano disertori, operai, professionisti, e pregiudicati per associazione a delinquere e ritenuti capi delle delinquenza locale e della mafia provinciale17. Nelle conclusioni dell’inchiesta Di Stefano confermò la regolarità del sorteggio delle quote e per gli assegnatari indicati come pregiudicati, pur ritenendo validi gli accertamenti del commissariato locale di Publica sicurezza, affermò che «siccome […] godono in atto tutti i diritti civili di ogni cittadino non si vede come li si [sarebbe potuti] legalmente escludere da un loro incontrastabile diritto all’acquisto di una quota di terreno»18. Quindi, concedeva il via libera all’approvazione della quotizzazione in 354 lotti. Il 25 maggio 1928, la cooperativa inviò l’elenco completo dei miglioramenti apportati dai quotisti. Secondo tali Ibid. Ibid. 17 Acs, Onc, Sicilia, b. 37, f. 17, Lettera del Commissariato di P.S. di Salemi all’Ispettorato Onc di Catania, Salemi 16 dicembre 1925. 18 Ibid. 15 16

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dati, quasi un terzo aveva svolto modifiche al proprio terreno. La totalità di quest’ultime interessarono l’impianto di viti, frutteti e le opere di bonifica idraulica; fu incrementata la produzione granaria e la costruzione di fabbricati. Più in breve la vicenda del fondo Gaddimi, esteso su 490 ettari nel territorio di Sciacca in provincia di Agrigento. L’ex feudo di proprietà dei baroni d’Ondes, era stato affittato a due gabellotti locali fino alla scadenza del 1924. Le attività produttive erano il pascolo, la coltivazione del grano con una produzione di 8 quintali, limitate piantagioni di leguminose, cotone e uno scarso arredo di fabbricati19. Il fondo era stato richiesto dalla cooperativa agricola “Luigi Luzzati”, sorta dall’iniziativa di una sessantina di soci benestanti del paese per appoggiare il candidato locale Angelo Abisso nelle elezioni politiche del 1913, ma che fino al 1919, complice la guerra, non aveva svolto alcuna attività di rilievo ed era “nata morta” come sosteneva il suo segretario20. L’Opera nel gennaio del 1920 avanzò la richiesta di attribuzione del fondo che fu accordata dalla sentenza del Collegio arbitrale centrale nel giugno dello stesso anno, dando il via libera al piano dei lavori della relazione [dell’Onc] allegata alla richiesta, dimostrando che in tale piano [era]no state contemplate tutte le esigenze per una razionale ed importante trasformazione delle colture del fondo, dello stato primordiale di terreno in gran parte pascolativo, sfornito di alberi, di acqua, e di canali di scolo al dissodamento […] dell’impianto di vigne, oliveti e frutteti per opere dei futuri quotisti.21

19 Acs, Onc, Sicilia, b. 3 Relazione del fondo gaddimi, Catania 22 gennaio 1920. 20 Acs, Onc, Sicilia, b. 3, Relazione sulla cooperativa combattenti di Sciacca, s.d. 21 Acs, Onc, Sicilia, b. 3, Ordinanza del collegio arbitrale centrale di attribuzione del feudo Gaddimi all’Onc, Roma 10 giugno 1920.

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Per ottenere i vantaggi dell’Opera22, la cooperativa “Luzzati” smise di funzionare da ente concessionario. Nel frattempo, nel dicembre del 1920, si era istituita una cooperativa agricola di produzione, lavoro e consumo fra ex combattenti, dove si trasferirono i soci della Luzzatti. L’Opera, ottenuto il fondo, non seppe, all’inizio, a chi concederlo, poiché la cooperativa che lo aveva richiesto non lo poteva avere in concessione. Pertanto, cedette l’affitto temporaneo per l’uso ordinario della coltura e senza alcun miglioramento alla nuova cooperativa. Ma la quotizzazione provvisoria, nelle intenzioni dell’Onc, non doveva essere una garanzia per quella definitiva. Peraltro, nel dubbio che il contratto non sarebbe stato rinnovato, la cooperativa non s’impegnò di attuare alcun lavoro di miglioria poiché avrebbe comportato una spesa aggiuntiva. Secondo l’ispettore la nuova cooperativa, dal lato formale, aveva le carte in regola, specie in confronto a tante altre esperienze del genere, ma difettava nell’esplicazione tecnica e pratica. Di consenguenza, egli spinse la cooperativa a realizzare quel minimo di condizioni richieste dall’Opera per la concessione definitiva del fondo, specie per l’acconto sul prezzo in garanzia dell’acquisto e la dimostrazione della qualifica dei soci. Ebbene nessuna cooperativa quanto questa è stata più sorda agli inviti reiterati, più noncurante, anche in certo senso così irriguardosa da non tenere in alcun conto le proteste e le diffide di questo Ispettorato.23

Nello stato di provvisorietà, non potevano che emergere le solite denunce di quei soci che lamentavano le ma22 Acs, Onc, Sicilia, b. 3, Lettera del presidente della Luigi Luzzati all’Onc, 7 luglio 1920. 23 Acs, Onc, Sicilia, b.3, Relazione della ispezione eseguita il 13-16 luglio 1923 sulla cooperativa fra combattenti di Sciacca, Catania 20 luglio 1923, p. 15.

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novre oscure dei dirigenti per avvantaggiare non meglio identificati – come si legge nella relazione – soggetti terzi, in modo che l’Opera poteva essere indotta a non rinnovare la concessione e a retrocedere le terre agli ex proprietari. A quel punto, l’Opera si impegnò direttamente di migliorare il fondo facendo simultaneamente contratti di concessione coi singoli aspiranti. ovvero […] offrendo in gara con libera scelta ad enti locali o a privati l’assunzione dell’attuazione pratica del contratto di concessione verso i singoli alle condizioni ben specificate, mercè un compromesso per spese e rischi di equa percentuale.24

Qualora né la concessione diretta ai contadini, né quella mediata da enti fosse stata possibile, l’Onc avrebbe assunto, temporaneamente, la conduzione diretta del fondo. Per scongiurare la retrocessione, l’ispettore incontrò pubblicamente i soci della cooperativa che si dichiararono disposti a pagare il canone di affitto delle singole quote. La concessione a privati, previo sorteggio nel novembre del 1924 di 216 lotti di 1 e 3 ettari25, interessò soprattutto piccoli agricoltori, possidenti e affittuari. Ma appena un anno dopo, nel 1925, la cooperativa cambiò pelle e si ripresentò come candidata all’acquisizione definitiva del fondo. In realtà era stata costituita una nuova cooperativa nel 1923 col nome di Cooperativa agraria fra ex combattenti, dove «una discreta quantità di soci della cooperativa in esame appart[eneva] pure all’altra cooperativa locale preesistente»26. In pratica erano gli stessi concessionari dell’affitto diretto che, per ottenere velocemente la concessione definitiva del fondo, utilizzarono una Ivi, p. 19. Acs, Onc, Sicilia, b. 3, Sorteggio quote del fondo “Gaddimi”, Sciacca 16 novembre 1924. 26 Acs, Onc, Sicilia, b. 3, Relazione sulla cooperativa agraria fra ex combattenti di Sciacca, Catania 16 settembre 1924. 24 25

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nuova cooperativa dal momento che, come essi dicevano, similmente a quanto era già accaduto nel 1920, non erano stati tutelati i loro interessi da quella precedente. Tuttavia le cose non stavano esattamente così. La decisione di istituire una nuova cooperativa non fu dettata dall’iniziativa di qualche concessionario poco rassicurato dalle inadempienze delle passate cooperative. Su questa operazione aveva messo il cappello l’identico gruppo dirigente dell’élite politico-amministrativa locale che aveva fondato la prima cooperativa e che adesso prendeva nuovamente il comando delle operazioni finanziarie. Lo dimostra il fatto che, il menfitano già a noi noto, Giuseppe Volpe, fiduciario della vasta rete di cooperative di Angelo Abisso tra Sciacca, Menfi e Ribera, fu incaricato a versare l’anticipo all’Opera. Nel 1925 l’Onc decise di concedere alla cooperativa un contratto di utenza a miglioria con diritto di acquisto. Il fondo, interamente quotizzato, subì importanti lavori di dissodamento e di terrazzamento27 che diede i suoi frutti lungo gli anni Trenta, restituendo maggiore terra coltivabile e attenuando le difficili condizioni di lavoro. A tal fine, furono ricavati pozzi d’acqua, costruite nuove strade interpoderali, edificati fabbricati e borghi rurali con annesse delle scuole28 e messi a coltura 5.126 ulivi, 7.185 mandorli, 7.000 viti e 6.320 frutteti. Infine, ci spostiamo nella zona orientale delle pianura catanese, e più precisamente nel territorio di Militello. L’ex feudo Francello era un demanio comunale di 630 ettari, 2/3 era tenuto a pascolo, il resto a seminativo. Fin dai primi del Novecento, tra il Comune e la locale cooperativa dei socialisti, s’era aperta una questione sulla demanialità o meno del fondo a causa di diritti d’usi civici Acs, Onc, Sicilia, b. 3, Relazione dei lavori fatti e miglioramenti apportati al feudo “Gaddimi” da parte della cooperativa Agricola fra combattenti, Sciacca 6 agosto 1927. 28 Lorenzoni, Dal diario di viaggio di un sociologo rurale cit., p. 40. 27

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che sarebbero gravati su di esso29. Alla fine era stata proclamata la demanialità con ordinanza del 1909 del commissario prefettizio30. In seguito, le amministrazioni succedutesi fino al primo dopoguerra, avevano sostenuto chi la demanialità e chi la patrimonialità del fondo. Quest’ultima opzione era stata spalleggiata nel 1919 dall’amministrazione guidata da radicali ed ex combattenti. Quest’ultimi si resero protagonisti di una intensa lotta per ottenere l’affitto o la vendita del demanio comunale. Nel 1920 si costituì la cooperativa combattenti di Militello, emanazione della locale sezione dell’Anc. E nell’estate dello stesso anno la cooperativa avanzò la domanda di esproprio all’Onc: Il feudo Francello ai combattenti segnerebbe non solo il primo passo verso la redenzione dei contadini dagli sguardi speculatori che si arricchiscono sul suo sudore... ma segnerebbe anche una salutare redenzione poiché il feudo Francello in mano del comune è stato sempre lo specchio delle allodole in tempi di elezione.31

Il provvedimento a quanto pare non incontrò l’ostilità del comune. Anzi, l’amministrazione municipale appoggiò, in autunno, l’occupazione del fondo da parte delle formazioni combattentistiche contro la locale cooperativa socialista, come denunciava il deputato Arturo Vella. A Militello è stata consentita un’occupazione di combattenti contro un’antica cooperativa agricola, che dopo aver coltivato il feudo Francello per più anni [...] veniva avvertita di dover cedere alla

Giovanna Canciullo, Terra e potere: gli usi civici nella Sicilia dell’Ottocento, Maimone editore, Catania 2002. 30 Sebastiano Di Fazio, Lotte contadine e quotizzazioni demaniali in un comune della Sicilia Orientale, Catania 1971, pp. 30-52. 31 Acs, Onc, Sicilia, b. 11, f. 18, Domanda di esproprio del fondo Francello della cooperativa fra i combattenti all’Onc, Militello 15 giugno 1920. 29

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illegittima occupazione dei combattenti, non organizzati in cooperativa per giunta, ma protetti dalle forze dell’ordine.32

Malgrado le dimostrazioni dei combattenti, l’Onc prese tempo prima di trasferire la richiesta di esproprio al Collegio centrale arbitrale. E alla fine, non se ne fece nulla, malgrado le insistenti sollecitazioni avanzate dalla cooperativa fino al 1925, anno in cui furono poste le basi per avviare a definitiva soluzione il problema dell’esproprio del fondo. Di fatto l’Onc decise di non intervenire nella questione ancora aperta della demanialità, poiché, notava Di Stefano, l’ordinanza del 1909 non era mai stata revocata o impugnata da nessuna amministrazione locale, neanche da quella che s’era mostrata, in accordo con la cooperativa dei combattenti, favorevole all’esproprio. Pertanto, nel 1925, il Commissario per la liquidazione degli usi civici in Sicilia ordinò al Comune di censire e quotizzare il fondo in base alle leggi sui terreni demaniali33. Alla fine, l’amministrazione municipale, e quindi la stessa cooperativa, accettò il piano di quotizzazione proposto dal Commissario che prevedeva metà del fondo destinato a pascolo e l’altra metà a seminativo, abbandonando la strada delle bonifica e dei miglioramenti che era stata predisposta dall’Opera. 7.2 Comparazioni È possibile tracciare una sorta di paradigma, una tipologia di comportamento che ha caratterizzato l’iniziativa svolta dai 32 Discorso pronunciato alla Camera dal deputato Arturo Vella, in Atti parlamentari, XXV legislazione, 1° sessione, tornata del 6 dicembre 1920, p. 6318. 33 Acs, Onc, Sicilia, b. 11, f. 18, L’ispettorato di Catania all’Onc, Catania, 13 febbraio 1925; cfr. anche Di Fazio, Lotte contadine e quotizzazioni demaniali cit., pp. 54-55.

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funzionari dell’Onc, e che renda comprensibile un’azione in profondità altrimenti lasciata in ombra, oppure confusa sotto la generica propaganda colonizzatrice di età fascista. Fino ad ora s’è indagato l’insieme delle dinamiche che determinarono i vari casi di successi e di insuccessi dell’ente pubblico nelle diverse realtà locali. Adesso, si intende mettere in relazione i casi già trattati in modo da confrontarli e provare a individuare i denominatori comuni e i fattori che dividono. Nei primi anni del dopoguerra l’Onc fu impegnato in un intenso lavoro di esproprio di ingenti quantità di terra richiesta dalle cooperative combattentistiche da ogni angolo della Sicilia. Trattandosi di società complesse, il contesto umano risultava articolato in classi e gruppi di interessi, che a loro volta esprimevano élite politiche il cui scopo era di governare i processi economici. A Salemi, ad esempio, l’asse politico formato dall’alleanza tra il movimento combattentistico e i deputati del collegio di provenienza radical-combattentistica condusse alla conquista del municipio e all’esproprio del fondo Mokarta, sbaragliando la concorrenza dei socialisti. Il controllo politico era così funzionale a quello economico del territorio e, di seguito, la disponibilità economica serviva poi a mantenere il primato politico. Una vicenda simile a Menfi, dove gli ex combattenti sconfiggevano il gruppo alla guida del governo municipale alleato coi proprietari e quotizzavano il fondo “Fiori”. Ma, mentre a Salemi e a Menfi l’accesso alla terra da parte delle cooperative coincideva con le lotte politico-elettoralistiche, a Sciacca, paese nativo e feudo elettorale di Abisso, il gruppo di potere già dominante la scena locale, aveva la forza di pilotare dall’alto qualsiasi aggregazione contadinista attorno al tema della concessione dei fondi richiesti all’Onc. Anzi, più volte la stessa cooperativa cambiò statuto per rispondere meglio ai requisiti minimi suggeriti dall’ente pubblico. Se invece si considera il sistema di relazioni sociali esi-

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stenti a Ribera, l’elemento “politico” risulta essere la causa dell’insuccesso dell’azione agraria dell’Onc. Qui, l’aspra concorrenza per il potere locale impedì ai funzionari dell’Opera di pianificare la trasformazione del territorio a partire dalla sua analisi ambientale. Compito che diventò ancora più arduo per la coincidenza del periodo elettorale. L’Opera giunse così all’amara conclusione che i terreni espropriati, con la politica dell’affitto temporaneo avevano costituito, senza volerlo, «le piazze d’armi per le grandi manovre delle fazioni locali»34. Altre volte, invece, come nel caso di Mussomeli, le cooperative dei combattenti controllate dal gruppo di potere notabilare-imprenditoriale-mafioso vestirono i panni “rassicuranti” dei mediatori sociali per ottenere l’affitto delle terre dei proprietari, sabotando, silenziosamente, l’intervento pubblico. A Militello la vicenda presentava dei risvolti interessanti poiché si trattava di un demanio pubblico, dove i proprietari erano gli stessi richiedenti dell’esproprio e la questione della demanialità era di per sé l’oggetto di aspre contese municipali. In questo groviglio di situazioni locali era ancora più difficile per l’Onc venire a capo e regolare le dispute. È interessante costatare che le richieste di esproprio potevano sussistere grazie alle reti politiche informali che a strette maglie intrecciavano i diversi fili del cooperativismo di matrice combattente. I casi di Menfi, Sciacca e Ribera rappresentano l’esempio di una connection politica, dove le clientele elettoralistiche di Angelo Abisso offrivano ai contadini la sola via percorribile per uscire dall’anonimato politico e sociale a fronte delle novità economiche e legislative del dopoguerra. Lungo questa direttrice, i consensi elettorali e la carriera politica del deputato di Sciacca erano il frutto di una capillare costruzione di reti associative dal basso che comprendevano associazioni, cooperative di 34 Onc, Relazione del consigliere delegato al Consiglio d’Amministrazione. Esercizio 1921 cit., p. 77.

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lavoro e di consumo, casse di muto soccorso, partiti locali, e includevano nella stragrande maggioranza, le masse dei reduci, mutilati, invalidi e combattenti della provincia agrigentina. All’interno di questo circuito di nessi politici verticali e di radicamento territoriale orizzontale, l’Onc non attuò una linea di condotta unica e sovrapponibile a tutti i casi. Il più delle volte, i funzionari dell’ispettorato cercarono di rimanere equidistanti da una società in piena ebollizione e stretta dalle continue pressioni della proprietà terriera; altre volte precipitavano nelle voragini dei conflitti locali. Tuttavia, l’Onc si preoccupò di far rispettare i regolamenti che prevedevano l’esecuzione delle bonifiche, a garanzia delle concessioni delle terre alle cooperative che ne facevano richiesta, con il risultato, equivoco, di non riuscire più a controllare le procedure di esproprio: quanti ettari di terra venivano assegnati ad ogni socio; e le ostili manovre sotterranee delle alleanze politiche. Il sopraggiungere del fascismo frantumò i quadri di riferimento politico iniziali. In primo luogo fu il movimento cooperativo ad arretrare le posizioni originari poiché, adesso, il regime lo percepiva come l’estrinsecazione dei partiti politici e, quindi, un ostacolo all’affermazione della via totalitaria. A ricomporre, poi, lo scenario fu lo stesso regime che, a causa di una flebile aderenza delle masse, si prodigò in una controversa fascistizzazione delle élite emergenti dalle lotte sociali del dopoguerra e delle “appendici” del notabilato liberale che, trasformisticamente, salivano a flotte sul carro del vincitore35. In questo rinnovato contesto, l’Onc tentò, diversamente da quando aveva iniziato a funzionare, di applicare un criterio universale alla sua azione, indipendentemente dalle condizioni ambientali e sociali in cui si trovava ad agire, 35 Lupo, Il fascismo cit., pp. 166-180; ma anche Luigi Ponziani, Il fascismo dei prefetti. Amministrazione e politica nell’Italia del Mezzogiorno 1922-1926, Meridiana libri, Corigliano Calabro 1995, pp. 93-108.

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accantonando il regolamento che obbligava le cooperative di eseguire le bonifiche e concedendo, viceversa, ad esse la promessa dell’appoderamento immediato. Del resto il corpo di funzionari dell’Onc, era stato piegato ai disegni del potere del governo per mezzo dei prefetti, riuscendo di rado a realizzare azioni efficaci di miglioramento e di risanamento. A Salemi, Menfi e Sciacca, l’Onc dividerà la terra conquistandosi solidi alleati tra i dirigenti delle cooperative, divenute fasciste per effetto delle normative del 1923 che sancivano l’assalto del regime al cooperativismo36. Il fondo Mokarta, quotizzato dalla cooperativa fascistizzata fu oggetto di un rinnovato scontro tra i notabili del luogo che, convertitisi al regime, si contendevano adesso il controllo locale del Pnf. Nei feudi di Sciacca, la nuova cooperativa fascista sorta nel 1925 su iniziativa di Angelo Abisso si divise le quote, come pure a Menfi, dove giocò un ruolo fondamentale la forza della cooperativa locale nel trattare con l’Opera e il governo. All’opposto, a Ribera, fu il notabile locale, con una forte disponibilità finanziaria, e una rete cooperativistica in concorrenza con le cooperative combattentiste, a giocare un ruolo determinante, sbaragliando l’offerta dell’Onc e costringendo la proprietà a vendergli le terre. Anche a Mussomeli il ruolo decisivo lo giocò la locale cosca mafiosa che riusciva a consolidare un blocco sociale in accordo con la proprietà per gestire la gabella, creando le condizioni di un monopolio delle risorse. L’influenza mafiosa condizionò l’ispettorato che dovette fin da subito piegarsi, accantonando il progetto iniziale della grande azienda a conduzione collettiva. A Militello, trattandosi di un demanio pubblico, l’esproprio dell’Onc e la gestione politica delle quotizzazioni demaniali, avrebbe rappresentato pur sempre un profitto per chi gestiva tali processi. Un interessante elemento comune furono le inchieste 36

Caroleo, Il movimento cooperativo in Italia cit., pp. 276 ss.

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alle cooperative nel biennio 1923-’24. In tutta la Sicilia l’Opera avviava gli accertamenti alle cooperative concessionarie accusate di malversazioni e di corruzione per mezzo di denunce attraverso lettere anonime. Spesso dietro l’anonimato, si celavano gli interessi politici delle fazioni perdenti, oppure semplici quotisti esclusi dal sorteggio e dalla cooperativa o, addirittura, i tentativi estremi della proprietà per ritornare in possesso dei fondi. Dalle denunce emergeva comunque uno spaccato inquietante. Quasi tutte le cooperative che ottenevano l’esproprio operavano al limite della legalità. I gruppi dirigenti si arricchirono, le cosche delinquenziali e mafiose approfittarono dei nuovi strumenti di democratizzazione delle masse per penetrare dentro il tessuto cooperativistico e monopolizzare le vie di accesso alle risorse, le quote si assegnarono a vantaggio di gruppi di interessi locali che non avevano a che fare col ceto dei coltivatori, o semplicemente si distribuirono piccoli lotti di terra a dei prestanomi. In questo contesto, l’Onc non ricompose un quadro di legalità, intendendo, così, sperimentare, laddove poteva, sempre nuove alleanze con i ceti dirigenti locali nella speranza di inquadrarli nelle gerarchie fasciste. Questo atteggiamento fu in controtendenza a quanto era avvenuto nel primo dopoguerra, quando i sospetti fondati circa la fragilità delle cooperative, aveva suggerito all’Onc cautela nel cementificare alleanze e strategie comuni con quel variegato universo, formato da dirigenti improvvisati a capo di cooperative “virtuali”, esistenti solo sulla carta. Del resto, il regime aveva rimproverato alla passata amministrazione dell’Onc proprio ciò che adesso essa stessa stava portando a termine: “abolito” l’obbligo delle migliorie, non restava che sbarazzarsi delle terre vendendole velocemente alle cooperative miglior offerenti, che spesso erano quelle più vicino, ideologicamente, al regime. Non importava più quando e in che modo le cooperative s’erano costituite, i regolari statuti, le situazioni finanziarie, e il funziona-

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mento degli organismi interni. A Menfi, Salemi, e ancor più Sciacca, malgrado gli scandali emersi dalle inchieste interne e gli aspri conflitti vecchi e nuovi attorno alla concessione dei fondi, l’Onc ridusse al minimo le occasioni dello scontro sociale e politico tra i quotisti esclusi e le cooperative, puntando dritto al compimento dell’estremo frazionamento dei fondi. Viceversa a Ribera l’Onc opterà di non scendere a patti con Abisso e i dirigenti della sua cooperativa combattentista per il peso del duca e del notabile locale. In questo caso l’Onc trovò anche un relativo consenso del governo impegnato a sua volta a dirimere i continui scontri e cambi di alleanze degli epigoni periferici, i prefetti e i notabili locali37. Simile atteggiamento a Mussomeli dove l’inchiesta giunse non sotto le vesti “rassicuranti” dell’ente ma dell’autorità giudiziaria. Col ritorno alla gabella, la cooperativa fu sotto l’occhio del ciclone moresco. Ma, l’obiettivo di colpire la cosca mafiosa in combutta coi i proprietari non produsse gli effetti auspicati. Al termine della tempesta, il regime fu mestamente disposto a riconsegnare al blocco sociale di contadini, mafiosi e proprietari le chiavi della gestione delle terre, nell’illusione, nei tardi anni Trenta, di far breccia nella società, veicolando nuove retoriche politiche inaugurate dalla propaganda agraria del regime. C’è infine da considerare anche un ultimo elemento significativo di differenza. Il protagonismo politico della proprietà fondiaria siciliana ebbe, solo in alcuni casi, un ruolo fondamentale. A Ribera, il duca mobilitò con successo la sua rete diplomatica internazionale per fare pressioni sul governo italiano e, a Mussomeli, il principe di Trabia esercitò una notevole influenza sulla società locale e anche negli ambienti governativi e ministeriali: «non si fermeranno mai – scriveva un funzionario del gruppo industriale della Sges riferito alla 37

Ponziani, Il fascismo dei prefetti cit., pp. 19 ss.

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classe dei proprietari – dal formare commissioni di cittadini, dal domandare udienza a ministri, dal telegrafare proteste»38. Di fronte a queste vere e proprie lobby, tanto forti e influenti nelle sedi decisionali, l’Opera non ebbe la forza di opporsi. Solo a Menfi il proprietario espropriato non riuscì a riavere il fondo a causa dei buoni rapporti istauratisi tra la cooperativa e l’Opera all’indomani dell’inchiesta interna. Le lamentele dei Varvaro non avevano trovato udienza presso il governo nazionale che, nell’occasione, non sposava una linea filo proprietaria. È anche vero che non tutti i possidenti avevano lo stesso peso politico, anche perché il fascismo, senza mostrare alcun piglio persecutorio, aveva ridimensionato la mediazione parlamentare e danneggiato il potere del tradizionale blocco agrario. Sicché, il ceto agrario siciliano si ritrovò con pochi strumenti di condizionamento sul governo centrale interessato a trovare da solo la via per inquadrare le masse rurali. Quindi, il loro primato politico, di gran lunga superiore di quello economico, che spiegava l’origine egemonica sulla società, perdeva aderenza. Inoltre, la svolta rassicurante di Mussolini nell’annunciare a metà degli anni Venti la “battaglia del grano”39 non impedì ai quotisti dell’ex feudo “Fiori” di ridurre, in uno dei latifondi più produttivi, la superficie a grano per impiantare altre colture arborate e vitinicole. Volendo tracciare un bilancio più generale ed esaustivo, è ipotizzabile presumere che laddove si consolidavano alleanze interclassiste di solidi blocchi sociali, si determinava quasi sempre l’insuccesso dell’Onc, poiché si trovava davanti una forza sociale e politica in grado di dirigere le operazioni finanziarie e resistere ai piani di modernizzaCit. da Giuseppe Barone, Capitale finanziario e bonifica integrale nel Mezzogiorno fra le due guerre, in «Italia contemporanea», 137, 1979, p. 78. 39 Giuseppe Orlando, Storia della politica agraria in Italia dal 1848 ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 106-107; Cfr Luciano Segre, La battaglia del grano: depressione economica e politica cerealicola fascista, Clesav, Milano 1984. 38

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zione del latifondo. Da questo punto di vista, il caso dei contadini di Mussomeli è illuminante. Qui assistiamo alla risposta della società a difesa di una mobilità sociale di tipo tradizionale. Il tentativo dell’Onc di sperimentare nuovi modelli produttivi dell’organizzazione aziendale e di rimuovere i vecchi macigni del condizionamento dei fattori naturali e sociali (il gabellotto), si infranse contro le barricate di una società rurale mobilitata a difesa della conservazione del modello di organizzazione del lavoro tipico di una proprietà latifondista, che preferiva conservare il regime degli affitti e della rendita, piuttosto che abbracciare il meccanismo del profitto e del salario. In tal modo, le frammentate figure economiche del latifondo fuggivano volontariamente da una qualsiasi logica di regolamentazione del mercato del lavoro, manifestando il desiderio di percorrere dal basso in alto, secondo antiche consuetudini locali, la scala della piramide sociale. Le società rurali si mobilitavano contro i modelli capitalistico-aziendali delle politiche dell’intervento pubblico che intendevano standardizzare il lavoro agricolo, anche chi a fatica, aveva investito i risparmi di una vita su un mulo o affittando un pezzo di terra. Così, ad avvantaggiarsi dell’ostilità della massa rurale fu la proprietà che rifiutava la logica dell’investimento, e i gabellotti e pastori, riuniti nella cosca mafiosa, che monopolizzando il mercato della terra, ostacolavano la libera concorrenza. Si trattava, insomma, di un vasto fronte comunitario formato da proprietari, affittuari, mezzadri, coloni e braccianti, contrari all’ipotesi di trasformarsi in una indifferenziata classe di proletari agricoli alle “dipendenze” dello Stato. Invece, quando le cooperative dei combattenti impedivano il formarsi dei blocchi sociali di notabili e contadini, e con il sostegno dei funzionari dell’Onc, isolavano il ceto dei proprietari, si determinavano significativi miglioramenti fondiari, anche se spesso erano distanti dai piani predisposti dall’Opera al momento dell’esproprio. È il caso di Salemi e Menfi ad esempio, dove l’esito della lotta

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sociale determinò, negli anni Venti, un ribaltamento dei precedenti equilibri a vantaggio delle formazioni combattentistiche, che ridistribuirono le terre ai loro clienti. A quotizzazioni avvenute, l’Onc entrava dentro le dinamiche locali cercando ogni qual volta il consenso dei concessionari promettendo loro la vendita delle terre spezzettate. Nella maggior parte dei casi le quotizzazioni non s’applicavano secondo i regolamenti che prevedevano la distribuzione definitiva delle quote solo dopo l’accertamento di bonifiche compiute. Il rapporto tra l’ente e le cooperative beneficiarie si alterava a vantaggio di quest’ultime che beneficiavano di ettari ed ettari di terra, non potendo continuare nella trasformazione di terreni espropriati. Pertanto l’Onc non sovrintendeva mai la locazione temporanea delle terre, non controllava lo stato di avanzamento dei miglioramenti, non si accertava dei livelli di produzioni e neanche si preoccupava di far rispettare le norme comportamentali di vita dei coloni sulle terre assegnate, come previsto dall’ente per disciplinare un vero esercito dedito al lavoro agricolo sul modello mezzadrile, proiezione ideale del moderno contadino stabilmente ancorato al luogo di lavoro. Al contrario, al momento della stipula del contratto di utenza a miglioria e dopo il sorteggio delle quote, il concessionario era libero di fare ciò che credeva più utile. In tal modo l’Onc si sollevava dal compito gravoso di esercitare un capillare controllo sociale, come, invece, accadde nelle campagne laziali. Malgrado ciò è da considerare anche il rovescio della medaglia, perché le vicende di Menfi e Salemi rappresentarono buoni esempi di trasformazione del territorio. Qui l’Onc svolse una funzione simile a una “nazionalizzazione delle masse”, selezionando una nuova classe dirigente e costruendo un nuovo consenso attorno a inediti programmi statali, anche se un poco annacquati dalla dimensione locale. Nondimeno, attuò un miglioramento fondiario, trasferendo ex latifondi dalle mani di pochi proprietari a

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quelle di molti quotisti che investirono denaro e lavoro nel lento miglioramento economico e sociale, anche dopo il secondo dopoguerra. La vicenda dell’intervento dell’Onc in Sicilia può essere letta anche limitatamente attorno alla questione dei rapporti tra l’ente e le cooperative. Questo rapporto si configurò, oltre che per le denunce di promesse di esproprio non mantenute, anzitutto per le assegnazioni contestate in base ai criteri di appartenenza sociale e politica delle cooperative. Nel dopoguerra tutte le operazioni finanziarie attorno al mercato della terra apparivano possibili e, di fronte al dilagare della speculazione per l’acquisto e la quotizzazioni di feudi, esistevano due modi di agire dell’associazionismo economico: il primo, quello che l’Opera sperava di incontrare, si riferiva a cooperative bene amministrate e finanziariamente solide; il secondo, si riferiva a un tipo di cooperative affaristiche, sorte in occasione e in momenti particolarmente favorevoli per le operazioni di compra-vendita, sprovviste di mezzi finanziari e con dirigenti di scarsa capacità e onestà. Pietro Di Stefano durante la visita alle cooperative di quasi tutta la Sicilia40, si rese conto delle condizioni in cui esse versavano, in un continuo oscillare tra situazioni legali e illegali. Come è stato ricordato, il processo di riorganizzazione del mercato del lavoro, in seguito ai provvedimenti riparazionisti, aveva orientato le cooperative verso una linea interclassista e di difesa corporativa della categoria sociale del combattente. Tuttavia, esso si poneva in un confine di per sé poco definito, poiché era difficile dimostrare lo status di combattente in relazione all’immensa catena sociale, produttiva e militare impegnata nel conflitto bellico. In ultima analisi, ciò rifletteva la mancanza di criteri oggettivi nella descrizione di titoli certi che potessero documentare l’au40 Acs, Onc, Sicilia, b. 2 f. 21, Osservazioni sulle cooperative ispezionate dal reggete dell’Ispettorato per la Sicilia, s.d., p. 1-10

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tentico stato di combattente e selezionare di conseguenza il personale. Spesso, la scelta dei criteri o, come è stato detto, l’assenza di questi ultimi, nella selezione di una cooperativa concessionaria e la modalità d’uso del patrimonio terriero da parte di essa, era oggetto di aspre polemiche: a volte si compivano vere e proprie truffe, altre volte si gestivano malamente le operazioni e altre volte ancora si assegnavano ai più interessati le quote migliori, sostituendo valori di merito con criteri di favoritismo. Il limite dell’efficacia dei criteri era rintracciabile in un pregiudizio di natura teorica, iscritto nel regolamento dell’Opera, che prescriveva di accettare le richieste di cooperative che si dichiaravano combattenti. Nei fatti, moltissimi reduci e non, potevano dirsi di aver contribuito, a vario titolo e in diverso modo, allo sforzo bellico del paese. E limitatamente alle cooperative agricole, non tutti i reduci vi si iscrivevano con la conseguenza paradossale di rimanere fuori dai circuiti delle assegnazioni. E quindi, accadeva che, per chiedere gli espropri, i soci erano reclutati tanto per far numero, senza guardare alla provenienza sociale, ai titoli e alle qualità che l’Opera pretendeva che i contadini avessero. Ma anche il criterio di agricoltore fu di difficile definizione e incontrò diversi ostacoli nell’assegnazione della terra. Sostanzialmente, molti artigiani e professionisti si iscrivevano tra le liste degli agricoltori: Giovanni Passalacqua, ad esempio, il presidente della cooperativa di Salemi era un avvocato. Dunque, era difficile definire l’agricoltore quando era frequente il doppio lavoro in paese e nei campi. Non è certamente cosa semplice nei paesi fare esatta distinzione di mestiere o professione, quando vi sono molti che ne sommano diversi.41

41 Acs, Onc, Sicilia, b. 16, f. 35, Relazione sulla cooperativa agricola combattenti di Terranova di Sicilia, Terranova 10 agosto 1927.

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Solo nei tardi anni Venti fu trovato un compromesso, «il mestiere o la professione da indicare nell’elenco, dovrebbe essere quella da cui gli interessati ritraggono principalmente i mezzi di sussistenza»42. La persistenza di un ampio margine di discrezionalità determinò un clima di assalto politico attorno all’Opera, che l’avrebbe resa schiava delle concorrenti pressioni clientelari e delle estenuanti mediazioni fra gli aspiranti beneficiari. Ciò era anche il riflesso della specifica invasività della politica che allontanava le cooperative dai principi economici per cui erano sorte e le ponevano spesso come anonimi contenitori elettoralistici. Quando l’Onc decise di iniziare una campagna di stretta vigilanza sulle concessioni delle terre fu troppo tardi, l’avvento del fascismo al potere scompose tutto il quadro di riferimento iniziale e a partire dal 1924 alcune delle cooperative fallirono, altre chiusero forzatamente per effetto della legislazione repressiva, altre ancora si mimetizzarono cambiando statuto e nome. Quindi l’azione dell’Onc fallì laddove essa fu sopraffatta sul terreno del confronto coll’associazionismo cooperativo, dove apparve evidente la fragilità del suo disegno modernizzatore. Viceversa, il discorso cambiò quando il cooperativismo agricolo si alleò con l’ente e assieme si concordano a ribasso i piani di trasformazione e di bonifica. Quindi, i miglioramenti fondiari non furono la conseguenza diretta delle capacità tecnico-finanziarie della cooperativa. Lo spartiacque tra il successo e l’insuccesso diventava la promessa della quotizzazione sottoscritta dall’Onc, che col tempo si convertiva nell’assegnazione definitiva della terra al contadino. Come s’è evidenziato in alcuni casi rappresentativi, i piani dell’Opera furono condizionati anche a causa dei fattori ambientali in quanto producevano a loro volta forme 42

Ibid.

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di resistenze sociali e scarsa attitudine all’innovazione43. La struttura orografica di un territorio segnato da fondi sparsi e adagiati in pianura o in una collina, si prestavano a una maggiore trasformazione, anche perché in questi casi gli investimenti necessari per migliorarne la coltura, l’organizzazione idrica, e aumentarne la produttività erano minori rispetto a fondi concentrati in territori montuosi. Le vicende dei fondi “Fiori” e “Polizzello” sono due casi estremi di condizionamenti ambientali, in cui tutti questi elementi, apparentemente secondari, giocarono un ruolo importante nelle realizzazioni delle bonifiche. Nel primo caso, la conformazione pianeggiante e la modifica parziale dei metodi di conduzione, avevano determinato delle minime migliorie tali da rendere più facile i successivi lavori di bonifica; nel secondo caso, il fondo era tra i più impervi e disastrati dell’isola, dove il problema della bonifica si proponeva da secoli ed era mancata l’iniziativa dei privati e dello Stato, e dove, infine, le poche opere idrauliche, non seguite da interventi di trasformazione agraria, avevano lasciato pressoché insoluto il problema dei miglioramenti in tempi brevi. La questione dei tempi di coltivazione e di bonifica non è da sottovalutare. L’Onc scelse di trascurare i latifondi in condizioni peggiori, concentrando, invece, la sua azione su quelli migliori. Un simile orientamento aveva le sue ragioni: gli interventi sui latifondi dissestati richiedevano, infatti, tempi lunghi di resa produttiva oltre a maggiori investimenti, soprattutto se si decideva di impiantare le colture arboree. Viceversa, nei fondi in buone condizioni i tempi della produzione si potevano ridurre in funzione di un minore investimento e di una coltura maggiormente differenziata. Da questo punto di vista l’intervento dell’Onc fu senza dubbio condizionato dalla convenienza delle cooperative di ammortizzare, nel breve tempo, gli 43 Piero Bevilacqua, La terra è finita: breve storia dell’ambiente, Laterza, Roma 2008.

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investimenti, mentre fu deficitario, non solo nell’aspetto della conduzione, ma soprattutto nella incapacità di incidere in modo significativo sui caratteri fisico-ambientali e sui rapporti tra l’uomo e le forme di organizzazione dell’economia ruale. 7.3 Una dissonanza La pianura dell’odierna Gela fu protagonista di una vicenda singolare, un caso di dissonanza rispetto a tutti gli altri, a metà strada tra il fallimento e un discreto successo a partire dai tardi anni Trenta. Nel 1919 si costituiva la sezione locale dell’Anc che dopo alcuni mesi di vita si divise al suo interno, una parte rimase aderente all’associazione nazionale, un’altra si iscrisse all’associazione dei reduci di guerra. Entrambe le sezioni combattentiste diedero vita ad altrettante cooperative agricole, “La Reduci” e “La Vittoria”. Quest’ultima nel luglio del 1919 si rivolgeva all’Onc per espropriare quelle terre per le quali erano state indette le aste di affitto. L’anno successivo l’ente espropriava circa 1.900 ettari dell’agro gelese con il consenso dell’istituto Pignatelli di Palermo, proprietario dei 5 fondi espropriati, e successivamente li acquistava a un prezzo di 2 milioni e mezzo di lire. Gran parte delle terre furono concesse in affitto alla cooperativa “La Vittoria”, che non dette prova di abilità nel gestire in via ordinaria i fondi, tantomeno di introdurre le migliorie previste nel piano di affitto annuale, e fu messa in liquidazione. Stessa sorte toccò alla “Reduci” che pian piano si estinse. A quel punto l’Opera, nonostante le agitazioni degli ex combattenti, non rinnovò per l’annata 1920-’21 gli affitti dei fondi alla cooperativa “La Vittoria”, né ai pochi affittuari privati.

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Furono sfattati dai fondi numerosi gabellotti e la coop. La Vittoria. Forte avversione per il nostro istituto ed anche gli ex combattenti, guidati da elementi torbidi ed in mala fede, si accanirono ad ostacolare l’azione dell’Opera, con comizi, cortei, sbandieramenti, dimostrazione di forza.44

Fallite le cooperative, l’intero fronte contadino si mobilitò contro l’Opera senza però trovare l’unità di intenti e si sfaldò, come le sezioni combattenti. Ma era l’intero universo del combattentismo gelese che non riusciva a vincere la concorrenza del deputato popolare Salvatore Aldisio che gestiva, con una rete di cooperative, cinque ex feudi tra i più grandi e redditizi del territorio45. Per non scontentare la gran massa rurale rimasta senza terra, l’Onc creò un’amministrazione locale dei fondi con a capo un proprio funzionario, il cav. Rosario Mulè, affidandogli la gestione diretta dei fondi. La soluzione auspicata fu quella dell’assegnazione individuale. Seguirono le iscrizioni e le domande di affitto da parte degli ex combattenti, ma il numero dei richiedenti si rivelò superiore alla disponibilità delle quote, suscitando nuove proteste. In seguito, fu svolto rapidamente il sorteggio tra gli iscritti per l’assegnazione dei lotti, con relativa stipula dei contratti, fra minacce e proteste dei numerosi ex combattenti esclusi (che erano la maggioranza). L’esito dell’assegnazione risultò approssimativo in quanto l’Onc consegnò, con un affitto quadriennale e senza alcun obbligo di miglioria, circa 700 quote di 2 ettari a ex combattenti e non combattenti non coltivatori. Le terre furono così sfruttate senza alcun miglioramento e con un basso estaglio. 44 Acs, Onc, Sicilia, b. 16, f. 35, Relazione sui precedenti dell’ufficio di Terranova e sullo stato attuale dell’amministrazione dei fondi, Terranova 10 agosto, 1927, 45 Carmelo Schifani, Sulla cooperazione agricola in Sicilia nel periodo tra le due guerre e dopo la seconda guerra, in «Rivista di economia agraria», V, f. 1, 1950, pp. 77-78.

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La delusione del sorteggio incentivò la riaggregazione dell’universo combattentista, che però si divise subito in tre differenti cooperative, la maggiore delle quali, la società “Agricola combattenti” legata alla nuova sezione dei combattenti, fu istituita nel 1926. Ma, pure questa volta l’Onc respinse tutte le proposte di acquisto e affitto dei fondi delle cooperative, sospettate di agire per conto di interessi di pochi privati. Nel 1927 la cooperativa “Agricola combattenti”, rinnovata nei suoi profili dirigenziali non compromessi con le passate gestioni e forte di 1.700 aderenti, chiese nuovamente all’Onc la vendita delle terre46. La questione interessò pure il presidente dell’Onc Manaresi, che assicurò il trasferimento dei fondi alla cooperativa. Ma, un mese dopo la richiesta, una nuova ispezione ordinata dall’amministratore Mulè bloccava nuovamente il passaggio delle terre agli ex combattenti. In questo modo, la gestione amministrativa che doveva avere carattere di temporaneità diventò stabile. I fatti furono denunciati su il “Tevere” di Roma47, dove si segnalò l’esistenza di un affarismo locale (le quote furono date ad alcuni vicini all’amministratore Mulè, piuttosto che ai legittimi aspiranti). In particolare contro il Mulè fu paventata l’accusa di peculato a danno di «1.700 [che] continua[va]no a imprecare per le ingiustizie sofferte»48. Al centro della mancata concessione alla cooperativa, l’esistenza di vendette politiche di Mulè contro le gerarchie locali che lo avrebbero indotto a ritardare le distribuzioni. A riprova ci sarebbe stato il ricorso per non vendere le terre di alcuni quotisti e lasciare le terre dell’Onc agli attuali gabellotti. E come mostrava l’indagine degli in46 Acs, Onc, Sicilia, b. 16, f. 35, Il reggente della società agricola combattenti al prefetto di Caltanissetta, s.d. 47 L’Opera combattenti in Sicilia, in «il Tevere», Roma 1 maggio 1928. 48 Acs, Onc, Sicilia, b. 16, f. 35, Il presidente della cooperativa combattenti a S.E. Turati, Gela,12 marzo 1929.

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quirenti, lo «scopo del ricorso è ostacolare la vendita delle terre perché resterebbero danneggiati [i sorveglianti delle terre] e i quotisti loro amici che non potrebbero comprare le quote perché combattenti e non coltivatori diretti. Infatti [uno di questi teneva] per sé e per due suoi figli tre quote»49. Ciononostante, Mulè riuscì a far valere la tesi della cooperativa inadempiente: vi sono professionisti, impiegati, operai classificatasi proprietari solo perché hanno qualche piccolo spezzone di terra, di cui non si curano direttamente. Il presidente, impiegato del comune, nulla figura in catasto pur appartenendo alla facoltosa famiglia di commercianti di cereali e di proprietari di barche da trasporto. E con simile criterio vi sono sarti, negozianti, classificati conduttori. Altri, addirittura forestieri.50

Persino a Roma l’Opera si persuase che le difficoltà erano nate a causa di politicanti e affaristi, turbati nei loro privati interessi. In realtà l’Opera aveva comprato le terre per 2.500.000 lire e avrebbe voluto rivenderle a 6.500.000, la differenza, si diceva, sarebbe servita per comprare altri feudi per i quotisti esclusi. Non solo ciò non avvenne51 ma, non rinvenendo la disponibilità finanziaria nelle cooperative che ne facevano domanda, Mulè si mostrava sempre intransigente nel concedere e rinvestire l’utile, anche perché dall’operazione di acquisto si sarebbe profilato un sostanzioso guadagno per gli stessi funzionari. Solo nel 1929, attraverso le pressioni del direttore generale Manaresi e del governo, si costituiva la cooperativa “il Littorio”, filo governativa e capace di acquistare 49 Ascl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 376, Il capitano dei R.C. al prefetto, Gela 11 luglio 1929. 50 Acs, Onc, Sicilia, b. 16, f. 35, Relazione sulla cooperativa agricola combattenti di Terranova di Sicilia, Terranova 10 agosto 1927. 51 Ascl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 376, Il prefetti di Caltanissetta a Mussolini, Caltanissetta 22 giugno, 1930.

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il fondo. Questa volta il contratto fu stipulato con l’obbligo delle migliorie52. Agli inizi degli anni Trenta i fondi furono, tra numerose proteste, nuovamente quotizzati53. Lo sforzo economico di ogni quotista per comprare un pezzo di terra, che nel 1929 era costata più del valore di rendimento effettivo, unita alla congiuntura economica sfavorevole, provocò dissesti, vendite forzate all’asta e addirittura svendite. Tuttavia, gli stessi quotisti furono protagonisti di investimenti per la costruzione di canali di drenaggio per lo smaltimento delle acque e per l’irrigazione e la coltivazione di piante arboree, alberi canadesi per l’esportazione di prodotti artigianali, di viti e cotone54. Questa volta, a differenza di tutti gli altri casi, pare che sia stata l’Opera a imporsi sul cooperativismo locale, e a decidere a chi concedere le terre: combattenti, non combattenti, coltivatori, artigiani55. E i ritardi dell’assegnazione definitiva dei fondi non furono generati dai contrasti tra le cooperative, come sosteneva la stessa Onc per ripararsi dalle accuse e coprire eventuali sue responsabilità, ma dall’ente contro le cooperative. Caso unico in tutta la SiAscl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 376, Verbale di deliberazione della Commissione per la ripartizione delle terre dell’Onc, Caltanissetta 2 luglio 1930. 53 Nelle direttive di Manaresi gli affittuari dei terreni provvisoriamente assegnati avevano la preferenza nella nuova assegnazione ad esclusione dei sub-affittuari, in Ascl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 376, Deliberazione dell’Onc n. 1157 del 3 dicembre 1927. Questo preciso indirizzo, nel corso degli anni, non fu applicato e, anzi, l’ordine di preferenza dei quotisti assegnatari fu allargato ai sub affittuari e ai non combattenti, Acsl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 376, Espresso del commissario dell’Onc Cencelli all’ispettore Mulè. Assegnazione fondi in Gela, Roma 8 settembre 1930. 54 Giuseppe Barone, Dall’agricoltura all’industria. Il cotone nazionale tra le due guerre, in «Meridiana», 33, 1998, pp. 13-35. 55 Acsl, Prefettura, Gb, II versamento, b. 376, Verbale di deliberazione della Commissione per la ripartizione delle terre dell’Onc, Caltanissetta 2 luglio 1930. 52

Assonanze conclusive

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cilia, i fondi furono, quindi, gestiti direttamente dall’amministratore dell’Onc. Per la prima volta l’Opera tentava un esperimento inedito: se avesse persistito nella espropriazione e nella concessione tout court, così come aveva fatto all’inizio della sua gestione, avrebbe continuato ad avere numerose questioni da definire, e avrebbe, inoltre, immobilizzato tutto il suo patrimonio senza risolvere nulla o, peggio ancora, portato un contributo al disordine amministrativo e finanziario dell’ente. Fin da subito, l’ente non restò su una posizione neutrale volta a guardare la contesa come in tutti gli altri casi, ma entrò a piede teso dentro le dinamiche locali. Tuttavia, la gestione fu paralizzante, e alimentò solo profonde fratture tra chi non aveva la terra, anche se per regolamento ne aveva il diritto, e chi, viceversa, l’aveva ma senza titoli. In ogni modo, la conduzione dei suoli da parte dell’Opera rimase inalterata rispetto ai sistemi precedenti finché fu possibile, all’inizio degli anni Trenta, vendere i fondi all’ennesima cooperativa locale che eseguì, col sostegno del regime, le migliorie fondiarie56.

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La quotizzazione di terre in Sicilia cit., p. 8.

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Finito di stampare nel mese di luglio 2009 presso la tipografia Stampa Editoriale srl Strada Statale 7/bis 45-47 - Zona Industriale di Avellino 83030 Manocalzati (Av) per conto di XL edizioni Sas di Stefania Bonura

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