Todos Caballeros...o forse no

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Quella degli arbëreshe é la minoranza etnica più popolosa di tutta Italia.
Gli eredi di quegli esuli che a metà del XV sec. vennero costretti ad
abbandonare le coste balcaniche invase dall'avanzata degli eserciti turco-
ottomani, conservano ancora oggi tratti della lingua d'origine e professano
nelle loro chiese il rito greco-bizantino; ma ciò che più li
contraddistingue dopo ben sei secoli, é forse il loro riconoscersi come
appartenenti a una cultura 'altra' e di matrice diversa. Giunti attraverso
esodi di massa nel Reame di Napoli, gli albanesi colonizzarono e diedero
nuova linfa a quelle terre rimaste allora spopolate e la cui popolazione
era stata falciata da pestilenze, terremoti e lotte intestine fra baroni.
Nonostante numerose (ben otto) furono le migrazioni e scaglionate per oltre
3 secoli, a tutt'oggi non si conoscono con esattezza, quali siano stati i
luoghi da cui i migranti presero la via del mare o il ruolo sociale che
dovettero ricoprire nelle loro comunità di origine. Se attraverso la
comparazione di dati linguistici, gli studiosi sono ormai concordi
nell'affermare che gli albanesi d'Italia dovettero abitare le regioni della
bassa Albania a confine con la Grecia, nulla si può dire invece, con
certezza, del loro status di appartenenza. Alcuni li vorrebbero esuli che
ben poco avevano da lasciare in madrepatria, mentre per altri si
tratterebbe di legioni di Stradioti capitanate dai loro generali; per altri
ancora, gente proveniente da interi villaggi in fuga e condotti alla
salvezza dai loro signori locali. Mentre pochissime sono le notizie
relative alla vita sociale nei casali prima del XVII sec., apprendiamo
invece come già nel '600 le famiglie con in testa chierici e sacerdoti di
rito greco, con la loro prole e i loro affini, emergano relativamente
rispetto alla maggioranza della popolazione che vive perlopiù di stenti.
L'ingerenza nella vita religiosa delle singole comunità, permette infatti
alle famiglie dei sacerdoti e ai loro congiunti, di vivere con maggiore
agio rispetto al resto della popolazione; esonerate dal pagamento delle
tasse, tali famiglie riescono così ad accrescere la propria ricchezza e ad
affrancare i censi enfiteutici concessi ai vassalli albanesi dai loro
baroni. All'interno dei modesti casali albanofoni della provincia di
Cosenza, nel '700 emerge pertanto un ceto dirigente costituito da poche
famiglie e tutte imparentate tra loro; per citarne alcune: iRodotà a San
Benedetto Ullano, i Lopes a San Demetrio Corone, i Tocci a San Cosmo
Albanese, iBecce (poi Becci) a Santa Sofia d'Epiro. Ognuna di queste
famiglie è a capo del governo interno dell'Università cittadina, riuscendo
a ricoprire in alcuni casi, ruoli di responsabilità sotto la nomina dei
vari feudatari locali. A questa data pertanto, una parte ristretta di
albanesi risiedenti nelle comunità d'Italia vive "alla nobile" e seppur
senza godere di titoli ufficiali, si comporta e segue i dettami dei ceti
nobili e notabili del Regno di Napoli [1]. Le migliorate condizioni
economiche e di vita, fanno si che questa 'casta' di albanesi liberi possa
dedicarsi così con maggiore slancio, alla salvaguardia e al 'recupero'
della propria cultura, con la redazione di numerose opere letterarie che si
infittiscono sempre più per tutto il corso del secolo e in quello
successivo. Ed è in questi scritti che cominciano a fare la loro comparsa
le prime teorie sull'origine degli albanesi d'Italia. Ad aprire la strada
fu di certo Pietro Pompilio Rodotà [2] da San Benedetto Ullano, fratello
del Vescovo di rito greco e primo presidente del collegio Corsini, Mons.
Felice Samuele Rodotà. Con la sua copiosa opera che consta di tre volumi,
l'autore ripercorre l'epopea del popolo albanese e offre il punto di
partenza agli storiografi italo-albanesi successivi come Masci [3]
e Dorsa [4]. Sebbene sarà solo a partire dal 1758, ovvero dalla prima
stesura dell'edizione di Rodotà, che gli studiosi potranno usufruire di una
solida base sulla quale impiantare le proprie idee e riflessioni sul tema
delle origini, già un quarantennio precedente a questa data ricaviamo utili
informazioni che testimoniano di una coscienza individuale nella
popolazione (o solo per una parte di essa), relativamente al proprio
discendere da genti venuti da oltremare [5].
I documenti inediti il cui contenuto viene riportato in stralcio per la
prima volta, è depositato presso l'archivio di Stato di Cosenza [6]. In
tutti e tre i documenti vengono ripercorse le origini di due famiglie
albanesi; quella dei Lopes e dei Tocci, attraverso le testimonianze di
cittadini abitanti nei rispettivi casali di San Demetrio e San Cosmo, e
nati tra il 1636 e il 1651 (nell'atto Lopes) e tra il 1640 e il 1665 (per
gli atti Tocci). Gli atti, rogati dallo stesso notaio Bisignanese, sono
molto simili nella forma, ovvero ricostruiscono ciascuno la genealogia
della famiglia, a partire dal più lontano e 'mitico' antenato partito da
oltremare, sino a giungere agli ultimi discendenti del casato che
presenziano all'atto; il tutto, come si legge nel registro degli atti del
notaio, per attestazione della propria "nobilissima discendenza":
attestano che li loro antichi progenitori./ furono infelicemte. espulsi
nelle loro Padrie della Corona, e spogliati/ de loro averi dalla forza, e
potenza dl Gran' Turco l'ottomanno/ p essersi oppugnati, servando la
fedeltà dovuta all'Augustiss./ Impre. di qel tempo, p la ql fedeltà, e p
mantenere la Sca. fede/ Catt.ca abbandonorono tutte le speranze de loro
averi, e sustanze, e/ con loro mogli, e figli passòrno in qsto regno di
Napoli.
In ciascuno degli atti i testimoni si definiscono come di "Nazione Greca
Albanese, e Coronea" ma sottolineando che solo le famiglie in
questione "hanno vissuto, e vivo-/no di loro endrade con splendore, e
nobiltà unica, à differenza di tutti/ l'altri di qesta preda. terra", e
ancora che "nelli matrimonij, che/ tempo in tempo hanno contratto, sempre
sono stati fatti […] essi Greci Alba-/nesi, et […] i migliori di grado, et
grado in tutti questi casali stimati".
Analizzando il primo dei tre atti prodotto in ordine temporale (1723),
ovvero quello relativo all"antichissima famiglia Lopes" di San Demetrio
Corone, si apprende che la famiglia sarebbe giunta nel Regno di Napoli
nella persona del Sig. Duca Todaro Lopes, genero del despota di Morea
Andrea Paleologo, avendo Teodoro sposato la sua primogenita Erginia. Andrea
e la sua famiglia giunsero nel Regno di Napoli assieme alle armate e al
reggimento del Capitano D. Nicola Dragolo:
Al dt. S. Duca Lopes/ dunqe: p essersi trattenuto in qsto Regno con l'altri
Nationali, an-/che per prestare loro ogni cura, la munificenza del
serenissimo/ Impe. Carlo quinto, la soccorse p molto tempo, come è noto à
tutti,/ ed appare […] corroborato coll'antiche scritture nelli Regij Archi-
/vi;
L'atto prosegue quindi enumerando le varie generazioni di discendenti di
Todaro, soffermandosi nel sottolineare gli incarichi prestigiosi ricoperti
di volta in volta dai singoli rappresentanti del casato, come avviene ad
esempio per Orazio Lopes "che poi dall' antiche Si. Pnpi di Bisignano,/ per
la sua nobiltà ben cognita à med.mi fù dichiarato p special Privillo/
Magiordomo, gran' Cancelliere, e nobile familiare della loro
eccellentiss.ma / casa, come sono piene le carte".
Se meno dettagli concernenti la vita dei personaggi offre il terzo degli
atti (ossia quello relativo alla famiglia Tocci), più notizie esso ci
fornisce, inerenti l'arrivo dei profughi in Calabria:
E valli-/cato il Mare Jonio approdarono nella Spiaggia di S. Angelo, sotto
la cittá di/ Rossano, e d. Sig.r D. Pietro p la sua nobiltà, e quantitá di
Ricchezze lasciato al/ Lido quei Guerrieri stanchi con d. Drangoleo si
ritirorono molti mesi in da. Città di/ Rossano, che poi tutta la Gente
ripartiti in molti luoghi á far domicilio,/ l'istesso Cap.no D. Pietro, col
suo unico figlio D. Demetrio si ritirorno con i med.i Albanesi/ nel luogo
d.o Baccarizzo Vecchio Territ.o delli Vesco di Bisig.no , ove formarno
habita-/tione, che si vedono le reliquie
La famiaglia Tocci (che in entrambi gli atti del 1730 e 1735 viene sempre
chiamata Tocco e mai Tocci) discenderebbe infatti direttamente dalla casa
di quel Leonardo III Tocco che fu Despota d'Epiro sul finire del XV secolo.
Un pronipote di Leonardo, tale Pietro, dovette giungere quindi in Calabria
assieme a suo figlio Demetrio. Mentre Pietro si trasferì a Napoli, il
figlio Demetrio rimase in questa terra, accolto come nobile familiare
presso i principi Sanseverino di Bisignano. A comprovare ulteriormente la
discendenza del lignaggio dai Despoti, resterebbero le solite (e ahinoi
introvabili…) 'antiche carte': "tanto che, anticam.te súpra nelle/ loro
firme, e sottoscrittioni, si firmavano Tocco Despoto".
Ciò che emerge da queste scritture è il tentativo di attestare con prove
tangibili (ovvero con una discendenza diretta e formalmente riconosciuta, e
quindi depositata presso un notaio) l'appartenenza ad un ceto nobile, o
perlomeno privilegiato ancor prima dell'arrivo dei profughi in terra di
Calabria. Anticipando di circa quaranta anni le tesi di Rodotà riguardanti
gli Albanesi nobili seu privilegiati giunti nel Regno di Napoli a metà del
'500 [7], in entrambi i documenti il riferimento alle patrie albanesi e
soprattutto Coronee è sempre presente, tant'è che lo stesso Todaro viene
confermato propriamente, Signore di Corone. La decisione proprio in questo
periodo, di attestare e sancire per iscritto l'appartenenza ad un ceto
dirigente, potrebbe forse essere collocata nell'ottica delle riforme che
coinvolsero le istituzioni del Regno e volute da Carlo di Borbone, e
culminanti col la formulazione del catasto onciario col Real dispaccio del
4 ottobre 1740. Se così fosse, i nostri albanesi, in previsione di essere
tassati, avrebbero così tentato di sfuggire al versamento dei tributi
facendo leva sul proprio lignaggio e come discendenti diretti di quegli
antichi Signori giunti da Corone, e già esonerati dal pagamento dei fiscali
dall'imperatoreCarlo V e dai suoi successori [8]. In tutti e tre i
documenti in effetti, si sottolinea che la famiglia, nella persona dei suoi
rappresentanti intervenuti all'atto, non ebbe altre diramazioni e
soprattutto ha goduto e gode di franchigia. Nel documento del 1735 relativo
ai Tocci, e che riprende integrandolo quello del 1730, viene infatti
aggiunto questa volta che il dottor Agostino Tocci, attuale rappresentante
del casato "et che attualm.te come nobilis:mo/ nato dalla schiatta di
questi Antichi Coronei gode il privileggio et franchizia,/ concesse dalla
.. M. dell'Imperato Carlo Quinto, alli d.ti nobili Coronei Albanesi".
Confrontando infine il contenuto degli atti col poco materiale a
disposizione riguardante le stesse famiglie, si notano ancora delle
forzature in quello che emerge dai racconti. Teodoro Lopes ad esempio (se
della stessa persona si tratti), compare a San Demetrio già
nel 1471 (quando cioè viene chiamato a redigere per nome suo e degli altri
albanesi, le Capitolazioni con l'abate commendatario di Sant'Adriano)[9],
mentre l'arrivo dei profughi di Corone viene ascritto soltanto attorno al
1530 ( ma magari l'essere Signore di Corone, non implicava necessariamente
che questi fosse arrivato soltanto alla metà del XVI secolo con la diaspora
coronea…). Sempre dalla lettura dell'atto Lopes, il chierico Marcello,
nipote di Todaro, avrebbe sposato Erina Becci di Santa Sofia (Santa Sofia
d'Epiro) figlia di Pietro Santo Becci, "Cap.no alle guerre di Milano,/ e
Fiandra sotto il comando del Collonello D. Bosicchio Renesi,/ di Barrile,
ancora Coroneo". Dall'analisi degli atti di morte della chiesa parrocchiale
di San Demetrio Corone, la detta Erina Becci muore il 30 settembre del 1677
all'età di 80 anni. Erina Becci quindi, sarebbe nata attorno al 1597. In
realtà Erina non nacque prima del 1608, quando cioè il padre Pietro Santo,
a seguito della morte della sua prima moglie (Domenica Toccia di San
Cosmo), sposerà la madre di Erina, Isabella Ribecco di Spezzano Albanese.
Pertanto è da escludersi che questo Pietro avrebbe potuto combattere alle
guerre di Milano (1521-1544). Tuttavia va piuttosto rilevato, come lo
stesso Pietro Santo Becci avesse invece ottenuto dal duca di Guisa, il
grado di generale dell'esercito repubblicano, nel corso delle rivolte
napoletane della metà del XVII sec [10]. Ciò che resta un dato di fatto é
che a San Demetrio come a San Cosmo, i Lopes e i Tocci, furono le famiglie
egemoni. Grandi latifondisti, coll'avanzare dei secoli accrebbero il loro
potere stringendo alleanze, prima con le agiate famiglie del luogo, e poi
via via, con grandi casate gentilizie e nobiliari di Calabria. Se infatti
si poteva mentire (o meno…) sulle proprie origini, più difficilmente lo si
sarebbe potuto fare per ciò che concerneva il proprio status
attuale "l'odierni Sig.ri D. Benedetto, e/ D. Demetrio Lopes, li qali p la
loro antica nobiltà, e discendenza de/ Sig. di Corona, furono dalli istessi
Sigri. moderni Pnpi di Bisig.no con nuovo Privillegg. particolare,
confirmati nella primiera no-/bile familiarità di loro casa, oltre di ciò
presentemte. stanno essi/ Sigri. Lopes arrollati all'attual servitio
militare del Nostro ……/…. Monarca ed Impre. Carlo terzo, che Dio guardi,
cioè esso/ D. Demetrio colla patente e titolo di Capitano, e d. D. Bened:/
suo Alfiere colla loro Compagnia, destinata p guardia delle/ Marine di
Corigliano". Lo stesso valga per l'abbiente famiglia Tocci imparentata con
gli stessi Lopes due volte in questi anni[11].

Altare della famiglia Tocci di San Cosmo Albanese nella chiesa dei SS.
Pietro e Paolo.
Altre adduzioni potrebbero farsi attorno lo stemma che la famiglia Tocci
innalzò nei secoli e che ancora è ben visibile all'interno della chiesa
dedicata ai SS. Pietro e Paolo a San Cosmo Albanese. Lo scudo infatti, è
identico (d'argento con quattro fasce d'azzurro ad onde acute), a quello
dei Tocco di Cefalonia e degli altri rami da esso discendenti dei Tocco di
Napoli e di Tropea. Il capo dello scudo è qui ripartito e riporta a destra
un cavallo alato; cioè lo stesso Pegaso innalzato ancora come cimiero nel
1704[12] dai Tocco di Tropea e ben visibile pure negli stemmi dei Tocco
napoletani. Pertanto, un collegamento genealogico dei Tocci di San Cosmo
con queste mentovate famiglie, potrebbe essere comprovato da un legame e da
un'affinità stilistica dalle armi innalzate da queste famiglie nei secoli
passati.

[1] "li presenti capitoli matrimoniali s'intendano, ed intender debonsi
stipulati alla nuova maniera, cioè secondo le costumanze de nobili sedili
di Capuana e Nido della Città di Napoli, non ostante che non siano
cittadini Napolitani, e non posedesero beni infra districtum, e d.(etta)
dote non fosse costituita nella Città di Napoli". Cfr. Archivio di Stato di
Cosenza (d'ora in poi ASCS), sezione notai, Stefano Pasquale Baffa, a.
1786, f. 14r. I capitoli suddetti erano riservati in Napoli, e nelle
provincie del Regno, ai cittadini di stirpe nobile e iscritti alla nobiltà
Partenopea. Tuttavia è bene ricordare come non si tratti qui di cittadini
di ceto nobile (in senso stretto) ma bensì di una casta elevata nelle cui
mani era accentrato gran parte del potere cittadino. Il termine nobile in
effetti, va assunto qui nel significato più generico di gentiluomo o
persona che vive "more nobilium", cioè secondo il costume dei nobili; che
vive perciò nobilmente. Pochissimi in effetti, sono i matrimoni contratti a
questa maniera nella sola comunità di Santa Sofia d'Epiro nell'arco di
tempo che va dal Settecento all'Ottocento, dei Baffa coi Samengo di Lungro,
dei Lopez coi Pascuzzi di Macchia Albanese, e ancora dei Masci coi Marini
di San Demetrio Corone.
[2] Rodotà Pietro Pompilio, Dell'origine progresso, e stato presente del
rito greco in Italia osservato dai greci, monaci basiliani, e albanesi
libri tre, Vol III, rist. Brenner, Cosenza 1986.
[3] Masci Angelo, Discorso sugli albanesi del Regno di Napoli, rist. Marco
ed., Lungro, 1990.
[4] Dorsa Vincenzo, Su gli albanesi, ricerche e pensieri, rist. edizioni
brenner, 1985.
[5] In effetti, un'altra testimonianza della venuta dei profughi dalla
città di Corone, la si ritrova già qualche anno prima, nel 1753, della
pubblicazione dell'opera di Rodotà. Si tratta di un'indicazione che compare
nel catasto onciario di San Benedetto Ullano dove si legge chiaramente:
"Cittadini originarij di S.n Benedetto Ullano Albanese Venuti j pʳmi dalla
Citta̓ di Coronide ad abitare, e fondare in questo terit:rio Abbadiale sin
dall'an. 1500". ASCS, catasti onciari, San Benedetto, a. 1753, f. 2r. È
possibile consultare il catasto attraverso il sito web dell'archivio di
Stato di Cosenza al link: http://www.onciario.beniculturali.it/
[6] ASCS, sezione notai, Marsio Castagnaro, fogli sciolti privi di
numerazione, in anni 1723, 1730, 1735.
[7]«Carlo V in attestato di sua gratitudine verso la costante fedeltà
de'Coronei, e per tener viva, né mai cancellare dalla mente de' suoi
successori il loro merito, spedì diploma li 18 luglio del 1534»… «e dando
libero il corso alla sua sovrana generosità, gli cumula di molti ed insigni
privilegi, e gli esime dai tributi, e contribuzioni comuni agli altri
sudditi, dai pesi ordinari e straordinari, imposizioni imposte, ed
imponende, e da da qualsivoglia pagamento fiscale, buona tenenza, ed altro
gravame:». Rodotà Pietro Pompilio, Dell'origine progresso, e stato presente
del rito greco in Italia osservato dai greci, monaci basiliani, e albanesi
libri tre, Giovanni Generoso Salomoni, Roma, 1763. Lib. III, cap. III, pag.
57. Va ancora ricordato tuttavia di come le famiglie Lopes e Rodotà fossero
imparentate tra loro, avendo il chierico (divenuto poi reverendo di rito
greco) Michelangelo Rodotà di San Benedetto Ullano (e padre del detto
Pietro Pompilio), sposato Maria Lopes di San Demetrio Corone. Altra
testimonianza precedente l'uscita dell'opera del Rodotà, e riguardante gli
albanesi d'Italia e la loro ascendenza Coronea la ritroviamo in un altro
documento relativo la comunità albanofona di Maschito, in
Basilicata: «…l'origine "nobiliare", ad esempio, è denunciata dai documenti
firmati dai sindaci di Maschito che, intorno al 1736, accanto al proprio
cognome, a denunziarne orgogliosamente l'origine, opponevano l' "Universal
Suggello"e dunque: Tommaso Giura Eletto de Coronei; Domenico Campera Eletto
de Coronei; Lazzaro Manes Capo Eletto de Coronei». Cfr. Mazzeo Donato
M., Maschito, Storia e leggenda verso il futuro, Basilicata Arbëreshe,
2001.
[8] «Lo stesso Carlo V confermò per gli esulati Coronei le franchigie di
già date. Tali privilegi furono eccezionali e duraturi tanto che noi
anticipando i tempi stimiamo di riferire che vennero postoriormente
sanzionati da Filippo III nel 1620, da Filippo IV nel 20 agosto 1672
(esecutoriati nel 25 agosto 1663), e finalmente da Filippo V. Tra le altre
disposizioni Filippo III permise ai Coronei di asportare le armi in
qualunque luogo, fin dentro gli appartamenti del Principe: divennero così
le lance spezzate del re di Spagna. Da questi privilegii probabilmente
furono esenti dal pagamento dei fuochi anche dopo le revisioni fatte fino
al 1659. Comunque la fosse andata i privilegii dei Coronei per lungo tempo
goduti resero più odiose le restrizioni agli altri dai vicerè imposte. La
libertà di stabilirsi a piacimento in qualunque luogo, le terre loro
assegnate, lo appuntamento annuale sulla cassa dello Stato; l'addove i
predecessori nulla ottennero, la facoltà di asportare dovunque le armi, nel
mentre che nagli altri erasi proibita di andare armati; il nome stesso di
cavalieri con cui Carlo V nel suo dispaccio aveva chiamati i Coronei di
fronte alla ingiunzione fatta ai connazionali di non potere andare a
cavallo con briglie e speroni, comprovano quanto fosse stato diverso il
fato dei varii gruppi di uomini appartenenti tutti allo stesso popolo, ed
emigrati per la identica cagione.». Cfr. Francesco Tajani, Istorie
Albanesi, tip. Fratelli Jovane, Salerno, 1886; rist. ed. Casa del libro di
Gustavo Brenner, Cosenza, 1969.
[9] Sulle capitolazioni: Innocenzo Mazziotti, Immigrazioni albanesi in
Calabria nel XV secolo e la colonia di San Demetrio Corone (1471-1815),
pag. 94-98, ed. Il Coscile, 2004.
[10] AA.VV., La Calabria albanese, pag. 97, ed. Rubettino, 2013. Rovito
Pierluigi, La rivolta dei notabili, ordinamenti municipali e dialettica dei
ceti in Calabria Citra. 1647- 1650, Jovene, Napoli, 1988, nella collana
Storia e Diritto di Raffaele Ajello, pag. 143. Resta pure comprovato di
come Pietro Santo Becce sia "absentis ad bellum" e lontano quindi dal
casale albenese, negli anni 1634 e 1652. ASCS, sezione notai, Giovanni
Domenico Verderamo, a. 1634, f. 209r.; a. 1652, f.59v.
[11] Il dottor fisico e galantuomo (così come compare nel catasto onciario
di San Cosmo) Agostino Umile Tocci, era sposato con Anna Lopes, sorella
maggiore dei fratelli Benedetto e Demetrio presenti all'atto del 1723;
mentre la sorella più piccola, Domenica Lopes, avrebbe sposato il reverendo
di rito greco D. Giovanni Andrea Tocci, dal quale matrimonio nasceranno Don
Guglielmo Tocci, curato di S. Cosmo e candidato alla carica di vescovo e
presidente del collegio Corsini insieme a Don Francesco Bugliari da Santa
Sofia; e i suoi fratelli Terenzio, Flaminio e Donato Tocci.
[12] Toraldo Felice, Il sedile e la nobiltà di Tropea, Rist. anastatica,
Forni ed., Bologna, 1983.
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