william richard Lethaby, architettura misticismo e mito

October 12, 2017 | Autor: Guglielmo Bilancioni | Categoria: Architecture, Architectural History, Architectural Theory, History of architecture
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Tecnica e Tradizione collana diretta da Guglielmo Bilancioni

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William R. Lethaby

Architettura, misticismo e mito a cura di Guglielmo Bilancioni

William R. Lethaby

Architettura misticismo e mito a cura di Guglielmo Bilancioni Progetto grafico di Simona Pareschi realizzato da Giorgio Morara (Studio Meta). Illustrazioni dell’autore. Traduzione di Chiara Visentin riveduta dal curatore. Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Università degli Studi di Genova.

William R. Lethaby Architecture, Mysticism and Myth, 1891 Solos Press, Melksham, Wiltshire (UK) 1994

TUTTI I DIRITTI RISERVATI © 2003, Edizioni Pendragon Via Albiroli, 10 – 40126 Bologna www.pendragon.it È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

INDICE

William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori, di Guglielmo Bilancioni

p.

VII

Prefazione

3

Introduzione

5

CAPITOLO PRIMO Il tessuto del mondo

12

CAPITOLO SECONDO Il microcosmo

32

CAPITOLO TERZO Il quadrato

50

CAPITOLO QUARTO Al centro della Terra

65

CAPITOLO QUINTO L’albero dei gioielli

85

CAPITOLO SESTO Le sfere planetarie

109

CAPITOLO SETTIMO Il labirinto

132

CAPITOLO OTTAVO La Porta d’oro del Sole

154

CAPITOLO NONO Pavimenti come il mare

178

CAPITOLO DECIMO Soffitti come il cielo

196

CAPITOLO UNDICESIMO Le finestre del paradiso e i trecentosessanta giorni

208

CAPITOLO DODICESIMO Il simbolo della creazione

224

GUGLIELMO BILANCIONI

WILLIAM RICHARD LETHABY: IL COSMO DEI COSTRUTTORI

Hate was just a legend and war was never known people worked together and they lifted any stone and they carried it to the flatlands and they died along the way but they built up with their bare hands what we still can’t do today. Neil Young

Agricoltura e Architettura: sono le uniche arti che trasformano la crosta terrestre. L’ergersi di un edificio o di un albero, il loro Stare su terra, e il loro impianto, riguardano fondamenta e radici, che si diramano profonde, interconnesse nel cosmo, e intrecciando libertà e necessità, fino al centro della Terra. I primi templi, adorati nella virile semplicità fra i silenzi della natura, erano alberi, Alberi della Vita e Assi del Mondo, Pilastri del Controllore. AM&M, Architecture, Mysticism and Myth, che venne subito chiamato The Cosmos dai suoi primi lettori-adepti, fu pubblicato da William Richard Lethaby nel 1891, lo stesso anno de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, il quale affermava, in ieratica estetizzante affettazione, che “quelli che leggono il fondo del Simbolo lo fanno a loro rischio e pericolo”; i due ponderosi volumi di The Secret Doctrine di Helena Petrovna Blavatsky erano intanto stati pubblicati a Londra nel 1888. La scena di questo libro è costituita da “cose fatte”, messe in relazione con la passione delle origini, e dallo studio della loro misteriosa fattibilità, che è fungibile facilità, facility, la quale nasce nella tecnica e diventa la Cultura. Si vedono agire in meravigliosa congiunzione forma e disciplina, l’orgoglio del romanticismo e la misura del realismo, uno VII

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sguardo lungimirante nelle cose ancestrali e una sapienza tecnica della precisione, a sua volta generatrice di perfezione. Lethaby è mosso da una accesa memoria retrogradata della forma iniziale: ed attende alla ricerca, in ascesa, della grande madre della Pietra: Mother of Stone. Dispone per questo in piani simpatetici l’Antico, l’arcaico dei crudi inizi, l’ordine rustico, gli arcani monumenti, durevoli e misteriosi, nati dalle visioni dei popoli. Architettura e trascendenza, forma e forza, e la visione del loro confluire: in AM&M viene mostrato come lo sviluppo della pratica del costruire, grande e necessaria, e le idee sulla struttura del mondo come un tessuto divino agiscano, e come reagiscano. Con una propensione naturale per il disegno perfetto – Godfrey Rubens nella sua grande monografia del 1986 parla di “sparkling representational views”, di vedute scintillanti – William Richard Lethaby, a 19 anni, nel 1877, pubblicava il suo primo lavoro in «The Building News», e vinceva premi e borse di studio: il primo premio ricevuto, usando Début come motto e pseudonimo, era di 5 sterline, che gli furono consegnate dal Building News Designing Club; poi ottenne il Soane’s Medallion conferitogli dal Royal Institute of British Architects, e, l’anno dopo, vinse la Pugin Travelling Scholarship, grazie alla quale viaggiò in Francia – con Sir John Soane e Augustus Welby Northmore Pugin come spiriti guida! – per studiare i castelli della Loira ed il mistero delle Cattedrali: ne misurò e disegnò trenta. Viaggiò molto anche attraverso l’Inghilterra, studiando il vernacolo religioso e le piccole forme semplici della tradizione sacra. A 22 anni, nel 1879, dopo aver lavorato per qualche mese con Richard Waite, un architetto metodista, e disegnato, per i non-anglicani, una Nonconformist Chapel per T.H. Baker, fu chiamato a lavorare, a Londra, come Chief Clerk, o Senior Assitant, lui che era il più giovane di tutti, nello studio del grande Norman Shaw, che lo aveva chiamato dopo aver visto i suoi disegni, e che, fra i tavoli di lavoro e in società, gli tributava continuamente grandissime manifestazioni di stima, arrivando a deVIII

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finirsi suo allievo: “It is I who am Lethaby’s pupil”. “Qualunque cosa Lethaby dicesse o facesse, non impressionava mai Norman Shaw”, ha testimoniato un altro Clerk dello studio: dalle idee socialiste alle barche solari degli Egizi. Il maestro segreto dei maestri: questo il ruolo delicato cui conducono i doni della Sapienza, esercitati nell’arte. Molte delle splendide vedute assonometriche a volo d’uccello che hanno reso famoso Norman Shaw sono di mano di Lethaby, e molto devono a lui le nuovissime “piante agglutinanti”, libere nei loro scatti angolari, che uniscono nella semplicità forma e funzione. E a lui vanno ascritti molti piani di dettaglio dell’edificio per la New Scotland Yard. Nel 1881 vinse un premio di 25 sterline per un concorso sul tema: Monumento per un vescovo. Dall’82 all’84 lavorò per la Compagnia dei gioiellieri. L’influenza di Lethaby su architetti, artigiani, pedagoghi e storici ha cominciato ad irradiarsi nella organizzazione di scuole, e fu proprio come insegnante che dispiegò sempre i suoi migliori talenti: fondò la Art Workers Guild nel 1884, e lavorò attivamente nella organizzazione della Arts and Crafts Exhibition Society. Aveva colto la vera essenza di un vero insegnare, il delectando docere: “Lo scopo dell’insegnamento, diceva, è unire la disciplina con la delizia”. Nel 1890 – in compagnia di Mervyn Macortney, di Reginald Blomfield, di Sidney Barnsley e di Ernest William Gimson, fervente allievo di Morris, con il quale a Pinbury Mill, discuteva della bellezza di navi vichinghe e di vagoni ferroviari, e di mobili semplici, “prossimi alla natura” – fondò la ditta Kenton & Company, “con l’obiettivo di fornire mobilia di buon disegno e di buona fattura”. L’impresa durò soltanto diciotto mesi. Su Gimson, nel 1924, Lethaby scrisse un saggio: London days, per il grande libro sui suoi lavori. Del 1891, è una sua Proposta per una Via Sacra a Londra, la “Decifrazione del grande Palinsesto”. Espose alla Royal AcaIX

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demy, viaggiò a Costantinopoli, fu Art Inspector nel Comitato per l’Educazione tecnica, e diresse la Central School of Arts and Crafts dall’apertura della scuola nel 1896, l’anno dell’arrivo in Inghilterra di Hermann Muthesius e della morte di Morris, e fu professore di Ornament and Design al Royal College of Arts nel 1900. Lethaby è stato anche la suprema autorità, per quarant’anni, della Society for the Protection of Ancient Buildings, che teorizzava, con attivismo instancabile, la attenta e costante manutenzione degli edifici antichi come la forma più alta di restauro. “Gli edifici antichi non vanno sfruttati” diceva “come un territorio selvaggio ed abbandonato, ma curati come una dimora, per essere protetti e utilizzati correttamente”. Le riunioni serali della Society, una “Anti-scrape Society”, composta da “costruttori razionali”, avevano luogo, come convivi, da Gatti’s sullo Strand: lì Lethaby, appena pubblicato AM&M, aveva iniziato ad incontrare spesso Philip Webb, essere amico del quale considerava un privilegio, e William Morris, che appassionava gli astanti invocando il risveglio delle coscienze: “i nostri edifici antichi non sono balocchi ecclesiastici, ma monumenti sacri della crescita e della speranza della nazione”. Consultava, poi, pergamene in arcani archivi, credeva fermamente nel valore dell’invisibile e lo intravedeva celato nella geometria; e, sempre tollerante e sempre selettivo, sapeva unire lo spirito di mistero all’intuito pragmatico. Pangloss romantico, liberando le menti dalle prescrizioni dello storicismo, educava alla ragione della totalità. Lethaby, figlio di un sapiente artigiano che scolpiva il legno e lo indorava, ha praticato solo dieci anni come architetto costruttore producendo opere di grandissima qualità, prima di dedicarsi completamente allo studio e all’insegnamento: Avon Tyrell a Ringwood nello Hampshire, per Lord Manners, è del 1891, l’anno di AM&M; per questo progetto, che gli era stato offerto come un’opportunità, e un dono di stima, da Norman Shaw, Lethaby preparò 223 disegni di dettaglio: camini, serliane, bow-windows angolari, soffitti istoriati, e pavoni. X

William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori

The Hurst, del 1892, con la sua pianta ad L, racconta di nuovo, ingentilendola, la leggenda della Red House di Webb, ma si avvicina a Voysey e ad Ashbee nella contenuta e liscia sobrietà, nelle nitide soluzioni di dettaglio, e nella coerenza, strutturale, fra interno ed esterno.

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La grande Melsetter house sull’isola di Hoy, nelle Orkneys, è stata da Lethaby completamente rielaborata nel 1898, fra aggiunte e conservazioni sensibili delle mura esistenti, con una grande sapienza di tutto quanto è “domestico”: vedendo le gentili finestre a cuore, i soli e le lune, la figlia di Morris, May, sentiva di essere in un “palazzo fatato, remoto e romantico, fine e degno”, nel quale aleggiava “the spirit of Welcome”, un bellissimo Benvenuto.

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William Richard Lethaby: il Cosmo dei Costruttori

L’edificio per la Eagle Insurance a Birmingham, del 1900, costruito con Joseph Lancaster Ball, reca sulla sua facciata modulata simboli ancestrali e le partiture rigide dei primi moderni. Banister Fletcher, che deve molto a Lethaby per i chiari disegni della sua storia comparativa dell’architettura, dice che questo edificio è superiore a molti edifici di quel tempo per “la validità delle linee e l’onestà di espressione”.

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L’ultima opera nel 1902: All-Saints, una piccola chiesa di campagna, a Brockhampton, è una sintesi suprema di tradizione celtica e moderno, di teologia mistica ed austera primitiva umiltà, che Henry Russell Hitchcock ha definito “proto-espressionista”.

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Espressionismo voleva dire per Lethaby la capacità di esprimere in un edificio, assieme, la struttura e le funzioni in esso contenute: impiegò il termine per spiegare The Hurst. Anche il progetto per il concorso della cattedrale anglicana di Liverpool è del 1902; disegnato con Halsey Ricardo, con il

quale progettò città-giardino, Robert Weir Schultz, con il quale aveva studiato Bisanzio, ed altri, nel 1902, è in questo senso espressionista: vive di una sperimentale copertura unica, pulsante, di cemento armato, piegata in gusci, nuda e corrugata, dalla potente struttura moderna. “Il cemento diventa matrice dello spirituale”. “Armoured concrete”: cemento armato di un’armatura araldica. Lewis Mumford nella prefazione del 1956 a Form in Civilisation, una vasta raccolta di saggi di Lethaby, ha scritto che la sua grande importanza risiede nell’aver portato “la dottrina Arts & Crafts oltre lo stadio del pio medievalismo e della cieca meccanofobia”. Hermann Muthesius, nel suo libro sulla Casa Inglese, aveva ben compreso le qualità delle architetture di Lethaby: “Le case di Lethaby sono capolavori imbevuti di una estetica eccellente e di una atmosfera spiritualizzata, nei quali la purezza e il XV

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comfort portano una atmosfera delicata e distinta nella fosca grandeur della casa inglese”. L’influenza di Lethaby è quindi forte anche nel Werkbund tedesco: viaggiava spesso in Germania, prima e dopo la guerra mondiale. È lui, quindi – l’autore di AM&M! – il ponte che permette il grande passaggio, come diceva Sir Nikolaus Pevsner, fra William Morris e Walter Gropius. La grande querelle sull’Architettura come arte o come professione lo vide protagonista. Stilarchitektur oppure Baukunst?, sintetizzò Muthesius, che aveva visto da vicino queste discussioni: architettura in stile, imitativa Grand Manner carica di ormai inutili pasticci, oppure una scientifica arte del costruire, appagata dalla sua nuova tecnica, coesa, ed attenta, con rigore di standard, al Materiale? Reyner Banham avvicina Lethaby a Viollet-le-Duc ed a Choisy, che aveva unito nei suoi studi gli ingegneri moderni e quelli di Bisanzio, mentre irriverente e superficiale, anche con Lethaby oltre che con Pevsner, è David Watkin, che in Architecture and Morality accosta Lethaby a Viollet-le-Duc, ma lo accusa di “collettivismo romantico”, confondendo il socialismo con il populismo. Le idee dell’autore di AM&M si formano nella fede e nella visione, e prendono il volo nel tratto affilato del miniaturista, che unisce intimità, idillio e precisione, come il tratto umile e assoluto dei disegni di Tessenow. È stato notato che la sua equilibratissima Draughtmanship, un indiscusso magistero nel controllato disegno, si accompagnava spesso ad una vertiginosa sketchmanship, la capacità di far apparire una idea, anche complessa, con gli schizzi: con i suoi disegni “stimolanti in eccesso”, come disse un invidioso detrattore, aiutava gli amici nei concorsi con generosa passione, e dava linea a porcellane per Wedgwood, altari di gesso per chiese lontane, camini istoriati pomposi ed austeri. Nel 1911 lavorò al Memoriale per Edoardo VII, a Marienbad. Le grandi qualità che ritraggono Lethaby, e che spiegano i suoi doni come educatore erano: l’umiltà, una affascinante modestia, la poesia, i suoi saldi principi; era cortese, tenace, aveva un impressionante potere di osservazione ed un forte disgusto XVI

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per la pubblicità. Pieno di vita, simpatico a tutti, si divertiva spesso e rideva volentieri. Witty di un’acutezza concentrata ed esilarante, aveva la rara qualità di perseguire uno scopo unico e molto chiaro, ed era un grande conoscitore dei poteri della parola, che gli derivavano dallo studio intenso, eppure era elusivo con gli antagonisti, cui dedicava, irritandoli molto, soltanto il suo silenzio. Lethaby stimola, diverte anche, e influenza, perché vuole che le persone vedano con i loro occhi; musica la sua parola, come un arpeggio di Delius, era dotato di un “uncanny insight”, lo ha scritto Alfred Powell, di una inquietante capacità di introspezione, e di qualità rare e sorprendenti: una volta raccolse un mazzo d’erba dalla Terra, e sfregandolo sulla carta, rese bellissimo un disegno. Amava lo spirito del gotico, ricercando le choses moyenageuses di cui scrive Simone Weil, più di ogni altra cosa, assorbito com’era dal suo potente mistero. Lethaby dà vita alle “ostinazioni dell’impenetrabile”, che secondo George Steiner rendono sensibili le “vere presenze”. Una mente soddisfatta, un professore dal Syllabus appassionante, era, come disse John Brandon-Jones, “l’architetto che si fece maestro”, che faceva vedere, nel buon esempio, come il valore di un’opera risieda nella quantità di umanità che essa sappia incorporare, e come un’opera d’arte sia, molto semplicemente, “a well made thing”, una cosa fatta bene, nella spontanea ma dotta interazione di tutte le arti. “Non vi è scuola perfetta” diceva, chiedendo sempre, severo, agli studenti di migliorare “solo una infinità di perfezioni concepibili”. L’educazione ha bisogno di entusiasmo, e le parole-chiave del suo insegnamento etico ed entusiasmante erano parole semplici, di una semplicità difficile: economia, efficienza, ragionevolezza, intellegibilità, cura, piacevolezza, compattezza, umanità, disciplina, sincerità. Ma l’educazione ha bisogno anche di detti memorabili, secchi e veri come aforismi, che possano essere ricordati e riportati, citati, trasmessi. Pevsner parla, entusiasta per l’originalità, dei “quotogenic sayings” di Lethaby. Si teneva in disparte, dice Sydney Cockerell, ma era un cristallo scintillante secondo Noel Rooke; con una sua visione XVII

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aperta e onesta, aveva un forte senso del dovere, uno spirito temperato e completo, era un entusiasta dal chiaro giudizio, ed emanava una luce sofisticata insieme ad una assoluta discrezione. Una sua allieva, ceramista, lo ha affettuosamente caricaturato come “un coniglio con i baffi bianchi, dall’occhio scuro e veloce”: è proprio il bianconiglio che, dopo aver estratto un orologio da tasca dal suo panciotto, ed aver guardato l’ora, conduce la Alice di Lewis Carrol nella magia del Wonderland, il Paese delle meraviglie. Positivista e esoterico, antico e moderno, era l’elettrizzante maestro della parola parlata in lezioni, conversazioni, spiegazioni, “prediche ferventi”, conferenze e discussioni – il suo Gospel, è stato detto – come era capace di unire con agio Scienza Sacra e bon-ton, le origini ancestrali con le buone maniere. La sua natura finemente temperata, e la sua statura dolce e luminosa, la sua euphuìa, gli permettevano di congiungere forze morali e passioni estetiche, i sensi e il cuore, la comprensione e l’immaginazione, in un sottile ed efficace bilanciamento di teoria e prassi, dal quale si stagliava, in bell’equilibrio, l’architettura come un “costruire toccato dall’emozione”. Una “Alta Utilità”. William Richard Lethaby rifiutava sistematicamente ogni onorificenza, declinando persino la medaglia del Royal Institute for British Architects; l’università di Manchester dovette, un giorno, fargli scivolare nella tasca una pergamena nella quale era inscritta, per lui, una laurea ad honorem; non rifiutò. A 65 anni, nel rispondere al caloroso encomio indirizzatogli da duecento allievi che lo riconoscevano eminente nelle arti e nella vita pubblica, diceva che, fra le molte cose da lui viste e studiate, gli rimanevano come amori indiscussi: le sculture di Fidia, gli edifici medievali, i quadri di Turner, e i patterns di Morris, che per lui non erano delizie ma profondità. Umile fino in fondo, rifiutò anche di essere sepolto nell’abbazia di Westminster, quando morì nel 1931. Gli si può rendere XVIII

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omaggio nella Saint Mary’s Church, a Hartley Wintney, dove abitò nell’Albion Cottage, nello Hampshire. Sulla sua tomba l’iscrizione: “Love and Labour are All”. Ultimo dei romantici e primo dei moderni, lo studioso profondo di – come diceva scrivendo di Webb – “quella cosa misteriosa che chiamiamo architettura”, va annoverato, ma con studiata attenzione, fra i “pionieri del movimento moderno”, perché sempre attento alla “efficacia strutturale”, cui seppe conferire, in programmatica semplicità, il più pieno dei significati: il significato simbolico. Calligrafo, teosofo, aforista e mitografo, attento all’armonia fra uomo e universo, come un architetto medievale, Lethaby è un profeta e, insieme, dice Rubens, un interprete dello Zeitgeist. È in opposizione con la sua epoca ma le sue idee verranno assorbite da essa come un potente antidoto modernizzante: le transizioni epocali avvengono quando il più profondo dell’antichità incontra il più avanzato della Novitas, che urge nel fondamento come espressione a venire. Impersonare la fusione di efficacia ed arcano, ed attingere ad un grande deposito, patrimonio dei popoli, conferisce l’indiscussa autorità della duratura influenza, che ha sempre radici nella trasmissione. Eppure, “Hardness, facts, experiments, that should be architecture, not taste”, scrive in una lettera del 1907 a Cockerell: non è il gusto l’architettura, ma dura consistenza, fatti ed esperimenti. Vi è un residuo di utilitarismo positivista in questi facts, una profonda radice nel solido senso pratico. Sembra qui risuonare il triangolo Kraft Stoff Idee; il nucleo della estetica pratica di Semper, che era stato esule in Inghilterra. Lo stile – mai: gli stili! – va messo in relazione con la natura; la bellezza è generata dallo stile, stile è tradizione, e la natura è la umana concezione dell’universo; lo stile, dice Lethaby con un deciso tratto semperiano e antiplatonico, è il risultato di una dialettica fra uomo e natura, che riflette una mutevole concezione della realtà ed è in continua mutazione, come la natura stessa. È la natura eroica adorata da Ruskin, eroica come la natura del craftsman, l’artigiano sapiente che estrae gemme, e sa XIX

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anche essere imperfetto, dal buio del non essere. John Dando Sedding diceva: vi è “hope in honest error”, nessuna speranza, invece, nelle perfezioni del mero stilista. Lo stile è lo spirito della forma, e gli “stili catalogati”, con gli eclettici eufemismi di un triviale revival, non contengono verità, sono “thrice-boiled slims”, cose da poco e cotte troppe volte, come i voluti effetti, le features, il Fancy decorativo meccanico stigmatizzato da Ruskin, dalle forme furbe e inconsistenti. Come Goethe, Lethaby è capace di vedere l’essenza della bellezza in una pozzanghera iridescente, “piccolo mare con le sue rive, specchio di tutta l’immensità”. Da quella visione, propriamente cosmica, muove alla magnifica ricerca della “influenza dei fatti noti e di quelli immaginati dell’universo” sull’Opus di architettura. Intende l’azione di scienza e arte. Tiene conto della storia ma conferma che l’immaginazione, per gli umani, è forza vivente che ripete la creazione, agente di ogni percepire e fonte di felicità, e indica, raggiungendo profondità abissali, la connessione fra il mondo come struttura e l’edificio costruito. Svelata la finalità invisibile che soggiace al fondo della struttura e della forma, vuole scoprire, e far agire di nuovo, i “principi esoterici dell’architettura”. Perché l’architettura, per essere tale, deve essere una imitazione del cosmo, una mimesi riducente dell’universo, e recare in sé l’eco del Principio. Nella sua appassionata quête, mette in congiunzione attiva struttura intelligibile e scienza verificabile, gnomoni, cristalli, numeri sacri, macrocosmo e microcosmo, ed in questo ha un metodo da maestro rigoroso: “se vuoi conoscere il nuovo devi cercare l’antico”. L’impressività inerente della forma è estratta, per via di levare, dalla conoscenza della connessione delle pietre, e l’architettura è esaminata in quanto ha fondamento su atti rituali e ripetitivi, dal risultato certo, come la magia. Vige, negli studi di Lethaby, che conosceva Vitruvio, l’arte dei principi primi, prodotta da abili Machinatores, ingegnosi structores, e davvero sapienti magistri. Come nelle macchine di Villard de Honnecourt, l’arte segreta che muove e connette le pietre, e dispone diritti i XX

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mattoni, è una unione e una forza: il vero senso del Craft, arte applicata alla Sapienza del Come. “There is a kind of free-masonry in the craft”, sentenzia secco e profondo Charles Dickens, in Sketches of Boz. Gli studi di Lethaby dipartono da quelli di John Ruskin, per il quale l’architettura è seconda natura, poiché nasce dalle sue necessità ed in questo esprime la sua natura propria. Gli scritti di Ruskin sull’architettura si centrano tutti su come realizzare la congiunzione della volontà umana con la natura. Ma il pensiero di Ruskin si evolve. “Con Queen of the Air, del 1869, e con i libri successivi” scrive Adrian Forty, in Words and Buildings, “Ruskin cominciò a vedere come il significato della natura dovesse essere compreso non attraverso l’osservazione dei fenomeni naturali ma attraverso la mitologia, la quale, credeva Ruskin, esprimeva il significato della natura e la sua essenza in modo più completo rispetto alla pura osservazione. Il portato architettonico sull’architettura successiva è stato limitato; AM&M di Lethaby è stato l’unico tentativo di sviluppare queste idee in relazione con l’architettura”. Lethaby ha appreso da Ruskin che l’uomo di gusto è l’uomo che ottempera alla volontà divina e che la contemplazione della bellezza è compiuta percezione di un ordine divino. E che nel cercare, con devozione, ciò che è comune si rinviene l’essenziale. Il quale viene prima della grandezza, e della eccellenza verificabile, ed è più grande dei monumenti: il Santo Graal dell’architetto, l’Essenziale, si cela nell’anelito dell’arte alla semplicità, alla purezza originaria del simbolo. Per appagare questo anelito l’architetto dovrà piegarsi con umile devozione alla preconcetta, e rigidamente calcolata, necessità, dovrà estrarre la sua libertà dal vincolo, e misurarsi con cellule originarie e tracciati regolatori, incontrando, in una superiore taxis, il proprio registro, e in una bella stasi una appropriata sede. “L’arte è molte cose” scriverà Lethaby, trent’anni dopo AM&M, in What shall we call beautiful, un saggio del 1918 “è servizio, record, e stimolo: non è soltanto una questione di genio; senza il fondamento dell’arte comune non si può raggiungere il XXI

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culmine del genio”. E quel che Lethaby definisce come l’arte comune riguarda tutte le cose ordinarie della vita. Bisogna riferirsi al naturale, insegna, all’ovvio e al ragionevole, per poter riconciliare la scienza con l’arte. Il rapporto di invenzione fra norma e forma deve basarsi su moderazione e limitazione, sul controllo di “symmetry, smoothness” e “sublimity”, e, nell’equilibrio fra quanto è levigato e quanto è sublime, deve essere in grado di esprimere verità in simboli comprensibili; la bellezza sta, come religione, in forme di convenzione diffusa: la forma di un pane con le sue croccanti decorazioni o un quilt del Northumberland, o la treccia raccolta in forma di cuore di una fanciulla felice. “Abbiamo bisogno di una daily bread beauty, una bellezza da pane quotidiano: senza di essa moriamo di fame”. Le nozioni psicologiche e filosofiche trovano, spiega Lethaby, espressione simbolica nelle forme architettoniche; l’architettura è produzione e consegna all’umanità della bellezza, e questa consegna è una offerta di devozione sia verso la natura che verso l’umanità; perché questo scambio avvenga bisogna, con l’opera, produrre interpretazione e non soltanto un manufatto. Non si possono perciò, mai, disgiungere l’architettura e il simbolismo. “L’avventura è qualcosa da compiere con la testa e con la mano”, dice il Martin Eden di Jack London: è propriamente un procedere avventuroso, quello guidato dalla congiunzione di architettura e simbolo, una autentica Architecture of Adventure, come intitolò una sua profetica conferenza del 1910 sul moderno: negli edifici antichi architettura e ingegneria sono uno; essi emergevano dal terreno come parte della Terra e dell’uomo. Sintesi della civiltà, l’architettura congiunge le capacità umane con gli umani sentimenti. L’architettura è nata dalla necessità ma mostra subito una qualità magica; i veri edifici toccano profondità di sentimento e dischiudono le porte della meraviglia. Il cuore delle antiche costruzioni, da cui spirano inni criptici attraverso gli Eoni, era la meraviglia, e l’adorazione devota che essa induceva, ottenuta attraverso la pratica della magia e la conoscenza trasmessa del simboXXII

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lo; in questo cuore pulsavano ed agivano molte idee, che nell’Opus costruito diventavano Idea unica: idea del sacro e del sacrificio, di esattezza rituale, di stabilità magica e di corrispondenza con l’universo, di perfezione nella forma e nella proporzione. Lo scopo dell’architettura, dice Lethaby è “soddisfare l’intelletto”, essa è “pensiero incorporato in una forma”. La storia dell’architettura, perciò, non è la storia della costruzione di meri oggetti, che sono soltanto il veicolo materiale dell’architettura, ma è storia delle idee e delle sapienze, non solo tecniche, che ne hanno permesso, e ordinato, la realizzazione. È la storia del divenire nell’essere, nell’essere-così delle cose fatte. Poiché, come dice la Tradizione, “l’Arte muta, ma il Principio non può”. Lo spiega bene, quasi ieratico, Martin Heidegger: “L’essenza della tecnica non consiste in ciò che essa ha di tecnico, ma si limita a celarsi in esso”. E un atto architettonico, che unisce Principio e Tecnica, è sempre un impianto, una Pianta, astratta e arcana ichnographia. La Fondazione, come la scelta del suo Luogo, nasce da un tracciato di linee magiche sul terreno. Lo storico dell’architettura deve, per questo, essere anche un etnologo, un antropologo, un archeologo e archeometra, un saggio analista delle forme archetipiche, ed uno psychometra, che sappia vedere congiunte l’anima delle cose e l’anima del mondo. Deve saper unire allegoria ed etimologia. Sembrano infiniti i riferimenti, espressi o celati, di AM&M; una plètora, un vortice rutilante di sincretismi, una ridda di colonne istoriate e di blocchi giganteschi, il cui elenco, qui approssimativo per difetto, induce ad un esoterico stato di confondimento, dove gli Stili divengono Stile di Pensiero, e tutti i tempi sono fusi in Cultura, Oriente e Occidente insieme, nel Tempo unico del costruire, il Nunc del Mito, il presente eterno della Tradizione: l’oro di Bisanzio e l’oracolo di Delfi, le spedizioni sull’Eufrate e le storie dei Caldei, Arculfo e i crociati, Sanchi, Palmyra, Nara e Elephanta, Alberti e Vitruvio, Dante e Apuleio, chiese copte e giardini d’Oriente, Santa Sofia e Westminster, Saqqara, colombarii ipogei e palazzi di cristallo, nuraghi e trulli, XXIII

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Stonehenge, le ziggurat, Chartres e i codici miniati, Efeso e i templi etruschi, il monte Athos e il Meandro, il seggio di Aquisgrana e il Chrysotriclinium di Costantino, la topografia cristiana e l’album di Villard de Honnecourt, i canti dei bardi celtici, i menhir, l’uovo aurico, il geomantico Feng Shui, le saghe islandesi e il Tibet, la preistoria e i primi versi del Rig Veda, le favole teutoniche e il Medioevo arabo, Machu Picchu e Karnak, le ossa oracolari e le isole sacre, Roma Antiqua e la Society of Dilettanti, la grande piramide e gli Eschimesi, Micene e Pagan, la nobile Bauhütte alto tedesca, l’inviolabile Agartha… Lethaby fa vivere, evocando la totalità, e muovendo a una meraviglia che riduce al silenzio, le visioni di un possente sincretismo greco-romano-ebraico-gotico, che prende forma fra riti scozzesi, religioni druidiche, imprese vichinghe, e il buddhismo appena giunto in Occidente con i Sacred Books of the East, le storie dell’Edda, quelle di Beowulf e i masques di Ben Johnson. Sembra, il viaggio iniziatico del lettore di AM&M, quello del Poliphilo di Francesco Colonna, amato, studiato e illustrato da Lethaby: il viaggiatore incantato in cerca della Conoscenza esce dalla cupa selva ed incontra una esoterica Mole, “di somma importanza”: rovine “di eccellente fattura”, di un edificio “così nobilmente ideato, così ben disegnato e materiato, che nessuno avrebbe potuto aspettarselo”. Colonne, cornici, fregi, “capitelli straordinari per l’invenzione e l’intaglio ruvido”, grandi vasche, vasi di marmi policromi “dall’ornato più vario”; i muri sono “arborescenti”, in mezzo a una natura mitica quanto l’opera architettonica, la cui “eccellenza denuncia e accusa” nella perfetta versione di Ariani e Gabriele “che di tale arte, ai nostri tempi, si è persa, senza dubbio, la perfezione”. Poliphilo, di fronte al Mito costruito, si interroga anche sulla Tecnica: “non potei fare a meno di chiedermi, riflettendo, quali arnesi di ferro, quanto lavoro manuale e quanti uomini fossero stati necessari a edificare con tanto furore un sì eccezionale artificio, che aveva richiesto immani fatiche e un grande dispendio di tempo”.

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Godfrey Rubens nella sua monografia fa uno spoglio accurato delle recensioni suscitate dalla pubblicazione di AM&M, questo “puzzling inaccurate but ultimately influential work”, un lavoro che confonde nella sua mancanza di accuratezza, dice, ma che è stato decisivo per le molte influenze sui contemporanei. Di certo un libro, come diceva Walter Benjamin dei libri che lo rapivano, “rompicapo e mozzafiato”. Così scriveva il recensore del «Times»: “la sua visione è talmente esoterica che per le persone normali le sue asserzioni sono semplicemente incomprensibili”. Eppure il libro arrivò alla seconda edizione in meno di un anno. Reginald Blomfield, benché gravitasse nella sfera di Lethaby e si effigiasse delle qualità del teorico tradizionalista, scrive, mentendo con supponenza: “Nessuno di noi ha fatto molto con il libro di Lethaby”, e con il suo “generoso ed abbastanza impossibile socialismo”. Ma il critico di «The Builder» aveva trovato il portato etico dell’opera: “C’è una morale in questo libro”. L’Etica della Cultura. XXV

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Basta scorrere la bibliografia di Architecture, Nature and Magic, l’ultimo libro scritto da Lethaby, una revisione conclusiva, e spesso autocritica, di AM&M, come l’Omega di quell’Alfa, per comprendere quanta e quale cultura quest’uomo severo, spiritoso e intelligente abbia fatto roteare attorno a sé: Spengler, Santayana, Maspero, Flammarion, fino a molti autori caduti nell’oblio che sono specchio vivente del pensiero della sua epoca. In Architecture, Nature and Magic, Lethaby ammette di aver trattato poco, o nulla, in AM&M, del misticismo, confermando una delusa sensazione provata dai suoi più attenti lettori. Deborah van der Plaat, negli studi per la sua vasta ed esauriente dissertazione su AM&M, ha trovato un quaderno di Lethaby nel quale è abbozzato il progetto di AM&M come fosse, soltanto, un libro su Architettura e Mito. Si danno anche miti attuali: William Burges è l’unico architetto vittoriano – ma vi è anche un fugace accenno astrologico alla neogotica Mount Stuart House di Robert Rowland Anderson – cui Lethaby dedichi attenzione in AM&M; da come viene descritta la sua Tower House di Melbury road, mitico recesso di un sublime estetico perseguito fino alla perfetta estenuazione, al confronto di Burges il Des Esseintes di Huysmans, in A rébours, aveva un gusto severo, e anche sobrio e lineare: Burges esagera, estrae la sua exclusio da un superbo excessus, dando forma al sogno di super-vivere all’altezza (o alla profondità, in questo caso) della propria collezione, come diceva Oscar Wilde, sempre arguto e graffiante, delle sue porcellane cinesi. Ma il Wit di Wilde è ornamentale, i suoi paradossi decorativi sono, come diceva Taine, “arredamento del tempo”, mentre il Wit di Lethaby – come quello della cerchia di Bloomsbury, benché vi siano differenze di fondo fra l’ethos sobrio di Lethaby e le attitudini di quegli esteti, troppo raffinati per la vita – è strumentale, didattico, fatto di argomentazione e di persuasione etica. E non vi è persuasione ove non vi sia retorica: pathos e romance, forze e forme, il cui fondamento, come nelle saghe di Ossian, risiede in tenerezza e sublimità. Le cose migliori del libro si hanno quando Lethaby, per poXXVI

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chi istanti, in poche righe, si abbandona allo spazio estatico cui aderisce, dando voce a molti secoli di pietre connesse; l’atmosfera mitopoietica di AM&M è colta in profondità da William Gaddis, che nelle Recognitions cita Lethaby a proposito dell’uovo di grifone, e in A Frolic of his own cita William Butler Yeats che in The Second Coming, del 1921, evoca con teurgica potenza lo stato d’animo di chi cerca lo spirito del mondo: Surely some revelation is at hand; Surely the Second Coming is at hand. The Second Coming! Hardly are those words out When a vast image out of [Spiritus Mundi ] Troubles my sight: somewhere in sands of the desert A shape with lion body and the head of a man, A gaze blank and pitiless as the sun, Is moving its slow thighs, while all about it Reel shadows of the indignant desert birds. The darkness drops again; but now I know…

Lethaby conosce nel profondo l’oscurità e quanto è abbacinante, argomenta, però, nel suo trattato in termini etici: l’architetto, i cui mezzi sono il vigore coraggioso, la dignità e la generosità del grande studio e della raffinata esecuzione, è il modello dell’uomo saggio, che nel costruire il mondo costruisce il Sé, la possibilità stessa degli umani di essere-nel-mondo. I poteri di ogni architettura sono limitati dalla natura dei materiali, e nella conoscenza esatta di questo limite l’opera di architettura perviene ad espressione, come mitico Luogo comune e pubblico Servizio, nel raggiunto saldo equilibrio fra ispirazione e prescrizione, educazione collettiva e rituale celebrazione; creare significa imitare: arte è “scienza in atto”, e scienza è “riflessione sull’arte”. Un edificio incorpora una storia e veicola un insegnamento, un messaggio da interpretare; è un essere vivente, una forma significante, nel quale vivono il lavoro e l’emozione, la sostanza e l’espressione, la delizia e il servizio sacro: “dead buildings tell no tales”, inerti e privi di storie sono gli edifici che non rispondano XXVII

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ai requisiti esigenti della vita, del lavoro, della bellezza e del servizio. Deborah van der Plaat teorizza, a proposito di AM&M, di un “modernismo sincretico” di Lethaby, che intreccia mito e materiali in una indagine da Eterno Presente: a-storica, sinottica e sincronica, eppure orientata al Moderno del divenire necessario. Così, muro, arco e volta dovranno essere investigati come leva e vite, con un tratto analitico bio-morfologico, intimamente e radicalmente funzionalista, che condurrà, quando la tempesta del futuro avrà sovvertito membra ed elementi, all’attitudine “olistica” dell’architettura organica, ed agli asciutti abachi dei razionalisti. Lo stile, che è sempre euristico, rivela verità architettoniche soggiacenti, le vere radici, le autentiche finalità che sottendono la struttura. “L’architettura antica viveva perché aveva uno scopo”: è il rivelarsi come nome e forma del mondo, con la sua più importante qualità, l’aderenza allo scopo, e la capacità di crescere e di trasformarsi aderendo ad esso, che la fa essere vera “matrix of civilisation”: Forma-Madre della civiltà. Risuona nell’architettura un ordine cosmico maestoso, fatto di memoria; il libro di Lethaby è la quintessenza del punto di vista del costruttore, che custodisce i simboli che impiega mettendoli in salvo nel loro uso: in antico il costruttore del tempio era, del tempio, anche il guardiano. Sapeva, e solo per questo sapeva fare. E l’arte è fare bene ciò che ha bisogno di essere fatto: “well doing of what needs doing”, dice Lethaby con un accento tomistico: portare in essere ciò cui urge presenza, dettata da necessità. Un quadrato interpretativo vale a comprendere AM&M di Lethaby: un quadrato costituito, contemperando i quattro autori in non evidenti diagonali, da John Ruskin, il sacerdote della vita etica contemplata; Henry Focillon, lo scienziato della vita delle cause storiche degli effetti formali; Aby Warburg, lo sciamano della vita in movimento del paganesimo antico, il quale ha insegnato che “deve essere interpretato simbolicamente ciò che appare come soltanto ornamentale”; ed Ernst Bloch, l’analista XXVIII

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della vita nuda, il cui esito teoretico sarà, in Hitchcock e in Mumford, la vita moderna. In AM&M la configurazione ieratica consiste alla materia; Lethaby ricerca il cuore della materia, il suo spirito fantastico, e le flessioni immateriali di ogni possibile texture, con tratti che evocano la alta mistica, lignea, della spissitudo spiritualis di Meister Eckardt. Procede con fraseologia altisonante, poiché in essa parla la Tradizione, che muove riferimenti criptici e portentosi dispiegati, e spesso ripetuti, con misteriosa semplicità. A tratti il lettore precipita in una corrusca ma radiante magia, che mescola, in modo aulico e retorico, e a tratti lirico, il gusto ed il lusso, la storia ed il Mito: the Story, dice Lethaby, e intende le storie, leggende e tradizioni, il continuo Récit, il folklore arcano dei popoli più antichi, il tutto fuso insieme in una memoria che distingue cose e luoghi che non sono più. Una mente forte sostiene una solida sapienza, e la sua forza ermetica le deriva dalla prossimità all’Origine, poiché “l’originalità è della radice, non dell’apparenza”. È una mente indivisa, salda al limite del conosciuto, che presiede all’atto di invenzione, una mente creata nel mito: “cose che mai furono e sempre sono”, come disse Sallustio, cose credute profondamente, e profondamente trattenute e trasmesse attraverso simboli nei quali una comunità potesse riconoscere la sua anima collettiva. Il Simbolo, Ente forgiatosi nel Mito, che è Sistema e coordinatore universale, costituisce, fra Fato e Forza, la dimora abituale dell’etica. Ed è il fondamento di conoscenza del costruire. Dice Hermann Broch, con dinamico tratto moderno, in Poesia e Conoscenza: “La civiltà di un’epoca è il suo mito in azione”. Nell’arte monumentale vive l’essenzialità dell’immagine e del simbolo, che compendia e sintetizza il destino di una intera comunità. Un atteggiamento interpretativo luminoso e davvero semplice, che si vede all’opera anche quando Lethaby scrive dell’architettura greca: gli ordini classici non consentono originalità. Devono essere talmente assimilati da lasciare di essi soltanto XXIX

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l’essenza. Se applicati in modo esatto sono di una singolare bellezza, immutabili come le forme delle piante. La perfezione dell’ordine è assai più vicina alla natura di qualsiasi cosa prodotta di getto o per un caso fortunato. È, questo, il metodo scientifico di analisi che unisce in una slanciata sequenza la preformata facoltà dell’Archetipo al Tipo ideale, e perviene a formare un Prototipo, che si reitera in normotipo, generatore dello Standard, l’incontro matematicamente definito fra materia e forma. Il metodo fa quadrato fra natura e artificio, regola d’arte e armonica proporzione. Gli ordini si identificano con l’architettura, la regolano. Il conseguito Nesso tridimensionale colonnaepistilio-trabeazione risolve in statica perenne la lotta greca fra gravame e sostegno. Si assiste alla fioritura di una gamma architettonica capace di esprimere molte forme, dal severo e solido allo snello e raffinato; il tipo è principio e causa della perfezione di ciò che esiste. In elementi rigorosi, determinati nell’assoluto e per questo assolutamente indivisibili, in proporzione e armonia, nella ripetizione ritmica della serie ha luogo la paradigmatica composizione, ed anche la sua produzione meccanica, che è il modello, mitico, di declinazione di un archetipo. La poetica dell’ordine architettonico nasce, quindi, dalla classificazione, dalla esattezza del dettaglio, dalla unione di forza e purezza, da un saggio e preveggente ordinamento che sappia attendere alla distribuzione della materia, dalla efficacia della formula, dalla potenza dello schema, del genere e del canone, da regola e gerarchia, e dalle molto vitruviane, ancorché sassoni, fitness e convenience. La prima piega dell’Ordine, il suo imprinting, la sua propria ur-form, che emana la forza del form-forming, si inviluppa all’incrocio di tecnica e magia. Non è quindi, in alcun modo, revival, l’impiego in architettura dell’ordine classico, ma survival, l’eroico nachleben del persistere mitico. Base epistemologica del culto del monumento, e della sua contemplazione, è una ben fondata conoscenza strutturale, che diviene sistema se congiunta alla conoscenza mitica. Vige in questo pensiero, una specie di “biologia architettoXXX

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nica”, più che un inerte canone classicista, una spirituale biologia dell’ordine, che è vicina a Linneo o agli schemi derivativi dell’evoluzionismo di Darwin, ma che non può essere disgiunta dalla Magia simpatetica: secondo Frazer, ne Il ramo d’oro (The Golden Bough), il cui primo volume è uscito nel 1890, un anno prima di AM&M – nella più antica antichità il re, signore della Terra, sa fare le cose attraverso doti non personali, e tutto accade in un ordine invariabile, tenuto fermo da sinestesia e simpatia con il Superiore Sconosciuto; una carica elettrica guida l’uomo sacro verso la sua compiuta performance: il re è conduttore, agente e ierofante. L’opera architettonica è quindi prodotta dalla sintesi di magia simpatetica, che è al di sopra della legge naturale, magia teoretica, che conosce le regole che determinano la sequenza di eventi, e magia pratica, che permette agli umani di raggiungere uno scopo, ancorché assai complesso. Portatore di questa tradizione vivente, eppure molto consapevole di quanto di riducente il moderno comporti, Lethaby agisce alla confluenza di evoluzionismo e di simpatia magica, si trova all’incrocio certo di classico e romantico, ed elegge, sempre, lo spirito francese e cortese del gotico come sua attitudine estetica, il suo vero delight. Architettura gotica, per Lethaby è l’architettura dell’energia. La cura della Terra è la più grande di tutte le arti, e l’architettura decora in modo appropriato quest’arte; la vita viene dal suolo, le cattedrali gotiche sono tanto naturali quanto i nidi degli uccelli, ed il bello è il normale e il naturale: questo di Lethaby è un canto semplice, che vede la decadenza nell’illusione del far credere ciò che non è. Lui crede, e proprio in questo è un mistico, in una ragione simbolica controllata dalla – ed espressiva della – struttura: dalla radice del dovere fiorisce la bellezza, “from root duty flowers beauty”. E con essa la felicità: “Beauty is a happy energy”. Lethaby sa bene: Initium Foelicitatis Sapientia, ma sa ancor meglio: Initium Sapientiae Timor Domini. La Sapienza fa accedere alla felicità, ma la religione fa accedere alla sapienza. Quindi gli umani debbono perseguire “l’agio di essere felici e le forza di essere semplici”. XXXI

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Un canto di alta moralità, che celebra la felicità e la forza nella sacralità del lavoro umano, e specialmente del lavoro manuale, che diventa arte se è sapiente e controllato nell’intenzione. Leadwork è tracciato, progetto guidato e abilità espressiva, non degradante meccanico e servile motivo, pensato altrove e fissato sui manuali, che fa del suo esecutore una macchina umana; è il “pezzo” unico, il task-work di un lavoro non alienato, che controlla il suo fine: “non possono essere separati impunemente l’uomo che lavora e l’uomo che pensa”. Le vetrate con le giunture di piombo, i caratteri gotici per libri squisiti, o l’incrocio di pietre sassoni bicolori per conferire lumescente texture ad una facciata, sono pensiero in atto, unico pensiero capace di formare la forma. In un saggio intitolato Labour, pubblicato nel 1921, Lethaby considera il lavoro non soltanto dal punto di vista politico, che pure lo impegnava, nel rispetto e nella volontà di riformarlo, ma come “una manifestazione di Dio”. “The work of our Lord’s hand”: opera della mano di Nostro Signore, come diceva il Ruskin di Unto this last. “Il lavoro è la cosa più importante che conosciamo, il grande fondamento di tutte le nostre vite”. Così all’arte bisogna avvicinarsi dalla parte che è pertinente al lavoro – work, dice qui, non labour – vedendola come fattore e funzione di ogni lavoro giusto, come “mente e cuore incorporati in una fatica di merito”. Questo è il valore del lavoro: quando è consapevole e non alienato, e ripetuto con Sapienza, diventa Arte. Nel saper-fare, che certo è prima un Sapere che un fare, vi è la grande umanità, che è anche forza, Craft, di chi opera sulla materia, vincendone la resistenza e conferendole Forma. “Ogni lavoro artistico”, dice Lethaby nel 1913 in Art and Workmanship, “mostra di esser stato fatto da un essere umano per un essere umano. Arte è umanità composta nella capacità, il resto è schiavitù”: lavoro bruto, esteticamente ripugnante e socialmente indesiderabile. Un lavoro trasformato in piacere del cuore, invece, diventa necessariamente un piacere per gli altri, nel sentimento di conseguita adeguatezza della sua propria fitness, nelle normali e tradizionali capacità di produrlo, nei gradi di selezione e di introspezione che esso comporta. XXXII

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È il socialismo romantico, nella Qualità di arte e vita. I risultati del lavoro artistico sono sacri, “sacro è ogni lavoro incorporato in un manufatto”. Di “wonder-working hands”, mani che operano meraviglie, le “mani che pensano” che Trevor Garnham trae dagli scritti di Spengler, diceva Morris in una conferenza del 1877 sulle arti decorative e la loro relazione con la vita moderna e il progresso. Queste mani sapienti sono la dote mirabile dell’artigiano artista, lo stesso che ha portato alla presenza Westminster o Santa Sofia, che non ha lasciato il suo nome dietro di sé, ma solo la sua opera, come è nella “storia dell’arte senza nomi” di Alois Riegl. L’esempio di Morris è assai appropriato per Lethaby, che ha studiato in dettaglio sia Westminster che Santa Sofia, pubblicando due grandi libri. Non è il martello che deve scuotere la mano: è la mente, con la sua azione profetica, che deve distinguere fra l’individualità e la meccanica; vi è un lavoro meccanico, necessario, ma nell’opera permane “qualche residuo, che può essere salvato da un’anima individuale che intenda averne cura”, come dirà nel 1921, in una conferenza su Modernism & Design, nella quale si percepisce l’eco della grande discussione su Typiesierung ed Individualität, che ha scosso, fondandolo, il Movimento Moderno. Lethaby era molto impegnato, “concerned primarily”, dice Ikem S. Okoye, nella “sottile sintonizzazione” del processo di produzione dell’edificio, fino al punto in cui esso, finemente razionalizzato, sussumesse, avendovi resistito, una divisione specializzata del lavoro. Si studia la natura della produzione, da cui emergerà una forma riconoscibile, minima e stilizzata. Con un lavoro di “interpretazioni circostanziali”, si individuerà un bisogno inerente, che farà interagire, nella bellezza semplice dell’architettura, la necessità, con i suoi molti vincoli, e la libertà. Poiché architettura è fare liberamente cose necessarie. Okoye mostra come Lethaby abbia indicato la via per “tracciare la simultaneità che deve esistere fra l’essenza di ogni forma ed il suo significato simbolico”. L’ornamento, conosciuta per questa nobile via la sua matrice geometrica e simbolica, ritorna, come nell’antichità, dentro XXXIII

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la struttura, come il coagente ritmico di tutto quanto è “funzionale”. È avventurosa la “ricerca sistematica delle possibilità”, la “definita analisi” di queste, lo sforzo di metodo per individuare i “definite requirements” quelle esatte esigenze, che eliminano dalle opere ogni plastica secondaria ed ogni non necessario ornamento dopo una analisi “ravvicinata ed esaustiva”. Deborah van der Plaat ha messo in relazione questa analisi al metodo critico di Walter Pater, basato sulla “attenta esplorazione dell’evidenza”, e sulla fiducia nei “pieni poteri della intelligenza e della sensibilità estetica”, metodo che ha un debito nei confronti della teoria della Abduzione: “ragionare dall’effetto alla causa, ove causa non è concepita come legge generale ma come unica convergenza di cause (o forze)”. Lethaby opera su questa abduzione, che è anche ricognizione, e memoria riconoscente, con metodo scientifico, ed obiettivo rigore, affermando sempre che un nobile metodo di design mira a riconciliare Scienza ed Arte. Questa verve tassinomica ha posto Lethaby fra gli artefici di una nuova scienza del costruire, attraversata da un impulso esoterico, consapevole dei grandi cicli, che ricerca il primigenio ed anela a confrontarsi con la totalità. Gli strati della storia, analizzati in una sezione sincronica, guidano verso una scienza della morfologia costruttiva, che è, insieme, morfologia della vita spirituale e geologia della tecnica. Lethaby insegna, con assai credibile precisione, come alle spalle di ogni stile vi sia uno stile precedente: nel procedere retrospettivo deve essere trovato il germe di ogni forma, la condizione della sua crescita; ed insegna anche che la grande arte, come la grande scienza, è la scoperta della necessità. E la scienza si fonda su precisi e accurati elenchi di conoscenze: come le Stilfragen, i Problemi di Stile di Riegl, o come la Grammatica dell’Ornamento di Owen Jones, il catalogo delle flessioni della forma nel tempo. Owen Jones, nell’atmosfera nuovissima attivata dal Crystal Palace di Paxton, aveva anche studiato verità e menzogna delle arti decorative in The true and the false in decorative arts del 1863. O come la Grammatica del Loto di Goodyear del XXXIV

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1891. Un altro libro assimilabile, per metodo e intenti, ad AM&M, è Crescita e Forma, di D’Arcy Wentworth Thompson, pubblicato nel 1917, una analisi matematica dei processi biologici, che studia le forze interne formative – forze che formano la forma – che variano secondo la Scala degli organismi, all’incrocio fra leggi matematiche e forze naturali. Si perviene così ad un alto punto teoretico, il Progetto su Sistema: Lethaby, come, in Olanda e in Germania, aveva fatto Lauweriks, e come Desiderius Lenz a Beuron, insegna ad agire su una ripartizione micrologica e cellulare del tessuto architettonico – una specie di pulviscolo cosmico che incontra la tela del mondo – semplificata e resa operante dal vincolo, geometrico e dimensionale, che agisce su di essa. Le priorità cui mirare sono: Effettualità della struttura, Comunicabilità del suo disporsi, Funzionalità dell’impianto, ed Unificabilità, nel “pattern dell’intenzione”, che Baxandall ha teorizzato, e su cui James Hillman ha fatto una riflessione audace: “Pattern e Patron hanno la stessa radice linguistica”. Nella carta millimetrata del progetto su sistema, tutto punti – il bindu, il punto-seme, dei Silpasastra indiani – scatti angolari, incroci predestinati e ornamenti omessi su una superficie idealizzata, si cela il segreto, ornamentale e geometrico, di un tracciato regolatore: esso fa circolare, attraverso la sua rete di numeri e di linee esatte, cicli cosmici, eventi incommensurabili, ritmi di fondazione, e le più remote visioni. “All truths wait in all things”, dice Walt Whitman: giacciono in attesa in tutte le cose tutte le verità, verità entusiasmanti situate fra la Potenza del possibile e l’Atto del farsi spazio di un’opera nel suo prendere forma. Come nel Projective Ornament di Claude Bragdon, Harmonia Mundi è il piano, cosmico, sul quale il progetto su sistema è situato. Sir Christopher Wren diceva che si può soddisfare una curiosità infinita attraverso l’investigazione del Pattern. E diceva anche che “scopo dell’architettura è l’eternità”, senza mode e maniere, ma solo Principii. È chiaro, anche in questo, come Lethaby, benché resistesse XXXV

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alle perfezioni da revival che avevano ridotto il Rinascimento a neoclassico, apprezzasse le qualità di Wren, e anche quelle della Wrenaissance, che Morris invece risolutamente denigrava, preferendo al Classico una barbarie eroica, primitiva e prelogica da cui gemmano, in modo arcano, nodi arborei, aure celtiche e pietre scabre. “I am old and have seen / Many things that have been”, diceva Morris, in filastrocca, muovendo dalla sua esperienza del vedere: sono vecchio ed ho visto molte cose che sono state. Il progetto su sistema, invece, fatto di astrazione, è sempre, e non si vede; ma quella tela invisibile, il tessuto del mondo, è il Veicolo: fa vedere. Il risultato assoluto di una mente sistematica incontra quanto persiste e quanto si trasforma, indica ciò che è riproducibile nel rispetto del valore della cosa, ne regola i tracciati e ne libera le essenze: è schema eziologico, capace di individuare le cause di una forma, e sigillo ermetico del suo manifestarsi. Vivere con passione romantica invece che nel mainstream, nella corrente del conformismo, permette di raggiungere insieme la solare matrice mistica dell’ornamento, e la Qualità del lavoro, che è, come per Carlyle, Ruskin e Morris, “salute estetica, dovere, avventura & visione”. Dato che “la cosa più importante è quel che vedi quando non vedi più”, e che, come diceva Ruskin, “non vi è ricchezza se non la vita”, ogni decorazione deve essere connessa direttamente al suo vero e riconosciuto significato immateriale, che si origina nell’amore, nella luce, nella gioia e nell’ammirazione, ed eleva il tenore di verità degli oggetti mentre affina la precisione della capacità di interpretarli. “Decorazione è la natura della poesia, e una poesia fatta a macchina è davvero un errore non necessario”. L’ornamento è didattico: nel suo motivo sta la traccia della narrazione di un procedimento. “L’ornamento, dice Lethaby in un punto alto del suo insegnamento, ha uno scopo pratico: trasferire le virtù delle cose imitate nelle cose fatte”. Qui il senso più vero, propriamente magico, della sapiente pratica architettonica, che non è soltanto, anche se la pietas del XXXVI

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costruttore la riduce soprattutto a questo, “buona risposta ad una nobile richiesta”, nutrita dai “salubri semi della verità e della espressione diretta”. Una consapevole propensione alla totalità coordina astrazione ed empatia, rinviene le forze formatrici dello stile e le forze sopravviventi del mito, disintegra i falsi valori dei parassiti della forma, quegli imitatori dell’antico con la loro “repulsiva abilità” e la loro “violenta moda, che distrugge le più alte forme dell’invenzione”, e guida così verso una perfetta semplicità, perché la bellezza è il fiorire congiunto di lavoro e servizio, ed in questo si offre come cosa sacra. Lethaby chiede che l’architettura sia fatta di “tenerezza, gravità, dolcezza, e persino dullness, monotonia”. Un edificio, questo il suo vero romance, deve essere come una ballata folk, come diceva Philip Webb, il quale, nondimeno, metteva in guardia dall’arte “evasionista” e dallo stile “negazionista” a proposito dell’architettura ridotta all’essenziale. Il canto fermo dell’edificio non deve essere l’inerte vernacolo del sempreuguale ma il crogiolo ardente della Tradizione, un profondo pozzo naturale dal quale emergano ribollendo i repertori, e nelle cui regole gli elementi possano fondersi sperimentandosi. Principio attivo dell’architettura è l’esperimento, nella eterna legge della Necessità, Anankè cui non si edificano templi, la “meravigliosa stupenda necessità”, che conosce lo spirito della materia, ed è capace di formarsi in risultato. Architettura è “response to force majeure”, trovata e fondata “on the rock of necessity”. Questa roccia è Pietra Angolare, la pietra cubica del costruire: “Necessity is the Mother of Invention”. Un castello francese, il Forth Bridge, o un transatlantico, rinvengono nel continuo esperimento il loro canone fondativo, come ogni atto scientifico, e incontrano nell’esattezza il loro fine superiore, l’unico fine che sia in grado di promuovere la spiritualità. “L’architettura è radicata nello spirito dell’esperimento attivo, e si fa avventura, tesa alla soddisfazione ulteriore di desideri e bisogni”: nel 1923 Lethaby è stato membro fondatore del Modern Architecture Constructive Group, che metteva al primo XXXVII

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posto, nel suo Manifesto, la ricerca sperimentale. “La paura dell’esperimento significa decadenza mentale”. È l’antico spirito dell’esperimento, poiché è antico l’eidos del moderno, che fa di Lethaby un pioniere del moderno in Architettura: il fatto che un simile studioso della Tradizione sia divenuto, nel Novecento, un appassionato profeta della modernità, continua ad essere un vero enigma, nella sua apparente contraddizione, ma aggiunge valore sia alle attitudini moderniste che agli studi esoterici sull’architettura. “Il modernismo come stile è una archeologia rovesciata; non sarà reale fino a che non sarà inconscio”, vale a dire fino a quando non sarà in grado di agire come vero archetipo automatico, come condivisa pratica che si commisuri con “i dati di oggi”. Ed è arcaica la radice della oggettività attuale: “l’archeologia mi ha insegnato il modernismo; è una realtà e non una affermazione affettata”. Lethaby deve aver rinvenuto la definizione di razionalismo, ed il dettato etico ad essa connaturato, in un articolo di César Daly, direttore della «Revue de l’Architecture», tradotto su «The Builder» nel 1864, che lo ha di certo impressionato, tanto da spingerlo a mettere in esergo ad AM&M proprio una frase di Daly: architettura è costruzione ornamentale ed ornamentata, idea condivisa dai goticisti, dai classicisti e dagli eclettici francesi, ma per Daly il razionalismo è la salda convinzione che le forme architettoniche non soltanto richiedano una giustificazione razionale, ma che esse possano giustificarsi soltanto se le sue leggi derivano dalle leggi della scienza: Forma architettonica è forma strutturale. Anche per Lethaby razionalismo è architettura: volontà di imparare e migliorare, in successive approssimazioni, perfezionandosi con esperimenti, al confluire di Arte e Scienza. Ma bisogna essere cauti e misurati: “Il nemico non è la scienza ma la volgarità, la pretesa di una bellezza di seconda mano”. Scrive Vaughan Hart, in un saggio del 1993, che Lethaby, la cui mente era illuminata direttamente dallo Spirito Santo, era un teorico moderno: in AM&M mostra la gentilezza del simbolo XXXVIII

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contro le grandi opere del passato il cui scopo era quello di schiacciare la vita, “ogni pietra cementata con il sangue di una creatura umana”. Ma in Architecture, Nature and Magic si mostrerà consapevole che “un golfo si è disegnato fra l’antica architettura magica e il moderno costruire scientifico”. Altri bisogni sono urgenti oltre alla sacra perfezione: un training scientifico continuamente aggiornato ed una sperimentata “conoscenza del cemento armato e dell’acciaio”. Attenzione sempre, però, a “non diventare uomini meccanici in una società meccanica”: eppure quanti lo criticavano lo accusavano di esser stato il “traditore” del lavoro fatto a mano. “Se l’architettura è vera, deve essere sempre nuova”. Una salubre chiarezza della finalità, la “Sanity of purpose” di Lethaby, muoveva la difficile transizione al moderno; la novità, se nitida e davvero utile, diviene auspicio accettabile. Anche se vedeva nel vagone ferroviario il persistere della carrozza, e provava, nel vedere una locomotiva, sentimenti confusi, Lethaby diceva di non potersi rifiutare di prendere un treno. Tutti gli edifici, “forma artificiale della natura”, recano il loro carattere scritto sul loro fronte, come la fabbrica di Turbine dell’AEG di Peter Behrens, della quale riconosceva il carattere mitico. Charles Robert Ashbee parlava di Lethaby come di “un grande londinese che vedeva la miseria e l’umiliazione della grande città derivare dall’averne trascurato l’estetica”. Nell’intervento continuo sulla città, per Lethaby lo scopo è semplice, benché impegnativo: un migliore ordinamento, “better ordering town life”. Perché “una città nobile è la cristallizzazione dell’ordine di una comunità”, ed “una vita civile non può essere vissuta in città indisciplinate”. E quando scrive di Le Corbusier, e della sua prescrittoria machine à habiter, cerca con generosità di porre l’accento sull’abitare più che sulla macchina. Il Funzionalismo romantico, carico di verità e di sentimento, deriva a Lethaby dalla sobrietà producente che aveva rinvenuto, per sempre, nella Red House che Webb ha disegnato per William Morris: “da Webb ho imparato che ciò che intendevo XXXIX

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come architettura non erano disegni, forme e grandezze, ma costruzioni, oneste ed umane, e con un cuore in esse”. Ma sembra Loos quando afferma: “la bellezza spesso finisce dove l’ornamento inizia”, con quel wordy wit, l’acutezza di parole affilate dal pensiero, che condivideva con Norman Shaw. Aveva anticipato Loos nello studiare le relazioni fra ornamento e tatuaggio su facce e facciate, e pensava, da uomo nuovo, all’unica vera transizione evolutiva dell’arte, da funzione a funzione: “Art: from use to use”, affermando che la scienza di un’epoca rivela la sua arte. Guardiano della soglia del moderno, dotato, come pochi altri maestri, di un potente sguardo retrospettivo che anela al futuro, consapevole della necessità del nuovo e altrettanto consapevole di come molta modernità traccheggi nella ignoranza del passato, Lethaby insegna che, sempre, il mistero è una legge necessaria dell’universo, comprendendo il più grande di essi, il mistero del divenire: “Civiltà è sviluppo e distruzione di una serie di Babilonie”. Strutture torreggianti coperte di muschio, vestigia di mura infrante eppure ancora possenti, spiegano il tragico della storia nel corso degli imperi, in una linea di contemplazione etico-estetica – la rovina nella storia – che unisce Thomas Cole, nella serie The Course of the Empire, o in The Titan’s Goblet del 1833, Joseph Mallord William Turner, con lo spirito delle sue città antiche dissipate nella luce, e Sir Lawrence Alma Tadema, i cui Antichi indossano i costumi della decadenza: “La Storia è una successione di tramonti”. E il mito continua nell’epica del moderno; Lethaby studierà intensamente, pensando che ogni tempo deve avere la sua espressione architettonica, le ciminiere delle fabbriche, i ponti di ferro, “gettati come arcobaleni su una vallata”, soffitti tesi da cavi di acciaio, gru possenti, e, “persino” gazometri. L’asfalto, i becchi a gas, e i labirinti sotterranei dell’Underground sono Fatti: ricorrono con grande frequenza nei suoi saggi i termini fact, definition, ed experiment. Sotto ogni forma fatta c’è una struttura, come “sotto la cravatta c’è la trachea”: lo diceva il Sartor Resartus di Carlyle, il quale cercava il “tessuto” deXL

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gli esseri e delle cose, e vedeva nella loro stamina la loro essenza, il geroglifico dell’essere-nel-mondo. L’uomo è circondato dai simboli, dice il Sarto Rappezzato, “riconosciuti come tali o meno”, che sono “indicatori” e “rappresentazioni collettive”. Come Carlyle, Lethaby è il redentore estetico, che con i suoi semplici precetti, ed i suoi esperimenti, mira, puro, alla perfettibilità del costume e dell’attrezzo. All’Architettura si perviene, nei secoli, pensa Lethaby, attraverso un lento perfezionamento delle parti, come è per la cattedrale gotica, da lui paragonata ad una grande nave da carico a vapore, che deve raggiungere un equilibrio tra velocità e sicurezza. Lo scrive nel trattato Architecture, an introduction to the History and Theory of the Art of Building del 1911; un edificio nobile è il risultato di secoli di sperimentazioni: la grande architettura – per tutte: il Partenone – non è soltanto progettata e costruita, ma scoperta e rivelata. Come una Scienza Sacra. Si comprende come la pietra filosofale, l’incrocio perfetto di materia e conoscenza, sia, appunto, una pietra: bene connessa, ben naturata, ben tagliata e carica di Sapienza. Il piccolo manuale di storia dell’architettura è sapienziale ma anche divulgativo e intensamente moderno, e pionieristico nell’indicare la via dell’Oggettività: “Solo essendo intensamente reali possiamo riportare ancora una volta la meraviglia in un edificio”. La costruzione ragionata ha a che fare con “una moltitudine di sapori”, una memoria presente di idee diffuse e pervasive che è la sostanza attiva della cultura. Qui il maestro mette in pratica il difficile e avventuroso concetto che sta alla base di AM&M: cercare un simbolismo comprensibile alla “great majority of spectators”. Spettatori incantati, astanti, proseliti, o semplici “fruitori”, posti di fronte al Simbolo in democratica grande maggioranza, e sedotti, da forme fatte bene, all’Interpretazione. “È un peccato fare un mistero di ciò che dovrebbe essere facilmente compreso”: un esoterismo condiviso è il primo impulso – ora et labora – dello spirito della gilda. L’architettura deve sempre essere disegnata nelle sue forme più alte, e l’architettura moderna, per questo, deve dotarsi oggi di un sistema di simboXLI

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li semplici e di immediata trasmissione, “razionali ed egualitari”. In questa spoliazione di apparati, e nella conseguente riduzione potenziante del simbolo all’Elemento, Lethaby è un Precursore cool, dice Rubens, della architettura del XX secolo. I simboli impiegati nelle opere di architettura devono essere estratti da una tradizione attiva e vivente, perché le intenzioni del Narratore-Architetto siano chiare ed immediatamente leggibili, e si trasmettano nella comunanza di un superiore Luogo Comune, il Commonplace radicato su terra, solido e condiviso, cui ogni architetto sapiente anela. AM&M è soglia del moderno, sintesi suprema di compressione e rarefazione, studio dell’Essere dell’Architettura che incorpora ogni forma del possibile divenire, Celebrazione delle possibilità e delle necessità. Con libri come questo l’architettura si fa carico della sua storia e ne concentra il più alto significato: la forza ideale della materia, dello spirito nella materia. Pavimenti come il mare, soffitti come il cielo, templi costruiti, come il Primo Tempio, senza che si oda il suono del martello, o di altri strumenti: risuona silenziosa la struttura del Cosmo, e in un ordine cosmico maestoso la Visione tradizionale, remota e intangibile, prevale sul senso storico. L’anima esoterica di Lethaby si inabissa nel tempo cosmogonico, triangola con le stelle, e segna, con occhio alato, i simboli-guida dell’antico costruire. “Strait is the gate”, stretto è il passaggio, e richiede seria concentrazione e chiarezza di intenzione: tortuosi labirinti, uova della creazione, messaggeri alati con le ali cremisi, e moli gigantesche fuoriescono come Geometria dal Mundus sotterraneo: Quadrato cubo e semisfera. Lethaby teneva in grande considerazione il libro di Henry Peacham, The gentleman’s exercise del 1612, un courtesy book, come il Cortegiano di Castiglione, ove l’esercizio presuppone umiltà, dignità e virtù. Minerva Britanna or a Garden of heroical devises, dello stesso autore, assomiglia alla Iconologia del Ripa, che è del 1603. XLII

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In questo puzzle book, si perviene alla conoscenza “by luck or by labour”, con la fortuna o con il lavoro, fra imprese decifrate, emblemi, enigmi, rebus, curiosa, antiche virtù eroiche, portenti della sapienza e gli ermetici risultati della controllata retorica: una chiave alata, la stessa che Lethaby impiega per svelare la storia ricca e misteriosa della forma e della funzione, nell’equilibrio fra forze e nell’abbondanza dei simboli. Nel libro, la cui morale è: “Fammi studiare perché io possa conoscere ciò che mi è proibito conoscere”, la foelicitas publica reca in una mano il caduceo e nell’altra una cornucopia. Peacham aveva anche scritto un trattato nel 1606: The art of drawing with the pen, come disegnare con la penna, nel quale spiegava anche i metodi dell’acquerello e della pittura sul vetro. Nelle opere di Peacham Lethaby ha trovato il fondamento felice del suo stabile thesaurus, che comporta concordia, fashion of speech, un bel modo di fare discorsi e, anche, il dono più raro, quello dell’open secret, il più denso degli ossimori: il segreto aperto di un esoterismo democratico. Nel libro di Lethaby, Kalpavrksa, l’albero buddhista della realizzazione dei desideri, si intreccia con Yggdrasil, il frassino cosmico ed assieme concrescono ad Irminsul, il pilastro cosmico dei Sassoni. Sfera e Cubo, Cerchio e quadrato; niente altro. Essi sono l’emblema congiunto dell’ideale e di quanto è fatto: per i Cinesi la Terra è quadra ed il cielo è rotondo. AM&M vuole rispondere alla domanda, centrale, di César Daly, posta dall’autore in esergo, motrice di ogni ricerca: “Vi sono simboli che possono essere chiamati costanti; propri ad ogni razza, ogni società, e ad ogni paese?”. Questi simboli permanenti e universali sono il reale fondamento di una Mitologia dell’architettura: “poiché una tale mitologia esiste”. Ogni tradizione è Tradizione del futuro, perché consegna, dal profondo, al tempo a venire l’intero deposito, la somma, della storia e della tecnica. Ogni architettura deve fare eco ad un messaggio che viene dalla Madre Terra, che va onorata; e nell’idea di tempio converXLIII

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ge, come Cosmo e cosmesi, come Ordine, ogni idea del costruire, dall’Omphalos alla Montagna Sacra, in un mondo, ora e sempre, popolato dall’aquila e dal serpente, orgoglio e intelligenza, dove transitano fermi l’Invariabile mezzo della croce e i moltissimi cuori alati dei pellegrini cherubici, che anelano alla Conoscenza: un cuore generoso, colto e romantico, e l’esattezza di orizzontale e verticale al loro incrocio mistico, nel Centro dei territori del Simbolo. È il monogramma di Lethaby: Croce + cuore = cosmos. Cosmo e simpatia.

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Lavori citati

Adrian Forty, Words and Buildings. A Vocabulary of Modern Architecture, Thames & Hudson, New York 2000. Trevor Garnham, William Lethaby and the Two Ways of Building, in «AA Files», 10, 1985, pp. 27-43. Trevor Garnham, Melsetter House, Phaidon, London 1993. V. Hart, William Richard Lethaby and the “Holy Spirit” A Reappraisal of the Eagle Insurance Company Building, Birmingham, in «Architectural History», 36, 1993, pp. 145-158. John Holder, Architecture, Mysticism, and Myth and its influence, in W.R. Lethaby, 1857-1931: Architecture, Design and Education, a c. di S. Backemeyer e T. Gronberg, Lund Humphries, London 1984, pp. 56-63. I.S. Okoye, William Richard Lethaby: A Reassessment, in «The Harvard Architectural Review», vol. VII, 1989, pp. 100-115. Nikolaus Pevsner, Lethaby’s last, in «Architectural Review», 130 1961, pp. 354-357. A.R.N. Roberts, William Richard Lethaby 1857-1931: A Volume in Honour of the School’s First Principal, Central School of Arts and Crafts, London 1957. Godfrey Rubens, Introduzione a W. Lethaby, Architecture, Mysticism and Myth, Architectural Press LTD, London 1974, pp. XI-XVI. Godfrey Rubens, W.R. Lethaby. His Life and Works. The Architectural Press, London 1986. Deborah van der Plaat, Architecture, Mysticism and Myth (1891). William Lethaby and the foundation of a Syncretic Modernism, dissertazione per il PHD presso l’Università del New South Wales 2000.

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Architettura, misticismo e mito

Vi sono simboli che possano essere definiti costanti; propri a tutte le razze, a tutte le società, e a tutti i paesi? César Daly

ILLUSTRAZIONI

Ziggurat di Bel a Babilonia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. VI Figura 1:

Figura 2: Figura 3: Figura 4: Figura 5: Figura 6: Figura 7: Figura 8: Figura 9: Figura 10: Figura 11: Figura 12: Figura 13: Figura 14: Figura 15: Figura 16: Figura 17: Figura 18: Figura 19: Figura 20: Figura 21: Figura 22: Figura 23: Figura 24: Figura 25: Figura 26: Figura 27: Figura 28: Figura 29: Figura 30:

“Sala della distinzione” cinese Pianta buddhista del mondo Case celesti degli astrologi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Stupa buddhista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 La Città di Ezechiele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58d Pianta cinese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58s I quattro fiumi e l’albero centrale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 La Pietra centrale di Delfi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71 Come sopra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 Pianta della cupola della roccia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 Lampada ad albero indiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 Lampada ad albero greca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 Candeliere d’oro, dall’arco di Tito . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105 Città dalle sette mura, dall’edizione di Dante del 1481 . . . 121 Il Trono dei sette cieli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123 Pavimento a labirinto di Ravenna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 134 Antiche monete di Creta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Isola di Creta, dalla Mappa di Hereford . . . . . . . . . . . . . . 136 Architrave del portale di Ebba, Cartagine . . . . . . . . . . . . 157 Portale di un sepolcro siriano, Galilea . . . . . . . . . . . . . . . 159 Torana orientale, stupa di Sanchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 Torana fenicia, moneta di Paphos . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161 Portale di sepolcro cinese, Canton . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162 Pavimento di marmo, Costantinopoli . . . . . . . . . . . . . . . . 184 Pavimento romano a Cirencester . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185 Motivi del pavimento, battistero, Firenze . . . . . . . . . . . . . 187 Cupola a mosaico, Ravenna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 Dea egizia del cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 204 Soffitto di tempio egizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205 Baldacchino italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 229 Lampada italiana, da Mantegna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 230 Uova di struzzo di Micene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 236

PREFAZIONE

Nel pubblicare questo saggio, devo chiedere la vostra indulgenza. In primo luogo, perché esso risulta, per quanto io ne sappia, l’unico tentativo di stabilire, dal punto di vista dell’architetto, le basi di alcune idee comuni nell’architettura di molte terre e religioni, e le finalità soggiacenti alla struttura e alla forma, che possiamo definire come i principi esoterici dell’architettura. In secondo luogo, questo è un tentativo di commisurarsi con un argomento che può essere indagato soltanto da chi abbia una profonda erudizione; mentre io posso soltanto, per quel che mi riguarda, affermare: quel che deriva da un regolare apprendistato e da una lunga pratica nelle arti, e nelle arti applicate, è un certo istinto di introspezione, del quale sono privi gli osservatori che non abbiano speciali capacità, per quanto siano istruiti. L’autore che formula la domanda citata nella prima pagina, afferma che il saggio del signor Herbert Spencer sull’origine degli stili architettonici non raggiunge il fine prefisso, poiché Spencer stesso non era un architetto, e nessun architetto aveva, prima, preparato la strada da percorrere. A questo mi riferisco nella speranza che, se scrivo così, sulla mia propria arte, trattando una materia poco conosciuta con la citazione di fonti di seconda mano, la conoscenza delle arti basti a emendare tutto quel che potrebbe sembrare affettazione o presunzione; devo dire da subito, il che apparirà molto chiaro in ogni pagina, che la mia conoscenza dei libri è soltanto quella del lettore comune, e che ho fatto uso di pubblicazioni minori, traduzioni ed estratti occasionali, che mi sono capitati sottomano; avventurandomi a supporre che, ove il pensiero sia chiaro, si possa affrontare un testo scritto con i geroglifici, oppure su tavolette di argilla, con la stessa prontezza con cui si affronta un articolo del giornale della sera. In un campo così immenso ho pensato fosse bene concentrare la mia attenzione su pochi punti ben definiti, e temo che, 3

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facendo questo, vi possano essere nel libro alcune superflue insistenze e ripetizioni: una tendenza a eccedere in dimostrazioni e un tentativo di spiegare troppo; da una parte caricando il discorso con ciò che è ovvio, e, dall’altra, indebolendolo con congetture infondate. La prima intenzione del libro si è manifestata dopo aver collezionato e messo a confronto un gran numero di leggende architettoniche, e, solo alla fine delle mie letture, alla ricerca di ulteriori conferme, ho trovato affermazioni e frasi sparse, che anticipavano spesso ogni mio argomento. Soltanto quando il testo è stato messo nelle mani dell’editore, sono venuto a conoscenza dell’opera del dottor Warren, Paradise Found, trovandovi parecchie coincidenze con i miei capitoli quarto e quinto. Per liberare la pagina dalle note, e per rafforzare la struttura delle argomentazioni con competenti testimonianze, ho generalmente preferito trascrivere direttamente i miei autori, piuttosto che tentare, parafrasandoli, di conferire un’aria di agio e di unità al mio stesso lavoro. Quale che sia il metodo: “Se vuoi conoscere il nuovo, devi cercare l’antico”. Ho il piacere di ringraziare gli amici che mi hanno aiutato, specialmente il signor Ernest Newton e il signor E.S. Prior. Le immagini 22, 24 e 30 derivano da schizzi gentilmente prestatimi dai signori Brindley, Schultz e Barnsley. Gray’s Inn Square, 2 Il principe Humayan allestì sette case di intrattenimento e le chiamò come i sette pianeti, destinando tutto l’arredamento, i quadri ed anche i vestiti di chi era al suo servizio, ad accogliere qualcosa che fosse un emblema della stella tutelare della casa. Nella casa della Luna s’incontrarono gli ambasciatori stranieri, i viaggiatori e i poeti. I militari lo assistevano nella casa di Marte, e i giudici, i legislatori e i segretari erano ricevuti in quella di Mercurio. M.K. Ferishta, La storia dell’India 4

INTRODUZIONE

L’invenzione, in senso stretto, è poco più di una nuova combinazione di quelle immagini che sono state in precedenza raccolte e conservate nella memoria: niente può venire dal niente: chi non ha accumulato materiali non potrà produrre nuove combinazioni. Sir J. Reynolds, Discorso II

La storia dell’architettura, come viene comunemente presentata, con la teoria delle sue origini nell’uso, dalla capanna e dal tumulo, e con gli ulteriori sviluppi in quel senso – l’adattamento delle forme in relazione alle condizioni del luogo – l’argilla della Mesopotamia, il granito dell’Egitto o il marmo della Grecia – è piuttosto la storia del costruire: potrà essere “architettura”, nel senso in cui usiamo così spesso la parola, ma non sarà l’Architettura, che è la sintesi delle belle arti, il punto d’incontro di tutte le tecniche. Come i colori sono gli strumenti della pittura, così la costruzione non è che il veicolo dell’architettura, la quale rappresenta invece il pensiero dietro la forma, pensiero diventato organismo e realizzato al fine di manifestarsi e di tramandarsi. L’architettura, dunque, pervade la costruzione, non solo per soddisfare i semplici bisogni del corpo, ma per soddisfare quelli, complessi, dell’intelletto. Con ciò non intendo affermare che possiamo così distinguere tra l’architettura e l’arte del costruire, nelle qualità in cui s’incontrano e si sovrappongono, bensì che, sommando tali qualità e considerando la polarità del complesso delle stesse, mentre queste mirano alla risposta del pensiero futuro, quelle mirano invece alla soddisfazione dei bisogni del presente; sebbene non ci sia né capanna né tumulo, per quanto primitivi o rozzi, in cui non si presenti un tratto aggiunto in nome del pensiero, l’architettura e il costruire sono sempre distinte come idee: l’anima ed il corpo. 5

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Dobbiamo anche distinguere fra i diversi modi in cui si presenta questo pensiero. Alcuni erano inconsci ed istintivi, come il desiderio di simmetria, del levigato, del sublime, e di altre simili qualità meramente estetiche, che possono essere serenamente attribuite alla vera architettura; altri modi erano immediati e pedagogici, la cui eloquenza era il frutto di una realizzazione più o meno perfetta, o era frutto dell’impiego di un codice di simboli, accompagnato dalle tradizioni che lo spiegavano. Così, lo scopo principale e la responsabilità preminente dell’architettura sacra – e tutta l’architettura, tempio, sepolcro, palazzo, in antico, era sacra – si congiungono con i pensieri di un popolo su Dio e sull’universo. Dietro ogni stile architettonico vi è uno stile precedente, nel quale va trovata l’origine di ogni forma; tranne che nel caso di alcune trasformazioni che possano figurare come conseguenza di nuove condizioni, o di un pensiero completamente innovativo nel campo della religione, il resto è la lenta mutazione dello sviluppo, ed è quasi impossibile indicare con esattezza il momento dell’invenzione di una determinata usanza o carattere. Herbert Spencer dice del cerimoniale: “Aderendo con tenacia a tutto ciò che gli anziani gli insegnarono, l’uomo primitivo devia verso il nuovo solo attraverso cambiamenti inconsapevoli. È risaputo ormai che le lingue non siano state ideate dal nulla ma si evolvano; e lo stesso vale per le usanze”. È giustificata l’attenzione, da parte degli storici dell’architettura, alle peculiarità degli stili e delle diverse scuole che si sono susseguite; ma, in un senso ben più ampio, tutta l’architettura è una sola cosa, quando è osservata a ritroso attraverso il flusso delle civiltà, con l’influenza che le une hanno esercitato sulle altre. Mentre gli archeologi, ad esempio, disputano se le colonne di Beni-Hassan siano veramente da considerarsi protodoriche, è un dato di fatto, da leggersi come un libro aperto, che un tempio greco e un tempio egizio siano essenzialmente la stessa cosa, quando si considerino le infinite possibilità della forma, ed ove si prescinda dalla tradizione. Più volte è stato messo in rilievo come gli antichi esempi di costruzioni in pietra continuino a ripetere le forme utilizzate 6

Introduzione

nelle costruzioni in legno ad esse precedenti: ed è sempre così. Il battello a vapore ha a lungo conservato alcune delle caratteristiche del veliero, e vale ancora, nell’epoca delle strade ferrate, la terminologia delle strade un tempo percorse dalle diligenze. Ebbene, quali sono, mi chiedo, i principi primi, fondamento di ogni architettura, che ad essa hanno dato forma? Essenzialmente sono tre: in primo luogo, i bisogni e i desideri, dappertutto simili, degli uomini; in secondo luogo, per quanto riguarda la struttura, le necessità imposte dai materiali e dalle leggi fisiche della loro edificazione e combinazione; in terzo luogo, relativamente allo stile, la natura. In fine, di questo mi propongo di scrivere: dell’influenza dei fatti noti o immaginati dell’universo sull’architettura, della connessione tra il mondo come struttura e l’edificio, e non solo dei dettagli della natura e degli ornamenti dell’architettura, ma del tutto – del tempio del Cielo e dei tabernacoli della Terra. “Qualcuno ha mai trovato la risposta al perché”, si chiede Lillie nel suo Buddhism in Christendom, “solo i rappresentanti moderni degli iniziati agli antichi misteri dovrebbero dedicarsi interamente ai mestieri del muratore e del costruttore? E qual è la connessione tra il regno del paradiso e la semplice calce, la squadra e la cazzuola? La massoneria esoterica si occupava, in realtà, del tempio costruito senza il frastuono del martello, dell’ascia, o di qualsiasi altro attrezzo di ferro. Tale tempio è, di fatto, il tempio dei Cieli, il Macrocosmo”. Sarà necessario non soltanto esaminare l’architettura nei suoi stessi monumenti, ma anche le affermazioni dei contemporanei su di essi, le narrazioni relative agli edifici, e finanche la mitologia dell’architettura, poiché una tale mitologia esiste. Seguendo il percorso delle forme artistiche delle cose, fatte dall’uomo, fino alle loro origini, ci troviamo di fronte alla diretta imitazione della natura. L’idea che sta a fondamento di una nave è l’imitazione del pesce. E così, per gli Egiziani e i Greci la “nave nera” recava le tracce di questa derivazione, e due occhi erano dipinti sulla prora. Tale usanza tuttora resiste nel mare Mediterraneo e nelle acque della Cina: le hanno dato occhi, si dice, che permettano alla nave di trovare la sua rotta sul mare 7

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inesplorato. Tavoli e sedie sono quadrupedi come le bestie; le zampe di leone dei mobili moderni provengono dai Greci, e, prima ancora, erano d’uso in Assiria e in Egitto. I troni recavano animali su tutti e due i braccioli, un’usanza tradizionalmente seguita per i troni, fossero ittiti, caldei o hindu, per il trono di re Salomone, per il trono imperiale a Costantinopoli, o per il nostro scranno per l’incoronazione. Il catafalco funerario egizio sembra quasi essere una celia, tanto franca e immutata risulta in esso l’imitazione: si presenta, così come viene esposto sui sarcofagi delle mummie, proprio nell’aspetto di un leone, allungato con il suo dorso piatto, con la coda e tutto; l’esemplare conservato nel Museo di Boulak si presenta come un normale letto, a forma di parallelogramma, con tutt’e quattro le gambe a zampa di leone; la testa è posta al centro della barra frontale, mentre la coda, come la maniglia di una pompa, si proietta all’indietro in un’ampia curva maestosa. Dove altro dovremmo andare per scoprire la più alta immaginazione? Nei moderni racconti popolari greci, l’eroe di solito ha tre meravigliosi abiti: il primo sul quale sono ricamati il cielo e le sue stelle, il secondo con il mare e i pesci che vi nuotano, il terzo con la Terra fiorita nel mese di maggio. Chi potrebbe mai creare motivi più belli? Nelle convenzioni del poetare, nelle quali il mondo è paragonato ad un edificio, con la “volta celeste”, “l’arco celeste”, i “cancelli dell’alba”, e tutto il resto, vi sono persistenze di un tempo in cui la Terra non era una minuscola sfera, lanciata ad una incommensurabile velocità nello spazio infinito, una, fra le altre lucciole della notte, ma era salda ed immobile, il centro dell’universo, il pavimento sul quale il cielo fu innalzato. Era, nell’insieme, una sala illuminata dal Sole, dalla Luna e dalle stelle. Il cerimoniale religioso, durante le età delle grandi edificazioni in Caldea, Egitto e India, stava attraversando la fase del culto della natura, nel quale il cielo, il sole e il mare non erano così tanto velati, come poi è avvenuto presso i Greci, fino al punto di diventare persone e non più cose; l’osservazione astronomica era una pratica aperta e condivisa, strettamente connessa al culto. 8

Introduzione

In tutto questo c’è quanto basta per indurci ad ammettere l’uso evidente di un simbolismo cosmico nelle costruzioni del mondo delle origini, e riconosceremo che l’intenzione del tempio (considerando l’idea di tempio, secondo la nostra concezione) era allestire in un dato luogo, una replica di quel tempio, che non è fatto dalle mani dell’uomo, ma è lo stesso tempio del mondo, una specie di modello in scala, la cui forma fosse regolata dalla scienza del tempo; era il paradiso, un osservatorio e un almanacco. La sua fondazione consisteva in una cerimonia sacra, la data era scelta con cura con l’aiuto delle arti divinatorie, e la sua relazione con il cielo stabilita attraverso l’osservazione astronomica. La sua localizzazione era precisamente al di sotto del prototipo celeste; come quest’ultimo era sacro, e forte, le sue fondamenta non potevano essere mosse, se saldate a squadro alle pareti del firmamento, come è ancora per le nostre chiese. Non era forse nella ricerca di una somiglianza con il santuario celeste che Salomone costruì il tempio senza il suono di alcun attrezzo? Non voglio per forza affermare che questa sia stata l’origine di tutte le strutture costruite per uno scopo sacro; né, forse, che, in tutti i casi, questa sia stata la prima interpretazione di alcuni simboli. Le usanze si offrono a molte interpretazioni. Sostengo invece che, data l’idea di universo e di dèi universali, la fase qui descritta fosse necessaria; e, dato che questa fase è stata dappertutto precedente all’epoca in cui furono prodotte opere degne del nome di Architettura – costruzioni che contenevano idee – è qui che possiamo trovare il fattore formativo nella concezione di queste opere. E su questo vi è una vasta bibliografia; De la Saussaye, nel suo esaustivo Manuale di storia della religione, del 1891, scrive: “Il simbolismo degli edifici dei templi a volte sembra riferirsi alla struttura del mondo, altre volte alla relazione religiosa tra l’uomo e gli dèi”. Riservando l’inizio di questo libro, nel primo capitolo, alla forma del mondo, i tre o quattro capitoli successivi tratteranno della relazione tra l’edificio, come insieme, e tale forma. La parte restante tratterà i componenti dell’edificio ed i dettagli. Non dobbiamo supporre che i templi fossero in tutti i casi la 9

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somma di questi simboli; ma dobbiamo pensare che da questo comune libro dell’architettura ognuno abbia preso ciò che ha voluto, poco o molto, qualche volta direttamente, qualche volta con una maggiore o minore imitazione, qualche volta con simboli di prima mano, e spesso usandoli come una tradizione quasi dimenticata. L’aspetto rituale del simbolismo è completamente trascurato in questo testo, ma vi sono ampie prove che la cerimonia sacra, il fasto che circondava un trono e il corteo della guerra si riferivano tutti al rituale e alla magnificenza della natura, cosicché l’uomo potesse unirsi ad essa e partecipare della sua invincibile forza. Per quanto ridicolo possa sembrare a prima vista, il trono, la corona e il globo imperiale di Sua Maestà la regina Vittoria, possono essere spiegati soltanto in questo modo: sono tutti simboli di Dio nel suo tempio; e la monarchia ereditaria, come ha mostrato il signor Spencer, ha dovunque preteso la divinità, la discendenza divina e, con il consenso di Dio, il diritto divino. Recita l’antico libro cinese, il Li Ki, “tutte le usanze cerimoniali, confrontate nelle loro generali caratteristiche, incorporano le idee suggerite dalla Terra e dal cielo, derivano le loro leggi dall’avvicendarsi delle quattro stagioni, imitano i moti di contrazione e di sviluppo della natura, e sono conformate ai sentimenti degli uomini. Per questo sono chiamate Regole della Convenienza, e se qualcuno trova in esse difetto, dimostra soltanto la sua ignoranza della loro origine”. L’architettura antica viveva perché aveva uno scopo. L’architettura moderna, per essere reale, non deve essere un semplice involucro senza contenuti. Secondo gli studi del signor César Daly, se vogliamo che l’architettura susciti interesse, reale e generale, è necessario un simbolismo che possa essere immediatamente compreso dalla grande maggioranza degli spettatori. Ma tale messaggio non può essere quello del passato: terrore, mistero, splendore. I pianeti forse non transiteranno, né il tuono risuonerà, nel tempio del futuro. Non si possono più impiegare, a scopi magici prima che estetici, l’oro barbaro raggiante di vermiglio, i gioielli, gli smeraldi grandi come la metà del palmo della mano, i rubini grandi come un uovo, le sfere di cristallo. Non 10

Introduzione

più templi a terrazze di Babilonia per raggiungere il cielo; non più palazzi laminati d’oro d’Ecbatana, con sette cinte di mura; non più palazzi d’avorio di Ahab; né case auree di Nerone dai corridoi lunghi un chilometro e mezzo circa; non più stupendi templi d’Egitto che dapprima abbracciano tutti, poi, quando i cortili e le sale si restringono e si abbassano, opprimono l’adorante timoroso e schiacciano la sua immaginazione; tutti questi luoghi non si potranno più innalzare, perché in essi lo stile e i materiali sono lavorati in maniera estrema. Si pensi alla sociologia e alla religione di tutto ciò e alla macchia che lo attraversa, “ogni pietra cementata con il sangue di una creatura umana”. Questi sforzi colossali del lavoro, forzato da una volontà implacabile, appartengono al passato, e una simile architettura non è per noi, né per il futuro. Cosa sarà, dunque, quest’arte del futuro? Il messaggio sarà sempre quello della natura e dell’uomo, dell’ordine e della bellezza, ma tutto sarà dolcezza, semplicità, libertà, fiducia e luce; l’altro messaggio è passato, ed è un bene, perché il suo fine era quello di schiacciare la vita: il nuovo, il futuro, è aiutare la vita e guidarla, “così che la bellezza possa fluire nell’anima come una brezza”.

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CAPITOLO PRIMO

Il tessuto del mondo I racconti delle età a lungo dimenticate Ora le leggende della creazione Un tempo ben note ai fanciulli. Kalevala

Se cancellassimo dalla mente proprio tutto ciò che la scienza ha con fatica scoperto dei fatti reali dell’universo materiale, e ci domandassimo quali siano stati i pensieri con i quali gli uomini hanno tentato all’inizio di spiegare e raffigurare l’ordine naturale, potremmo entrare in sintonia con nozioni che a prima vista ci sembravano assurde. Potremmo vedere che il progresso della scienza consiste semplicemente nella formulazione e nella successiva distruzione di una serie di ipotesi, una per una, e che le prime cosmogonie sono molto simili alle ampie generalizzazioni della scienza – da un certo apparire fino a formulare una teoria, dai fenomeni fino a generalizzare la legge. Proiettandoci così all’indietro nel mondo antico, non solo dobbiamo ricordarci dei limiti nella conoscenza dei fenomeni, ma anche degli inadeguati strumenti di espressione. Non dobbiamo soltanto chiederci cosa l’uomo primitivo – usando il termine per quel che vale senza che ci inganni – abbia potuto osservare; dobbiamo, nello stesso tempo, domandarci: quali immagini l’uomo antico può avere avuto di fronte a sé alle quali associare la meraviglia del cielo e la potenza del mare? O piuttosto, queste sono due fasi della stessa domanda, attraverso cui possiamo comprendere i sistemi arcaici, poiché in queste cose, almeno, i concetti erano immediatamente collegati alle parole, parole che erano comparazioni descrittive. L’universo sconosciuto poteva allora essere spiegato soltanto attraverso le sue parti conosciute; la Terra, racchiusa dal cielo notturno, dev’esser stata pensata come una creatura vivente, un albero, una tenda, un edificio; e ciascuna di queste forme modella il sistema del mondo agli occhi dei contemporanei. 12

Il tessuto del mondo

“Considerando i dati a lui conosciuti”, afferma Herbert Spencer, “la deduzione formulata dall’uomo primitivo risulta essere la deduzione ragionevole”. L’albero con la sua grande chioma di rami che si richiudono ad arco, deve aver fornito un’appropriata e soddisfacente spiegazione, poiché le leggende di un albero del mondo sono così diffuse; le incontriamo agli albori del ricordo umano, e tuttora affondano le loro radici tra i primitivi, dove corre “il selvaggio abitante delle foreste”. Le iscrizioni lasciateci dai Caldei descrivono un simile albero che cresce al centro del mondo; i suoi rami di cristallo formavano il cielo e si piegavano verso il mare. I Fenici pensavano al mondo come un albero rotante sul quale era disteso un grande arazzo blu ricamato di stelle. Tracce di questo modello persistono a lungo nella cultura, e possiamo rintracciarle nella storia di Apollonio di Tiana: la gente di Sardi si chiedeva se gli alberi non fossero stati creati prima della Terra; un’idea esattamente parallela alla controversia, nel Talmud, sulla priorità della creazione dei cieli o della Terra: c’era chi sosteneva che l’oggetto fosse fatto prima e poi il piedistallo, e chi invece sosteneva che la fondazione fosse messa in opera prima di costruire un edificio. Tutto l’Oriente conosceva tale albero; in Giappone gli dèi hanno spezzato invano le loro spade contro di esso; in Grecia la sua memoria sembra essere a lungo sopravvissuta nell’ulivo della foresta di Colono. Nel sistema dell’antica Scandinavia un enorme albero, il frassino del mondo, si erge al centro della Terra, i suoi rami formano i molteplici cieli degli dèi, le sue radici penetrano profondamente negli inferi, e lì il serpente in eterno giace addormentato nell’oscuro cuore del mondo.

La scienza dei Maori raffigura tuttora quest’albero che si erge fino a raggiungere i cieli, “quella scura notturna calotta celeste che, come la foresta, propaga le sue ombre”, la cui crescita poderosa spezzò l’unione tra cielo e Terra. Una simile idea è 13

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probabilmente assai comune in una fase iniziale della civiltà: “La concezione fondamentale di questi miti”, spiega Lenormant, “i quali non si manifestano nella forma perfetta se non nelle forme più antiche, rappresenta l’universo come un enorme albero”. Il cui tronco fissa, traversandola, la Terra, si proietta in alto verso i cieli ed in basso dentro gli abissi; i cieli che ruotano attorno a questo asse si possono raggiungere scalandone il fusto. Un passo del volume Early History of Mankind del dottor Edward Burnett Tylor ci condurrà verso un ulteriore punto di vista. Circondato ora dalle proprie opere, l’uomo ravvisa nell’universo una più grande “tenda nella quale dimorare”, una camera, ed infine una costruzione veramente elaborata; è una concezione che sopravvive a lungo, partecipa persino, direttamente, alla genealogia della scienza. Di questa idea i bambini fanno fatica a liberarsi: che da qualche parte esisterà un muro di mattoni che circoscrive l’universo lo ritroviamo nell’espressione “far risuonare la volta celeste”. “Vi sono”, dice il dottor Tylor, “altri percorsi mitologici, oltre all’albero dei cieli, attraverso i quali, in differenti parti del mondo, è possibile andare su e giù fra la superficie della Terra e il cielo o il sottomondo… Queste storie appartengono ad un rozzo e primitivo stadio di conoscenza della superficie terrestre e di quanto già al di sotto e al di sopra di essa. La Terra è una pianura circondata dal mare e il cielo forma una volta sulla quale transitano il Sole, la Luna e le stelle. I Polinesiani, che pensavano, come tanti altri popoli antichi e moderni, che il cielo scendesse all’orizzonte per racchiudere la Terra, chiamano tuttora gli stranieri ‘coloro che irrompono dal cielo’, come se questi avessero infranto il cielo entrandovi da un altro mondo di fuori. Il cielo è, per la gran parte dei selvaggi, quella ‘Terra in alto’, come è chiamata nella America del Sud, e possiamo ben comprendere il pensiero di certi Paraguaiani i quali credono che al momento della morte le loro anime raggiungano il paradiso salendo l’albero che unisce il cielo e la Terra. Ci sono fori e finestre nel cielo-tetto, o firmamento, attraverso i quali cade la pioggia; e se ci si arrampica abbastanza in alto si potrà passare oltre e visitare gli abitanti di lassù, che per l’aspetto, la lingua e il modo 14

Il tessuto del mondo

di vita sono molto simili agli uomini sulla Terra. Come sopra la piatta Terra, così anche sotto di essa esistono regioni abitate dagli uomini, o da creature che ad essi assomigliano, che a volte salgono sulla superficie ed a volte ricevono le visite degli abitanti della Terra di sopra. Abitiamo, per così dire, al pianterreno di una grande casa, con i piani che si innalzano uno dopo l’altro sopra di noi e con le cantine ai nostri piedi”. Tale stadio del pensiero durò così a lungo, comprendendo in sé le grandi epoche architettoniche, che è impossibile non scorgere una relazione ed una reazione tra quella struttura del mondo e le costruzioni dell’uomo; e questo soprattutto per gli edifici sacri, destinati – come nella maggior parte dei casi – ad un culto che pensava di trovare il proprio oggetto nel cielo, nella Terra e nelle stelle. In generale, sembra che per le grandi razze portatrici della civiltà un universo in forma quadrata precedesse quello emisferico; invero, oggi siamo, e di molto, nell’età emisferica, abbastanza arcaica, ancora, da fornire similitudini al poeta; ma un poeta antico come Giobbe trovò i suoi paragoni nella forma della stanza: una scatola quadra, con sopra il coperchio. Al centro di questa enorme scatola, il cui coperchio è il cielo, sorge la montagna della Terra, che è il suo sostegno e il perno delle sue rotazioni. Si pensò che il centro di questa orbita fosse un punto all’interno dello spazio posto sotto la custodia dell’Orsa maggiore, e che, dietro l’Orsa, le stelle affondassero sotto la terra dell’orizzonte boreale. La montagna terrestre a nord, così, permette una più che adeguata spiegazione dei movimenti apparenti dei cieli; il cielo di metallo o di cristallo delle stelle fisse ruota attorno ad essa, e, di conseguenza, ad ogni orbita, le stelle scompaiono dietro di essa. Il Sole, la Luna ed i pianeti emergono da una cavità ad est e, ad ovest, precipitano in un’altra: si muovono in alto e ritornano seguendo un itinerario sotterraneo. La forza motrice veniva a volte fornita da esseri attivi, come nella descrizione contenuta nel Libro di Enoch, oppure dai venti; così l’universo era come un enorme mulino. È probabile che il passo successivo consistesse nella cupola, sebbene fino ad allora gli uomini facessero fatica a comunicare 15

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tale idea, e così il teschio o il mezzo guscio d’uovo divennero l’elemento di confronto con la totalità, la volta del cielo, come nel cosmo nordico dell’Edda. La Terra non si era formata, e neppure i cieli sovrastanti, vi era un varco spalancato, ma non c’era erba da nessuna parte. La Terra è salda al centro, il mare forma un anello attorno ad essa. Il firmamento, a forma di teschio, fu innalzato sopra la Terra, con quattro lati, e sotto ciascun angolo vennero posti dei nani. La Terra, chiamata Midgard, vaga rotonda nello spazio, ed oltre vi è il mare profondo; al centro della Terra si innalza Asgard, ove Odino ha il suo trono, dal quale guarda ogni parte del mondo e contempla tutte le azioni dell’uomo. Fuori, nel mare profondo sta il serpente di Midgard, con la coda nella bocca. Il più sacro seggio degli dèi sta presso il frassino Yggdrasil, i cui rami si distendono sul mondo intero. Quest’albero ha tre radici, una in paradiso, una all’inferno, dove è Nidhogg, una dove prima si trovava il Varco spalancato, e là vi è la Fonte della Conoscenza. Vi è una splendida sala, dalla quale procedono tre fanciulle, l’Essere-stato, l’Essere e il Sarà, le quali determinano la vite degli uomini. Sui rami del frassino sta un’aquila molto sapiente che ha tra gli occhi un falco, mentre uno scoiattolo corre su e giù per l’albero portando le parole d’odio che si scambiano l’aquila e il serpente. Quanto segue può valere come descrizione generale di quel che possiamo chiamare la camera, rotonda o quadrata, fatta con un soffitto o una cupola, come tipo dell’universo. La Terra è una montagna, e attorno alla sua base scorre l’oceano, oppure essa galleggia sull’oceano; al di là, si erge una vasta catena di montagne che forma le mura del recinto: su queste è posato il soffitto fatto come un’unica grande lastra, o come una cupola. A volte tale sistema risulta essere il frutto di un compromesso: Terra quadrata, cielo rotondo; sembra che non avessero considerato le difficoltà dei gravami e dei sostegni! Il firmamento è sostenuto, al centro, dalla montagna della Terra; secondo il resoconto sulle credenze degli Eschimesi fornito dal dottor Rink: “la Terra, con il mare da essa sostenuta, si regge su pilastri, e copre un mondo sotterraneo che può essere raggiunto da molti accessi, dal mare o dalle fenditure delle mon16

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tagne. Al di sopra della Terra si trova un mondo superiore, oltre il quale il cielo blu, di consistenza solida, volteggia come un guscio, che ruota, come qualcuno dice, attorno ad una vetta nel lontano Nord”. Un uomo su una barca si spinse “fino al limite dell’oceano dove il cielo discende ad incontrarlo”. È Herbert Spencer, nel tomo primo di Sociology. L’uomo fu creato sulla cima della montagna, dove essa è in contatto con il cielo e dove tutta la vegetazione della Terra nasce dai semi dell’albero centrale. Nel Sud Pacifico, ci racconta il signor Andrew Lang, il cielo è una solida cupola di pietra blu. All’origine del mondo il cielo premeva forte sulla Terra e il dio Ru era costretto a tenerli separati. Ru è ora l’atlante di Mangaia: “Ru, che regge il cielo”. Al di sopra del firmamento sta il mare superiore dal quale discende la pioggia attraverso dei fori; tale mare funge da piattaforma per le regioni superiori, e dal firmamento, o dalle pendici delle montagne, alimenta i mari della Terra; le stelle o sono fisse al firmamento, o galleggiano in questo mare superiore. C’è una storia divertente su questo mare celeste, antica quanto Gervaso da Tilbury. Alcune persone, uscite da una chiesa, si meravigliarono nel vedere penzolare dal cielo un’ancora appesa ad una fune, e impigliata nelle pietre tombali: videro anche un uomo che si calava dalla corda con l’intenzione di sganciarla, ma non appena raggiunse la Terra morì, come noi annegheremmo nell’acqua. Il sistema egizio sembrerebbe essere invece del tipo quadrato. Gli Egizi, afferma Jean François Champollion, “paragonavano il cielo al soffitto di un edificio”; immagini che raffigurano il cosmo in forme personificate sono frequenti nei templi e sulle arche contenenti le mummie. Un interessante esempio è stato descritto dal Lenormant nell’atlante Histoire Ancienne, dove si mostra Seb, o Geb, la montagna della Terra, Tpe, il firmamento, e Nut, le acque celesti. Nel Libro dei morti l’anima passa attraverso il portale di questo mondo nell’altro, “la casa di Osiride”, e anche questo mondo è circondato da mura con un grande portale, perché il Sole, da est, possa raggiungere la nostra Terra: i morti dovevano essere condotti sulle acque che 17

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circondavano la Terra; così, il fiume dei morti ebbe in origine un significato soltanto geografico. Renouf dice che “ci si indirizza a Ra come al Signore della grande dimora. La ‘grande dimora’ è l’universo, il palazzo di Geb è la Terra, il palazzo di Nut è il cielo, e il palazzo del duplice Maat è il mondo degli inferi”. L’acqua era l’elemento primordiale nella formazione dell’universo, e di essa Gaston Camille Charles Maspero dà la seguente descrizione: “per gli astronomi dell’Egitto, come per l’autore del primo capitolo della Genesi, il cielo era fluido, una massa liquida, e racchiudeva in sé, per intero, la Terra, che poggiava sulla solida atmosfera; quando il Caos degli elementi prese forma, il dio Shu sollevò in alto le acque e le sparse nello spazio. È su questo celeste oceano, Nut, che galleggiano i pianeti e le stelle; sui monumenti vengono rappresentati come geni con sembianze umane o animali, ciascuno sulla propria barca nella scia di Osiride. Vi era un’altra concezione, anch’essa ampiamente conosciuta, che mostrava le stelle fissate come lanterne appese alla calotta celeste, ed esse erano accese di nuovo ogni notte dal potere divino, per illuminare le notti della Terra”. Le teorie cosmogoniche dei Veda sono state riportate in forma sintetica dal signor Wallis, e riassunte in una recensione su «Academy» nel novembre del 1887. “Gli inni del Rig Veda rivelano tre chiare linee di pensiero per quanto concerne la creazione del mondo, con tre punti di vista divergenti sulla sua costruzione. Secondo la teoria più semplice, la messa in opera del mondo fu compiuta in modo del tutto simile alla costruzione di una casa da parte di architetti e artigiani. ‘Qual era mai il legno? E qual era mai quell’albero’ domanda un inno ‘da cui furono fabbricati il cielo e la Terra?’. Lo spazio fu calcolato con il regolo di Varuna. Questo regolo era il Sole, e per questo motivo erano proprio gli dèi del Sole a misurare il mondo, Visnu in special modo, ‘colui che misurò tutte le regioni della Terra e che assicurò le alte dimore, con i suoi tre grandi passi’. L’edificio aveva tre piani: la Terra, l’aria ed i cieli; la misurazione iniziò dalla facciata dell’edificio, da est. ‘Indra misurò dal fronte, come fosse una casa’. ‘L’aurora effuse il suo intenso chiarore e spalancò per 18

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noi le porte’, che ‘si aprono alte e larghe con le cornici’. La copertura della casa si riferisce al cielo, il cui epiteto era ‘il senza-travi’. La stabilità della casa era mirabile e fu lodata. Mentre il disegno e la struttura generale vengono attribuiti alle grandi divinità, e in modo particolare a Indra che li rappresenta, le opere lignee, con gli altri dettagli, vengono fatte dalle divinità artigiane. Come la prima azione dei contadini indiani quando entrano in possesso di una nuova casa è portare nella casa il fuoco sacro, così, ci ricorda il signor Wallis, ‘la prima azione degli dèi, dopo la creazione del mondo, era quella di produrre l’Agni celeste’”. Nell’Avesta il cielo viene descritto “come un palazzo costruito con una sostanza celeste, saldo e stabile con i lati molto distanti l’uno dall’altro”. L’idea del tempio del Cielo accomuna i poeti classici, e diventa il palazzo o il tempio di cristallo nelle lingue romanze. L’antico sistema dei Caldei rientra nella categoria emisferica ed è interessante il fatto che gli scavi moderni abbiano dimostrato come l’origine della cupola fosse proprio in Mesopotamia. “I Turanici di Caldea rappresentavano la Terra come una barca rovesciata e cava sotto, non come quelle oblunghe barche di cui ci serviamo, ma tutta tonda, come mostrano i rilievi, ed ancora in uso sull’Eufrate. Nel vuoto interno si celava l’abisso, luogo delle tenebre e della morte; sulla superficie convessa si distendeva la Terra, propriamente detta, avviluppata da ogni parte dai flutti dell’oceano. La Caldea era considerata il centro del mondo, e, ben oltre il Tigri, stava la montagna dell’Est, che univa il cielo e la Terra. I cieli avevano la forma di un vasto emisfero, il margine inferiore del quale era appoggiato sull’estremità della barca terrestre, oltre le correnti dell’oceano”. “Il firmamento si distendeva sopra il mondo come una tenda; esso roteava, come su un perno, attorno alla montagna dell’Est e trascinava con sé nella sua corsa inarrestabile le stelle fisse, delle quali la sua calotta era trapunta. Fra la Terra e il cielo ruotavano sette pianeti simili a grandi animali pieni di vita; poi vennero le nuvole, i venti, il tuono, le piogge. La Terra stava sul19

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l’abisso, il cielo stava sulla Terra. Gli antichi Caldei non si erano ancora domandati su che cosa poggiasse l’abisso”. Così il Maspero [Egyptian Archaeology]. È deliziosamente appropriato a quanto si sta dicendo che nell’età eroica della Grecia uno scudo, probabilmente rotondo e convesso con una grande borchia al centro, raffigurasse la forma della Terra. Per Omero, la Terra dove apparivano i fantasmi dei morti è oltre l’oceano. Potremmo supporre che questa fosse la riva solitaria della catena di montagne da cui sorgeva il firmamento. L’abisso è il Tartaro, come nel libro settimo dell’Iliade, “oscuro Tartaro molto lontano da là, l’Olimpo, dove è un profondo golfo sotto la Terra, con i portali di ferro e una soglia di bronzo, distante dall’Ade come il cielo dalla Terra”. Esiodo è più preciso: un’incudine di bronzo precipiterebbe per nove giorni dal cielo alla Terra, e altri nove giorni precipiterebbe dalla Terra al Tartaro. Così, lo schema omerico conosceva la Terra come è raffigurata sullo scudo di Achille; circondata dall’oceano, stava in mezzo, forse, tra il duro cielo di metallo e il Tartaro, come un disco avvolto in un involucro sferico. L’Olimpo dalle molte cime, dove gli dèi si davano convegno, è più l’Olimpo celeste, la superficie della volta del cielo, che una semplice montagna della Terra. Una buona descrizione di esso ci è data nella Storia della Grecia [I, IX] del Duncker: sulla sua cima vi era il “lago che-tutto-nutre”, dal quale fluivano tutte le acque del mondo; l’Olimpo terrestre era solo un simbolo del monte celeste. Anassagora insegnò che la volta celeste è di pietra. Teofrasto disse che la Via lattea era il punto di congiunzione delle due metà di una solida cupola, tanto malamente saldate che la luce vi passava attraverso; altri dicevano che essa fosse il riflesso della luce del Sole sulla volta celeste. È nei Miti astronomici di Flammarion. Poi, quando i viaggiatori fenici ebbero esplorato i mari occidentali ed una conoscenza dell’India aprì all’Oriente, si pensò al mondo come evidentemente esteso da est a ovest, e con le stesse condizioni di clima; mentre erano incalcolabili le distanze da nord a sud, e il clima cambiava. Per questo Erodoto dice: “sorrido quando vedo tante persone, prive di valide ragioni che le 20

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guidino, darsi a descrivere la circonferenza della Terra; loro descrivono i flutti dell’oceano che si estende intorno alla Terra, rotonda come se fosse fatta al tornio”. Sicuro, comunque, che la Terra fosse basata su una semplice forma geometrica, accettava la proporzione di due a uno. Il signor Charles Elton, scrivendo del viaggiatore Pitea di Marsiglia nel 330 a.C. e della stima delle distanze implicate dai suoi viaggi, dice: “Il mondo era considerato lungo il doppio della sua larghezza; la larghezza totale, dalle speziate regioni di Ceylon fino alle ghiacciate sponde della Scizia, era stimata di circa 5471 chilometri; la lunghezza, dal capo di Saint Vincent all’oceano ad est dell’India di circa 10.943 chilometri”. Pitea aumentò questa stima, “facendo così il mondo largo 7563 chilometri, ed essendo costretto, data la formula comunemente accettata, ad estendere la sua lunghezza a 15.127 chilometri circa”. Il passo successivo era quello di accettare la teoria sferica, sia per la Terra che per i cieli. Nel Medioevo si ritroverà la proporzione del doppio quadrato. Pitagora sembra aver preso in prestito lo schema orientale pienamente sviluppato; poiché i Babilonesi arrivarono soltanto dopo ad una struttura altamente complessa e attentamente ragionata di molteplici sfere celesti che sembrerebbero elaborate nel seguente modo: il cielo blu delle stelle fisse vien visto ruotare attorno con un andamento costante, trascinando l’insieme delle stelle con sé. Ma il Sole, la Luna e gli altri cinque pianeti non occupano a lungo le proprie posizioni rispetto agli altri corpi; si è osservato che essi hanno un movimento proprio attraverso lo zodiaco, dai trenta giorni della Luna ai trenta anni di Saturno; e così gli astronomi caldei assegnarono una sfera ruotante ad ognuno di questi: sette sfere concentriche che ruotano a velocità proporzionate alla loro distanza dal centro, su un asse comune, in linea con la stella polare. “Gli astronomi caldei”, afferma il Lenormant nel suo libro sulla Magia dei Caldei, “immaginavano un cielo sferico che avvolgeva completamente la Terra; i moti periodici dei pianeti avevano luogo nella zona bassa dei cieli, al di sotto del firmamento delle stelle fisse; l’astrologia ha in seguito attribuito ad essi le sette sfere, concentriche e 21

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in successione. Il firmamento sosteneva l’oceano delle acque celesti”. Quelle sette sfere, che formavano tante regioni su nei cieli quante giù nel mondo sotterraneo, venivano distinte per colore, così come Erodoto descrive le mura di Ecbatana nella Media, “un simbolismo”, continua il Lenormant, “direttamente derivato dalla religione babilonese: i colori dei sette corpi planetari”. È necessario che questo sistema venga compreso appieno; esso è la struttura perfezionata dell’astrologia, che per duemila anni ha risolto il problema dell’universo per tutto il mondo civile; è il sistema soggiacente ad ogni misticismo, astrologia ed arte magica. È stato attraverso una irresistibile analogia che anche la Terra divenne una sfera. Nel mondo occidentale, lo schema attribuito a Pitagora riporta dodici sfere in totale, le quali si susseguono nell’ordine seguente, partendo dalla più lontana: 1) la sfera delle stelle fisse; 2) Saturno; 3) Giove; 4) Marte; 5) Venere; 6) Mercurio; 7) il Sole; 8) la Luna; 9) la sfera del fuoco; 10) la sfera dell’aria; 11) la sfera dell’acqua; 12) la Terra. “I primi pitagorici pensarono poi che i corpi celesti, come gli altri corpi in movimento, emettessero suoni; e che tali suoni formassero una armoniosa sinfonia. Così stabilirono una analogia tra gli intervalli dei sette pianeti e la scala musicale”. Lo scrive Sir George Cornewall Lewis, nella sua analisi storica degli antichi. La forza trainante nel sistema dei Caldei era l’energia dei sette spiriti che governavano le diverse sfere; questi, come angeli delle stelle, sopravvissero fino al Medioevo, e nelle loro forme cabalistiche, Zadkiel, Raphael e gli altri, sono tuttora familiari a coloro che ripongono la loro fiducia negli almanacchi profetici. Vedremo cosa dice Dante sugli ordini degli angeli. La visione più vivida di questo vortice di sfere roteanti è quella de Il sogno di Scipione di Cicerone: “Le stelle, poi, erano corpi celesti assai più grandi della Terra e questa mi apparve anzi così piccola che mi venne una stretta al cuore nel vedere che il nostro impero non occupa che un piccolo punto di essa. Continuando io a osservarla con sempre maggiore interesse, l’Africano intervenne: ‘Ti prego, quanto ancora la tua mente continuerà a rivolgere lo sguardo verso terra? Non vedi in quali tem22

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pli sei entrato? Hai qui nove cerchi, o meglio sfere, tutte connesse fra loro, delle quali una è quella del cielo, la più esterna che contiene tutte le altre; essa è lo stesso dio supremo che comprende e tiene insieme tutto il resto. In essa sono fissate le orbite eterne percorse dalle stelle in rotazione; ad essa sono sottoposte le sfere che ruotano all’indietro, in senso contrario a quello del cielo. Di queste sfere una è quella occupata dall’astro che sulla Terra chiamiamo col nome di Saturno. Quindi viene quello folgorante che prende il nome da Giove e che agli uomini porta prosperità e salute. Poi c’è quello rosso e rovinoso per la Terra, a cui date il nome di Marte. Viene poi la regione all’incirca intermedia più sotto, che è occupata dal Sole, guida, principe e reggitore degli altri astri, anima del mondo e suo equilibratore; esso è tanto grande da arrivare con i suoi raggi dappertutto. Gli fanno seguito l’orbita di Venere e quella di Mercurio, mentre nella sfera più bassa ruota la Luna, che ha luce dai raggi del Sole. Al di sotto di essa non c’è più nulla che non sia mortale e caduco, con l’eccezione delle anime assegnate quali doni divini al genere umano; sopra la Luna, invece, ogni cosa è eterna. Infatti la nona sfera, quella centrale, cioè la Terra, non è dotata di movimento ed è la più bassa e verso di essa cadono, per inclinazione naturale, tutti i gravi’. Fui preso da meraviglia all’osservazione di tutte queste cose, e quando mi ripresi dallo stupore dissi: ‘Che cos’è? Che musica è questa, così intensa e così piacevole che riempie le mie orecchie?’. Egli mi rispose: ‘È quella prodotta dall’energia che muove le sfere stesse […]. Le orecchie degli uomini, riempite di questo suono, sono diventate sorde, e nessuno dei sensi in noi è così debole come questo’”. Non fu perduta la distinzione tra il superiore e l’inferiore né la solidità dei cieli sferici, come si nota nel seguente brano tratto dall’astrologo Manilio: “Vieni, dunque, prepara la tua mente a studiare i Meridiani; sono in numero di quattro, la loro posizione nel firmamento è fissa, e modificano l’influenza dei segni mentre ne sono velocemente attraversati. Uno è posizionato dove il cielo s’innalza per formare la sua volta, ed è questo ad avere il primo sguardo della Terra da quell’altezza. Il secondo è posto di fronte ad esso sul margine opposto dell’etere: da qui 23

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inizia la discesa del firmamento, un precipitoso inabissarsi negli inferi. Il terzo segna la parte più alta dell’alto dei cieli; quando Febo lo raggiunge è spossato e i suoi cavalli ansimano; qui, poi, egli si riposa un momento, mentre decide il tempo del calar del giorno, e pone in equilibrio le ombre del meriggio. Il quarto, la cui gloria sta nell’essere fondamento del mondo circolare, tiene la parte inferiore del tutto; su di esso le stelle concludono il loro corso declinante e s’apprestano a salire di nuovo: esso occupa una posizione equidistante tra il sorgere ed il tramontare”. La visione di una Terra piatta non era necessariamente prediletta nell’opinione comune. Strabone ritiene necessario argomentare su una Terra che deve essere di forma sferica: fosse essa stata di una profondità infinita, avrebbe trapassato le sfere planetarie, impedendo ad esse di roteare! Tale sistema settemplice si è diffuso in Occidente con la civiltà latina, e ha costituito lo schema del mondo dei nostri avi sassoni. Nella raccolta dei frammenti degli scritti attribuiti a Zoroastro, curata da Isaac Preston Cory, l’universo persiano appare così: “poiché il Padre riunì assieme i sette firmamenti del mondo, circoscrivendoli con una figura convessa”, questi sette firmamenti sono immaginati nelle antiche scritture persiane come “montagne” trasparenti, ognuna che fuoriesce dall’altra. Gli antichi Hindu intendevano l’universo come composto da sette involucri concentrici posti attorno al monte terrestre, il monte Meru, sul quale le acque del Gange celeste fluivano dal cielo, e, facendone sette volte il giro nella loro discesa, le acque venivano distribuite in quattro grandi flussi a tutta la Terra. I Messicani avevano invece nove cieli sovrapposti, che si distinguevano grazie a differenti colori. Il sistema arabo è stato ben spiegato dal Lane: “Secondo la comune opinione degli Arabi vi sono sette cieli, uno sopra l’altro, e sette terre una sotto l’altra; la Terra sulla quale abitiamo è la più alta di tutte, contigua, subito sotto, al più basso dei cieli. Le estensioni superiori di ogni cielo e di ogni Terra sono ritenute essere praticamente piane e generalmente vengono considerate circolari. In questo modo si riesce a spiegare un passo del Corano 24

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nel quale è detto che Dio ha creato sette cieli e sette terre, ovvero sette piani o livelli terrestri. Le tradizioni divergono sulla consistenza dei sette cieli. La descrizione più credibile, secondo un noto storico, vuole che il primo cielo sia di smeraldo, il secondo di argento bianco, il terzo di grandi perle bianche, il quarto di rubino, il quinto di oro rosso, il sesto di giacinto giallo, il settimo di luce scintillante. Alcuni affermano che il paradiso sia nel settimo cielo; ho capito, invero, che è proprio questa l’opinione di miei amici musulmani; mentre l’autore sopra citato descrive, subito sopra il settimo cielo, sette mari di luce, poi un numero indefinito di veli o divisioni delle differenti sostanze, sette per ogni tipo, e quindi il paradiso, fatto di sette livelli sovrapposti, che si distinguono con i nomi di gemme preziose, su cui si impone il trono del compassionevole. Queste molteplici regioni del paradiso vengono descritte in alcuni resoconti tradizionali come altrettanti gradi, o stadi, cui si ascende come su una scala”. “Gli Arabi considerano la Terra circondata dall’oceano delimitato da una catena montuosa di nome Kaf, che circonda il tutto come un anello, che isola e rinforza l’intera compagine; si dice che queste montagne siano composte di crisolito verde, che è come la sfumatura verde del cielo. La Mecca, secondo alcuni, o Gerusalemme, secondo altri, sta esattamente nel centro. La Terra è sostenuta da creazioni che si susseguono, l’una al di sotto dell’altra. La Terra giace sull’acqua, l’acqua sulla roccia, la roccia sulla groppa del toro, il toro su un letto di sabbia, la sabbia sul pesce, il pesce su un fermo vento soffocante, il vento su una valle di tenebra, la tenebra su una nebbia; e ciò che è sotto la nebbia è sconosciuto. Si ritiene che sotto la Terra e i mari delle tenebre giaccia la Gehenna, formata da sette piani, uno sotto l’altro”. Lo stesso Dante ricapitola tutti i miti classici ed orientali in quell’anno 1300, un traguardo del Medioevo: nel Convivio espone con chiarezza il sistema ragionato sul quale costruisce lo schema del mondo della Divina Commedia. “Dico adunque, che del numero de li cieli e del sito diversamente è sentito da molti, avvegna che la veritade a l’ultimo sia trovata. Aristotile credette, seguitando solamente l’antica grossezza de li astrologi, che fossero pure otto cieli, de li quali lo 25

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estremo, e che contenesse tutto, fosse quello dove le stelle fisse sono, cioè la spera ottava; e che di fuori da esso non fosse altro alcuno. Ancora credette che lo cielo del Sole fosse immediato con quello de la Luna, cioè secondo a noi. […] Tolomeo poi, accorgendosi che l’ottava spera si movea per più movimenti, veggendo lo cerchio suo partire da lo diritto cerchio, che volge tutto da Oriente in Occidente, costretto da li principii di filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo, puose un altro cielo essere fuori de lo Stellato, lo quale facesse questa revoluzione da Oriente in Occidente: la quale dico che si compie quasi in ventiquattro ore [cioè in ventitré ore], e quattordici parti de le quindici d’un’altra, grossamente assegnando. Sì che secondo lui, secondo quello che si tiene in astrologia ed in filosofia poi che quelli movimenti furon veduti, sono nove cieli mobili; lo sito de li quali è manifesto e diterminato, secondo che per un’arte che si chiama perspettiva, e [per] aritmetica e geometria, sensibilmente e ragionevolmente è veduto, e per altre esperienze sensibili: sì come ne lo eclipsi del Sole appare sensibilmente la Luna essere sotto lo Sole, e sì come per testimonianza d’Aristotile, che vide con li occhi (secondo che dice nel secondo De Coelo et Mundo) la Luna, essendo nuova, entrare sotto a Marte da la parte non lucente, e Marte stare celato tanto che rapparve da l’altra parte lucente de la Luna, ch’era verso Occidente. Ed è l’ordine del sito questo, che lo primo che numerano è quello dove è la Luna; lo secondo è quello dov’è Mercurio; lo terzo è quello dov’è Venere; lo quarto è quello dove è lo Sole; lo quinto è quello di Marte; lo sesto è quello di Giove; lo settimo è quello di Saturno; l’ottavo è quello de le Stelle; lo nono è quello che non è sensibile se non per questo movimento che è detto di sopra; lo quale chiamano molti Cristallino, cioè diafano, overo tutto trasparente. Veramente, fuori di tutti questi, li cattolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso; e pongono esso essere immobile per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole”. “E così ricogliendo ciò che ragionato è, pare che diece cieli siano, de li quali quello di Venere sia lo terzo, del quale si fa menzione in quella parte che mostrare intendo. 26

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Ed è da sapere che ciascuno cielo di sotto al Cristallino ha due poli fermi, quanto a sé; e lo nono li ha fermi e fissi, e non mutabili secondo alcuno respetto. E ciascuno, sì lo nono come li altri, hanno un cerchio, che si può chiamare equatore del suo cielo proprio; lo quale igualmente in ciascuna parte de la sua revoluzione è rimoto da l’uno polo e da l’altro, come può sensibilmente vedere chi volge un pomo, o altra cosa ritonda. E questo cerchio ha più rattezza nel muovere che alcuna parte del suo cielo, in ciascuno cielo, come può vedere chi bene considera. E ciascuna parte, quant’ella più è presso ad esso, tanto più rattamente si muove; quanto più n’è remota e più presso al polo, più è tarda, però che la sua revoluzione è minore, e conviene essere in uno medesimo tempo, di necessitade, con la maggiore. Dico ancora, che quanto lo cielo più è presso al cerchio equatore tanto è più nobile per comparazione a li suoi [poli], però che ha più movimento e più attualitade e più vita e più forma, e più tocca di quello che è sopra sé, e per consequente più è virtuoso. Onde le stelle del cielo stellato sono più piene di vertù tra loro quanto più sono presso a questo cerchio. […] È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli sono sustanze separate da materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E di queste creature, sì come de li cieli, diversi diversamente hanno sentito, avvegna che la veritade sia trovata. Furono certi filosofi, de’ quali pare essere Aristotile ne la sua Metafisica (avvegna che nel primo cielo incidentemente paia sentire altrimenti), che credettero solamente essere tante queste, quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più, dicendo che l’altre sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione; ch’era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione. Altri furono, sì come Plato, uomo eccellentissimo, che puosero non solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti del cielo, ma eziandio quante sono le spezie de le cose (cioè le maniere de le cose): sì come è una spezie tutti li uomini, e un’altra tutto l’oro, e un’altra tutte le larghezze, e così di tutte. E volsero che sì come le Intelligenze de li cieli sono generatrici di quelli, ciascuna del suo, così queste fossero generatrici de l’altre cose ed essempli, ciascuna de la sua spezie; e chiamale Plato ‘idee’, 27

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che tanto è a dire quanto forme e nature universali. Li gentili le chiamano Dei e Dee, avvegna che non così filosoficamente intendessero quelle come Plato”. Dante continua, e descrive anche nove sfere mobili, e quindi nove ordini di angeli divisi in tre gerarchie: “Lo primo è quello de li Angeli, lo secondo de li Arcangeli, lo terzo de li Troni. […] Poi sono le Dominazioni; appresso le Virtuti; poi li Principati. […] Sopra questi sono le Potestati e li Cherubini, e sopra a tutti sono li Serafini”. Per dare conto dell’antico sistema ebraico, condenseremo la sostanza dell’articolo Firmamento del Dizionario biblico del dottor Smith. “La parola ebraica che si traduce come firmamento è il rakia. Il verbo raka significa ‘espandere battendo’ e si riferisce soprattutto al martellare i metalli per realizzare delle piastre sottili: ed è in questo senso che la parola viene usata per la descrizione del cielo in Giobbe [XXXVII, 18]: ‘Hai tu forse disteso con il martello il firmamento, solido come specchio di metallo fuso?’. Gli specchi a cui si riferisce erano di metallo. Il senso di solidità, dunque, si combina con i concetti di estensione e di sottigliezza… Inoltre la funzione del rakia nel sistema del mondo richiedeva la forza e la consistenza; doveva separare le acque di sotto da quelle di sopra, e trovare sostegno, alle estremità del disco rotondo della Terra, nelle montagne. Mantenendo tale schema, il rakia aveva porte e finestre attraverso le quali potessero cadere pioggia e neve. La seconda funzione del rakia era quella di sostenere i corpi celesti, il Sole, la Luna, le stelle, e là tali corpi erano attaccati, come chiodi, e da lì, di conseguenza, potevano essere staccati”. Filone d’Alessandria e Flavio Giuseppe affermano che vi fosse una relazione tra il disegno del tempio e il mondo; ed i Padri della chiesa hanno esposto tale sistema con grande completezza, come ha mostrato il Letronne, nella «Revue des deux Mondes». Uno di essi è Clemente Alessandrino, che scrive all’inizio del III secolo; e Severiano, il vescovo di Gabala in Siria, paragona il mondo ad una casa di cui la Terra è il pianterreno, il cielo inferiore, il firmamento, il soffitto, e il cielo superiore il tetto. Diodoro, vescovo di Tarso, all’incirca nello stesso periodo, 28

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paragona il mondo ad una tenda disposta su due livelli. Teofilo d’Antiochia, nel II secolo, dispiega una visione simile. La luce che brillava, come da una camera chiusa, illuminava tutto ciò che era al di sotto dei cieli; un secondo cielo è per noi invisibile, e da esso il cielo che noi vediamo è stato chiamato firmamento, e ad esso venne fatta ascendere la metà delle acque, che potesse servire agli umani per le piogge, i diluvi, e la rugiada; l’altra metà delle acque invece venne lasciata sulla Terra, per i fiumi, le fonti, e i mari. Nelle Ricognizioni Clementine c’è un racconto della creazione: “In principio, quando Dio ebbe creato il cielo e la Terra come un’unica casa, l’ombra proiettata dai corpi mondani avvolgeva nell’oscurità le cose racchiuse in essa”; vale a dire che il mondo prima del Sole era una camera obscura: “in seguito una luce è stata data al giorno e il buio dato alla notte. Ora, l’acqua che era nel mondo, nello spazio di mezzo di quei primi cielo e Terra, congela e, dura come il cristallo, viene distesa; e gli spazi intermedi del cielo e della Terra vengono separati, da un firmamento come di cristallo; e quel firmamento il Creatore chiamò cielo, con il nome del cielo precedente; e così divise in due parti quella compagine dell’universo, sebbene fosse un’unica dimora!”. Le acque rimaste sotto defluirono verso l’abisso facendo affiorare la Terra. E così tutte le cose furono preparate per gli uomini, che dovevano abitarvi. Anche il prossimo autore sostiene di seguire gli insegnamenti di un vescovo orientale in merito alla compagine del mondo, e ritorna al simbolismo del tabernacolo. È Cosma Indicopleustes, mercante d’Alessandria e viaggiatore in India e in estremo Oriente nella prima metà del VI secolo, che ha scritto un trattato sull’argomento. In questa opera, Topografia cristiana, Cosma tentò di dimostrare che era dovere di ogni cristiano ritenere che l’universo avesse la forma del baule da viaggio, con un coperchio tondeggiante: essendo il tabernacolo di Mosè una sua immagine veritiera, il tutto racchiudeva il Sole, la Luna, le stelle, in una specie di immenso forziere dalla forma oblunga, le cui parti superiori formavano un doppio soffitto. Pensava che i Babilonesi si fossero allontanati dall’idea della forma sferica della Terra dopo la costru29

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zione della torre di Babele, ma demolisce “con grande facilità tutte queste favole sulla figura e sulla composizione dell’universo”. “Dio, creando il mondo lo appoggiò sul nulla; secondo la parola di Giobbe: ‘Egli ha sospeso la Terra nel vuoto’. Dio, quindi, dopo avere creato la Terra, unì l’estremità del cielo con l’estremità della Terra, sorreggendo il firmamento ai quattro lati con il cielo, come un muro che si leva alto, formando così una specie di casa del tutto racchiusa in sé, o una lunga camera a volta; poiché come ha detto il profeta Isaia, ‘Egli dispose i cieli nella forma di una volta’, e Giobbe parla così della Terra e dei cieli: ‘Ha dispiegato il cielo che è forte, e come uno specchio di metallo fuso. Dove sono, e come sono formate le sue fondamenta? Chi ne ha posto la pietra angolare?’. Come si possono applicare parole simili ad una sfera? Mosè, pronunciandosi sul tabernacolo” che è l’immagine del mondo “dice che la sua lunghezza era due volte la sua larghezza. Diciamo quindi, con il profeta Isaia, che la forma dei cieli che abbracciano l’universo, è quella della volta, con Giobbe che il cielo era unito alla Terra, e con Mosè che la Terra è più lunga che larga. Il secondo giorno della creazione, Dio creò un secondo cielo, che è quello che vediamo, simile al primo cielo nell’apparenza ma non nella sostanza: tale secondo cielo è situato al centro dello spazio che separa la Terra dai cieli più lontani e si estende come un secondo soffitto, sopra tutta la Terra, dividendo in due le acque: quelle che sono sopra, nel firmamento, da quelle che sono sotto, sulla Terra; e così da una dimora ne sono state create due, una in alto e l’altra in basso. La lunghezza della Terra si misura da est a ovest; il mare che noi chiamiamo oceano separa la zona da noi abitata da quella che si trova oltre, alla quale si congiunge il cielo”. Alcuni disegni, presentati in Voyageurs Anciens dello Charton, accompagnano il manoscritto originale. La Terra s’innalza come una montagna, attorno alla quale ruotano Sole e Luna, a turno visibili o celati; alla base sta l’oceano e, oltre, stanno le montagne che prendono i lati verticali del cielo; dai muri laterali s’innalza una volta a botte semicircolare, alla cui origine c’è il firmamento piatto che sostiene le acque come un fondo. L’autore, poi, considera il tabernacolo in dettaglio. Il cande30

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labro rappresentava i sette pianeti, il velo con i suoi tessuti di color giacinto, porpora e scarlatto, e di lino fine, rievocava gli elementi, e separava il tempio esterno dal santuario, come la Terra è separata dai cieli. “Così”, afferma Cosma, “erano tutti i fenomeni dell’universo rappresentati nel tabernacolo”.

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CAPITOLO SECONDO

Il microcosmo La cella dell’altare era una cupola appena illuminata Un velo aveva appeso al centro: Sui poli del suo ruotante giro, Stavano i quattro simboli della prima nascita del mondo L’aria e l’acqua e il fuoco e la Terra. Dante Gabriel Rossetti, Rose Mary

Non possiamo pensare ad un tempo in cui l’uomo non si sia chiesto: “Dove sono?”. E nemmeno possiamo pensare che, quando fosse pervenuto ad una spiegazione, questa non fosse data in forma di rappresentazione; che non è una definizione in un libro, né uno squisito discorso, ma viene da quell’impressivo parler aux yeux, un fattore del discorso che aumenta di importanza quando ci si rivolga all’indietro nella storia della comunicazione intelligente. Se ricordiamo che “antico non significa antico in senso cronologico ma strutturale: che è più arcaico ciò che si trova più prossimo all’origine del progresso umano, considerato come uno sviluppo”, possiamo, con qualche approssimazione, porre come inizio della grafica e dell’astronomia descrittiva la danza e la narrazione. La danza, da un lato, diviene parte del rituale e la narrazione si trasforma in mitologia. Ogni chiave interpretativa applicata alla tradizione e alla mitologia svelerà qualcuno dei segreti di queste; e il signor Max Müller, il signor Andrew Lang e il dottor Tylor concordano di certo sul fatto che, in sommo grado, ciò che oggi viene considerato mitologia, un tempo fosse una spiegazione della natura. Da questo punto di vista la stessa Odissea è un’antica geografia artistica, e le storie di Ercole, di Teseo, di Giasone sono lezioni di astronomia per i giovani. Dovremmo a questo punto analizzare i riti e le cerimonie, le danze dei selvaggi, le celebrazioni dei sacerdoti, i convenevoli della corte, lo sfarzo della guerra, le grandi feste ed i tornei; e in 32

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tutte queste cose dovremmo comprendere che l’uomo, dopo aver raggiunto un certo livello, ha sempre cercato di conformarsi al rito della natura, così da poter condividere, come il rituale stesso, la potenza di essa e la sua stabilità. Ma il rito è un argomento troppo vasto per uno sguardo superficiale. Dobbiamo limitarci alle cose fatte, o alle visioni dei poeti su come queste cose dovrebbero essere fatte. La tendenza a incorporare in queste cose l’ordine della natura è stata universale: non come uno schema scientifico del mondo, ma come un mistero e un simbolo religioso; come amuleto magico, talismano, feticcio. Tale era lo scudo di Achille, e il signor Gladstone, è chiaro, basa i suoi studi di geografia omerica sulla descrizione, nell’Iliade, del lavoro di Efesto, il Dio fabbricatore. Sullo scudo “vi fece la Terra, il cielo e il mare, l’infaticabile Sole e la Luna piena, e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, le Pleiadi, l’Iadi e la forza d’Orione, e l’Orsa, che chiamano col nome di Carro: ella gira sopra se stessa e guarda Orione, e sola non ha parte nei lavacri d’oceano”. E così via, con la stupenda descrizione omerica, che comprende l’intero cosmo. I. Il Sole, la Luna ed i segni roteanti dei cieli. II. La Terra, due città, una in pace, l’altra in guerra; la vita dei campi nel corso dell’anno; l’arare, il mietere e il vendemmiare, le stalle per il bestiame e gli ovili per le pecore. III. Il luogo per le danze che Dedalo costruì per Arianna dai capelli chiari, ove essi imitavano, con danze concentriche, il percorso tortuoso del labirinto, un’allusione, sullo scudo, del mondo sotterraneo. IV. L’oceano che fluttuava intorno al mondo fuori dal contorno del grosso scudo. Il fare dello scudo una mappa delle cose celesti è seguito da Eschilo ne I sette contro Tebe. Davanti al primo cancello Tideo, impugna uno scudo: “Sul pavese porta questa insegna superba: un cielo palpitante di raggi di stelle, e nel mezzo dello scudo luminosa Luna piena, l’astro più sacro, l’occhio della notte, brilla”. 33

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E Nonno di Panopoli attribuisce a Bacco uno scudo blasonato con tutto il sistema celeste. Lo scrive il Dupuis, nella sua Origine di tutti i culti o Religione Universale. Nelle cerimonie del tempio il cielo era spesso rappresentato da un velo o manto di porpora, scintillante di stelle, appeso davanti al santuario, il quale, o era paramento del Dio, oppure copriva alture artificiali, Asherim, “i Boschi” dei sacri testi. Il Lenormant, nelle sue Origines, osserva come una quercia alata con un velo gettato su di essa, “l’albero ed il peplo”, fosse l’immagine con la quale i Fenici raffiguravano l’universo, cita Pausania a proposito di un vero velo nel tempio di Gabala in Siria, e riporta da Nonno la descrizione di Armonia, che tesse la magnifica rete decorata con le figure dell’intero ordine naturale: “Piegata sopra l’abile telaio di Atena, Armonia tesseva con la spola il manto; sulla stoffa che aveva intessuto, dapprima rappresentò la Terra con il suo omphalos nel centro; attorno alla Terra dispose la sfera celeste, punteggiata dalle figure delle stelle. Combinò armoniosamente la Terra e il mare, che è ad essa legato, e là sopra dipinse i fiumi, nella loro immagine di tori con il volto umano e le corna. Infine, lungo il bordo esterno della veste ben tessuta ella raffigurò l’oceano in un cerchio che avvolge nel proprio flusso l’universo”. Flavio Giuseppe afferma che il velo del tempio di Erode fosse di colore blu, scarlatto, bianco e porpora, ricamato con le costellazioni del cielo. La riconosciuta pratica del rinnovare ogni anno i veli del tempio concorda con il loro significato astronomico. La processione annuale con la quale si ricopre la Caaba, alla Mecca, ancora tiene viva questa pratica. Quale delle divinità Dovremmo avere come patrono? Dobbiamo tessere il nostro manto, Il nostro sacro manto di certo… Il manto annuale Per l’una o per l’altra di esse. Aristofane, Uccelli 34

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Quando il mondo era un albero, ogni albero era, in un certo senso, la sua rappresentazione; quando invece era una tenda o un edificio, così era per ogni tenda o edificio: ma quando la relazione fu saldamente stabilita, vi furono azione e reazione tra simbolo e realtà, e le idee prese dall’uno vennero trasferite all’altra, finché il simbolismo divenne complicato e soltanto edifici particolari venivano scelti per uno scopo simbolico: alcune forme derivavano da riflessioni sugli edifici e si rivolgevano al mondo, e di converso certi pensieri relativi all’universo erano espressi nella struttura predisposta come un piccolo mondo per la casa di Dio: un tempio. Per le nazioni teutoniche gli alberi furono i primi templi, in quanto assomigliavano all’albero universale, il rifugio degli dèi: per loro, secondo Grimm, tempio e albero erano parole intercambiabili. Plinio afferma che: “gli alberi furono i primi templi; persino al giorno d’oggi il semplice contadino dalle usanze arcaiche dedica il suo albero più nobile a Dio”; e nell’opera sulle credenze primitive degli Indoeuropei di Charles Francis Keary viene detto: “È certo che, tra coloro che abitano in terre con molti boschi, sia stata a lungo mantenuta l’abitudine di usare un tronco d’albero come pilastro principale della casa, di alzare i muri in circolo attorno ad esso, e di far pendere il tetto verso il basso a partire dalla sommità del tronco, per farlo congiungere con la muratura. Di questo tipo era la casa dei nostri antenati nordici… Questi sono soltanto fatti materiali, ma passiamo subito alle sfere delle credenze e della mitologia. L’uomo dell’antica Scandinavia dava forma al suo quadro del mondo intero a partire dall’immagine della sua propria casa. La Terra, con il cielo come tetto, per lui non era che una enorme camera, e, come la Terra, aveva il suo grande albero portante che traversava il centro e proiettava i rami molto in alto, tra le nuvole”. La precisione di questa leggenda, nelle sue linee generali, sembra essere confermata dalla storia giapponese, raccontata da Sir H. Reid, secondo la quale la prima casa dell’uomo, appena creato, fu costruita attorno alla lancia celeste, la quale costituiva nello stesso tempo l’albero-tetto e l’asse del mondo. 35

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Berosos descrive i dipinti del tempio di Bel a Babilonia; essi possono essere definiti caotici più che cosmici, ma, nondimeno, direttamente riferiti alla schematizzazione del mondo: “C’era un tempo in cui tutto era acqua e tenebre, quando mostruose creature venivano generate in maniera spontanea: uomini con le ali, e alcuni di loro ne avevano quattro, con due facce e due teste, l’una maschile e l’altra femminile, e con gli altri attributi di entrambi i sessi congiunti nei singoli corpi; uomini con le zampe e le corna di una capra e con gli zoccoli di un cavallo; altri ancora con le parti posteriori di un cavallo mentre il resto era umano, come gli ippocentauri. Vi erano anche tori con teste umane, cani con quattro corpi e code di pesce, ed altri quadrupedi, nei quali varie forme animali erano mescolate, pesci, rettili, serpenti, e tutte le specie dei mostri dalle forme più rare, mostri le cui immagini vediamo nei dipinti del tempio di Bel a Babilonia”. Quelle figure composite, dichiara Perrot, “non erano un capriccio degli artisti che li avevano fatti, ma erano dettate da una teoria cosmica della quale esse costituivano, per così dire, una incarnazione plastica ed una figurazione”. La descrizione degli abomini commessi a Gerusalemme, descritti in Ezechiele [VIII, 10-11] ha con queste figure un parallelismo stretto e ne è una conferma. Altre descrizioni di templi babilonesi ci portano a vedere un simbolismo cosmico nella loro struttura; quella di Apollonio è riportata in un capitolo successivo, ed un’altra, in una trasposizione araba dell’agricoltura nabatea, riferisce di come, da ovunque nel mondo le immagini degli dèi si fossero portate a Babilonia, nel tempio del Sole, “nella grande immagine d’oro sospesa tra il cielo e la Terra. L’immagine del Sole stava, dicono, al centro del tempio, circondata da tutte le immagini del mondo; accanto ad essa c’erano le immagini del Sole di ogni paese; poi quelle della Luna, quelle di Marte, dopo di esse le immagini di Mercurio, poi quelle di Giove, e dopo di esse quelle di Venere, e, ultime fra tutte, quelle di Saturno”. La fonte è Baring Gould, Curious Myths. Questo era evidentemente un tempio con una cupola come il firmamento, cui vennero appesi i pianeti e il Sole d’oro, il che è del tutto conforme al racconto di Apollonio. 36

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Ma le costruzioni di Babilonia e quelle persiane, da esse derivate in maniera più o meno diretta, basate entrambe su un ben definito simbolismo planetario, saranno descritte nei capitoli successivi; qui basterà soltanto un estratto di quell’antica miniera, le Antiquities of India del Maurice: “Porfirio afferma che le caverne mitraiche rappresentavano il mondo. Per Eubulide, Zoroastro primo fra tutti, sulle vicine montagne della Persia, consacrò una cella naturale, adorna di fiori e bagnata dalle acque di fontane, in onore di Mitra, il padre dell’universo. Infatti pensava alla caverna come ad un emblema del mondo creato da Mitra; ed in questa caverna vi erano molti simboli geografici ordinati nella più perfetta simmetria e collocati a determinate distanze, che erano l’ombra degli elementi e dei climi del mondo”. Nelle consacrate caverne della Persia, il Signore del Giorno Mesce attraverso il buio dominante i suoi fervidi raggi; Alto, modellato in oro lustro, lo zodiaco brilla, e Mitra si affatica in tutti i segni fiammeggianti. Stazio

Non vogliamo elaborare qui una interpretazione delle piramidi, che sono già state oggetto di troppe ingegnose teorie costruite assieme alle loro pietre silenziose; è meglio tenersi fuori dalle congetture, perché l’argomento non si trasformi in una piramide rovesciata. Possiamo mai credere che la più imponente opera mai compiuta dall’umanità, con infinite fatiche e laboriosa precisione, in un’epoca in cui quasi tutti gli atti avevano un significato religioso ed una ragione mistica, non fosse portatrice di un simbolo, che non vi fossero un pensiero e un messaggio incorporati nel suo disegno? E tutto questo in una tomba, che non è dimora di un uomo qualsiasi, ma del faraone in persona, figlio di Ra il Sole. Inoltre, non esistono, o quasi, tavolette sepolcrali che non abbiano inciso in cima il segno del cielo, a quei tempi dipinto di blu e trapunto di stelle. Il signor Richard A. Proctor pensa che questo dimostri il loro significato astrologico oltre alla loro funzione sepolcrale. Secondo Heinrich Brugsch, nel tempio del Sole di Eliopoli vi 37

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era una camera sacra, sigillata, in forma di piramide, chiamata Ben-Ben, nella quale venivano conservate le due barche del Sole; un’iscrizione riporta la visita di un re: “La sistemazione della Casa delle Stelle era completata, le fasce disposte, Egli venne purificato con balsamo e acqua santa, e gli vennero offerti fiori per la casa dell’obelisco. Egli prese i fiori e salì la scala verso la grande finestra per contemplare il dio del Sole, Ra, nella casa dell’obelisco. Così il re in persona fu là. Il principe era solo. Egli mosse le sbarre ed aprì le porte, e contemplò suo padre Ra, nella suprema dimora dell’obelisco, e la barca del mattino di Ra e la barca della sera di Tum. Le porte furono allora serrate, l’argilla fu posata a sigillo, e il re in persona impresse il suo sigillo”. Le figure dei templi e molte iscrizioni fan vedere chiaramente che la loro intenzione era quella di localizzare il grande prototipo, il tempio dei Cieli. L’estensore di una iscrizione dedicatoria descrive così il tempio di Neith, la madre del dio Sole Ra: “Lo ho inoltre informato (Cambyses) della grande importanza della dimora di Neith; essa è proprio come il cielo in tutte le sue parti: ‘un cielo in tutto il suo disegno’, traduce Renouf… Parlai inoltre della grande importanza della camera a sud e della camera a nord, della camera del Sole del mattino, Ra, e della camera del Sole della sera, Tum. Questi sono i luoghi misteriosi di tutti gli dèi”. Così Heinrich Brugsch. Nel suo recente libro sulla archeologia egiziana, il Maspero disquisisce a lungo sul simbolismo costruttivo e decorativo del tempio egizio. “Il tempio veniva costruito a imitazione del mondo, così come il mondo era conosciuto dagli Egizi. La Terra, come credevano, era un piano piatto e basso, più lungo che largo; il cielo, secondo alcuni, vi si stendeva sopra come un immenso soffitto di ferro, e secondo altri, come una tenue volta. Dato che non poteva essere sospeso nello spazio senza alcun sostegno, essi immaginavano che il cielo fosse tenuto fermo da quattro immensi puntelli o pilastri. Il pavimento del tempio rappresentava naturalmente la Terra. Le colonne, e, se necessario, i quattro angoli delle camere, fungevano da pilastri. Il soffitto a volta di Abidos, che altrove è piano, corrispondeva con esattezza all’idea che gli Egi38

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zi avevano del cielo. Ogni parte era dunque decorata in consonanza al suo significato; quelle vicine alla Terra erano ricoperte di vegetazione. Le basi delle colonne erano avvolte in fogliame e le parti basse dei muri erano abbellite con lunghi fusti di loto e di papiro, in mezzo ai quali venivano a volte dipinti animali. Fasci di piante acquatiche che emergevano dalle acque ravvivavano la parte inferiore delle superfici murarie in alcune camere. Altrove troviamo fiori sbocciati intercalati a boccioli o legati insieme con delle corde… Il soffitto era dipinto di blu e punteggiato di stelle a cinque punte dipinte di giallo, intervallato a tratti dai cartigli del grande fondatore. Gli avvoltoi di Nekheb e di Uati, dee del Nord e del Sud, incoronati e abbigliati con gli emblemi divini, si libravano sulla navata centrale delle sale ipostile e sotto gli architravi dei portali maestri, sopra la testa del Grande Re mentre passava per andare al santuario”. “Al Ramesseum, ad Edfou, a Philae, a Denderah, ad Ombos, ad Esnah, le profondità del firmamento sembravano schiudersi agli occhi del fedele, rivelando Chi dimorasse là dentro. Là l’oceano celeste espande i suoi flutti, navigati dal Sole e dalla Luna con la loro scorta di attendenti: pianeti, costellazioni e decani; là, inoltre, i geni dei mesi e dei giorni transitavano in lunga processione. Nell’età tolemaica zodiaci modellati da forme greche erano scolpiti assieme a tavole astronomiche di pura origine autoctona. Infine, le decorazioni della parte inferiore delle pareti e del soffitto erano limitate ad un piccolo numero di soggetti, sempre simili tra di loro, dato che le scene più importanti e variate stavano sospese, per così dire, tra la Terra e il cielo sui lati delle camere e sui piloni. Queste scene illustravano le relazioni ufficiali instauratesi tra l’Egitto e le divinità… Il Sole, viaggiando da est ad ovest, separava l’universo in due mondi, il mondo del Nord e il mondo del Sud. Il tempio, come l’universo, era doppio, e una linea immaginaria, passando attraverso l’asse del santuario, lo divideva in due templi: il tempio del Sud a destra e quello del Nord a sinistra. Ogni camera era divisa, a imitazione del tempio, in due metà”. Passiamo ora ai popoli semitici. Filone Ebreo afferma che il tempio di Salomone fosse stato costruito ad imitazione della com39

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pagine del mondo, e Flavio Giuseppe dà la stessa spiegazione del simbolismo del tabernacolo. Nel primo capitolo si è visto come, per gli antichi Padri della chiesa, il tabernacolo fosse il modello in miniatura dell’universo; ed il testo dei Salmi sembrerebbe dimostrare che questo fosse il modo di vedere proprio di chi li ha scritti: “Ed Egli costruì il suo santuario come alti (palazzi), come la Terra, che aveva fissato per sempre” [Salmi, LVIII]. Spesso non erano tanto la Terra reale e il cielo visibile ad esser simboleggiati quanto l’originario mondo celeste dell’Età dell’oro, il paradiso; ma un paradiso vero, sostanziale e geografico. A proposito della Caaba alla Mecca, un antico tempio arabo ancor oggi conservato dall’uso ininterrotto, si racconta la storia di Adamo ed Eva che, cacciati dal paradiso, si riunirono nuovamente presso la Mecca. Adamo pregò per un santuario “simile a quello che egli venerava quando era in paradiso. La supplica di Adamo ebbe effetto. Un tabernacolo, o un tempio, formato da nubi irradianti, venne fatto discendere dalle mani degli angeli, e venne subito collocato al di sotto del suo prototipo del paradiso celeste. Adamo da quel momento si rivolse in preghiera verso il santuario disceso dal cielo, e attorno ad esso ogni giorno compiva sette giri, ad imitazione dei riti degli angeli adoranti”. Questo è quanto, riguardo al simbolismo della Caaba, “il cubo”, alla Mecca. Altre strutture semitiche del genere, come le piccole costruzioni trovate dal Renan in Siria, sono anch’esse di forma cubica. Della stessa forma sono costruzioni successive di epoca romana, descritte dal conte de Vogüé, in La Syrie Centrale, come Kalybes: queste sono sormontate da cupole. Questo colto archeologo dice: “Il cubo è essenzialmente una forma mistica, che si trova nelle celle dei templi egizi e in quella di Gerusalemme; l’emisfero è l’immagine della volta celeste. Sappiamo come la cella del tempio fosse considerata la dimora del dio rappresentato dalla statua: un simbolo mistico o un invisibile oracolo. In origine l’edificio sacro era l’immagine dell’abitazione celeste, così come il simbolo che vi risiedeva era l’immagine della divina persona. Il sacerdote etrusco, che costruiva un santuario, con la sua bacchetta magica ne tracciava le fondamenta nel cielo, che riproduceva sulla Terra: egli trasferiva, per così dire, 40

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sulla Terra una parte del cielo per fare una dimora per il suo Dio. Questa idea si incontra in ogni paese, anche se espressa in apparenze diverse”. Per le antiche razze europee, allo stesso modo, “il tempio più magnifico che gli antichi avessero immaginato, e che precedeva tutte le loro nozioni sugli edifici fatti dalle mani dell’uomo, era la volta di Olimpia, sotto la quale supponevano dimorasse il grande Giove”. Questo simbolismo, in epoche successive, fu conservato in modo più preciso nei templi rotondi, la tholos di Hestia in Grecia e il tempio di Vesta a Roma: forma che gli studiosi attuali ammettono come una rappresentazione della volta celeste. Plutarco, in Iside e Osiride, descrive così un tempio di Vesta: “Numa costruì un tempio dalla forma orbicolare per la custodia del fuoco sacro; non intendeva tanto, con la forma dell’edificio, evocare la figura della Terra, o di Vesta considerata in tale aspetto, quanto l’universo intero, nel centro del quale i Pitagorici avevano posto il fuoco da loro nominato Vesta e Armonia”. Ovidio nei Fasti dà la stessa spiegazione: il tempio rappresentava la Terra rotonda, “una ragione della sua figura che merita il nostro riconoscimento”. La grande rotonda di Roma, il Pantheon, è di certo il tempio più grandioso fra quelli costruiti in questo modo: 43 metri circa di diametro con una semplice apertura sulla cupola, larga 9 metri, attraverso cui discende il grande fascio dei raggi solari. L’altezza allo zenit dal pavimento è uguale al diametro, così che il tempio potesse esattamente contenere una sfera. Di questo vasto dispiegarsi della cupola Plinio dice: “quod forma ejus convexa fastigiatum caeli similitudinem ostenderet. Essendo questa forma convessa mostra l’immagine della profondità del cielo”. A proposito della disposizione, un cerchio con otto grandi nicchie, una delle quali è occupata dalla porta rivolta a nord, si è ipotizzato che la nicchia verso sud dovesse esser destinata a Febo Apollo, e le altre alla Luna e agli altri cinque pianeti – Diana, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. L’antica usanza latina di mettere la fondazione degli edifici sacri in rapporto con i cieli, è così descritta, nel Dizionario del 41

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dottor Smith: “Templum corrisponde alla parola greca témenos; poiché il tempio, secondo Servio, era un qualsiasi luogo che fosse stato circoscritto e separato ad opera degli àuguri dal resto del territorio, con una particolare formula solenne. Uno spazio così recintato e reso sacro dagli àuguri, era sempre destinato a scopi religiosi, ma principalmente alle arti divinatorie. L’area dei cieli dentro la quale gli àuguri scrutavano era, essa stessa, chiamata templum, perché tracciata e separata dal resto con la bacchetta dell’àugure. Quando l’àugure aveva delimitato il templum dentro il quale intendeva scrutare, fissava la propria tenda (tabernacolo) in esso, e questa tenda veniva così chiamata templum, o, più precisamente, templum minus”. Rito annuale dei druidi era abbattere e ricostruire ogni anno il tetto del tempio “come simbolo della distruzione e del rinnovarsi del mondo”. La ricorrenza annuale del fuoco spento e poi riacceso è una forma assai meno seria del rinnovo, modello e garanzia della continuità del mondo. Poeti e scrittori han preservato la tradizione degli edifici modellati sul tempio del mondo perfino nel Rinascimento. Il tempio a pianta centrale nella Hypnerotomachia Poliphili è rotondo, con una cupola cui è appesa una grande lampada orbicolare; città e tempio nella Civitas Solis di Campanella sono di un elaborato simbolismo. La città era divisa in sette grandi anelli che avevano il nome dei sette pianeti; con quattro strade principali, e le porte, orientate sui punti cardinali; il tempio al centro era anch’esso rotondo, ed a cupola. Sopra l’altare una grande sfera rappresentava la Terra; sulla cupola c’erano tutte le stelle del cielo, dalla prima alla sesta grandezza, con indicati i nomi e gli influssi, con i meridiani ed i grandi cerchi dei paralleli posti in relazione all’altare. Il pavimento era fatto di pietre preziose. Sette lampade d’oro perenni recavano il nome dei sette pianeti. Pare che Luigi XIV avesse provato a costruire qualcosa del genere a Marley; e secondo il signor H. Melville, capo muratore della Casa Reale, in un libro intitolato Veritas, anche il moderno rituale delle logge massoniche è cosmico. Ma non abbiamo concluso con l’Oriente e con l’inizio della storia. 42

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“In Cina si è sempre convenuto come un assioma fisico che il cielo sia rotondo e la Terra sia quadrata; e tra le reliquie del culto antico della Natura troviamo che l’altare del Cielo, a Pechino, è rotondo, mentre l’altare della Terra è quadrato”. Il primo verrà descritto più avanti, nel capitolo sesto. Secondo il professor James Legge esso risale al XII secolo a.C., ed è perciò cinese primitivo, precedente a Confucio. “I sovrani della dinastia Chan (1152-250 a.C.) praticavano il culto in un edificio che chiamano la sala della luce, che serviva anche per le udienze e come sala del consiglio. Misurava 34 metri quadrati, ed era sormontata da una cupola, a simboleggiare il cielo sopra e la Terra sotto”. Lo scrive Herbert Allen Giles, nei suoi studi sulla Cina storica. Nell’antico libro cinese, il Li Ki, c’è una lunga descrizione della “sala della distinzione” illustrata da una pianta, di origine cinese. Secondo questo libro, l’imperatore, in quanto “figlio del cielo”, deve passare attraverso un elaborato rituale solare, passando di stanza in stanza, come il Sole passa attraverso le differenti case. Una estesa recinzione quadrata, con quattro cancelli cerimoniali, i Pailoos, che si aprono in direzione dei quattro punti cardinali, circonda il tutto. L’edificio è perfettamente quadrato, e diviso in tre parti su ogni lato, in modo da formare in tutto nove quartieri distinti, il centrale dei quali è chiamato la sala del centro. Il muro esterno di ogni quartiere – tre, che stanno di fronte ad ognuno dei quattro quartieri del cielo – viene dedicato ad uno dei mesi, le stanze angolari hanno due nomi. La “sala del centro” viene oc43

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cupata soltanto per un periodo tra il sesto e il settimo mese. La via iniziatica del “figlio del cielo” è segnata anche dalla sua veste e da un simbolismo adatto alla stagione. Se confrontiamo tutto questo con lo schema buddhista del mondo descritto nel libro sul Siam di Carl A. Bock, la reiterazione del modello del mondo risulterà evidente; il tracciato delle dodici case celesti utilizzate dagli astrologi è molto simile, come si vede nelle illustrazioni. Il primo imperatore della Cina unita nel III secolo a.C. – un Caligola per la crudeltà, un Nerone per lo splendore – fece costruire, si narra nella storia della Cina, un magnifico palazzo di campagna. “Il tratto più notevole dell’insieme era la pianta con la quale esso era stato disposto. I vari edifici erano disposti così da corrispondere, evocandola, alla zona del cielo che si apre tra la stella polare, la Via lattea e la costellazione dell’Aquila; gli spazi vuoti erano denotati da cortili, corridoi e sentieri tortuosi. Questo, si dice, era in parte inteso come un riconoscimento di quelle benigne influenze celesti a cui l’imperatore attribuiva il brillante successo che lo aveva sempre accompagnato, e in parte come un monumento alla vastità dei suoi domini, che potevano essere simboleggiati soltanto da una imitazione della volta stellata del cielo”. È una citazione dall’album cinese di Henry Frederick Balfour. Sir William Chambers, nella sua dissertazione sui giardini cinesi, con i loro gazebi e i padiglioni, dice: “Alcuni vengono chiamati Mian Ting, o Sale della Luna, dalla misura prodigiosa: ciascuno di essi è composto da una sala a volta fatta a forma di emisfero, la volta concava della quale è finemente dipinta ad imitazione del cielo notturno e traforata con un numero infinito di piccole finestre, aperte per rappresentare la Luna e le stelle, lavorate con vetri colorati per fare passare la tenue luce necessaria a diffondere su tutto l’interno la delicata oscurità di una bella notte d’estate. Il pavimento di questi padiglioni è a volte disposto con parterre di aiuole fiorite, ma, più spesso, si cammina vicino a 44

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molte acque limpide e correnti che cadono a rivoli dai lati di una roccia posta al centro; molte piccole isole galleggiano sulla superficie, e si muovono intorno seguendo la corrente: alcune di esse sono addobbate con tavoli per i banchetti, sedie ed altri oggetti”. Dei templi taoisti il dottor Joseph Edkins ci dice: “In questi templi si è cercato di rappresentare gli dèi della religione nelle loro dimore celesti, seduti sui loro troni”. In India si ritiene che le grotte di Ellora, scolpite dalla roccia, siano una perfetta rappresentazione del paradiso di Siva: i grandi pilastri lasciati a sostenere il tetto vengono chiamati Sumeru, dal nome del grande monte che sostiene il cielo, il “bellissimo Meru”. Gli stupa dei buddhisti – quelle masse quasi solide dalla forma di una bolla galleggiante sull’acqua, come è scritto nei testi, oppure a forma di campana posta su un basamento e sormontata da una calotta concava a forma di ombrello – sarebbero meglio da classificare assieme alle solide strutture di Babilonia o del Messico, qui nel sesto capitolo, come rappresentanti le regioni celesti dal di fuori come monte del cielo, piuttosto che dal di dentro, quale dimora di una divinità. Asoka, secondo la leggenda, fece costruire, nello stesso momento, ottantaquattromila stupa: su di essi era stato prodigato ogni splendore, rivestimenti d’oro, grandi gemme vitree, campane d’oro. Statue di elefanti con vere zanne custodivano i recinti, e durante le cerimonie venivano coperte da una profusione di fiori. Fa-Hsien parla di uno stupa alto circa 213 metri, ma alcuni erano soltanto di 30 o 60 centimetri di diametro. Arthur Lillie, nel suo libro sul buddhismo nel cristianesimo, riporta il diagramma di uno stupa in cui viene rappresentato il susseguirsi ascendente delle zone dei cieli. Il professor Samuel Beal nel quinto volume del «Journal of the Royal Asiatic Society» afferma che il grande stupa di Sanchi rappresenta insieme il cielo e la Terra, e indica come persino la curiosa balaustra buddhista, che circonda alcune di queste strutture, sia disegnata a scacchiera, come sono descritte le mura del paradiso; i quattro grandi portali di questi recinti vengono chiamati torana, ovvero cancello-porta ornato per la dimora dei celesti.

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Lo stesso autore, nel suo piccolo libro sul buddhismo cinese, annota: “sia vero o meno che una idea semplice soggiace ad ogni sforzo ben diretto dell’uomo per far sorgere una costruzione adatta alla adorazione di Dio, in questo caso particolare il buddhismo dimostra tale presunta regola. Il simbolismo dello stupa, fin dagli stadi sovrapposti a corona dai quali ha origine la

pagoda cinese, è inteso, come quello di tutti gli altri edifici sacri, a far immaginare una idea del mondo o dell’universo governato o occupato da uno Spirito, o da un Essere, supremo. Questo era certamente il significato della forma e degli apparati del tabernacolo ebraico e del tempio. Come dice Flavio Giuseppe nelle Antichità ebraiche, Salomone si alzò e disse: ‘O Signore, hai una dimora eterna e come tale l’hai creata Tu, per te stesso e con il tuo proprio lavoro; noi sappiamo che essa è il cielo, e l’aria, e la Terra, e il mare’: era un simbolo di tutto questo che Salomone 46

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costruì, così ci dice Filone, e Cosma lavora a lungo per mostrare la stessa cosa. Lo stupa è una struttura alta e solida fondata su un basamento quadrato, una piattaforma, da cui si gonfia nell’aria una cupola semisferica, coronata da una balaustra quadrata, o a volte da un solido cubo con occhi su ogni lato. La piattaforma quadrata rappresenta la Terra, la cupola semicircolare rappresenta l’aria, la struttura di recinzione in alto indica il cielo, dove guardano le quattro divinità, indicate dagli occhi. Questo fu il primo grande sforzo di descrivere nella pietra l’idea del mondo, anzi dei tre mondi, che avrebbero dovuto essere regolati dalla suprema presenza del Buddha; nello stupa erano le sue reliquie che ne indicavano la presenza, unico elemento legittimato a farne le veci. Con la crescita del sistema, anche l’idea dell’universo si espanse, e non erano più soltanto la Terra, l’aria e il cielo a dover essere rappresentati, ma anche i mondi torreggianti al di sopra del cielo; e poi le piattaforme, o terrazze celesti – non c’è altro modo di rendere quest’idea –, che si estendevano in alto e verso le otto direzioni dello spazio. Si è quindi sviluppato il simbolismo, e sopra la struttura cubica venne innalzato un alto palo con numerosi anelli ed ombrelli, ad indicare come i mondi si innalzino su altri mondi verso il supremo empireo. Ora, è proprio questo alto palo coronato, con i suoi anelli o ombrelli che ha dato origine all’idea della pagoda. Ogni singola piattaforma di questa struttura indica un mondo; elevandosi in misure armonicamente decrescenti, esse offrono all’occhio uno sforzo della mente umana per rappresentare l’idea dell’infinito. Su ogni lato delle piattaforme vi sono campane e tintinnanti foglie di rame, per denotare ‘l’eterna musica delle sfere’, e le balaustrate meravigliosamente scolpite e le cornici aggettanti sono sempre descritte come emblemi propri degli esseri felici che gioiscono nella presenza dei Buddha che dimorano in queste supreme regioni. Tale è l’origine della pagoda, e non c’è nulla che possa dare alla Cina il suo proprio carattere architettonico quanto queste strutture buddhiste, destinate non alla devozione, ma alla rappresentazione della natura, non limitabile dello spazio in cui dimora l’essenza spirituale di tutti i Buddha”. Fin qui Samuel Beal. 47

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Del moderno rituale cinese del buddhismo il dottor Joseph Edkins dice: “Kan (il cielo) è ciò che è fatto scendere a coprire l’idolo, come nella frase Fo-Kan (un santuario per il Buddha), e qui rappresenta il cielo come un santuario dispiegato sopra il mondo. Yu (la Terra) è il cocchio nel quale l’idolo siede”. Il dente di Buddha, a Ceylon, è conservato sotto nove stupa del genere, a forma di campana, dorati ed intarsiati di gemme, che rappresentano i nove cieli. Le campane buddhiste in Cina e in Giappone vengono di solito decorate con le linee dei meridiani, con il Sole e con le stelle. In Cina i sepolcri spesso sono costituiti dal noto simbolo composito: il cubo come base, e su esso una sfera, poi un cono, una forma a mezzaluna, e in apice la forma di una pera capovolta. Su ciascuno di questi solidi vi sono i caratteri che significano la Terra, l’aria, il fuoco, l’acqua e l’etere, nell’ordine in cui si pensava che tali elementi dovessero sovrapporsi. Ed anche le monete, rotonde e con il buco quadrato, simboleggiano, beninteso, il cielo e la Terra. Nell’architettura cristiana si dice ancora, talvolta, che la navata centrale ed il presbiterio, divisi da transenne, simboleggino il cielo e la Terra; Robert Zouche Curzon afferma essere questo il significato riconosciuto delle chiese bizantine, in cui il presbiterio viene staccato dall’iconostasi. Didron ci dice che le due o tremila sculture di una delle più grandi cattedrali del XIII secolo sono enciclopedie di pietra che comprendono la natura, la scienza, l’etica, e la storia. “Queste sculture, quindi, sono, nel senso pieno della parola, quel che nel lessico medievale veniva definito ‘Immagine o Specchio dell’Universo’”. Si tratta però più dell’universo delle idee religiose che non del mondo costruito, reale nella sua solidità. Lo schema bizantino conservava una parte maggiore del pensiero originale: il Cristo in trono sta allo zenit della cupola; poi, fascia dopo fascia, vi erano le potenze celesti, i santi, e la natura tutta, in un grande coro di gloria. Una chiesa bizantina di Atene, la Magale Panagia viene descritta in «Archaeologia», nel primo volume della nuova serie, dove sono anche le fotografie dei dipinti ora distrutti. In alto, al centro della cupola, sta il Cristo in trono, con ai suoi piedi le ruo48

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te mistiche, e tutto lo sfondo è di un profondo blu; poi viene una serie di nove semicerchi che contengono rappresentazioni degli ordini della gerarchia – i Serafini, i Cherubini, i Troni, le Dominazioni, le Virtù, le Potestà, i Principati, gli Arcangeli, gli Angeli – ordini che governano rispettivamente le nove sfere celesti, il primum mobile, sfera delle stelle fisse, e i sette pianeti. Sotto questi ordini, la cupola è cinta da una fascia, blu come il firmamento, tutta punteggiata con le stelle e con i dodici segni dello zodiaco; a Oriente il Sole e a Occidente la Luna; e ancora, sotto Sole e Luna, sulle pareti sono i venti, la grandine e la neve; ancora sotto sono le montagne, gli alberi e la vita sulla Terra, e sul tutto sono intrecciati e intessuti passaggi dagli ultimi tre Salmi: Lodate il Signore dei cieli, Lodatelo nell’alto dei cieli. Lodatelo, voi tutti, suoi angeli, Lodatelo, voi tutte, sue schiere. Lodatelo sole e luna, Lodatelo, voi tutte, fulgide stelle. voi acque al di sopra dei cieli. Lodino tutti il nome del Signore.

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CAPITOLO TERZO

Il quadrato Una torre della forza solida stava Quadrata a tutti i venti che soffiano. A. Tennyson

Il tempio perfetto dovrebbe ergersi al centro del mondo, un microcosmo della compagine dell’universo, con i muri innalzati a quadrato con i muri del cielo. E così si ergono in tutto il mondo, siano egizi, buddhisti, messicani, greci o cristiani, con uniformità e precisione massime. Da quando il mondo divenne circolare e sferico, la quadratura è ritenuta quasi universalmente una caratteristica della Terra celeste, il recinto quadrato sulla cima della montagna del mondo, dove sta l’albero, o colonna, polare, e da dove sgorgano i quattro fiumi. Dal pensiero di un simile recinto deriviamo, sostiene Lenormant, la nostra parola paradiso. Il significato della direzione degli edifici è molto più profondo di quel che si intende come orientamento, un guardare al Sole che sorge; poiché le piramidi, e i templi a gradoni babilonesi e messicani, o anche gli altari, sono quadrati, e gli stupa buddhisti sono circolari su un basamento quadrato, e non hanno alcun santuario che definisca la direzione. Quando vi sia, comunque, un asse principale, esso concorda, con qualche eccezione in Egitto, con la via del Sole attraverso i cieli. Universale consuetudine nei templi antichi era che avessero l’ingresso a est, rivolto verso il sorgere del Sole, e la parte più sacra del santuario ad ovest, dove era il trono della presenza. Il dio o l’altare erano faccia a faccia con il Sole quando appariva attraverso la Porta orientale; un orientamento che poi venne rovesciato in conseguenza del fatto che il tempio divenne un luogo di assemblea dei fedeli più che un luogo di dimora del dio. L’Egitto mostra qualche eccezione nei templi, che hanno i loro assi orientati secondo angoli diversi. In una recente conferenza, del maggio del 1891, di fronte alla Società degli antiqua50

Il quadrato

ri, il signor Norman Lockyer ha illustrato alcune conclusioni alle quali è giunto studiando un complicato insieme di templi quale è quello di Karnak. Partendo dai dati ottenuti da Mariette sulle iscrizioni e cercando l’elenco delle stelle che apparivano su ciascuna angolazione, ha scoperto che i templi erano direzionati per osservare alcune stelle importanti, come Gamma Draconis, Canopus e Vega. Quando la stella, a causa della precessione degli equinozi, non si levava più, o non si disponeva più alla vista attraverso il portale aperto del buio santuario, concepito come un grande telescopio di pietra adatto a ricevere la pura luce, un altro tempio veniva eretto su un’angolazione diversa da quella del primo, anche traversando la sua linea d’orizzonte che non serviva più. Questo è, evidentemente, un sistema raffinato e complicato, e per questo relativamente tardo. Le piramidi sono comunque situate con la più grande precisione. L’attenta analisi del signor Petrie mostra che la grande piramide ha una deviazione di soli 5 gradi, e dice che è stato il mondo a deviare dal suo asse e non la costruzione, e, quindi, non vi è alcuna imprecisione da parte dei costruttori! Il gruppo delle tre piramidi, inoltre, sta en echelon, cosicché ognuna abbia i suoi quattro lati aperti verso i quattro quartieri, ai quali, secondo Mariette, erano dedicate. Sul lato est di ogni piramide vi era un piccolo tempio isolato, con la porta verso Oriente. Uno di questi è il cosiddetto tempio della Sfinge. “Va notato”, dice il signor Richard Proctor, “che le peculiari forme e la posizione delle piramidi comporteranno le seguenti relazioni. Tra l’equinozio di autunno e quello di primavera i raggi del Sole, quando sorge e tramonta, illuminavano il fronte sud delle piramidi; mentre durante il resto dell’anno e cioè per i sei mesi tra l’equinozio di primavera e quello di autunno, i raggi del Sole, quando sorge e tramonta, illuminano la facciata nord”. Un passaggio così orientato sembra riferirsi direttamente alla stella polare. “Come la casa dei vivi, la tomba era rigorosamente orientata, ma secondo un proprio principio mistico. Nella necropoli di Menfi la porta di quasi tutte le tombe è rivolta ad est e non c’è neanche una stele che non sia rivolta in quella direzione. Nella 51

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necropoli di Abido sia la porta che la stele sono più spesso rivolte a sud, cioè verso il Sole al suo zenit. Ma né a Menfi, né ad Abido, né a Tebe vi è una tomba illuminata da ovest o che rivolga la sua iscrizione verso il Sole che tramonta. Così, dalle oscure profondità dove hanno dimora, i morti hanno gli occhi rivolti verso il quartiere dei cieli dove la fiamma che dona la vita si riaccende ogni giorno, e sembra che aspettino il raggio che distrugga la loro notte, e li faccia levare dal loro lungo riposo”. Questo scrivono Georges Perrot e Charles Chipiez. “L’asse maggiore del rettangolo sul quale sono ideate queste strutture funerarie scorre sempre esattamente da nord a sud; ed a Giza, la necropoli dell’ovest, le tombe sono disposte secondo un piano simmetrico, simile ad una scacchiera, sulla quale tutti i riquadri sono rigidamente orientati. Il fronte principale delle tombe è rivolto ad est. In quattro casi su cinque l’ingresso alle camere, quando ve ne è uno, si trova su questo fronte. Subito dopo la facciata orientale, in ordine di importanza, viene il fronte rivolto a nord”. Così il Mariette. Che l’orientamento in senso stretto non fosse l’obiettivo degli Egizi, ma piuttosto il desiderio di far quadrare il loro edificio con i punti cardinali della Terra e del cielo, è detto molte volte nelle iscrizioni. Quella di Tutmosi III sulle fondazioni di Karnak dice che “dopo che la posizione dell’edificio era stata stabilita in accordo con la posizione dei quattro quartieri, le grandi porte di pietra furono innalzate”. È nella Storia dell’Egitto di Heinrich Brugsch. Questo disporre le linee in quadratura con il mondo è una parte del rituale di fondazione in tutti i paesi e in tutti i tempi; si ripete continuamente, come anche il pensiero che in esso vi fosse una influenza magica, la magia della corrispondenza; poiché, come le fondamenta del cielo e della Terra sono salde, “da non poter mai essere mosse, per sempre”, così la costruzione che le imita dovrebbe condividere la loro stabilità. In Egitto questo viene espresso dalla frase “è come il cielo con tutte le sue parti, saldo come i cieli”. Nei Salmi come nei Veda viene cantata la stabilità del tempio del mondo. Le costruzioni buddhiste sono in stretta relazione con il cielo. Lo stupa 52

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circolare è circondato da un recinto esattamente quadrato, con le porte a nord e a sud, ad est e a ovest; la porta ad est è l’entrata principale, quella ad ovest l’uscita. I templi che contengono le statue di Buddha hanno l’entrata ad est. “La statua di Buddha che guarda ad est”, ripete sempre Fa-Hsien. Il tempio hindu di Jagannath segue la stessa regola. Nei templi del Giappone uno specchio è appeso in fondo, e negli antichi templi del Perù un disco d’oro solare, sopra l’altare, è rivolto, attraverso la porta aperta, al sorgere del giorno. Nei templi greci si entrava da est. Il signor Penrose trova che qui, come nei templi egizi, l’asse che passava attraverso la porta aperta era diretto verso il punto da cui sorgeva una stella che appariva all’orizzonte prima dell’alba. I templi dei Siriani e dei Persiani avevano anch’essi l’entrata sul lato ad Oriente. In Asia occidentale, per citare di nuovo il Perrot, “gli abitanti della Mesopotamia erano talmente incantati dai fenomeni celesti e credevano tanto fermamente nell’influenza delle stelle sul destino umano, che erano sicuri di stabilire qualche connessione tra quei corpi celesti e la disposizione dei loro edifici. Tutte le costruzioni della Caldea e dell’Assiria sono orientate; il principio è dovunque osservato, ma non è sempre compreso nella stessa maniera. Le costruzioni della Mesopotamia erano sempre rettangolari e spesso di pianta quadrata: e a volte sono gli angoli, a volte i centri di ogni fronte ad essere rivolti verso i quattro punti cardinali. Le più antiche strutture dei Caldei, come Warka, Uruk, seguono questo metodo, come le rovine di Ninive”. “D’altra parte, nelle rovine di Nimrod, identificate con l’antica Calah, sono i lati dei tumuli e le strutture poste sopra essi ad essere rivolti verso i quattro punti cardinali. Il primo tra i due metodi di orientamento ha il vantaggio di stabilire una più esatta e meglio definita concordanza tra la disposizione dell’edificio e quei punti celesti cui veniva attribuita una peculiare importanza”. I due piccoli templi riportati alla luce da Layard a Nimrod avevano l’ingresso verso est e i sacrari ad ovest. Le iscrizioni seguono da molto vicino i pensieri che abbiamo visto agire nei costruttori egizi. Nell’iscrizione sui grandi tori, ai portali del re53

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cinto quadrato di Korsabad, il fondatore dice: “Ho messo gli architravi nelle quattro direzioni celesti, ho aperto otto porte in direzione dei quattro punti cardinali. Verso le quattro regioni del Sole ho disposto le cornici e i pilastri delle porte”. È la Iscrizione di Sargon, del 710 a.C. Di questo mondo a quattro lati, ogni quartiere aveva un “reggente”, che sembrava originarsi nei venti. Questi quattro guardiani delle regioni hanno un ruolo in molti sistemi, ed in genere si manifestano con i simboli di figure amorfe o di bestie. Che questo fosse anche il caso dell’Egitto, ne abbiamo la testimonianza da Mariette: essi sono i “quattro poteri di Amenti”, le cui teste, tre animali ed una umana, stanno sui quattro vasi funerari nelle cerimonie di sepoltura. Nelle leggende nordiche dell’Edda, i cieli, allestiti con quattro lati, hanno un nano a sostenere ogni angolo. Nei miti dell’antica America queste creature hanno una parte importante, e sono con chiarezza indicate come i quattro venti. “Nella mitologia dello Yucatan le quattro divinità Bacab dovevano stare ciascuna ad un angolo del mondo, sostenendo, come gigantesche cariatidi, il firmamento appeso al di sopra. Quando, con il Diluvio universale tutti gli altri dèi e gli uomini furono inghiottiti dalle acque, soltanto loro si salvarono per ripopolare al Terra. L’Est si distingueva con il color giallo, il Sud con il rosso, l’Ovest con il nero ed il Nord con il bianco, e questi colori riappaiono sempre in diverse parti del mondo con lo stesso significato, a rappresentare i quattro quartieri del mondo”. Questo ha detto il signor Müller, in una conferenza a Glasgow, nel 1890. In tutto l’Oriente sono conosciuti questi quattro re delle quattro parti del mondo. Nell’Avesta e in altri scritti persiani essi vengono descritti come “quattro capi che presiedono ai quattro lati”. Sono i quattro maharaja dei buddhisti. “I grandi vincitori della Terra e del cielo contro i demoni. Questi quattro sono rappresentati con una armatura completa e con le spade sguainate”, come dice Sir M. Williams. In una forma mistica entrano nella tradizione ebraica. Appaiono come le quattro creature composite nella visione di Ezechiele, con molti occhi, a so54

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stenere il firmamento, il “colore del terribile cristallo che si estende sopra le loro teste”, e con le facce dell’uomo, del leone, del bue, dell’aquila. Stanno ai quattro punti cardinali, il leone sul lato destro, il Sud, il bue sulla sinistra, il Nord. Lo pseudo-Enoch ha scritto: “Ho anche contemplato i quattro venti che sostengono la Terra ed il firmamento celeste”, e nella sua descrizione del cielo egli “ha sentito le voci di coloro che ai quattro lati magnificavano il Signore della Gloria”. Domanda di chi fossero mai le quattro voci ai quattro versanti, gli dicono che sono Michele, Raffaele, Gabriele, ed il quarto è Samuele. Nell’Apocalisse sono questi i simboli animali del nord, sud, est e ovest, attorno al trono, che “non cessano di ripetere il giorno e la notte, Santo, Santo, Santo”. I quattro venti ai quattro angoli della Terra sono nominati anche nelle Rivelazioni [VII, I]. Si confrontino con le figure simili degli spiriti protettori dei Caldei, descritte da Lenormant, nella Magia dei Caldei. I quattro cavalieri della Rivelazione sui loro cavalli bianchi, rossi, neri ed albini ricordano le quattro bighe trainate da cavalli rossi, neri, bianchi e bigi in Zaccaria [VI, 5]. “Sono i quattro spiriti, o i venti, del cielo”. Renan pensa che i cavalieri dell’Apocalisse fossero pianeti; ma si noti come ogni cavaliere sia associato con ognuno dei quattro animali, e come essi avessero potere su una quarta parte della Terra. Lenormant ci dice che i quattro fiumi sgorgarono dalla loro sorgente sul Meru dalle bocche di quattro animali simbolici di quattro colori e di quattro metalli. Per l’Est il bianco o l’argento, per il sud il rosso o il rame, per l’ovest il giallo o l’oro, per il nord il marrone o il ferro. Questi sono i colori delle quattro caste e di tutte le stirpi che ebbero origine dal Meru per popolare il mondo. Vi sono poi le quattro età “della graduale degenerazione delle epoche successive: esse sono espresse dai metalli i cui nomi sono stati ad esse attribuiti: metalli: oro, argento, bronzo, ferro”. È, ancora, il Lenormant. Si osservi anche come in Daniele [VII, 3] “quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra”, simboleggino la nascita di quattro grandi regni. Ritroviamo questi quattro simboli presenti nel nostro mi55

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crocosmo, il tempio. Nei templi buddhisti della Cina, “due colossali statue di legno incontrano l’occhio su ognuno dei due lati, sono i quattro grandi re dei Deva: governano i continenti che si estendono verso i quattro punti cardinali dal monte Sumeru”. Venivano chiamati Tein-Wang, “i prìncipi del cielo”. La signorina Isabella L. Bird li ha visti raffigurati con colori luminosi nei templi giapponesi, che schiacciavano i demoni sotto i piedi. L’armata “celeste”, secondo le prescrizioni dei libri antichi, era schierata sotto le bandiere di questi quattro reggenti dei quattro quartieri; a est un drago blu, a ovest una tigre bianca, un uccello rosso al sud, e a nord un guerriero nero. Il monte celeste Meru era di colori diversi sui quattro lati. Nel tempio dedicato allo Spirito della Terra e del riso, a Pechino, “le terrazze si dispongono con piani segnati dai cinque colori, ordinati in maniera conforme alla suddivisione cinese dei cinque colori tra i punti cardinali: blu è est, rosso è sud, nero è nord, bianco è ovest, ed il giallo sta nel centro. Il muro interno è costruito con diversi mattoni colorati, a seconda della posizione”. È Joseph Edkins, nei Williamson’s Journeys. Se modificassimo i colori per adattarli a noi stessi, il bianco dovrebbe ragionevolmente essere l’est come il punto della luce, il rosso dovrebbe stare per il Sole meridiano del sud, il blu per l’ovest della sera, e il nero per il nord. A volte sembra vi siano stati otto guardiani reggenti, che vigilano così sia sugli angoli che sui lati del quadrato, proprio come i quattro venti divennero otto. Nel Ramayana la città di Ayodhya viene così descritta: “Ogni cancello della città è sorvegliato da possenti eroi, tanto forti quanto le otto divinità che presiedono agli otto punti dell’Universo”. Questi otto atlanti giganti sono scolpiti a coppie come colonne ai lati dei quattro portali dello stupa di Sanchi. I guardiani degli angoli del mondo stanno ai quattro angoli della stanza sepolcrale egizia rappresentata sul papiro di Ani, pubblicato dal British Museum: come i quattro poteri di Amenti, accompagnano sempre Osiride in trono. Nella forma dei quattro animali simbolici degli Evangelisti, riempiono i cieli nel56

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le cupole delle chiese bizantine, così come nel mausoleo di Galla Placidia. In San Marco i quattro Evangelisti stanno sopra i quattro fiumi celesti, che fanno scorrere le loro acque ognuno ad un angolo della basilica; pare che ancora ai giorni nostri ci sia la tradizione di simili guardiani nelle favole dei nostri bambini: Matteo, Marco, Luca e Giovanni, Benedite il mio lettino, Due ai piedi, due al guanciale Quattro, per portarmi via quando son morto.

In Caldea c’erano potenze che non erano guardiani benefici, ma entità da cui guardarsi. “Dai quattro punti cardinali l’impeto della loro invasione brucia come il fuoco. Attaccano con violenza le dimore dell’uomo”. È sempre il Lenormant nella Magia dei Caldei. Essi sono una moltitudine, ma alcuni di questi spiriti dei venti sembrano avere forme diverse per conformarsi ai quartieri delle regioni da cui provengono. Demoni con forme mescolate e orribili, ibridi di leone, di aquila, di toro, di scorpione e di qualsiasi altra belva che possa azzannare, infilzare, pungere; e Lenormant osserva come il talismano recasse la forma della potenza da combattere, collocata davanti al quartiere donde agisce: ciascuno dall’aspetto tanto orribile da spaventarsi della propria immagine, come una Gorgone uccisa dallo specchio. Oltre agli immensi tori e ai leoni guardiani della soglia, era scolpita sui muri esterni anche la lotta tra l’Ercole caldeo, Gilgamesh, o Gizdhubar, “Pattuglia delle quattro regioni”, e una di queste creature. A Persepoli vi sono quattro colossali sculture di questo tipo, belle fotografie che appaiono nella grande opera di Madame Jeanne Paule Henriette Rachel Dieulafoy sulla Persia la Caldea e la Susiana, e sono descritte da Sir R.K. Porter come: 1) un ibrido di leone con la testa d’aquila; 2) un leone alato con artigli d’aquila; 3) un leone con le corna; 4) un toro unicorno. L’eroe, in questo caso il re Ciro, uccide con calma tutti questi esseri con la spada: e una parte delle spoglie va ai demoni, che le aspettano. 57

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Le mura del mondo formano un vasto quadrato, un modello di tutti i giardini perfetti e dei chiostri ideali, il recinto quadrato nel quale, secondo l’Avesta, fu in principio messo l’uomo. Il paradiso quadrato di Yima, dove gli uomini furono salvati dal diluvio. La parola Yard (cortile) è il Garth scandinavo: il mondo. La sacra corte, il témenos dei Greci e l’haram o moschea per gli Arabi hanno anticipato il tempio. I passi furono quasi certamente: 1) il luogo sacro; 2) il recinto che lo delimita; 3) l’altare; 4) il santuario presso l’altare nella corte, dimora della divinità venerata da fuori con processioni e prostrazioni; 5) l’altare è portato dentro l’edificio; 6) il tempio diventa un luogo di assemblea, e l’orientamento viene cambiato. Il Libro di Enoch, dopo aver descritto il sorgere ed il calare del Sole e della Luna, continua con un racconto sui venti: “Ho ammirato dodici portali spalancati a tutti i venti; tre di essi sono aperti in fronte al cielo, tre ad Ovest, tre sul lato destro del cielo, e tre sul lato sinistro. I primi tre sono quelli aperti ad Est”. Questo è il perfetto modello di recinto del tempio, o muro della città, “ad Est tre porte; a Nord tre porte, a Sud tre porte e ad Ovest tre porte”. Si confronti la visione della città ideale di Ezechiele, un quadrato di 4500 misure con tre porte in ogni quartiere, con la pianta di un recinto assiro, o hindu, o con le mura della città di Pe-

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chino, Taidu, così descritta da Marco Polo: “È quadrata, esattamente quadrata. Le mura della città hanno dodici porte, tre su ogni lato del quadrato”. La città moderna di Mandalay, capitale di Burma, la Birmania, ha mura quadrate, come quelle descritte, ogni lato lungo circa due chilometri, e vi sono dodici portali, tre su ogni lato. Il palazzo è situato nel centro ed esattamente al centro del palazzo e della città si staglia una guglia cuspidata con sette piani, che gli abitanti considerano il centro di Burma, e dunque il centro della creazione. È lo Scott che ne scrive, in Burma. Il modello perfetto di queste città è il recinto quadrato cinese con i dodici portali della “sala della selezione”, ben ricordato nel Dizionario della lingua cinese del dottor Robert D.D. Morrison, oppure il tempio della Terra a Pechino, descritto da J.B. Duttalde. Che le porte debbano volgersi ai punti cardinali è un dato pressoché universale. Non fu uscendo, una dopo l’altra, dalle quattro porte della città, partendo da est, che Buddha vide i luoghi che lo fecero entrare nella “Via”? In Inghilterra le città di origine romana hanno ancora le porte rivolte a nord, sud, est e ovest, come gli accampamenti e le città etrusche. La porta d’Oriente era riservata al principe, come prescrisse Ezechiele. Quando vi siano tre porte sullo stesso lato, quella centrale è sempre la porta reale, “ed è tenuta chiusa, salvo quando il Khan passa di lì” come dice Marco Polo; proprio come nelle grandi chiese, da Costantinopoli a Chartres, la porta centrale è la Porta del re. Dal triplice portale ad est la strada principale andava ad ovest, come ad Alessandria. A Palmira più di 1500 colonne, alte 18 metri, erano disposte su quattro file. A Damasco “la via chiamata Diritta” partiva dalla Porta orientale con due file di pilastri corinzi. “Ogni grande città d’Oriente aveva una via recta, una ‘via diritta’, o via principale, qualcosa di simile per pianta e per ornamenti a quella di Palmira”. Lo scrive J.L. Porter, studiando la città gigante di Bashan. Questa quadratura assicurava, come un talismano, stabilità e durata. L’idea che come i cieli erano stabili sulla Terra, così ogni edificio in quadratura con essi potesse rimanere immobile, sembra, come abbiamo visto, un’analogia naturale. Fa-Hsien dice di 59

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un monastero buddhista: “il fianco è di quaranta passi come l’altro; anche se il cielo dovesse tremare e la Terra aprirsi, questo luogo non si muoverà”. Il professor Beal, in una nota, confronta questo luogo alla egizia città-gioiello di Ramses, “solida sopra la Terra come i quattro pilastri del firmamento”. Nel Talmud il tempio di Gerusalemme è chiamato “la casa inamovibile”, ed è certamente lo stesso simbolo di indistruttibilità evocato da san Giovanni nella città cubica dell’Apocalisse. La più antica forma di Roma, “la città di Romolo”, si chiamava Roma Quadrata; era costruita sul colle Palatino e recintata da un muro, attorno al quale il sacro pomerio era segnato come un solco di aratro, e questa era una cerimonia religiosa degli Etruschi per la fondazione delle città. “All’interno dell’area di Apollo, il tempio sul Palatino, vi era anche un misterioso oggetto che sembra esser stato il simbolo dell’antica Roma Quadrata. Quest’oggetto sacro, che probabilmente era un blocco cubico di pietra usato come altare, era chiamato Roma Quadrata, ed era circondato da un solco circolare, il Mundus, simbolo del solco mosso dall’aratro mistico, con il quale il pomerio, o la linea del sacro percorso, era segnato in sintonia con le cerimonie religiose primitive svolte durante la fondazione di una nuova città”. Ne parla J.L. Middleton in Ancient Rome. Di tutte le forme, il cubo e la semisfera sono le più sacre; il cubo era quello del santuario di Gerusalemme, e quello scelto da san Giovanni come modello della città santa: “la sua lunghezza, larghezza, ed altezza erano uguali”. Il signor James Fergusson ci dice che il corpo principale del tempio di Erode era lungo cento cubiti, ed alto cento cubiti, con il fronte largo cento cubiti, “così da farne praticamente un cubo, o almeno una costruzione dalle tre dimensioni uguali”. Il cubo era la forma del tempio monolitico, di quaranta cubiti per lato, che Erodoto vide in Egitto; dei santuari fenici scoperti da Renan ad Amrit; e della Caaba, “il cubo”, della Mecca. I templi di Giano Quadrifronte venivano “costruiti con i quattro lati uguali, con un ingresso e tre finestre su ogni lato”. La semisfera è la forma degli stupa buddhisti. 60

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Combinare cubo e sfera è stato in ogni epoca il principale problema del costruttore. Perdura anche un’altra forma: il doppio quadrato; Vitruvio, infatti, dice: “la lunghezza del tempio deve essere il doppio della sua larghezza” e, quasi sempre, questa è la proporzione cui corrispondono gli esempi classici. Platone fa il tempio, che sta in alto sulla sua città ideale, lungo uno stadio e largo metà stadio. La camera del re nella grande piramide è esattamente di queste stesse proporzioni, come lo era la cella del tempio degli ebrei. Abbiamo visto i geografi classici del IV secolo a.C., tra i quali c’è Pitea, fare la Terra esattamente di questa forma, e, per spiegarlo, sono state suggerite ragioni sufficienti. Un’altra ragione, comunque, che deve aver confermato con forza il loro modo di vedere, dev’esser stata la curva del Sole sull’orizzonte dal solstizio di inverno a quello d’estate. Il percorso era simmetrico sull’orizzonte dell’alba, e su quello del tramonto, e sottendeva un angolo che sembrava esattamente contenuto in un parallelogramma, la cui larghezza era uguale alla metà della lunghezza. Per gli Hindu quella da est a ovest è la “via lunga”, e quella da nord a sud è la “via che traversa”. Nel persiano Bundahish è stato scritto, “da dove viene il Sole nel giorno più lungo, da dove viene nel giorno più corto, quello è l’Est; da dove arriva e da dove se ne va nel giorno più corto, quello è il Sud; dove va nel giorno più corto e nel giorno più lungo, quello è l’Ovest; da dove entra nel giorno più lungo, e da dove esce nel giorno più lungo, quello è il Nord”. Nel Talmud viene dato un racconto esattamente simile. Il Sole si scatena tra l’orizzonte d’Occidente e quello d’Oriente come una bestia potente chiusa in una gabbia; non può andare oltre perché il firmamento è chiuso ai lati. I passaggi al mondo di sotto e quelli per sorgere di nuovo si possono trovare solo agli estremi della scatola. Accenniamo appena all’attuale utilizzo del tempio come un calendario: il raggio di Sole, che entrava dalla porta d’Oriente al momento del suo apparire sopra l’orizzonte, era di certo rilevato, e così forniva, in una lunga serie, una accurata osservazione dell’anno solare; una volta all’anno, in specie, il raggio cadeva 61

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esattamente sull’altare. Ancora oggi in alcune cattedrali francesi, come Bourges e Nevers, ad esempio, si possono vedere linee diagonali segnate sul pavimento graduato in una scala di mesi e giorni. Le osservazioni del cielo e le cerimonie connesse con la determinazione dell’orientamento, e con la posa della prima pietra, erano della più grande importanza. Brugsch riporta un’iscrizione che registra la fondazione di Abido: “Ho dato l’ordine”, dice il re, “di preparare le corde e i pali per posare le fondamenta in mia presenza. L’avvento del giorno della Luna nuova è stato fissato per la festa della posa della pietra di fondazione”. Secondo Berosos, gli dèi hanno insegnato ai Caldei le regole per la fondazione delle città e per la costruzione dei templi. Delle moderne usanze buddhiste, Carl A. Bock ci dà un esempio dal Siam: “Per il sito, dedicato debitamente allo scopo, vengono prese otto pietre rotonde, e con esse viene tracciato un parallelogramma, piazzando ogni pietra in ognuno degli otto punti della bussola”. Negli antichi riti latini, citando il Dizionario francese delle antichità, uno dei doveri principali degli àuguri era quello di trarre dai cieli le fondamenta del nuovo tempio. L’usanza “sembrava essere di direzionare il Cardo secondo il meridiano, quando l’osservatore era rivolto a sud, ed aveva alla sua sinistra l’est, ‘il lato positivo’; in seguito adottarono la pratica etrusca e si volsero ad ovest, nella prospettiva di combinare le idee degli Etruschi, che avevano posto a nord il seggio degli dèi, e quindi il loro lato positivo, con la tradizione romana, che invece aveva ubicato il nord sulla sinistra, volgendosi verso l’Oriente. Si è pensato che all’epoca il Cardo non fosse l’asse, ma la diagonale di un quadrato e che l’àugure, posto al centro, dirigesse la sua visione verso gli angoli”. Per i tardo-Romani dei tempi di Vitruvio, quest’aspetto sembra esser stato l’opposto della antica pratica universale. Vitruvio dice: “Se non c’è niente che possa impedirlo, e l’uso dell’edificio lo permette, i templi degli dèi immortali dovrebbero apparire con la statua della Cella rivolta verso ovest, così che quelli che entrano ad offrire un sacrificio, o a fare delle offerte, possano 62

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volgersi ad est e verso la statua nel tempio. In tal modo a coloro che pregano e compiono i sacrifici sembrerà, guardandoli assieme, di avere, allineati, il tempio ad est, e la divinità. Per questo tutti gli altari degli dèi devono essere verso est”. In un altro passo spiega come possa essere ottenuto il vero nord. Su una lastra di marmo, o su una tavola piatta, viene posto in asse uno gnomone. L’ombra proiettata dallo gnomone deve essere segnata circa cinque ore prima del mezzogiorno: fissato con accuratezza il punto estremo, dal centro dello gnomone si traccia il cerchio di un raggio uguale alla lunghezza dell’ombra appena ottenuta. Dopo che il Sole ha passato il mezzogiorno si controlla l’ombra nel momento in cui essa tocca di nuovo il cerchio in un altro punto: la linea che parte dal centro, tagliando in due l’arco così ottenuto, indicherà il nord. Le costruzioni cristiane in principio seguivano l’antico orientamento del tempio ebraico, verso ovest: un esempio è la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme costruita da Costantino. E così le prime chiese in Italia, ed anche qui in Inghilterra, erano “occidentate”, piuttosto che orientate. Questo aprì definitivamente la strada all’orientamento ad est: tutte le chiese giustinianee hanno il prospetto rivolto ad est, e diventa interessante determinare se questo sia avvenuto perché erano rivolte verso Gerusalemme o perché si adeguavano solo all’orientamento geografico. La grande chiesa costruita da Costantino a Betlemme, in pieno Sud rispetto a Gerusalemme, e solo a poche miglia di distanza, si sviluppa da est a ovest, non da nord a sud, come sarebbe stato se orientata verso la città santa. Ancora più a sud, le chiese copte d’Egitto sono descritte da Alfred Joshua Butler con l’ingresso “quasi sempre in direzione del lato ovest, se non proprio in esso, mentre i sacrari sono sempre disposti sul lato est”. Lontano, e ancora più a sud, in Abissinia, le curiose chiese monolitiche scavate nella roccia seguono sempre l’asse da ovest a est. In un passo di Procopio c’è una affermazione chiara sullo scopo dell’orientamento di Santa Sofia, la grande chiesa della cristianità: “La parte in cui i sacri misteri vengono celebrati in onore di Dio è costruita in direzione del Sole nascente”. E sulla 63

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chiesa degli Apostoli, ricostruita da Giustiniano a Costantinopoli, spiega un’interessante concordanza: “Le linee erano disegnate a forma di croce, intersecandosi nel mezzo, quella verticale puntava al Sole nascente e calante, l’altra linea della croce puntava il vento del Nord e del Sud. Queste chiese erano recinte da una cerchia di mura e, all’interno, circondate da colonne, collocate in alto e in basso; all’incrocio delle due linee diritte, vale a dire all’incirca nel loro punto centrale, c’è un luogo isolato dove nessuno poteva entrare se non i sacerdoti, e che di conseguenza è chiamato il santuario. I transetti collocati ai lati di esso, sulla linea della croce, sono di lunghezza uguale; ma la parte della linea diretta verso il Sole calante è più lunga dell’altra, così che insieme formano il simbolo della croce”. Il vecchio antiquario William Stukeley ci offre una descrizione molto chiara dell’orientamento, anticipando i punti qui esposti: “Sin dagli inizi del mondo, costruendo templi o luoghi di culto, gli uomini si sono impegnati per disporli in armonia con i quartieri dei cieli; poiché consideravano il mondo come un grande tempio, o la casa di Dio, e tutti i templi dovevano regolarsi in conformità a quest’idea. L’Est, dove il Sole e tutti i pianeti e le stelle sorgono, esigeva, naturalmente, la priorità. Consideravano perciò l’Oriente il volto ed il fronte del tempio universale”.

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CAPITOLO QUARTO

Al centro della Terra Quella convessità stellata, distendendosi lassù, assorbita dolcemente in me, salendo così libera interminabilmente in alto, allungata ad est, ovest, nord, sud e io ho pensato solo a un punto nel centro laggiù che incorpora tutto. Walt Whitman

Sembra che delizia e mistero siano inerenti alle idee di confine e di centro. Lo dimostrano i bambini che stanno in due diverse contee o in due parrocchie nello stesso momento, ed in questo stanno a loro agio, con a volte appena un po’ di disappunto, come la bimba di Punch, perché non vi sono bei colori sulle linee di confine, come sulle mappe. Non vi ricordate quando vi dissero che il municipio “a casa” era centro e misura delle strade e che eravate ancora più impressionati da questo fatto, il centro del mondo, tanto che per voi avrebbe dovuto essere specialmente segnato da una “pietra miliare d’oro”? Parigi, Londra o Boston sono il “centro” dell’universo per i loro abitanti. “Tutte le strade portano a Roma”. “Ah, messer Greco”: George Eliot fa pronunciare questa frase all’istruito barbiere, Nello, che dice del suo negozio “Apollo e il rasoio”, “se vuole conoscere il gusto della nostra cultura lei deve frequentare il mio negozio: esso è infatti il centro dell’intelletto Fiorentino, e in questo senso è l’ombelico della Terra, come il mio grande predecessore Burchiello disse del suo negozio, con la pretesa ancor più frivola che la sua strada di Calimara fosse il centro della nostra città”. Quando la Terra era una superficie piatta, con confini certi nella forma anche se sconosciuti in estensione, dire “il centro è con noi” era una pretesa ancora più netta di paesi diversi e di città rivali. Una fontana araba in Sicilia portava l’iscrizione: 65

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“Sono nel centro del giardino, questo giardino è il centro della Sicilia, e la Sicilia è il centro del mondo intero”. Il Mediterraneo ha ancora il nome di “mare centrale del mondo”. Maspero ci dice che i Caldei si consideravano migliori dei vicini, ed il centro del mondo; il professor A. Henry Sayce spiega che nella foresta di Eridu, nel cuore della quale l’uomo non era entrato, vi era “il centro della Terra” e la “santa casa degli dèi”. Anche gli Egizi pensavano di essere l’unico vero centro. “Gli Egizi erano ben conosciuti per il grande amore per il loro paese, ereditato anche dai loro successori. Pensavano che il paese fosse sotto la diretta protezione degli dèi e che fosse il centro del mondo; spesso lo chiamavano proprio ‘il mondo’ e pensavano fosse il luogo favorito, dove tutte le creature viventi erano state generate, quando ancora il resto della Terra era sterile e disabitato”. Lo scrive Sir J.F. Wilkinson. Il barone von Bunsen scrive di una mappa del mondo con la forma della figura umana, di cui l’Egitto era il cuore. In Voyageurs Anciens, Edouard Thomas Charton dice: “Ogni popolo affermava in ingenua sicurezza: ‘Il centro è a casa mia’”. “Per gli Egizi il centro era Tebe; per gli Assiri, Babilonia; per gli Hindu, il monte Meru; per gli ebrei, Gerusalemme; per i Greci, l’Olimpo o il tempio di Delfi, e in seguito, all’epoca di Erodoto, Rodi”. Nella stessa raccolta di viaggi c’è il punto di vista di un arabo moderno sulla forma del mondo e sul suo centro. “Dio creò la Terra quadrata, e l’ha coperta di rocce; dalla cima del monte Sinai, che è il centro del mondo, tracciò un grande cerchio, la cui circonferenza toccava i quattro lati del quadrato. Egli poi comandò agli angeli di gettare tutte le pietre negli angoli, che corrispondono ai quattro punti cardinali. Il cerchio così riordinato fu dato agli Arabi, i figli prediletti; poi egli chiamò i quattro angoli Francia, Italia, Inghilterra e Russia”. Un’iscrizione del re di Susa, del 710 a.C., avanza questa pretesa per la “terra di Susa, la prima del mondo ed il centro di tutta l’umanità”. Lo stesso avveniva in Persia: “Il paese dell’Iran è migliore degli altri posti, perché sta al centro”. Anche la Cina è sempre stata un paese specialmente propi66

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zio e la sua posizione è inscritta nel suo stesso nome, il “regno di mezzo”. In una lettera al re d’Inghilterra, del 1817, l’imperatore della Cina afferma di aver ricevuto dal cielo la reggenza del mondo intero e che la Cina è “un impero centrale e fiorente”, sorgente di una benefica influenza. Anche gli Hindu hanno un nome che implica la centralità del loro paese, e gli antichi poemi giapponesi chiamano il loro il “regno centrale”. A proposito di questo centro, sarebbe subito venuto fuori un elemento di confusione, poiché si vedeva il centro delle orbite celesti verso nord; perciò la montagna del mondo, asse di tale rotazione, sorgeva anch’essa a nord. Ad esempio, secondo la Encyclopedia of India, “Gli Hindu di Bikanir Rajputana insegnavano che il monte Meru sta al centro, circondato da cerchi concentrici di terra e mare. Alcuni Hindu vedono il monte Meru come il polo nord. Le osservazioni astronomiche dei Purana fanno ruotare i corpi celesti attorno ad esso”. Questa montagna-mondo era Nizir per i Caldei, Olimpo per i Greci, Hara Berezaiti per i Persiani dell’Avesta, divenuta poi Alborz e Elburz; una trasposizione, come dice Madame Z.A. Ragozin, della “mitica geografia celeste sulla Terra”. A questa montagna, il colle solare degli Egizi, ci riferiremo ancora nei prossimi due o tre capitoli. Sulla sua cima sta l’albero celeste sul quale si posa l’uccello radioso. Dalle sue radici fluiscono le acque della vita: il mare celeste, che, scendendo giù dal firmamento, rifornisce l’oceano che circonda la Terra, o cade diretto come pioggia. Le fonti di queste sorgenti sono sorvegliate da una dea. In Egitto Nut, la dea dell’Oltreoceano, si allunga dai rami del persea celeste e versa le acque celesti. Nei Veda, Yama, il Signore delle acque, siede sul cielo più alto, nel mezzo dell’oceano celeste, sotto l’albero della vita, che gocciola del nettare di Soma: e qui, “sull’ombelico delle acque”, la materia per la prima volta prese forma. Nei paesi nordici, l’albero Yggdrasil posto al centro ha alle sue radici la fonte della conoscenza vegliata dalle Norns, le fate nordiche; due cigni, progenitori di tutti quelli della Terra, nuotavano in essa. In Caldea il potente albero di Eridu, 67

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centro del mondo, sorgeva presso le acque. L’Avesta dà un quadro molto completo: l’Iran è al centro dei sette paesi del mondo; è il primo ad essere stato creato ed è talmente bello che se Dio non avesse insufflato in ogni uomo l’amore per il suo paese, tutte le genti si affollerebbero su questa terra, la più amabile. Da qualche parte, verso est, ma sempre al centro del mondo, si eleva il “Monte Sublime”, dal quale sono cresciute tutte le montagne della Terra, “l’alto Haraiti”; sulla sua cima vi è il luogo di raccolta delle acque, dal quale sorgono i due alberi, il celeste Haoma, Soma, ed un altro albero che porta tutti i semi che germogliano sulla Terra. Questo monte divino si chiama “Ombelico delle acque”, perché la fonte di tutte le acque sgorga lì, sorvegliata da una dea maestosa e benefica. Nei racconti buddhisti, le acque sgorgano da questo serbatoio in quattro flussi, come i fiumi dell’Eden, e scorrono verso i punti cardinali, e ogni flusso fa un giro completo del monte durante la discesa. Nel persiano Bundahish vi sono due di questi fiumi celesti che scendono ad est e ad ovest. Per gli Hindu il Gange è una simile corrente celeste. “Il flusso divino era chiamato dai Greci Achelous”. Il Nilo in Egitto, il Hoang-Ho in Cina, e il Giordano per gli ebrei, sembrano esser stati fiumi celesti. Il monte del Paradiso è spesso raffigurato nell’arte cristiana con i quattro fiumi che escono da sotto il trono di Dio. Sir John Maundeville ci fornisce una descrizione, pressoché perfetta nel suo schema dettagliato, del paradiso terrestre. È il punto più alto della Terra, che quasi raggiunge il cerchio della Luna, come in Dante, che il diluvio non raggiunse. “E nel luogo più alto, esattamente al centro, c’è un pozzo che getta fuori i quattro fiumi: il Gange, il Nilo, il Tigri e l’Eufrate, ‘e gli uomini laggiù dicono che tutte le dolci acque del mondo, di sopra e di sotto, originano dalla fontana del Paradiso e da quella fontana tutte le acque arrivano e vanno’”. L’illustrazione è tratta dalla mappa di Hereford. 68

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Nell’Odissea – che sembra essere un viaggio nei tre mondi di un Dante greco, e analogo, come ha osservato il signor Andrew Lang, ad una antica leggenda indiana, nella quale l’eroe parte per trovare la città d’oro – Ulisse, dopo essersi recato nel paese dei Ciclopi e in altre terre evidentemente al di sotto della soglia della civiltà, della legge e dell’ordine, va sull’isola di Eolo, re dei venti, e sull’isola di Circe, dove è “il luogo in cui danza l’alba”. Discende nel mondo sotterraneo e lo esplora, tornando passa le porte del firmamento, le montagne tuonanti, e arriva sull’isola del Sole, e, naufrago, raggiunge da solo l’isola di Calipso e vi resta otto anni; ma poi, lasciando Calipso, arriva infine alla divina Scheria, un paradiso, e città d’oro, “lontana dagli uomini che vivono di solo pane”. Poi, in sonno su una nave magica, viene condotto alla Terra e verso casa. L’isola di Calipso, dea solitaria, è Ogigia, “dov’è l’ombelico del mare”, lontana “su una distesa mirabile di acque salmastre dove non ci sono città di mortali”; ed ecco, presso la cupa grotta cresce una vigna ricca di grappoli. E quattro fontane disposte con ordine donde scorrono limpide acque, cui era difficile separarsi per trovare ciascuna il suo corso. Tutto attorno prati fioriti di prezzemolo e di viole. Possiamo dubitare che Calipso sia la dea custode della fonte celeste, dei quattro fiumi che riforniscono la Terra? Possiamo dubitare che questa “zona esterna” dei viaggi di Ulisse sia nell’Oltreoceano, stabilendo così una completa analogia con il sottomondo? In parallelo possiamo osservare come da quanto vicino Luciano segua tutto questo nelle sue Satire, raggiungendo il mondo più alto ed il mondo più profondo con una nave. La sorgente divina è, di certo, la fontana dell’acqua della vita e Ulisse certamente deve aver bevuto da essa come il viaggiatore nel rituale egizio dei morti. Che cosa andò a fare là l’eroe dell’Odissea se non per riportarci indietro un vero rapporto su un luogo tanto notevole? Maximilian Wolfgang Duncker dice di Atena: “Lei è lo spirito stesso di questa sorgente”. Tutto lo schema è abbastanza razionale: gli uomini che volevano spiegare la pioggia, le correnti mobili e i fiumi che scorrono sulla Terra, immaginavano una sorgente eterna che aveva ori69

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gine nel cielo, con quattro flussi da cui scorreva giù la volta celeste e che, introducendosi in alcune fenditure, girava attorno alle acque dell’oceano, precipitando poi negli abissi: l’Acheronte, il Piriflegetonte, il Cocito e lo Stige, probabilmente hanno la loro origine in questo pensiero. Ritorniamo al Mondo di mezzo. Sung-Yun, il viaggiatore cinese che esplorò l’India nel 518 a.C. per raccogliere reperti buddhisti, parlando dell’esteso paese montuoso, spartiacque tra l’Indu e l’Oxus, ancora chiamato “tetto del mondo”, dice: “Dopo esserci spinti passo dopo passo sulle montagne di TsungLing, ci siamo trascinati verso l’alto per quattro giorni e abbiamo raggiunto il punto più alto di quella zona. Da questo punto preso come centro, guardando verso il basso, sembrava proprio che fossimo sospesi a mezz’aria. Gli uomini dicono che questo sia il centro del cielo e della Terra. La gente di questa regione usa l’acqua dei fiumi per irrigare le proprie terre; e quando fu loro detto che nel regno di mezzo (la Cina) i campi erano irrigati dalla pioggia, hanno riso, dicendo: ‘Come può il cielo dare abbastanza acqua per tutto?’”. Hiuen Tsiang, nel 629 d.C., dice che nel punto centrale del mondo, sulle montagne del Pamir, c’è un lago blu e senza fondo: da esso partivano due fiumi, a est e a ovest, che rifornivano le acque del mondo. Quando la Cina accolse il buddhismo divampò una controversia sul regno di mezzo: perché gli ortodossi dicevano che l’India, dov’era nato Buddha, fosse la Terra di mezzo, “com’è dimostrato dallo gnomone che al solstizio d’estate non getta ombra in quella latitudine. La Cina, dicono, non può essere chiamata il regno centrale, perché c’è un’ombra sul giorno menzionato”. È nel libro di Joseph Edkins sul simbolismo antico dei Cinesi. FaHsien fu disprezzato dai suoi concittadini per aver riconosciuto superiore la rivendicazione dell’India. Questo mostra come la mente umana lavori su schemi fissi, e arriviamo persino a scoprire che Sir John Maundeville dà la stessa prova dello gnomone a proposito della posizione centrale di Gerusalemme. Sembra proprio che i Greci abbiano attribuito una grande 70

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importanza mistica e rituale al centro. Delfi era l’ombelico di tutta la Grecia, ma Creta aveva un omphalos, e c’era una storia, in relazione ad esso, che riguarda la nascita di Giove. Pausania menziona un omphalos a Phlio, segnando il centro del Peloponneso. In Sicilia la moderna Castro Giovanni occupa il sito di Enna, Umbilicus Siciliae, ed in questo luogo Persefone fu rapita dagli dèi. Anche a Babilonia è stato al centro del mondo che Tammuz discese sulla Terra, poiché qui c’è la stele del sottomondo. Ogni diverso culto sembra avere la propria “Kibleh”, o Qiblah, Delo per Apollo, Paphos per Venere e Delfi, l’antico focolare di Hestia. A Megara l’altare era l’omphalos. Il monte Chronos a Olimpia, dice il Lenormant, “era l’omphalos della sacra città di Elis, l’antico centro di culto”. È facile vedere come questo “centro di culto”, questo “centro della Terra dove sta la sacra dimora degli dèi”, fosse destinato ad essere identificato con un edificio, l’antico tempio-madre di un popolo, che fosse a Babilonia, a Delfi o alla Mecca. Heinrich Brugsch dichiara: “Gli Egizi, come gli antichi in generale, iniziavano la fondazione delle loro città con la costruzione di un tempio, che formava il centro della città da edificare”. Delfi per i Greci era innanzi tutto il centro del mondo; qui c’era il celebre ed antico tempio di Apollo, il dio che, come disse Platone, “siede al centro, sull’ombelico del mondo”. Forse che questa tradizione venne attribuita a Delfi perché il tempio è

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edificato sul Parnaso, monte del diluvio di Deucalione? E le altre storie del Parnaso, e la nascita della poesia, non vengono forse dal loro essere associate ad un’altra tradizione del paradiso terrestre? Nella descrizione, data sopra, del peplo che rappresenta l’universo tessuto da Armonia, abbiamo visto che “essa prima rappresentò la Terra con il suo ombelico al centro”; ma questo centro del mondo non va cercato solo nei disegni ideali dei poeti, esso è stato realizzato in architettura. Sul pavimento del tempio di Delfi c’era una pietra “chiamata, dagli abitanti di Delfi, secondo la tradizione, l’Ombelico, il centro del mondo”. Lo dice Pausania. La storia racconta che per determinare il vero centro della Terra, Giove mandò fuori due aquile, una da est, e una da ovest, ed esse si incontrarono in quel punto. Secondo Strabone due aquile d’oro erano collocate ai lati dell’omphalos. Questa composizione si è conservata fino ad oggi in un marmo trovato a Sparta. Già ai tempi di Pindaro si fa menzione di questi due uccelli d’oro di Zeus, ma in seguito essi furono rappresentati in sculture di marmo o in mosaico. Sui vasi abbiamo molti disegni contemporanei di questa composizione, si vedano quelli di J.H. Middleton nel nono volume del «Journal of Hellenic Society»: nella maggior parte di essi la pietra sacra si mostra nella forma di mezzo uovo, innalzato su un gradino sul quale gli uccelli “si fronteggiano”; altre figurazioni mostrano una forma d’uovo completa decorata con fasci, rami frondosi e nitide lavorazioni.

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Questa pietra, centro di tutto il mondo, sembra aver profondamente toccato l’immaginazione greca; e, fra la moltitudine di riferimenti di cui è oggetto, ha un ruolo nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. La prima scena delle Eumenidi ha luogo nella corte esterna dell’oracolo, una sacerdotessa entra nell’Adytum, ma torna, fattasi piccola per la paura, sostenendosi al muro: Ecco! In quella nicchia con le ghirlande appese vado, e lì vedo sulla pietra centrale un uomo aborrito dagli dèi seduto come un supplicante, e con le mani lorde di gocce di sangue, a brandire la spada appena usata.

Oreste, inseguito dalle Furie, ha trovato rifugio, e santuario, nel tempio di Apollo: il matricida viene così scoperto sulla pietra, centro del mondo, e dell’universo, come l’uomo aborrito dagli dèi, con la sua spada da cui ancora goccia il sangue della madre. Possiamo vedere incorporato in questo mito della pietra centrale il risultato della generale direzione di pensiero: come ogni popolo era “il popolo”, creato per primo e il più amato dagli dèi, così il loro paese occupava il centro del mondo. Si sarebbe poi raccontato come la più antica e la più sacra città, o meglio il suo tempio, fosse stata eretta esattamente sull’ombelico. Una storia come questa, detta di un tempio, porterebbe a marcare al centro dell’area del tempio il vero punto centrale con una pietra circolare, una pietra che sarebbe divenuta sacra e di immenso valore rituale per il suo significato. Una simile tendenza sembra fondarsi nella radice delle idee; il professor Charles P. Smith, nei suoi studi religiosi e scientifici sulla grande piramide, pensava che essa segnasse in un modo speciale il centro del mondo. Nelle cerimonie della Grecia e di Roma era il focolare ad essere specialmente identificato con l’omphalos, e così in latino abbiamo focus, e in francese foyer, nello stesso tempo focolare e centro. 73

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“Secondo Pitagora, il fuoco di Hestia, focolare del mondo, era al centro della Terra e del mondo”. “In questo santuario di Apollo a Delfi, prima dedicato a Hestia, vicino all’omphalos di pietra c’era l’altare del fuoco sacro di Hestia, la dea che simboleggiava la stabilità della Terra. Nelle primitive case greche di forma circolare il focolare era al centro ed il fumo usciva dalla sommità della sala. Ogni città greca aveva il suo pritaneo a forma di rotonda, una tholos, un edificio consacrato a Hestia; il fuoco sacro della città ardeva sotto il centro della volta, come il fuoco di Delfi, il focolare comune di tutti i Greci, posto sotto la sommità della volta celeste”. Dal Dictionnaire des Antiquités. Il pritaneo era il palazzo civico, il centro della vita cittadina e qui, nel punto focale della città, era tenuto acceso il fuoco perenne di Hestia; poiché proprio come la vita familiare centrata attorno al focolare, così la vita politica circondava il fuoco della città; là i coloni venivano dalla città madre per prendere il sacro fuoco al centro, e per fondare così il proprio pritaneo; e se, nel tempo, cessava di bruciare, la metropoli diventava, di nuovo, la sorgente di nuovo fuoco. È così che, secondo la tradizione, Enea portò da Troia il fuoco sacro, mantenuto dalle Vestali nel tempio rotondo del Foro. Risuona ancora un mistero sul focolare, ed è ancora il mistero del centro del mondo. Sembra sia parte del retaggio ariano: finché le nazioni non si erano ancora separate, “il focolare stava nel mezzo della dimora; quel fuoco era per ogni membro della famiglia un umbilicus orbis, o ombelico della Terra… Focolare era soltanto un’altra forma della Terra”, hearth, earth “come in tedesco erde e herde”. Lo dice Charles Francis Keary, in The Dawn of the History. Si è pensato che questa casa primitiva fosse una capanna dal tetto circolare, e così diventava un tempietto come il cielo, dedicato al fuoco centrale. Un cerchio centrale è stato trovato nel palazzo di Tirinto. Il dottor Schliemann ha scritto: “Nel centro esatto della sala, e quindi all’interno del quadrato delimitato da quattro pilastri, è stato trovato sul pavimento un cerchio di circa 3,30 metri di diametro. Non si può dubitare che questo cerchio indicasse la po74

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sizione del focolare al centro del megaron. Per tutta l’antichità il focolare era il centro della casa, attorno al quale si raccoglieva la famiglia, presso il quale il cibo veniva preparato, e dove all’ospite veniva dato il posto d’onore. E così questa zona è spesso indicata da poeti e filosofi come l’ombelico, o come il centro della casa. Nei tempi più antichi non era soltanto il centro della casa in quanto simbolo, ma lo era anche nella realtà, ed in particolare era centro del megaron. Soltanto più tardi, nei grandi palazzi dei Romani, è stato rimosso dalle stanze principali e disposto in una piccola camera laterale. Difficile considerare una coincidenza il fatto che al centro della sala più grande del Pergamon della Troia di Omero si veda un grande cerchio al centro del pavimento… Non vi possono essere dubbi sul fatto che, anche a Troia, la spaziosa sala con il suo vestibolo fosse il megaron, e che il cerchio nel suo centro segnasse il luogo del focolare”. Il palazzo imperiale di Costantinopoli, la massima espressione universale della cultura architettonica – incorporando in sé, come faceva, tutte le conoscenze e tutte le tradizioni, quella classica e quella cristiana, e raccogliendo come materiale da costruzione tutti gli splendori della Terra – aveva, sui pavimenti di quelle magnifiche stanze, un focolare sacro o alcune pietre per l’omphalos, il cui disegno possiamo ancora studiare nelle descrizioni raccolte da Jules Labarte in Le Palais impérial de Constantinople et ses abords, pubblicato a Parigi nel 1861. “Il pavimento di Chalcia era composto con un bel mosaico di marmo; sotto la cupola a terra c’era una grande piastra di porfido di forma circolare alla quale avevano dato il nome di omphalion”. L’imperatore, dopo aver ricomprato per una grande somma certi buoni del tesoro, sui quali i cittadini di Costantinopoli avevano messo le mani, bruciò questi buoni sull’omphalion di porfido di Chalcia. Troviamo un omphalion anche sul pavimento del grande triclinium di Giustiniano; ce n’erano altri nelle altre stanze del palazzo, in particolare di fronte ai troni. L’imperatore stava su queste lastre di porfido durante alcune cerimonie, ed il suo transitarvi o fermarvisi sembrava essere per i presenti l’occasione per prostrarsi di fronte a lui. Sul pavimento di San Pietro, a Roma, c’è una piastra circo75

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lare di porfido antico, 2,58 metri di diametro, sulla quale, narra la tradizione, ogni imperatore, da Carlo Magno, è stato durante l’incoronazione. Anche i papi officiavano su essa alcuni atti solenni. Ducange fa menzione di un omphalos a Santa Sofia: era direttamente sotto la cupola e veniva chiamato meso-naos, omphalos, ormes-omphalos. Fosse, o meno, il tempio di Vesta, a Roma vicino al Foro, da sempre il vero centro geografico, era certo che il Foro avesse un tempio così nel Milliarum aureum Umbilicus Urbis, che recava inscritti i nomi e le distanze delle città sulle strade che qui si incontrano in un centro da tutta l’Italia. Dato che qualche autore tardo parla dell’omphalos come cosa diversa dal milliario aureo, e dato che le fondamenta di due strutture circolari sono state rinvenute nel Foro, il signor J.H. Middleton è incline a ritenere che una di esse fosse la pietra miliare, e che l’altra fosse l’omphalos. La pietra sacra sul Palatino, menzionata nell’ultimo capitolo, sembra esser stata l’ombelico della Roma più antica, “la città di Romolo”. Il signor G.L. Gomme dice che una pietra di questo tipo era sempre piantata a fondamento dei villaggi primitivi, e che la pietra di Londra ne è un esempio. Se andiamo ad ovest, il centro è là. “Lo storico dello Yucatan descrive il famoso santuario conosciuto come il Centro e il Fondamento dei Cieli, che era oggetto di grande venerazione”, dice Claude J.D. Charnay, nel suo studio sulle antiche città del mondo; e Albert Réville cita Garcilasso, uno storico nativo del Perù, che dice come Cuzco, la città sacra, fosse stata fondata dagli dèi, e che “il suo nome significa ombelico”. “Splendide strade si estendevano da Cuzco in direzione delle quattro regioni celesti”. E ancora, “il grande Teocalli del Messico controllava le quattro strade principali che partivano dalla sua base, per unire la capitale a tutte le regioni sotto lo scettro dei suoi governatori. Era il Palladium, l’incrocio primario, dell’Impero”. Le strade divergono allo stesso modo dal Potala della santa città del Tibet, anche essa il centro del mondo. I “quattro crocevia”, i Crossroads dell’antica tradizione inglese erano probabilmente affini a una simile struttura di vie, poiché 76

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una situazione analoga stabiliva una magia simpatetica con l’universo. Se andiamo in estremo Oriente, la pietra della fondazione è là. In Giappone il mondo è sostenuto da un enorme leviatano, il “pesce che fa tremare il mondo”, Jishin-uwo; quando si muove c’è un terremoto; solo una divinità può quietarlo puntandolo giù con il Kaua-mi-ishi, o “Roccia chiodo del mondo”. Come ogni giapponese sa, questa pietra sta nella provincia di Hitachi. Letto in The Century, del gennaio 1890. A Ise due templi formano la kibleh dello shintoismo, verso il quale la gente si rivolge in preghiera. Secondo il Grimm dei Miti teutonici sembra che questa pietra fosse conosciuta dai popoli nordici come “Dille-Stein”, o “il coperchio dell’inferno”: la paragona al lapis manalis che chiude l’imboccatura del Mundus etrusco. Nel Talmud vi era accesso al mondo sotterraneo da Gerusalemme, benché il mondo intero non fosse altro che il “coperchio della pentola” dell’inferno. In India il grande pilastro di ferro di Delhi, in piedi in mezzo alle rovine dell’antica capitale, è stato eretto nel IV secolo; più tardi, nel XII secolo, la grande moschea maomettana della città imperiale fu costruita attorno ad esso, come l’esatto punto di mezzo della vasta corte. Il pilastro commemorava il potere di un Raja che, come dice l’iscrizione, “ottenne dal suo proprio braccio la sovranità indivisa sulla Terra”. Un santo brahmano assicurò ad un Raja dell’VIII secolo che il pilastro era stato piantato così profondamente nella terra da essersi appoggiato alla testa di Vasali, il re dei serpenti che sorregge il mondo, e che di conseguenza era divenuto immobile: così il dominio era assicurato alla dinastia del suo fondatore, fino a quando il pilastro fosse stato diritto. L’incredulo Raja ordinò di estrarre dalla terra il monumento, per poi colorarlo di rosso con il sangue del re serpente. È nella Hunter’s Gazette of India. Qui c’è forse un centro brahmanico oltre al sacro luogo dei buddhisti. Nell’India del Sud il tempio di Mandura è il centro della nazione Tamil: in questo luogo, nel più segreto dei santuari, una roccia, simbolo di Shiva, affiora dal suolo. “Si dice che le sue radici siano al centro della Terra e che siano lì dal giorno dalla creazio77

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ne”. In questo luogo venivano portati i re quando erano in procinto di morire, dice Clements R. Markham. In Cina il centro dell’antico culto regale è l’altare o il tempio del Cielo nella città vecchia di Pechino. Una perfetta pietra circolare fa da centro ad una zona che si sussegue a un’altra zona, fatta di gradini di marmo e terrazze. “Qui l’Imperatore si inginocchia ed è circondato prima dal cerchio delle terrazze e dalle loro mura di cinta, poi dal cerchio dell’orizzonte. Così, a lui e al suo seguito, sembrava di essere al centro dell’universo, e, volgendosi verso nord, nell’attitudine del suddito, il sovrano riconosceva in preghiera di essere inferiore al cielo, ed al cielo soltanto”. È nei Williamson’s Journeys di Joseph Edkins. Gaya è il grande luogo sacro del buddhismo, la Mecca di questi luoghi; qui era seduto il Buddha sotto l’albero della Bodhi quando raggiunse la piena illuminazione. Mentre stava ancora cercando, gli giunse una voce che gli diceva che avrebbe trovato un albero Pipal, sotto il quale c’era il “trono di diamante”. Tutti i Buddha passati che si sono seduti su questo trono hanno raggiunto la vera illuminazione. È in Samuel Beal. L’albero della Bodhi stesso, come descritto da Hiuen Tsiang, era circondato da un recinto lungo da est a ovest e largo da nord e sud, con quattro portali ai punti cardinali. “Nel mezzo del recinto c’è il trono di diamante: quando la grande Terra è venuta alla luce, anch’esso è comparso. Sta nel centro delle miriadi di miriadi di mondi del grande Chiliocosmo, si estende fino ai limiti della ruota d’oro, e in alto è piatto sul terreno. È composto di diamanti e di cento passi di diametro all’incirca… È il luogo dove i Buddha pervengono alla via sacra dell’illuminazione. Quando la grande Terra si muove, solo questo punto resta fermo. Quando il Tathagata stava per raggiungere la condizione della illuminazione, ed andò, uno dopo l’altro, ai quattro angoli di questo recinto, la Terra si mosse e si ruppe; ma quando in seguito arrivò in questo luogo tutto fu fermo e in pace. Quando la Buona Legge scomparirà esso non sarà più visibile”. Il Chiliocosmo non è questo mondo soltanto, ma la completa raccolta dei mondi, l’universo. Sir M. Williams racconta 78

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di una pietra segnata con nove cerchi concentrici che viene tuttora esposta a Gaya, come trono dei diamanti. Gerusalemme è stata per gli ebrei e i cristiani il centro del mondo, “sito impareggiabile, gioia di tutta la Terra”. Cosa fosse il tempio come centro di culto è mostrato nella preghiera dedicatoria di Salomone e dalla finestra aperta su Zion di Daniele. Quanto segue è la direzione per chi prega con il Talmud: “Coloro che abitano in paesi lontani, oltre i confini della Palestina, devono, pregando, rivolgere i loro volti verso la Terra sacra, come è scritto, ‘Essi devono rivolgere la loro preghiera a Te sulla Terra che Tu hai donato ai loro antenati’ [I Re, VIII, 48]. Coloro che dimoravano in Palestina volgevano la devozione verso Gerusalemme, perché, era scritto, ‘Loro devono pregare Te nella direzione della città che tu hai scelto’. Coloro che recitano la loro preghiera a Gerusalemme si volgono verso il monte del tempio, perché, è citato nello stesso passo, ‘questa è la casa che io ho costruito nel Tuo nome’. Coloro che sono sul monte del tempio si volgono al Sancta Sanctorum. ‘Indirizzeranno la loro preghiera a Te in questo luogo, e Tu la udrai in cielo dove hai dimora, Tu la sentirai e perdonerai’. Ne consegue che quelli del Nord dovrebbero volgersi verso sud, quelli del Sud verso il nord, gli uomini dell’Est verso l’ovest, gli uomini dell’Ovest verso l’est; così tutta Israele si volgerà in preghiera”. Ma questo luogo non era solo un centro di cerimonie, era anche il centro della Terra dal punto di vista geografico, e la citazione seguente dal Talmud, in P.I. Hershon, mostra come per i rabbini il tempio avesse una pietra come omphalion, e come esso fosse stato costruito non semplicemente su una roccia, ma su la roccia. “Il mondo è come il bulbo oculare dell’uomo; il bianco è l’oceano che circonda il mondo, il nero è il mondo stesso, la pupilla è Gerusalemme, e l’immagine nella pupilla è il Tempio”. “La ‘pietra di fondazione’ del mondo precipita nelle voragini sotto il tempio del Signore, e su di essa i figli di Korah sono soliti stare, e pregare”. “La terra di Israele è situata al centro del mondo e Gerusa79

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lemme è il centro della terra di Israele, il tempio si trova al centro di Gerusalemme ed il Santo dei Santi è al centro del tempio, la pietra di fondazione sulla quale il mondo è stato posato sta di fronte all’Arca”. “Quando l’Arca fu rimossa, una pietra era lì fin dai primi profeti: essa veniva chiamata il Fondamento. Era più alta di tre dita al di sopra della Terra”. Il grande tempio di Bel, il più antico, il più sacro tempio di Babilonia, era detto, come ci racconta il professor Sayce in una delle Hibbert Lectures, “la casa della pietra di fondazione del cielo e della Terra”. A Gerusalemme la “cupola della roccia”, El Sakhrah, occupando il posto tradizionale del santuario del tempio, circonda un masso di viva roccia, la vera cima del monte Moriah, che spunta da un bel pavimento lastricato in un’area di 18 per 12 metri; sotto, c’è il “pozzo delle anime”. Un pasha turco raccontò a Sir Charles Warren: “Sta sulle foglie in cima ad una palma, dalle cui radici nascono tutti i fiumi del mondo”. Nusir-i-Khusran, che visitò quei luoghi nel 1003 d.C., disse che Dio aveva comandato a Mosè di fare di questa pietra una kibleh e in seguito Salomone costruì il suo tempio ponendola al centro. Da questo tempio si aprono quattro porte, come dice un antico pellegrino, sui quattro quartieri del mondo. Nella tradizione maomettana questa roccia è la pietra di fondazione del mondo. Essa è conosciuta come la kibleh, il luogo di adorazione di Mosè, il centro. Maometto pensò subito di adottarlo nel vecchio centro arabo della Mecca, comprendendo bene l’importanza di tale omphalos per i credenti orientali, poiché in esso la volontà di separazione dagli altri è espressa con forza. Il profeta disse, “In verità benché dovresti mostrare a coloro a cui la Scrittura è stata rivelata ogni genere di segni, essi ancora non seguiranno la tua kibleh, né tu devi seguire la loro kibleh; né una parte di loro seguirà la kibleh degli altri”. Nell’ultimo giorno, in ogni modo, addirittura la nera pietra della Mecca arriverà, come fosse la sposa promessa, alla rocca di Gerusalemme: e così vengono fuori possibili elementi di confusione sull’Islam come centro del mondo.

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Il defunto professor Palmer ha detto cosa sia la rocca per quelli di Gerusalemme: “Questa Sakhrah è il centro del mondo e nel giorno della resurrezione l’angelo Israfil si poserà al di sopra di essa per suonare l’ultima tromba; è anche di 29 chilometri più vicina al cielo di qualsiasi altro luogo al mondo; e sotto di essa c’è la sorgente di ogni goccia di acqua dolce che scorre sulla faccia della Terra; si pensa che sia sospesa prodigiosamente tra il cielo e la Terra. L’effetto che aveva sugli spettatori, comunque, era talmente impressionante, che si ritenne necessario costruirle intorno un edificio e nascondere la meraviglia”. I Samaritani guardano ancora al Gerizim come al loro monte sacro. “Questa è la loro kibleh, verso cui si rivolgono in preghiera, dovunque essi siano”, scrive Sir Charles Warren. “I nostri padri pregavano su questa montagna mentre tu dichiari che è a Gerusalemme il posto dove gli uomini dovrebbero pregare”. A proposito dell’Hermon scrive la signorina Beaufort: “È da 81

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prendere in considerazione come l’Hermon fosse anticamente attorniato da una cerchia dei templi, tutti rivolti verso la sua cima. È possibile che questo monte sia stato il grande santuario di Baal e che esso fosse per gli antichi Siriani ciò che Gerusalemme era per i giudei e ciò che la Mecca era per i musulmani?”. Uno di questi templi reca scolpite, sul lato rivolto alla montagna, un’enorme faccia che guarda. Un altro tempio siriano, quello di Mabog, Hierapolis, sembra esser stato il centro del mondo e pozzo dell’abisso; la città occupava il luogo di Carchemish, la capitale degli Ittiti, e sono probabilmente i loro riti e le loro leggende ad aver trovato qui una continuità. Il tempio stava proprio nel centro della “città santa”, ed era stato costruito, come narra la leggenda, dal loro Noè, direttamente sopra l’abisso ove le acque del diluvio erano state inghiottite. Lo dice A.H. Sayce, nel libro sugli Ittiti. “Anche a Gerusalemme c’era una fenditura nella quale erano scomparse le acque del diluvio”: è in W. Robertson Smith, che studia la religione dei semiti. Pausania dice che c’era una cavità nei dintorni del tempio di Olimpia, entro la quale le acque del diluvio si erano inabissate. Per i maomettani generalmente la Caaba alla Mecca è il vero centro, discesa com’è direttamente dal paradiso sotto il quale si trova, e verso cui tutto l’Islam si volge in preghiera. È nel Corano: “rivolgi il tuo volto verso il tempio della Mecca, e in qualsiasi luogo tu preghi, rivolgi il tuo volto verso quel luogo”. Parlando delle scuole moderne al Cairo, il signor W.J. Loftie dice: “I bambini imparano che ci vogliono cinquecento anni di cammino per oltrepassare la vasta pianura, mentre ora, forse, a poche yarde dall’ingresso della scuola è appeso uno dei cartelli del signor Cook che offre di concludere tutto l’affare in novanta giorni. Il solo fatto importante che i bambini hanno capito è che la Mecca è il centro della Terra”. Tutte le moschee sono rivolte a quella kibleh. Per gli antichi cristiani e durante tutto il Medioevo, Gerusalemme era il centro. San Girolamo la definisce l’ombelico del mondo. Clemente Alessandrino ha osservato che la corte esterna del tabernacolo era, “dicevano”, il punto di mezzo fra cielo e Terra. Arculfo nel 670 d.C. ci dice che Gerusalemme, essendo 82

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nel centro, era chiamata “ombelico del mondo” e presenta la prova del pilastro senz’ombra. Al tempo del viaggio dell’abate Daniele, il 1106, il centro del tabernacolo era sormontato da una piccola cupola sostenuta da pilastri. La mappa di Hereford, del XIII secolo, mostra il mondo come una pianura circolare circondata dall’oceano, attorno ai confini del quale vi sono cannibali e ciclopi, mezzi-uomini e quelli “le cui teste crescono sotto le spalle”. Dentro a questi confini troviamo tutto ciò che il cuore umano possa desiderare: il mar Rosso è molto rosso, e le Colonne di Ercole sono davvero colonne; c’è un paradiso terrestre racchiuso da mura merlate; e unicorni, manticore, salamandre e altri animali dai manti seducenti sono mostrati con chiarezza nella terra dove abitano. Il centro di tutto è Gerusalemme, una città dalle mura circolari, dentro la cerchia delle quali c’è ancora una cerchia più piccola, la chiesa del Santo Sepolcro. Alla posizione centrale di Gerusalemme non si rinunciò quando fu accettato come un fatto che la Terra fosse una sfera. Dante riteneva vere entrambe le teorie, ed ecco come Sir John Maundeville risolve tutte le divergenze: “Andando dalla Scozia o dall’Inghilterra verso Gerusalemme, gli uomini si dirigono sempre verso l’alto, perché la nostra terra si trova nella parte bassa del mondo, in direzione ovest; e la terra del prete Gianni è nella parte bassa del mondo, in direzione est: e loro hanno il giorno quando noi la notte, e, al contrario, loro hanno la notte quando noi abbiamo il giorno; poiché la Terra ed il mare sono di forma rotonda, come ho detto prima, e così come gli uomini vanno all’insù verso una parte, e verso l’altra vanno all’ingiù. Mi avete anche sentito dire che Gerusalemme è al centro del mondo, e questo può essere provato e dimostrato con una lancia confitta nel terreno a mezzogiorno, all’equinozio: essa non getta nessuna ombra da nessuna parte”. La Chiesa greca accetta ancora Gerusalemme come centro del mondo, e nella parte greca del Sacro Sepolcro questo viene oggi ricordato ai turisti increduli. “I Greci”, ha scritto Robert Zouche Curzon, “hanno il coro della chiesa opposto al portale. Questa parte dell’edificio è grande e magnificamente decorata con oro, incisioni e icone dei san83

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ti. Al centro c’è una sfera di marmo nero sopra un piedistallo, sotto la quale, dicono, è stato trovato il teschio di Adamo; e ti dicono anche che questo luogo è il vero centro del globo”. Nella pianta viene mostrato con il segno “IL CENTRO DEL MONDO”.

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CAPITOLO QUINTO

L’albero dei gioielli Oh, l’empio! Alberi d’oro vegetale crescevano ancora innocenti come nei boschi dell’Eden; Oh, l’empio! – si è vantato, benché il cielo avesse nascosto così profondo il malefico metallo, che i rami dovevano crescere e germogliare per lui, che l’arte doveva forzare i fiori ed i frutti a ricreare per lui tutto ciò che era andato perduto in paradiso. E così alla voce di Sheddad qui torreggiava la palma, un tronco d’argento, la fine rete d’oro che cresce libera dai suoi ruvidi rami. In alto come il cedro di montagna, qui crebbero i rami d’oro dalle foglie di smeraldo, fioriti di perle, e ricchi di frutto rubino. Southey, Thalaba

Di tutte le meraviglie del palazzo di Costantinopoli, descritte da Walter Scott in Count Robert of Paris, la meraviglia più grande la desta l’albero d’oro che stava presso il trono, sul quale cantavano uccelli che si muovevano, azionati dall’arte meccanica. Un albero come questo è indispensabile nel palazzo della fiaba. Nell’opera, Gest Hystoriale, che racconta della distruzione di Troia, tradotta nell’inglese del XIV secolo, l’autore fa il suo meglio nel descrivere gli splendori della città e del suo palazzo. Durante una tregua, Ulisse – “era il più fortunato tra i feroci Greci / Ed il più falso nel suo fare e pieno di inganno” – e Diomede visitano il palazzo chiamato Ylion, “edificato tutto di marmo con grande arte muraria”. Si stupiscono del suo splendore e specialmente della grande sala, al centro della quale c’era “un albero che era tutto d’oro vero”. Era più grande di un lauro, alto dodici cubiti; i suoi rami facevano il giro dell’intera sala: alcuni erano d’oro, alcuni d’argento; con le foglie, i germogli e gli 85

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splendidi frutti “che brillavano quanto brillano le pietre scintillanti”. Lydgate, nel Warre of Troy, porta avanti, senza limitarsi, la descrizione di tali desiderabili proprietà, quando dice: Di un albero che stava in quel Mezzo La cui vista, pensavano, facesse loro bene, E si chiedevano se fosse Artificiale, Innalzato o messo per magia naturale, O per l’ingegno dell’artigiano curioso, Mediante arti sottili ora superstizioso, O con altri lavori di Negromanzia O le profonde congetture della Filosofia, Con l’apparenza o l’Illusione, O con la forza di magica azione.

La genealogia di quest’albero deriva probabilmente dal Romance of Alexander, Storia di Alessandro, The Alliterative Romance of Alexander, la Alexandriade. Alessandro, essendosi disputato in India un regno con un sultano, trova nel palazzo conquistato, insieme agli altri tesori, una vite d’oro, con foglie di smeraldo e frutti di altre gemme preziose. Proprio come l’albero descritto da Sir John Maundeville nel suo Of the great Chan of Cathay, of the royalty of his palace, and how he sits at meat. “Dentro il palazzo, nella sala, vi sono ventiquattro pilastri di oro fino; e tutte le pareti sono coperte con rosse pelli di animali chiamati pantere, belle bestie e profumate; così per il dolce odore delle pelli nessuna aria mefitica può entrare nel palazzo. Le pelli sono rosse come il sangue e brillano così tanto alla luce del Sole che un uomo può a fatica fissarle. E molti adorano le pantere quando le scorgono di prima mattina, per la loro grande virtù, e per il loro buon odore… La sala del palazzo è nobilmente appartata, ed è mirabilmente ordinata in tutte le sue parti, piena di tutte le cose con cui ovunque si ornano le sale. Per primo, in testa alla sala c’è il trono imperiale, molto alto, dove l’imperatore siede ai pasti; è di finissime pietre preziose, i bordi sono adorni di oro zecchino, gemme e grandi perle. E i gradini 86

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per salire al tavolo sono di gemme preziose incastonate nell’oro; sul lato sinistro del seggio dell’imperatore c’è quello della prima moglie, posto più in basso di un gradino rispetto a quello dell’imperatore, ed è di diaspro, bordato d’oro e di gemme. Lo scranno della seconda moglie è più basso ancora di quello della prima, ed è di diaspro e ornato d’oro, come l’altro. E lo scranno della terza moglie è ancora più basso di quello della seconda moglie, poiché lui ha sempre tre mogli con sé, ovunque si trovi. Dopo le mogli, sullo stesso lato, e ancora più in basso, siedono le donne della sua dinastia, a seconda del loro rango, e tutte quelle sposate portano sulla testa un copricapo, fatto come un piede umano, della lunghezza d’un cubito, ornato con grandi e fini perle d’Oriente, e fatto, sopra, di piume di pavone e altre piume lucenti; e questo sta sulle loro teste come una cresta, ad indicare che esse giacciono sotto il piede dell’uomo e sono soggette all’uomo. Le donne non sposate non portano tali copricapi”. “E poi, al lato destro dell’imperatore, per primo siede il figlio maggiore, colui che regnerà dopo di lui, in un gradino più in basso rispetto all’imperatore, in linea con le imperatrici, dopo di lui siedono altri grandi signori della dinastia, distanziati di un gradino secondo l’ordine del rango. L’imperatore ha un tavolo per sé solo; è ornato d’oro e di gemme preziose, o di cristallo, con i bordi d’oro e molti gioielli, o di ametiste, o di legno di aloe che viene dal paradiso, o di avorio intarsiato da bordi d’oro zecchino; ciascuna delle mogli ha un tavolo per sé, e così il figlio maggiore e gli altri signori; le dame e tutti coloro che siedono in compagnia dell’imperatore hanno un proprio tavolo per sé riccamente decorato; e sotto il tavolo dell’imperatore stanno seduti quattro attendenti che scrivono tutto quello che lui dice, le cose buone come quelle cattive, perché ogni cosa che egli dice è da considerarsi vera, dato che non può cambiare la sua parola, né ritirarla”. “Alle grandi feste alcuni uomini portano alla tavola dell’imperatore grandi tavoli d’oro, e sopra vi sono pavoni d’oro, e molti uccelli delle diverse specie, tutti d’oro, riccamente lavorati e laccati: e li fanno ballare e cantare, facendo scontrare le ali con gran rumore: e questa, non so se prodotta dall’arte o dalla 87

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negromanzia, è nondimeno una visione da contemplare. Ma non me ne sono meravigliato, perché essi sono i migliori uomini del mondo in tutte le scienze e in tutte le arti. Poiché in raffinatezza, malizia e preveggenza essi superano tutti gli uomini sotto il cielo; e per questo dicono da soli di vedere con due occhi, mentre i cristiani vedono con un occhio solo, perché sono più sottili di loro. Mi sono molto impegnato per imparare quell’arte tecnica, ma il maestro mi ha detto di aver fatto voto al suo dio di non insegnarlo a creatura, ma solo al suo figlio più grande”. “Sulla tavola dell’imperatore e sulle altre tavole e su grande parte della sala, c’è una vite di oro zecchino, rampicante, ed ha molti grani nei grappoli, qualcuno bianco, qualcuno verde, qualcuno giallo, qualcuno rosso e qualcuno nero, tutti di pietre preziose; quelli bianchi sono di cristallo, berillio e iride; quelli gialli di topazio, quelli rossi di rubino, granate, e di basalto di Alboran; quelli verdi di smeraldo, di peridoto e di crisolito, e i neri di onice e di granato. E sono così appropriati nella fattura che sembra una vera vite carica di grappoli naturali”. “E davanti alla tavola dell’imperatore stanno i grandi signori e i ricchi baroni, e gli altri che servono il pasto all’imperatore: e nessuno è tanto audace da dire una parola senza che l’imperatore gli abbia parlato, eccetto i menestrelli che intonano canzoni e raccontano gesta o altre storie per intrattenere l’imperatore. E tutte le stoviglie con cui gli uomini sono serviti nella sala o nelle camere sono di pietre preziose, specialmente sulle grandi tavole, o di diaspro, o di cristallo, o di ametista, o di oro zecchino, e le coppe sono di smeraldi, e zaffiri, o topazi, o di peridoto e di molte altre pietre preziose. Non ci sono stoviglie d’argento perché all’argento essi non attribuiscono valore per farci stoviglie; ma ci fanno gradini e pilastri e pavimenti per le sale e le camere… L’imperatore ha nella sua camera, su uno dei pilastri d’oro, un rubino, come anche un granato, lungo 15 centimetri, che nella notte dà tanta luce e di tale brillantezza che è come la luce del giorno”. Tutto ciò è citato per esteso perché questa è una sala molto bene ammobiliata, “mirabilmente ordinata in tutte le sue parti”, come John dice, e perché è un esempio delle idee architettoni88

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che condivise qui in Inghilterra nel XIV secolo. È stata soltanto la scarsità di risorse che li ha resi contenti con la pietra e la quercia e il vetro; marmo, ebano, e pietra di berillio sarebbero loro piaciuti di più. Ma tutta questa gloria quasi svanisce al confronto con il palazzo imperiale di Costantinopoli sotto gli ultimi imperatori, dei quali si conservano molti racconti di autori coevi. Questo palazzo era così vasto da essere diviso in differenti regioni conosciute con differenti nomi come Chalcia, Daphne, Càthisma. Al centro dell’atrio dell’ultima c’era un grande bacino di bronzo e argento con un vaso d’oro, in certe occasioni riempito di frutta, che “tutto il mondo” poteva prendere. Oltre questo atrio c’era un peristilio fatto dei marmi più preziosi nella forma di un arco e chiamato il Sigma. In mezzo agli appartamenti imperiali vi era il chrysotriclinium; questo, il vero santuario del culto imperiale, era di forma ottagonale coperto da una cupola. Da ognuno degli otto lati si apriva un’abside; quello di fronte all’entrata era chiuso da porte placcate da lastre d’argento. Ai grandi ricevimenti queste porte rimanevano chiuse finché tutti non avessero preso posto; poi, quando tutto era fermo, due ufficiali spingevano all’indietro le valve d’argento, e l’imperatore si appalesava sul suo trono, al cospetto del quale tutti si prostravano. Nell’abside di un’altra camera aveva posto il trono detto “di Salomone”. Era d’oro ornato di gemme preziose e su di esso uccelli meccanici d’oro modulavano canzoni; in cima brillava di una immensa croce tempestata di pietre preziose; attorno c’erano seggi d’oro per la famiglia imperiale. Sulle scale c’erano due leoni d’oro, rampanti, che ruggivano. Là c’erano alberi d’oro sui rami dei quali uccelli di differenti specie imitavano il canto degli uccelli della foresta. Questa descrizione è tratta da Le Palais impérial de Constantinople et ses abords di Jules Labarte. Quasi lo stesso si può trovare in Gibbon, il quale dà una descrizione dell’udienza di Liutprando, vescovo di Cremona, presso l’imperatore: “Quando si è avvicinato al trono, gli uccelli dell’albero d’oro cominciarono a modulare le loro note, che erano accompagnate dai ruggiti dei due leoni d’oro. Con i suoi due compagni Liutprando fu costretto ad inchinarsi e a cadere prostrato; tre volte ha 89

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toccato la terra con la sua fronte. Si è alzato, ma nel breve intervallo il trono era stato sollevato dal pavimento al soffitto da un meccanismo: la figura imperiale appariva in un nuovo e più splendente apparato, e l’udienza si concludeva in un superbo e maestoso silenzio”. Questo palazzo, si dice, era costruito sul modello di quello del califfo di Baghdad, riportato a quella corte da un ambasciatore: ed anche là troveremo l’albero d’oro. Un autore arabo, citato da Gibbon, fornisce la seguente descrizione del ricevimento di una delegazione greca nell’anno 917: “I portieri, o guardiaporte erano settecento. Barche e lance da parata con le più superbe decorazioni si vedevano nuotare sul Tigri, né il palazzo stesso era meno splendido: alle pareti erano appesi trentottomila arazzi, dodicimila e cinquecento dei quali erano di seta ricamata in oro. I tappeti sul pavimento erano ventiduemila. Furono condotti fuori cento leoni, con un guardiano per ogni leone. Fra gli altri spettacoli di un lusso raro e stupendo, vi era un albero d’oro e d’argento che si estendeva in diciotto grandi rami, sui quali, come sui rami più piccoli, stavano poggiati uccelli d’ogni specie, fatti degli stessi metalli preziosi, come le foglie dell’albero. Mentre il meccanismo simulava un movimento spontaneo, i molti uccelli modulavano la loro naturale armonia. Attraverso questa scena di magnificenza l’ambasciatore greco fu condotto dal vizir ai piedi del trono del califfo”. E.W. Lane dice che l’albero veniva fuori da un laghetto sul quale si affacciava il “palazzo dell’albero”. Senza dubbio esso rappresenta la vegetazione del paradiso e probabilmente faceva parte del tesoro preso a Cosroe, perché Baghdad è stata costruita circa cent’anni dopo la conquista. Una leggenda di un re che ha costruito un falso paradiso sembra sempre ricorrere in questa regione dell’Asia occidentale. Qui Marco Polo mette il paradiso del re degli Assassini. L’Oriente è la vera terra per produrre alberi come questo; laggiù, infatti, sembrano prosperare. Si permetta una citazione in cui viene descritto un albero che potrebbe non essere proprio pertinente all’argomento trattato. Il monaco Guillaume de Rubruquis, spedito in missione da san Luigi in Asia centrale alla ri90

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cerca del prete Gianni, scoprì al servizio del Khan dei Tartari un orafo di Parigi che aveva appena fabbricato quello che considerava il suo capolavoro: “Nel palazzo del Khan” racconta Rubruquis “dato che sembrava cosa inadatta portare con sé recipienti di latte e altre bevande, il maestro Guglielmo fece per lui un grande albero d’argento alle radici del quale furono messi quattro leoni d’argento, con un beccuccio da cui usciva puro latte di mucca. Quattro condotti passavano raccolti all’interno del tronco dell’albero fino alla cima, e le cime ricadevano giù; su ognuna c’era un serpente d’oro, la coda attorcigliata al tronco dell’albero; da una di queste cannule scorreva il vino, dall’altra il koumis, il latte di capra, dall’altra ancora il ball, una bevanda fatta con il miele mescolata con un’altra fatta di riso. Tra i condotti, sulla cima dell’albero, stava un angelo con la tromba e sotto l’albero una cavità, nella quale si poteva nascondere un uomo. Una cannula risaliva da questa volta cava, su per l’albero, fino all’angelo. Fece dapprima i mantici, ma non davano vento abbastanza. Fuori dalle mura del palazzo c’era una sala dove venivano portate diverse bevande: alcuni servitori erano pronti a versarle quando avessero udito l’angelo suonare la sua tromba. I rami dell’albero e le foglie dei frutti erano d’argento. Quando, dunque, vogliono bere, il capo dei servitori grida all’angelo di suonare la tromba. Poi, colui che era nascosto nella volta, udendo il segnale, soffia forte nella canna che arriva all’angelo. E l’angelo avvicina la tromba alla bocca e la tromba suona acuta. I servitori, chiusi nella stanza, sentono lo squillo e ciascuno di essi versa la sua bevanda nella sua canna e tutte le canne versano così il loro liquido dall’alto, raccolto, sotto, in vasellame preparato a quello scopo”. Va notato che questi movimenti meccanici erano nella rosa delle arti legittime del Medioevo: infatti, Villard de Honnecourt, un contemporaneo del Rubruquis, descrive come gli angeli potessero chinare la testa nell’udire il santo nome. Nel XVII secolo, Jean Baptiste Tavernier, un altro viaggiatore francese, vide un albero d’oro carico di gemme fatto per il palazzo del Gran Mogol ad Agra, e siccome era un esperto di pietre preziose non vi può essere alcun dubbio sulla sua testimo91

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nianza. In questo palazzo “sul lato che guarda verso il fiume, c’è un diwan, una specie di loggia aggettante dove il re siede per guardare i combattimenti dei suoi elefanti. Prima del diwan c’è una galleria che funge da portico, per decorare il quale ChaJehan ha pensato ad un tralcio, di smeraldi e rubini, che avrebbe riprodotto i chicchi d’uva al naturale, ancora verdi, o quando diventano rossi. Ma quest’idea, che fece tanta impressione nel mondo e che avrebbe richiesto, per essere compiuta, più ricchezze di quante il mondo intero avrebbe mai potuto permettersi, rimase incompiuta; vennero ultimati soltanto tre tronchi di vite d’oro con le loro foglie preparate nella maniera prevista, laccate per riprodurre i colori della natura e con smeraldi, rubini e granati modellati a grappoli”. Troviamo alberi simili nelle raccolte di leggende popolari hindu, come Old Deccan Days; pare infatti che in India si facciano tali alberi anche ai giorni nostri. Sir George Birdwood afferma: “Alberi d’oro massiccio e d’argento che rappresentano il mango o qualsiasi altra specie di albero, e di ogni dimensione, sono decorazioni comuni nelle case hindu. Sono spesso di seta, con piume e fili dorati e sempre richiamano alla mente la vite d’oro, fatta nei tempi antichi dagli orafi di Gerusalemme”. Una di queste viti d’oro di Gerusalemme ornava l’entrata al tempio di Erode. La porta, secondo Flavio Giuseppe, e le mura attorno ad esso, erano tutte coperte di oro. “Le pareti erano ricoperte da viti d’oro con grappoli pendenti a grandezza naturale”. Pare che questo lavoro fosse retto dalle travi della torana, la porta isolata. “E chiunque portasse un’offerta, una foglia, un grappolo, o molti grappoli, li appendeva alla vite”. Decorata così, la Porta dell’alba deve aver superato in splendore qualunque immaginazione, quando il Sole nascente brillava sul prezioso metallo. Un’altra vite del valore di 500 talenti, chiamata Terpole – “la delizia” – fu spedita a Pompei, e sembra che abbia fortemente impressionato il popolo di Roma quando fu portata in trionfo, come è detto da Plinio e da Tacito. Nelle tradizioni medievali ed in quelle orientali esisteva in un qualche luogo il paradiso terrestre, di difficile, ma non im92

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possibile, accesso: in questo luogo prosperavano gli alberi come questo, che ondeggiano i rami nell’aria profumata. Dopo la scoperta dell’America e delle ricchezze del Perù, parve rinascere la speranza di trovare questa terra dell’oro. Persino uomini come Raleigh parevano esser stati mossi dall’illusione: nel suo rapporto sulla scoperta della Guiana, cita, approvandola, la descrizione fornita da uno storico spagnolo delle Indie, Lopez, sulla condizione e sulla magnificenza dell’imperatore a Manoa, che gli Spagnoli chiamano El Dorado. Tutte le stoviglie nelle cucine erano d’oro, e possedeva le immagini di tutti gli animali, uccelli e alberi, nelle dovute proporzioni e dimensioni, tutte d’oro. “Sì, e si diceva che gli Incas avessero un giardino del piacere in un’isola presso Puna, dove andavano per ricrearsi quando volevano prendere aria di mare, dove crescevano fiori, ogni tipo di pianta da giardino, e alberi, d’oro ed argento: una magnifica invenzione mai vista prima”. Questo coincide con le testimonianze degli indigeni sul tempio del Sole e i suoi giardini a Cuzco, dove gli animali, gli insetti e gli alberi erano d’oro. Lo scrive J.F.A. du Pouget de Nadaillac, nei suoi studi sull’America preistorica. Tali giardini, dovunque si trovino, sono imitazioni artificiali del paradiso. Uno dei regnanti al Cairo, il figlio di Ibn-Tulun al quale succedette nel 883, sembra aver voluto rivaleggiare con il giardino delle delizie, con un paradiso “pieno di gigli, garofani, zafferano; con palme ed alberi di ogni tipo, i tronchi dei quali aveva rivestito di rame dorato, e dietro le lastre di rame cannule di piombo rifornivano fontane che zampillando portavano acqua al giardino. Pavoni, faraone, colombe e piccioni, e uccelli rari dalla Nubia, avevano casa in quel giardino e nella voliera. C’era anche un serraglio e in specie un leone dagli occhi azzurri che si accovacciava al fianco del suo padrone quando sedeva a tavola, e gli faceva la guardia mentre dormiva. Ma la meraviglia principale deve ancora essere descritta. Era un lago di argento vivo: sulla superficie di questo lago è adagiato un letto di pelle riempito d’aria, fissato agli angoli con nastri di seta a quattro sostegni d’argento: qui in solitudine il sovrano insonne riusciva a riposarsi”. È da una Storia dell’Egitto nel Medioevo, di S. Lane-Poole. 93

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Ricordiamo il giardino nel quale Aladino raccolse dagli alberi le pietre preziose di cui erano carichi, grandi e perfette come non mai nel mondo. Per i musulmani questo giardino esiste tuttora, ma celato agli occhi umani. Si diceva che Sheddad, il terzo o il quarto discendente da Noè, costruì, a “Irim dalle molte colonne”, un palazzo, e vi incluse un giardino ad imitazione del paradiso. Southey così scrive in margine al suo poema, Thalaba: “Avendo scelto un luogo piacevole e in posizione elevata, Sheddad mandò un dispaccio a cento capi perché mettessero insieme artisti dotati e artigiani da tutti i paesi. Ordinò anche ai monarchi della Siria e di Ormuz di mandargli tutti i loro gioielli e le loro pietre preziose. Il carico, oro, argento, e gemme, di quaranta cammelli, era ogni giorno impiegato nella costruzione, che conteneva mille spazi in molte migliaia di stanze. Nella zona c’erano alberi artificiali d’oro e d’argento, le cui foglie erano smeraldi ed i cui frutti erano grappoli di gioielli e di perle. Il terreno era cosparso di ambra grigia, muschio e zafferano. Ogni due alberi artificiali era piantato un albero dai frutti deliziosi. Questa dimora romantica ha richiesto cinquecento anni per essere completata. Una volta finita, Sheddad si mise in marcia per vederla. Quando arrivò nelle vicinanze, divise i duecentomila giovani schiavi che aveva portato con sé da Damasco in quattro distaccamenti, acquartierati in zone preparate per il loro arrivo ai lati del giardino verso il quale si avvicinava assieme ai cortigiani favoriti. D’improvviso si udì nell’aria una voce di tuono, e Sheddad, guardando in alto, vide un personaggio, dalla figura maestosa e dall’aspetto severo, che disse: ‘Sono l’angelo della morte, incaricato di prendere la tua anima impura’. Sheddad esclamò: ‘Concedimi l’agio di entrare nel giardino’, e stava scendendo da cavallo quando il ghermitore della vita strappò via il suo spirito impuro, e lui cadde morto sul terreno. Nello stesso momento, potenti lampi distrussero l’intera armata dell’infedele, e il giardino di rose di Irim divenne celato alla vista dell’uomo”. Di alberi d’oro del paradiso se ne possono trovare ancora oggi. Lady Dufferin ci dice come il colossale stupa placcato d’oro di Rangoon si stagli da una piattaforma rialzata; tutto attorno c’è una cerchia di piccoli stupa: “fuori da questa cerchia vi è un 94

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filare di alberi d’oro carichi di frutti di cristallo”. Il tutto simboleggia la montagna celeste degli dèi. Quinto Curzio, nella Storia di Alessandro, descrive la condizione e lo splendore del monarca indiano Musicanus, “Viti d’oro si arrampicavano attorno alle colonne d’argento del palazzo, e tra i rami furono disposti dal curioso artefice uccelli artificiali d’argento, ad imitazione di quelli più ammirati in India”. Lo scrive il Maurice. I Greci hanno parlato di un albero d’oro fatto a mano; e di Teodoro di Samo, l’artista mitico, cui si attribuisce la prima statua in stampo di bronzo. Erodoto dice che un lidio dall’enorme ricchezza recò in dono a Dario una vite d’oro ed un platano. Ateneo descrive la vite con grani di gioiello in forma e colore di grappoli, il tutto disposto come un ricco baldacchino sopra il letto d’oro di quel monarca. Filostrato dice che Apollonio vide l’ulivo d’oro, i cui frutti erano olive rappresentate da smeraldi, donato da Pigmalione, re di Tiro, al tempio fenicio di Ercole di Gades. In fin dei conti, questi grandi artifici sono “lavoro delle fate” o degli immortali dèi-artigiani. Efesto, che forgiò lo scudo di Achille nella forma del mondo, che fuse i cani d’oro e d’argento, guardiani della soglia per il portale a Occidente del palazzo di Alcinoo, fece anche un simile albero. “Zeus dopo aver rapito Ganimede per farne il suo coppiere, fece ammenda con la famiglia reale di Troia, con il dono di una vite d’oro modellata da Efesto”. Lo scrive Andrew Lang in Myth, Ritual and Religion. È sottile il passaggio da un albero fatto con arte soprannaturale ad un albero d’oro “naturale”; così era l’albero da cui Enea ha dovuto staccare il ramo prima di poter affrontare gli inferi. Un ramo sacro alla Stigia Giunone, Le cui foglie e i cui rami sono di tenero oro: Nessuno può entrare nel regno sotterraneo Se non chi prima abbia colto la foglia d’oro.

Uno storico indiano, citato da Orme, dice che Mahmud di Gazna, nel corso delle sue conquiste, trovò un albero che cre95

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sceva dalla terra fino ad una misura enorme, la cui sostanza era l’oro puro; questa sembra essere la versione orientale dell’episodio riportato qui sotto dalla Storia di Alessandro, dove l’albero predice la sua morte. Anche nelle storie greche abbiamo alberi che portano frutti o fiori d’oro connessi con la terra del beato Occidente, come in Pindaro: “dove è l’isola / dei felici, nell’alito del mare. / Ardono fiori d’oro / in piante luminose”, oppure in Esiodo: “Le Esperidi che, al di là dell’inclito Oceano, dei pomi aurei e belli hanno cura”. E così come Ercole entra in questo giardino, l’eroe di Babilonia, Gilgamesh, nei suoi pellegrinaggi oltre le Porte del Sole, vede un albero che: Alle foreste degli alberi degli dèi, in apparenza Era uguale, Portava smeraldi come frutti, Il ramo non rifiuta di sostenere un tabernacolo, Il germoglio è di cristallo, Il carico dei frutti gli occhi abbaglia.

Il conte d’Alviella, in un articolo esaustivo, Les Arbres Paradiseaques, parla di questa idea: un “albero celeste carico, come frutti, dei pianeti, delle stelle e di tutte le gemme del cielo”. Il fuoco ed il tuono venivano prodotti tra i suoi rami che offuscano il cielo, e fanno colare l’ambrosia celeste. Il professor Sayce e Lenormant concordano su questo modo di vedere. Il frutto di quest’albero, afferma Lenormant, è fuoco. Difficile dubitare che questo non sia lo stesso albero i cui molti rami abbiamo seguito fino ad un ceppo comune. L’albero d’oro carico di gemme è la crescita naturale delle tradizioni di quell’albero del mondo che tutto abbraccia, e che porta come frutti le stelle nel buio paradiso della notte. Il dottor Terrien de Lacouperie ha anche dedicato uno studio speciale a quest’albero cosmico. Lo vede rappresentato nel pilastro di Tat in Egitto, come nell’albero carico di stelle degli Hindu e degli Iraniani, nell’albero calendario della Cina, e in molti altri. Una simile immagine è espressa in chiara semplicità nel Kalevala, dove Wainamoinen: 96

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cantò lassù un meraviglioso pino finché bucò le nuvole crescendo, con la sua cima d’oro e i rami, finché toccò davvero il cielo, spinse i rami nell’etere; canta alla Luna perché brilli in eterno; sull’abete rami di smeraldo, nella sua cima egli canta l’Orsa maggiore.

L’orso era nella culla e l’albero stava in cima alla collina d’oro; e, come nella nostra canzone per bambini, I venti e i sacri rami lo cullano nel suo lungo sogno, nella gioia del cacciatore.

Sir William Drummond dice dell’albero dei cabalisti: “Benché chiamato albero, era una specie di sistema del mondo, e nell’Edipo degli ebrei un albero da frutto era certamente un simbolo del cielo stellato e i frutti erano emblema delle costellazioni. Gli Arabi rappresentano lo zodiaco con un albero, e sui dodici rami di esso le stelle sono raffigurate come frutti. I cabalisti rappresentano l’albero della vita segnato dagli emblemi dello zodiaco, carico di dodici frutti”, eccetera, e conclude: “Difficilmente potremmo dubitare che gli alberi, e specialmente quelli da frutta, non fossero i simboli del cielo stellato”. Questo dice il Landseer. E tutto ciò, possiamo ben dirlo, diventa una certezza quando gli alberi sono d’oro e recano gemme come frutti. I pianeti venivano messi in relazione con le pietre preziose, come è mostrato nel prossimo capitolo. Quanto sia adeguato il paragone tra la gemma e la stella è da subito chiaro al bambino: “come un diamante nel cielo”. È interessante qui ricordare che si consideravano oro e pietre preziose come risplendenti di luce propria: i palazzi omerici emanano la radianza del bagliore lunare; e il palazzo di Cupido in Apuleio era rivestito d’oro e “anche se il Sole era parco di luce il palazzo da sé faceva il giorno”. Le colonne d’oro e gli smeraldi che Erodoto vide a Tiro ri97

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splendevano di luce propria, e la corona imperiale appesa sul trono a Costantinopoli, vista da Benjamin di Tudela, illuminava tutta la stanza con il suo bagliore. Il ben disegnato palazzo delle fiabe è sempre illuminato, come quello del prete Gianni, da un grosso rubino su ogni timpano all’esterno; e all’interno, come nel racconto popolare Childe Rowland, un enorme rubino pendeva dalla cupola “girando in continuazione, e questo è quel che dava luce coi suoi raggi all’intera sala”. Molte strade ci portano all’unico albero carico di gemme; si potrebbe dire che i suoi rami si stendano su tutta la Terra. La storia di Giasone e del vello d’oro è molto vicina a quella di Teseo: l’immane compito, l’aiuto della principessa, il viaggio e la separazione. Ma gli avvenimenti si svolgono nell’emisfero nordico dei cieli e non nel mondo sotterraneo del polo sud. Il tesoro d’oro è custodito da un serpente, senza dubbio il drago delle nubi e delle tenebre, che soffia attorno a quell’albero, il cui tronco è l’asse della rotazione dei cieli, proprio come il dragone cinge il polo. L’albero dal frutto d’oro delle Esperidi cresce sul monte Atlante, la vetta che regge il cielo, nella regione “oltre il vento del Nord”, dove era custodito dal drago Ladon. Sembra che questo abbia causato qualche confusione riguardo alla localizzazione del monte Atlante, sul quale si era poi convenuto che stesse ad ovest: è possibile che la complicazione venga dalla considerazione comune che la terra dei defunti fosse posta all’ovest, con il tramonto, ma pur sempre sulla montagna del mondo. In altri racconti, la montagna del paradiso è a nord-est, o persino ad est, probabilmente una conseguenza della migrazione dei popoli verso Occidente, dopo che il significato del polo era stato dimenticato. Nel Talmud, ad esempio, si dice che il Sole sia rosso ad Oriente a causa delle rose dell’Eden e che brilli di sera a causa dei fuochi dell’inferno. Come il monte Atlante, sul monte Meru dell’India c’era l’albero Parajita, i cui fiori profumavano tutto il mondo; e l’India è chiamata Jambu-dwipa, la terra delle infiorescenze di mirto, da questo albero che cresce al suo centro. La sua posizione terrestre era celata tra le vette dell’Himalaya, “le montagne del cie98

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lo”. Nei Veda è il celeste albero del Soma dal quale cola il nettare per gli dèi. Nell’Avesta dei Persiani i dettagli sono amplificati, ma la scena – il mondo, la montagna del paradiso – e l’albero sono la stessa cosa. “Haoma dai fiori d’oro che cresce sulle alture, Haoma che ci risana, che allontana la morte”. C’è un altro albero, sui cui rami sono appollaiati due uccelli. Questi mitici uccelli – “le due aquile del cielo, Amru e Chamru – sono invocati come potenze protettrici. Il loro nido è sull’albero della vita, nei cieli”. Sulla vetta più alta cresce Haoma, dal mare delle acque celesti prospera l’altro albero, che reca tutti i semi. “Quando Amru si posa su quest’albero, cadono i semi, e Chamru li porta via”: essi cadono, con la pioggia, sulla Terra. Gli alberi della Terra, dunque, come le acque, giungono a noi dal paradiso centrale, dove tutta la vita ha avuto origine. È nella Storia dell’antichità, di Maximilian Wolfgang Duncker. Simurgh, nell’opera del persiano Firdausi, è l’equivalente moderno dell’uccello dell’albero della vita. Il nordico frassino del mondo, alto seggio degli dèi e sostegno del cielo, reca, come frutti, le stelle; attorno al tronco si avvolgeva il serpente Nidhogg e sul ramo più alto l’aquila cantava di creazione e distruzione. Quest’albero era la dimora adatta per un simile uccello, conosciuto nelle antiche favole con diversi nomi: e così, nelle Storie dell’Oriente, il Garuda si posa sopra un albero meraviglioso, dal quale si lancia in volo per afferrare con i suoi artigli il rinoceronte o l’elefante e portarli via. Nelle antiche storie del Giappone si racconta di un grande pino di metallo che cresce al Nord, al centro del mondo. I nostri antenati sassoni raccontavano di Irminsul, la colonna del cielo, il “polo” nel suo doppio significato: pole è “polo” e “palo”. L’albero dalle mele d’oro compare spesso nelle leggende popolari, di solito in relazione con una visita all’altro mondo. In una leggenda boema un immenso albero cresce oltre le nuvole. Una principessa desidera averne il frutto. Hans, il figlio più giovane di un contadino – l’equivalente maschile di Cenerentola, fatto oggetto di scherno ma fortunato nelle sue imprese –, dopo che tutti hanno fallito, tenta l’impresa. Comincia portando con sé molti zoccoli di legno, e ogni giorno ne lascia cadere uno. Dopo essersi ar99

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rampicato per qualche giorno scorge il bagliore di una luce; è la casa di una donna molto anziana. Hans le chiede quanto manca alla cima ed ella risponde: “Tu hai ancora tanta strada da fare, io sono solo lunedì. Devi arrivare al martedì, al mercoledì e così via fino al sabato”. Nel suo lungo viaggio verso l’alto uno dopo l’altro tutti questi giorni passano. Dopo aver lasciato il sabato, arriva a un muro di pietra dentro il quale è cresciuto il tronco dell’albero. Passa attraverso una piccola porta, e in un prato d’oro c’è una città d’oro, di uno splendore insopportabile per l’occhio umano. Creature d’oro saltellavano nei pascoli e i frutti dell’albero erano tutti d’oro. “Hans credette di essere in paradiso e si fermò là. Altri dicono che tornò sulla Terra e raccontò questa storia”. Lunedì, martedì e gli altri giorni occupano le sfere planetarie; il muro è il firmamento. C’è una notevole concordanza in queste leggende greche, babilonesi, hindu, nordiche e finniche sulla montagna del mondo. Si ergeva al polo nord, “nella terra degli Iperborei”, era d’oro e pietre preziose, o di cristallo, come le montagne di vetro a forma di cupola delle fiabe popolari. Sulla sua cima cresce il grande albero dei Cieli, il cui tronco ed i cui rami d’oro portano stelle di pietre preziose come frutta e sul suo punto più alto si posa la Fenice del Sole. Qui è il paradiso terrestre, il giardino del Sole, come è perfettamente compreso nei seguenti estratti dalla Storia di Alessandro, e in quelli di Sir John Maundeville e di Dante. In India, Alessandro e la sua armata vennero da due vie, una da Occidente e una da nord; provano verso est, ma non si passa, e tornano indietro, e provano l’altra strada a nord; passando da lì, alla fine raggiungono un dirupo coperto di diamanti, con catene sospese di oro rosso. C’erano 2500 gradini che loro ascendono, e raggiungono le nuvole e “attendono meraviglie”. Vedono “un palazzo, uno dei più preziosi e gloriosi sulla terra, e costruito, come dice il libro, con due grandi portali e settanta finestre, d’oro, cesellate, e coperte di gemme”. C’era un tempio circondato da un giardino di viti d’oro pieno di grandi frutti di rubino; era la “casa del Sole” ed il paradiso. Alessandro entra e su un lussuoso letto trova un dio, che gli 100

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chiede se vuole conoscere il suo futuro, interrogando gli alberi del Sole e della Luna; al suo assenso, si avvicinano ai due enormi alberi, quello della Luna era d’argento; l’albero del Sole era d’oro, e sulla sua cima era posato “un fiero uccello”: “tutto adornato era il suo collo di piume d’oro”. “Quello è un uccello senza paura, una Fenice lo chiamiamo”. Viene predetto che Alessandro non avrebbe mai fatto ritorno. “Del paradiso”, afferma John Maundeville, “non posso parlare in modo appropriato, poiché non sono stato là. È molto oltre, e su questo ho pensato tanto; e inoltre non ne ero degno. Ma dato che ho sentito parlare di uomini saggi che dimorano lassù, ve ne parlerò volentieri. Il paradiso terrestre, come dicono i sapienti, è il luogo più alto del mondo sulla Terra; è così in alto che tocca quasi l’orbita della Luna mentre la Luna fa il suo giro”. Là è anche il pozzo del paradiso, e tante pietre preziose, molto legno di aloe, e molta ghiaia d’oro. Nel sistema di Dante, sul punto che ha come zenit il nostro paradiso del Nord sta Gerusalemme; agli antipodi di questo punto vi è il monte Purgatorio, che si eleva dai mari dell’emisfero Sud, dato che la Terra si è raccolta attorno alla montagna lasciando il mare intorno. Il monte ha la forma della piramide a gradoni di Babilonia, a sette piani; la cima è il paradiso terrestre, e da qui Dante raggiunge il cerchio della Luna. Quelli che anticamente poetaro l’Età dell’oro e suo stato felice, forse in Parnaso esto loco sognaro. Qui fu innocente l’umana radice; qui primavera sempre e ogne frutto; nettare è questo di che ciascun dice.

Tale era il benvenuto a Beatrice, e poi vede Poco più oltre, sette alberi d’oro […] ma quand’i fui sì presso di lor fatto, […] 101

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la virtù ch’a ragion discorso ammanna, sì com’elli eran candelabri apprese.

È così, come portatore di luce, un candelabro, che l’albero artificiale potrebbe al meglio adempiere ad una funzione simbolica, proprio nel rappresentare il grande e misterioso albero, la cui chioma a cupola dà forma al firmamento e porta come frutti le stelle che danno la luce; è un simbolismo che sembriamo perpetuare ogni volta che, anno dopo anno, al solstizio d’inverno, accendiamo le candele sull’albero di Natale. In Oriente, dove la tradizione “dura a lungo, e non vuole morire”, la luce è diffusa proprio per mezzo di un albero-lampada. “Nella collezione del principe di Galles c’è un notevole candelabro in argento dorato proveniente da Shrinagar dalla forma di un normale albero, tutto decorato a mezzelune, con lampade a olio, e con dei pesci appesi; il suo disegno deriva evidentemente, passando dalla Persia, da un originale turcomanno. I candelabri visti nei templi hindu assumono costantemente questa forma di albero, senza aggiungervi i simboli del cielo e dell’etere”. E non solo nei templi; “L’alto albero di bronzo, come i candelabri, con un certo numero di rami che portano piccole lampade riempite d’olio, ognuna con il suo stoppino, sono un’importante caratteristica delle grandi case di Lahore”. È nell’opera di Sir George Christopher Molesworth Birdwood, The Industrial Arts of India. Nel Museo dell’India a South Kensington vi sono alcune di queste lampade-albero, una delle quali, qui raffigurata, è di grande raffinatezza nel disegno; non ha, invero, moltissime foglie, ma le scimmie si arrampicano tra i rami. In un altro esemplare i lumi ad olio hanno forma di uccelli. I classici candelabri di bronzo che riempiono i nostri musei seguono, in maniera quasi universale, la stessa idea, attraverso molte modificazioni del disegno. A volte, quando vi è solo un tronco, esso reca tracce di rami recisi, o fogliame disposto a intervalli, oppure la sommità sta su una forcella di tre rami tagliati. Altri ancora, perfettamente disadorni, hanno sul tronco un animale che dà la caccia a un uc102

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cello; ed altri, che abbiano o meno una precisa forma d’albero, che altre volte è chiaramente definita, hanno un serpente avvolto al tronco. Esempi di tutti questi oggetti sono al British Museum; e questi, studiati a due o tre per volta, dimostrano di essere tipi, e non casi accidentali. Vicino a questi candelabri c’è un Ercole di bronzo presso l’albero delle Esperidi, il serpente guardiano è avvolto attorno al tronco, esattamente come il serpente 103

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sui candelieri. Difficile dubitare che quest’albero di bronzo, i rami del quale portavano lampade sospese, sia un candelabro. Un albero-candelabro rinvenuto a Pompei ha lampade sospese a forma di chiocciola. Questi candelabri classici, dovunque siano stati trovati, in Etruria, o in Grecia o nel Sud dell’Italia, hanno questa forma di albero. Dei candelabri etruschi ha scritto il signor George P. Dennis: “I fusti sono spesso scanalati, o contorti, o nodosi come il tronco di un albero. Uno dei gesti preziosi più frequenti era di mettervi dentro un gatto o uno scoiattolo che danno la caccia ad un uccello su per il tronco. La lampada più in alto spesso ha tutt’intorno dei piccoli uccelli, come fosse un nido, così l’insieme intende proprio rappresentare un albero. A volte un fanciullo, o una scimmietta, si arrampica sul tronco, oppure un serpente avvolge lo stelo. Spesso il candelabro non finisce in cima con una coppa per l’olio, ma con alcuni rami, ai quali i lumi venivano appesi”. Il Dizionario del dottor Smith riporta una storia simile sugli esempi greci. La tradizione permane persino nei candelabri di marmo tardoromani.

Di solito queste lampade hanno dappertutto sette becchi, il numero dei pianeti, come nell’esemplare romano del British Museum: questa divenne una forma molto diffusa, e ancor oggi 104

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sette lampade ardono davanti all’altare di molte chiese. Possiamo anche, mentre parliamo del simbolismo della luce, notare che le corone di luce appese alle chiese cristiane, fra le quali la corona di Hildesheim è un finissimo esempio, erano viste come il simbolo della Nuova Gerusalemme con le sue dodici porte turrite. William Morris, con fine introspezione, fa della lampada solitaria della House of the Wolfings un “Sole della sala”. Che queste dovessero essere tutte fiamme perenni fa certamente parte dell’essenza del simbolismo. E nemmeno possiamo dimenticare il candeliere a sette braccia del tempio: è d’oro, ornato “con boccioli e fiori”; le sette lampade simboleggiano, secondo Flavio Giuseppe, i sette pianeti. Sembra che nel Medioevo si pensasse fosse un albero, poiché in un poema del XIV secolo sulla storia biblica fa librare gli uccelli tra le foglie quando il tesoro d’oro di Gerusalemme viene esibito durante la celebrazione in Babilonia. Il signor Robertson Smith vede nel candeliere un albero simbolico, il cui motivo è tratto dal mandorlo. 105

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Dopo l’albero-candelabro ebraico veniva quello dei cristiani. La descrizione di Durham si riferisce ad un grande candeliere pasquale, che si innalzava fino all’alta volta, grande quasi come il coro sottostante, con sette rami a forma di fiore per i ceri. Grandi candelabri a sette braccia sono molto frequenti: quelli di Hildesheim e di Vienna sono conosciuti meglio, per via dei calchi del Museo di South Kensington; quello di Vienna è chiamato “albero della Vergine”. Nel Dizionario di Archeologia del signor Walcott viene dimostrato che tutte le chiese importanti avevano un candeliere a sette braccia, e che “in alcune chiese vi erano magnifici gruppi di rami messi insieme e chiamati Albero”. In Santa Sofia, così come era stata completata da Giustiniano, erano stati messi molti candelabri in forma di albero: l’effetto d’insieme era “come un bosco”. A Delfi c’era una palma in bronzo sormontata da una statua dorata di Atena, su di essa vi erano civette e imitazioni di frutti. Anche Plutarco descrive, nello stesso tempio, una palma sacra di bronzo con rane in rilievo attorno alla base. Quasi certamente erano alberi per lampade. Gerald Massey cita la descrizione di un tempio in Cambogia dove un albero di bronzo, attorno al quale era avvolto un serpente, veniva fuori da una vasca d’acqua. Dice Ateneo: “Euforione nei suoi commentari storici dice che il giovane Dionisio, tiranno di Sicilia, diede in offerta al pritaneo di Taranto un candeliere capace di tenere tante candele quanti sono i giorni dell’anno”. Come un albero dai molti rami, esso stava appeso sopra il sacro focolare della tholos, che è come il cielo. Pausania descrive la luce di fronte alla statua di Atena nell’Eretteo: “E Callimaco fece una lampada d’oro per la dea. E quando questa lampada viene riempita d’olio, dura un anno intero, anche se brucia continuamente la notte e il giorno, e lo stoppino è fatto con una particolare fibra, fra lino e cotone, l’unica che il fuoco non consumi; e sopra la lampada c’è una palma di bronzo, che raggiunge il tetto e fa uscire il fumo; e Callimaco, l’artefice di questa lampada, sebbene venga dopo i primi artefici, era comunque notevole per ingegnosità, e prese il nome 106

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di Critico dell’Arte, che il nome se lo sia dato da solo o che gli sia stato dato da altri”. Da Plinio è evidente quanto questo non sia un isolato capriccio artistico: era convenuto che i templi dovessero essere illuminati con alberi carichi di lampade, come i frutti d’oro dei cieli. I candelabri, lychnuchi pensiles, afferma, erano messi nei templi, o davano luce nella forma di alberi carichi di frutta; uno di questi, ad esempio, è nel tempio di Apollo palatino, che Alessandro il Grande, dopo il sacco di Tebe, portò a Cuma, e consacrò a quel dio. Un esempio, questo, di sapienza artistica greca, di considerevole, e forse remota, antichità. Su una lastra, scoperta di recente a Roma, e che mostra un santuario di Mitra, su ogni lato vi sono alberi: uno di essi porta una figura in rilievo del Sole con un’aureola, l’altro la Luna con la falce. È abbastanza curioso che vi sia una rappresentazione simile in un mosaico in San Marco a Venezia; vi sono effigiati due alti pilastri, ognuno dei quali fa da base ad una biga con i cavalli; in una si trova Febo, nell’altra Diana con la Luna crescente; su di esse è scritto “Stata Solis”, e “Stata Lunae”, una concezione pressoché identica a quella trovata migliaia di anni prima sui sigilli babilonesi. Il dottor Isaac Taylor dice che il primitivo simbolo cinese della luce era il Sole su un albero. Nelle processioni religiose giapponesi, immagini del Sole e della Luna vengono inalberate e trasportate. Gli alberi sacri della Grecia, il lauro di Apollo a Delo, l’olivo di Atena sull’Eretteo e la quercia di Dodona forse appartenevano ad un primitivo culto degli alberi, un argomento trattato per esteso del signor James G. Frazer nel Ramo d’oro. Duncker vide comunque in Dodona un’altra localizzazione del paradiso, con la sua montagna, l’albero, e l’acqua dei cieli. Le pietre scolpite e i gioielli dell’Assiria ci mostrano, ripetuto e diverso, l’albero sacro del cielo; la rappresentazione integrale ha l’albero nel mezzo, con, sopra, il disco alato del Sole di Asshur, e su entrambi i lati gli spiriti guardiani della soglia. È carico di frutti ed è chiamato “l’albero raggiante”, o “l’albero della grande luce”. Non ci sono dubbi che la sua immagine fosse allestita nei templi; poiché un rilievo del Louvre, riprodotto dal Perrot, mostra il re in piedi di fronte ad un albero di costruzio107

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ne artificiale; tale era anche “l’immagine scolpita del bosco” che il re apostata di Israele pose nel tempio [2, I Re, XXI, 7]. La stessa immagine compare negli arredi del tempio portati in processione. Era un albero di metallo disegnato con ingegno, di grande splendore: i frutti di quello mostrato nella bella tavola del Perrot erano senza dubbio gioielli. È stato spiegato, da A.H. Layard ed altri autori, come il numero sette entri nella loro composizione. In Assiria, in un’epoca remota e sconosciuta, fu forse allestita nel tempio, per la prima volta, la copia dell’albero d’oro del cielo, carico di gemme. In Egitto, comunque, incontriamo anche la leggenda del prototipo celeste, e non riusciamo a spingere il nostro sguardo più indietro nel passato. Nut, la dea dell’oceano celeste, il cui corpo è decorato di stelle, ha dimora nel nostro albero; il pellegrino del mondo sotterraneo si nutre dei suoi frutti, e la dea, protendendosi dall’albero, versa l’acqua della vita. Questo avveniva a Occidente, sulla strada percorsa dai morti. Ad Oriente c’era un altro albero con rami irradianti e aperti, carichi di gemme; su di esso il forte Sole del mattino, Horus, il primo uccisore di giganti, si arrampica allo zenit dei cieli: “I bellissimi bagliori verdi dell’orizzonte all’alba e al tramonto sono rappresentati nella mitologia dal ‘sicomoro di smeraldo’; attraverso il suo centro il dio Sole avanza nel firmamento”. È il Renouf, nella sua Hibbert Lecture.

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CAPITOLO SESTO

Le sfere planetarie E dopo gli si mostrarono le nove sfere E dopo che sentì la melodia Questa cometa delle Esperidi tre volte tre Questa beatitudine creava musica e melodia In questo mondo qui e causa di armonia. Geoffrey Chaucer

Il numero sette è scritto nel cielo. In quale tempo i sette pianeti siano stati contati e individuati è oltre ogni storia; probabilmente, persino oggi, nemmeno due persone su cento indicano altri pianeti oltre Venere; e probabilmente nemmeno due su mille hanno visto Mercurio, e di certo non senza un telescopio; eppure troviamo tutti i pianeti, distinti per nome e raggruppati insieme come corpi erranti tra le stelle fisse, nelle prime tradizioni: 1) il Sole; 2) la Luna; 3) Marte; 4) Mercurio; 5) Giove; 6) Venere; 7) Saturno. La prima ad essere conosciuta e nominata tra tutte le costellazioni è forse l’Orsa maggiore, sempre visibile sopra l’orizzonte; “non ha parte nei lavacri dell’oceano”, come ne dice Omero, è fatta da un gruppo di sette stelle. L’Orsa minore ha la stessa forma, che si ripete una terza volta con il grande quadrato di Pegaso, e le tre stelle brillanti di Andromeda e Perseo. Sette sono anche le simmetriche e splendide stelle di Orione. In Francia, le Pleiadi sono ancora dette “le sette stelle” e il nord è chiamato Septentrion, dalle stelle dell’Orsa maggiore. I pianeti han dato i loro nomi ai giorni della settimana, che ancora li contraddistinguono in tutto il mondo dalla Francia alla Cina, ma i loro nomi nordici ce ne oscurano il significato. I sette giorni della settimana rappresentano il numero intero più vicino alla quarta parte del mese, un quarto di Luna. I due giorni che completano il mese di trenta giorni erano, in Assiria, intercalati. Immensa è stata l’influenza di questo numero magico nella filosofia, sia in quella pratica che nella metafisica. La vita del109

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l’uomo venne divisa in sette età. I primi sette sono gli anni dell’infanzia. A tre volte sette, ventuno, arriviamo alla “maggiore età”. Tre volte ventuno è il “grande climaterio”, e a 70 anni, si conviene, è tempo di morire. Così la vita del mondo era stata, nelle storie del Medioevo, divisa in sette epoche, e noi siamo nell’ultima. C’erano sette cieli materiali; questo mondo di mezzo era diviso in altrettante zone o “climi”, e il mondo sotterraneo in altrettanti abissi. Nella filosofia scolastica ogni fattore dell’universo presentava una suddivisione in sette elementi. Nel Cursor Mundi si nota che vi sono sette orifizi nella testa, “perché di stelle maestre ve ne sono sette”. Tanto presente è stata la natura di questo numero, che quando vi siano gruppi, di qualsiasi cosa, dai quattro elementi fino alla dozzina, diciamo, essi sono quasi sicuramente le “sette sorelle” o i “sette fratelli”: Sevenoaks, i sette colli di Roma, o quelli di Costantinopoli, le sette città sante dell’India, o, in architettura, le sette meraviglie del mondo. John Ruskin ci dice di aver incontrato grandi difficoltà nel limitare le sue “sette lampade”, per far sì che non diventassero otto o nove. I sette pianeti hanno avuto una potente influenza sull’architettura e sulle arti. Il Sole, la Luna e gli altri cinque pianeti non venivano soltanto visti ruotare autonomamente rispetto alla “sfera” delle stelle fisse, ma il moto di ciascuno era anche esso autonomo, nei diversi periodi. Dato che l’intero cielo delle “stelle fisse” era un “firmamento” solido e tempestato di stelle che ruotano attorno a un perno: la montagna della Terra; così, via via che il sistema veniva perfezionato, dovevano essere immaginate altre sfere trasparenti, una per ogni pianeta, che trasportassero il cielo, nel tempo dovuto. La celeste montagna degli dèi è così o interamente celeste – il lato esterno del nostro firmamento, e tutti e sette i successivi cieli disposti a cupola – oppure è la montagna centrale di questo mondo più basso, il pilastro o colonna dei cieli, diviso in sette livelli, uno per ogni sfera planetaria. È praticamente impossibile tenere queste due nozioni separate, e dire cosa sia l’Olimpo, una montagna a gradoni che sostiene i cieli, oppure lo stesso cielo ripartito in sette regioni. Il 110

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dottor H.J. Rink, parlando degli Eschimesi, dice: “il mondo superiore, sembra, può essere considerato identico alla montagna, attorno alla cui cima la volta del cielo sta girando in eterno…”. L’Olimpo, per i Greci, aveva molte vette o molti strati, come lo strato-senza-strato dell’iraniana montagna delle stelle. Con l’aggiunta di una sfera per le stelle fisse e di un involucro esterno immobile, i sette diventano nove cieli. Nei Veda ci sono sette cieli. “Nella cosmogonia hindu”, scrive Sir George Christopher Molesworth Birdwood, “il mondo è paragonato ad un fiore di loto che galleggia al centro di un vassoio circolare e poco profondo; lo stelo è un elefante, il basamento una tartaruga. I sette petali del fiore di loto rappresentano le sette parti del mondo, come sapevano gli antichi Hindu, e il ricettacolo piatto rappresenta il monte Meru, l’Himalaya ideale, che suona come Himmel, l’Olimpo indiano. Vi si ascende da sette speroni di roccia, sui quali sono costruite sette distinte città e sette palazzi degli dèi, fra boschi verdi e corsi d’acqua mormoranti, in sette cerchi, posti l’uno sopra l’altro”. Qui vi sono un albero che profuma l’intero mondo con i suoi fiori, un carro di lapislazzuli, un trono d’oro fiammeggiante; “e sopra ogni cosa, sulla cima del Meru, c’è Brahmapura, la città incantata di Brahma, circondata dalle sorgenti del sacro Gange, e le orbite fisse nelle quali per sempre brillano il Sole e la Luna d’argento, e le sette sfere planetarie”. Gli antichi poemi giapponesi tradotti dal signor B. Hall Chamberlain parlano di una montagna all’“acme della Terra o all’onfalo, che si ergeva fino ai cieli; sulla cima c’era una splendida dimora”. Il modo moderno di vedere in Siam è simile. Il signor Carl Bock scrive: “Per la gente del Laos il centro del mondo è il monte Zinnalo, che è a metà sommerso nell’acqua, con l’altra metà fuori dall’acqua. La parte della montagna che è immersa è di solida roccia, ed ha tre protuberanze, simili a radici, che si protendono dall’acqua verso l’aria sottostante. Attorno alla montagna sta arrotolato un grande pesce dalle proporzioni di un leviatano, tali da poter abbracciare la montagna e muoverla. Quando dorme, la Terra è tranquilla, ma quando si muove, produce terremoti”. “Sopra la Terra e attorno a questa grande mon111

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tagna c’è il firmamento con il Sole, la Luna e le stelle. Si guarda a questi come agli ornamenti dei templi celesti. Sopra l’acqua c’è la terra abitata, e su ognuno dei quattro lati del monte Zinnalo vi sono sette colline, che salgono a gradi uguali, uno dopo l’altro; e questi sono i primi passi dell’ascesa che i dipartiti devono fare”. “Gli stessi pianeti, assegnati alle rispettive sfere, sembravano avere la natura dei metalli o delle gemme che risplendono per luce propria, perché venivano percepiti in diversi colori, il Sole d’oro, la Luna d’argento; il rosso di Marte della guerra. Così i nomi di alcune pietre preziose venivano dati alle sfere celesti. Nello schema maomettano, come abbiamo visto, le sette sfere hanno questi colori distintivi. La prima viene descritta come composta di smeraldo; la seconda, d’argento bianco; la terza, di grandi perle bianche; la quarta, di rubino; la quinta, di oro rosso; la sesta del giallo del giacinto; e la settima, di luce splendente”. Questa l’immagine della montagna sacra, la cui cima raggiungeva i cieli. Non dobbiamo sorprenderci, possiamo aspettarci di trovare molte identificazioni locali di essa nelle inaccessibili montagne del Pamir, coronate di neve, o in quelle dell’Himalaya; sull’Ararat, il Parnaso, e l’Olimpo della Tessaglia. I luoghi del mondo potevano anche essere migliorati con mezzi artificiali. Così François Lenormant, nel suo saggio sull’Ararat e sull’Eden, sulla «Contemporary Review» del settembre 1881, ritiene sia chiaramente dimostrato che Salomone ed Ezechia abbiano avuto questa idea sulla distribuzione delle acque che scorrevano, sotto il tempio, in quattro rami, uno dei quali era chiamato Gihon. E cita Obry: “I buddhisti di Ceylon hanno tentato di trasformare la loro montagna centrale, il Picco degli dèi, nel Meru, e di trovare quattro fiumi che discendessero dai suoi lati, per farli corrispondere ai fiumi del loro paradiso”. Anche il Wilford, nell’ottavo volume delle Asiatic Researches, afferma che gli antichi re dell’India avevano la passione di elevare tumuli di terra chiamati “picchi di Meru”, che veneravano come la montagna sacra. Uno di questi, presso Benares, recava un’iscrizione che chiarisce tutto. Il paese era diviso in sette, nove o do112

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dici distretti o province, e il popolo era diviso in altrettante caste o tribù. I Caldei avevano ben presto perfezionato questo universo, composto da sette strati sferici, e con essi abbiamo stupende strutture architettoniche, conosciute come ziggurat, erette “ad imitazione, o ad artificiale riproduzione della mitica montagna della assemblea delle stelle”. È Lenormant, su Ararat e Eden. “Orbene, il tempio piramidale è l’espressione tangibile, la manifestazione materiale ed architettonica, della religione caldeo-babilonese. Serviva sia come santuario che come osservatorio astronomico, e si accordava a meraviglia con il genio di quella religione essenzialmente siderale, alla quale il tempio era unito da un legame inscindibile”. Ancora il Lenormant, sulla Magia dei Caldei. Queste strutture appartengono ad una categoria che non è propriamente quella dei templi. Sono piuttosto altari a terrazze e monte del Paradiso, in uno. Chiamarli “troni di Dio” potrebbe spiegare al meglio il loro scopo. Rappresentano il mondo dal di fuori, come un seggio, piuttosto che come un tabernacolo per la divinità. Se la parola tempio è impiegata qui, è solo per deferenza alla tradizione. Erodoto descrive così la ziggurat di Babilonia: “Il sacro tempio di Zeus Bel, uno spazio quadrangolare, con ogni lato lungo due stadi, e porte di solido bronzo, era ancora in piedi ai miei tempi. Nel centro del recinto sacro c’era una torre di muratura massiccia, lunga uno stadio e larga altrettanto. Al di sopra di questa torre ce n’è un’altra e un’altra ancora sopra la seconda, e così fino a otto torri. La via per ascendere alla cima è sull’esterno in un percorso che avvolge così tutte le torri. Quando si è a metà salita, si trova un luogo di sosta e dei sedili, dove siederanno per un momento le persone in cammino verso la cima. Nell’ultima torre c’è un gran tempio”. Questo grande “trono di Dio” metropolitano è dato dal Perrot come l’origine tipica del tempio caldeo; e dai tumuli e dai templi rinvenuti su lastre, Perrot, insieme all’architetto monsieur Chipiez, fece una serie di restauri, pubblicati nei volumi sull’arte in Babilonia ed Assiria. E dice: “Malgrado le parole di 113

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Erodoto, il signor Chipiez ha dato alla torre soltanto sette piani, perché questo numero sembra esser stato sacro e tradizionale; ed Erodoto può ben aver contato il podio o la cella sulla cima come l’ottavo piano menzionato nella sua descrizione”. Il signor George Smith decifrò una tavoletta che diede le dimensioni reali di questa ziggurat in tutti i sette piani. Il piano inferiore è un quadrato di 91 metri circa, alto 33 metri; il secondo è di 80 metri, inclinato verso l’alto, e di 18 metri in altezza; il terzo è di circa 61 metri e 6 di altezza; il quarto, il quinto e il sesto, 48, 42, 33 metri, rispettivamente, ciascuno alto 6 metri circa. Ed in cima, il settimo piano, che evidentemente era il santuario, dato che la forma cambiava, era oblungo; l’area è di 205 x 21 metri, ed è alto 15; l’altezza totale è così di 91 metri circa, esattamente come la base. Queste dimensioni sono indicate nell’illustrazione sul frontespizio, che si ritiene essere il primo disegno mai pubblicato basato su queste vere misure, dato che quelle di Perrot e di Chipiez sono di natura puramente congetturale. Per quanto dubbia possa essere la traduzione in unità di misura inglesi, la forma e la proporzione rimangono, e il risultato è una maestosa e misteriosa suggestione di volume e stabilità. Erodoto ci dà anche un racconto della città e del palazzo di Ecbatana dei Medi: “Questa fortezza è così studiata che ogni piano cresceva sopra l’altro soltanto dell’altezza dei parapetti merlati. La conformazione del terreno, leggermente in salita, era molto favorevole a questo disegno. Ma quel che tutti curavano particolarmente era che il palazzo del re, con il tesoro, venisse collocato nella zona più interna. La più grande di queste mura è quasi uguale in circonferenza alla città di Atene. Gli spalti merlati del primo cerchio erano bianchi; quelli del secondo, neri; del terzo di porpora; del quarto blu e del quinto rosso acceso. Gli spalti di tutti i cerchi erano stati pitturati con colori diversi; ma gli ultimi due sono placcati, l’uno d’argento e l’altro d’oro”. Erech, l’antica città sacra dei Caldei, viene indicata su una tavoletta come “la città delle Sette Zone o Pietre”. Lo scrive A. Henry Sayce. A Borsippa, vicino a Babilonia, c’era un antichissimo tempio a terrazze, una ziggurat; fu restaurata da Nabucodonosor, e si è 114

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conservata una sua iscrizione, che dice: “Ho riparato e perfezionato la meraviglia di Borsippa, il tempio dalle sette sfere del mondo. L’ho costruito con i mattoni che ho placcato con il rame. L’ho ricoperto, il santuario di Dio, a corsi alternati di marmo e di altre pietre preziose”. George Rawlinson scrive nella sua opera su Le cinque grandi monarchie dell’antico Oriente, del 1862: “La decorazione dell’edificio era fatta principalmente con i colori. I sette piani rappresentavano le sette sfere, nelle quali si muovevano, secondo l’antica astronomia caldea, i sette pianeti. Ad ogni pianeta la fantasia, in parte basandosi sui fatti reali, aveva assegnato già dall’antichità una tinta particolare o un tono di colore. Il Sole era d’oro, la Luna d’argento, il lontano Saturno, quasi oltre la regione della luce, era nero, Giove era di colore arancione, e la base di questo colore, come pure per Marte e per Venere, è stata probabilmente il colore reale del pianeta, il fiammeggiante Marte era rosso, Venere era di un giallo tenue, Mercurio di un blu profondo. I sette livelli delle mura turriformi di Ecbatana diedero forma visibile a queste fantasie. Il piano di base, assegnato a Saturno, era annerito con uno strato di bitume steso sulla facciata della muratura; il secondo cerchio, attribuito a Giove, ottenne il suo appropriato colore arancione dal rivestimento di mattoni cotti di quel colore; il terzo cerchio, quello di Marte, era di colore rosso-sangue, con l’uso di mattoni di mezza cottura fatti di argilla rossa; il quarto cerchio, assegnato al Sole, sembra fosse realmente ricoperto da sottili lamine d’oro; il quinto, il cerchio di Venere, aveva un colore giallo pallido grazie all’uso di mattoni di quel colore; il sesto, il cerchio di Mercurio, ebbe il suo colore azzurro da un processo di vetrificazione: l’intero cerchio, dopo la costruzione, fu esposto a un calore intenso, e di conseguenza i mattoni che lo componevano si trasformarono in una massa di colore blu; il settimo cerchio, quello della Luna, era probabilmente rivestito, come il quarto, con vere lastre di metallo. Così l’edificio si innalzava con fasce di vario colore, disposte quasi come la magistrale Natura dispone i toni dell’arcobaleno: i toni di rosso vengono per primi, seguiti da una larga fascia di giallo, e dal giallo si passa al blu. Sopra tutto questo vi è la brillante cima d’argento fusa con lo splendore luminoso del cielo”. 115

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L’ordine degli stadi che si circondano l’un l’altro venendo fuori dal basamento rappresentava la sequenza esatta delle orbite dei pianeti, come la si immaginava, attorno alla Terra. La piccola orbita della Luna, in cima; il Sole prende il posto della Terra, perché sembra viaggiare attraverso i dodici segni dell’anno; e Saturno è l’ultimo. In generale, comunque, come nella mura di Ecbatana, il Sole e la Luna conducono i pianeti nell’ordine dei giorni della settimana. L’ordine in cui i giorni della settimana vengono denominati a seconda dei pianeti, per Richard Proctor, si è ottenuto nel seguente modo: se tutte le ore dell’intera settimana sono dedicate ai pianeti nella sequenza delle loro distanze rilevate – Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna – iniziando con il sabato, il pianeta che governa la prima ora del giorno successivo sarà il Sole, quello successivo, la Luna, e così via per tutti i giorni della settimana. Questa spiegazione dà per scontato che i giorni fossero divisi in ventiquattro parti prima che i sette giorni prendessero i nomi dai pianeti. Un’altra di queste ziggurat, aggiunta al palazzo di Sargon, è stata scoperta da Victor Place a Khorsabad e da lui denominata l’Osservatorio; la base era di 46 metri circa; e si suppone che l’altezza fosse la stessa. Tre piani interi e una parte del quarto esistevano ancora. “Lo stucco colorato, di tinta diversa da un piano all’altro, era ancora visibile, e confermava l’affermazione di Erodoto sulla sequenza tradizionale dei colori”. I livelli di questa costruzione erano di un’altezza di circa 6 metri. Il primo era bianco; il secondo nero; il terzo rosso; il quarto bianco, e frammenti degli altri colori sono stati rinvenuti nei reperti dagli scavi. La pianta di uno di questi templi, con il percorso rituale che fa sette giri completi prima di raggiungere il centro e la cima, è quasi identica alla forma tradizionale del labirinto di Creta, ed intimamente legata ad esso nella sua origine; o sono piuttosto idee complementari, dato che uno rappresenta le sette sfere iperuranie, e l’altro i sette gironi del sottomondo. Ma cercheremo di seguire nel prossimo capitolo proprio la traccia del labirinto. Per il poeta Nonno, Tebe era stata costruita da Cadmo in forma circolare; dal centro le strade principali andavano a nord, 116

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a sud, a est ed a ovest, e ciascuna delle sette porte era consacrata ad uno dei pianeti. Era così proprio una città celeste, e le sette porte hanno conservato la loro designazione planetaria nella storia. In un articolo nel «Journal of the Geographical Society», nel decimo volume, Sir H. Rawlinson cita una descrizione di Atropatene, fatta da uno storico armeno del V secolo: “la seconda Ecbatana, o la città dalle sette mura”. E aggiunge: “La storia delle sette mura è di origine sabea, e i sette colori sono proprio quelli usati dagli Orientali per indicare i sette grandi corpi celesti o i sette climi nei quali evolvono. Così Nizami descrive un palazzo a sette parti edificato da Bahram Gur, il monarca sassanide, quasi negli stessi termini di Erodoto. Il palazzo dedicato a Saturno, dice, era nero; quello di Giove arancione, o, più precisamente, del colore del legno di sandalo; quello di Marte, scarlatto; quello del Sole d’oro; quello di Venere bianco; quello di Mercurio, azzurro; e quello della Luna verde, un colore che gli Orientali attribuiscono all’argento”. Sir Rawlinson dubita della reale esistenza delle sette mura concentriche di Ecbatana, con i loro diversi metalli e colori, ma ritiene verosimile che la città fosse stata dedicata ai corpi celesti. In un’altra storia del simbolismo monumentale persiano ritroviamo l’intera serie, e non, come prima, il Sole e la Luna soltanto, rappresentata dai metalli, i sette metalli planetari. Origene cita Celso sui misteri di Mitra: “Nei misteri vi è una rappresentazione delle due rivoluzioni celesti, del moto, diciamo audace, delle stelle fisse, e di ciò che ha luogo tra i pianeti, e del passaggio dell’anima attraverso questi. La rappresentazione è della seguente natura. C’è una scala con ampie porte, e, sulla sommità, c’è l’ottava porta. La prima porta è di piombo, la seconda di stagno, la terza di rame, la quarta di ferro, la quinta di una miscela di metalli, la sesta d’argento, e la settima d’oro. La prima porta è attribuita a Saturno; si indica con il piombo la lentezza della stella; la seconda a Venere, paragonandola allo splendore e alla morbidezza dello stagno; la terza a Giove, che è saldo e solido; la quarta a Mercurio, perché il mercurio ed il ferro sono fatti per resistere a tutto, e sono propizi e laboriosi; la quinta a Marte, perché, essendo 117

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composto di una mistura di metalli, è variato e ineguale; la sesta, d’argento, alla Luna; la settima, d’oro, al Sole, imitandone i colori”. I buddhisti avevano vedute esattamente simili sulla trasmigrazione attraverso diversi cieli prima di raggiungere il paradiso dei paradisi di Buddha: l’ascesa, in altre parole, degli stadi del sacro monte Meru. Abbiamo mostrato sopra come lo stupa fosse il microcosmo del cielo materiale, com’è immaginato dai buddhisti. Anch’essi sembrano aver tratto le loro zone dai colori planetari; Fa-Hsien, il pellegrino cinese che ha viaggiato, alla fine del IV secolo, fra i santuari buddhisti dell’India e di Ceylon, descrive quasi tutti gli stupa che vede come “coperti di strati di tutte le sostanze preziose”, “le sette sostanze preziose”, dice James Legge. Tali materiali preziosi sono elencati dal signor Rhys Davids come oro, argento, lapislazzuli, cristallo di rocca, rubini, diamanti o smeraldi, e agata. Il maggiore Cunningham ci fornisce un elenco simile dove sostituisce il diamante con l’ametista. Nello stupa di Sanchi, con le reliquie, trovò sette collane fatte con “cose preziose”. Sappiamo poi che dopo l’illuminazione del Buddha, un Raja costruì una sala per lui con le sette sostanze preziose, dove sedeva su un trono dalle sette gemme. Edifici a sette o a nove piani erano comuni in tutta l’India, a Ceylon, in Birmania e a Giava, come il terzo volume del signor James Fergusson mostra a sufficienza. Tutte queste costruzioni, secondo il colonnello Yule, nel «Journal of the Royal Asiatic Society», del 1870, simboleggiavano il sistema del mondo. Cita, approvandolo, il Koeppen: “In Tibet, ci viene ricordato, ogni tempio buddhista costruito in modo ortodosso è, o contiene, una rappresentazione simbolica delle divine regioni del Meru, con il cielo degli dèi, dei santi, e dei Buddha, che si innalzano sopra di esso”. Poi descrive la “pagoda” di Rangoon, in Birmania, “intesa come completa rappresentazione simbolica, o modello, del monte Meru”, con le sue sette terrazze circondate da una balaustra dentellata, dal profilo “simile a quello delle montagne”, che rappresentano le diverse zone della montagna celeste. La pagoda di Rangoon è situata su una spianata a terrazza di circa 274 per 213 metri, alto 50,5 metri; vi sono quattro rampe di gradini, e 118

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quella orientale è la più sacra. Su questa terrazza si eleva il santuario centrale, 413 metri di circonferenza e 112 di altezza circa; questo era sormontato da file di “ombrelli” parasole, ai quali erano appesi moltitudini di campanelli d’oro e d’argento dal valore inestimabile, e l’intera massa era interamente laminata d’oro. “L’edificio centrale rappresenta il monte Meru, mentre il cerchio degli edifici minori rappresenta le montagne al di là del mare che circonda il mondo”. È in The Burman, di Shway Yeo. Un notevole tempio a Jehol, in Mongolia, è descritto come “una serie di edifici quadrati, ogni serie più alta dell’altra, fino all’ultima, alta undici piani, con una pianta quadrata di almeno 61 metri quadri; i piani sono dipinti di rosso, giallo e verde, a corsi alternati… inoltre, le tegole del tetto sono blu”. Ancora dai Williamson’s Journeys. I cieli nell’Edda sono nove: “Mi sovviene di nove case di nove sostegni. Il grande pilastro centrale nella Terra sotto”. Anche nel Kalevala: “Le nove volte stellate dell’etere”. In Cina, molto prima dell’influenza buddhista, già viveva lo stesso simbolismo. Il professore Legge riporta una preghiera, indirizzata a Shang Ti, il cielo, che dimora nei cieli sovrani, nella quale ci si volge verso l’alto, verso l’alta volta azzurra dai nove piani. L’“altare del Cielo” a Pechino, dove questa cerimonia veniva officiata, esisteva dodici secoli prima della nostra era. Esso è composto da una struttura a tre terrazze circolari, larga 64 metri alla base, 45 metri nel punto mediano, e 33 metri alla sommità. “La piattaforma è rivestita di lastre di marmo, che formano nove cerchi concentrici; il cerchio interno consiste in nove pietre poste attorno alla pietra centrale, che fanno un circolo perfetto”. Su questa lastra, “intatta e perfetta come una porzione del ceruleo cielo”, si inginocchia l’imperatore. “Attorno a lui, sul pavimento sono i nove cerchi di altrettanti cieli, fatti di nove pietre, poi diciotto, poi ventisette pietre, e così via in una progressione di multipli del nove, il numero più caro alla filosofia cinese, fino al nove elevato al quadrato del cerchio esterno con le sue ottantuno pietre. Quattro rampe, di nove gradini ciascuna, conducono giù alla terrazza centrale dove vi sono tavolette dedicate agli spiriti del Sole, della Luna, delle 119

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stelle, e al Dio dell’anno”. L’ordine seguito nella funzione è quello del cerimoniale di corte. Prima vengono i nove ordini della nobiltà, poi i nove ranghi dei funzionari, e le differenze vengono indicate da differenti sfere colorate sui loro copricapi: e l’imperatore sta al vertice. Sempre Edkins, nei Williamson’s Journeys. Qui non abbiamo soltanto il tempio dei Cieli, ma la gerarchia celeste, ed il suo rituale. Il signor Ephraim George Squier, un archeologo americano, rinviene, nel suo studio sul simbolo del serpente in America, un significato simile nelle strutture del Messico. “I Messicani credevano in nove cieli e la loro concezione è diversa solo in questo rispetto a quella degli Hindu. Il primo cielo, il cielo superiore, veniva chiamato la residenza del Dio Supremo; il secondo, subito sotto, il cielo azzurro; il seguente, il settimo, il cielo verde”, ecc. E, citando Lord Kingsborough: “i Messicani credevano nei nove cieli, che supponevano distinguersi l’uno dall’altro per i pianeti che contenevano, dai colori dei quali hanno avuto i loro vari nomi”. Viene offerto come illustrazione un disegno indigeno che rappresenta i nove cieli come altrettanti soffitti trapunti di stelle. “Non è una supposizione basata solo sull’analogia che i teocalli messicani fossero strutture simboliche”. Poi cita il resoconto di Boturini sul re riformatore Tezcuco. “Questo celebre imperatore edificò una torre di nove piani che simboleggiava i nove cieli, e sulla sommità eresse una oscura cappella dipinta all’interno di un blu molto brillante, con cornici d’oro, dedicata al Dio creatore, che ha il suo seggio al di sopra dei cieli”. Prescott dice che la torre era “alta nove piani, per ricordare i nove cieli; un decimo piano era sormontato da un tetto dipinto di nero, e riccamente dorato, all’esterno, con stelle, e intarsiato, all’interno, con metalli e pietre preziose. L’imperatore lo ha dedicato al Dio sconosciuto, la Causa delle cause”. Gli scavi a Warka, l’antica Uruk, ed alcune iscrizioni, indicano che anche i santuari caldei in cima alle ziggurat erano di un colore azzurro brillante, di lapis-lazuli. Maspero e Perrot si mostrano disposti ad accettare il racconto di un autore greco secondo il quale la grande piramide era decorata con fasce colorate e con la cima dorata; sem120

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bra essere ben più di una coincidenza che le prime piramidi, attribuite alle prime quattro dinastie, fossero a stadi. Quella di Sakkara presenta tuttora sei gradoni, che decrescono dai circa 11 metri di altezza alla base agli 8 metri alla sommità, in una somiglianza, che va considerata, con la ziggurat di Babele. Petrie ha scoperto che la piramide di Medum è stata costruita a sette stadi, prima che vi fosse applicato l’involucro esterno e continuo, “producendo una piramide che servì come modello per i futuri sovrani”. Nella cerchia esterna del suo mondo sotterraneo, Dante vede i campi di pace dei grandi morti pagani. Dalla sua descrizione e dal disegno di Botticelli, dell’edizione del 1481, con le sette mura circolari e con una alta porta a torre per ciascuna cinta, un assiro avrebbe compreso in un istante che quella era la città dei morti. Venimmo al piè d’un nobile castello, sette volte cerchiato d’alte mura, difeso intorno d’un bel fiumicello. Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v’eran con occhi tardi e gravi; di grande autorità ne’ lor sembianti: parlavan rado con voci soavi. Canto IV

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Sir George Birdwood ritiene che i reggenti dei pianeti che regolano i giorni della settimana in India si riconoscano con i seguenti colori: 1) il reggente del Sole ed il primo giorno della settimana: giallo lucente; 2) della Luna: bianco; 3) di Marte: rosso; 4) di Mercurio: giallo; 5) di Giove: sempre giallo; 6) di Venere: bianco; 7) di Saturno: nero. Su come fossero fatti i troni, lo stesso autore dice che: “il colore di tutte le pietre utilizzate dovrebbe essere quello dei pianeti che presiedono al destino della persona per la quale il trono è fatto”. Abbiamo già visto il trono del Buddha, fatto con le sette sostanze planetarie, e che le grandi strutture a piramide di Babilonia erano troni del dio per il quale le terrazze colorate erano altrettanti gradini. La tradizione del trono poggiato sui sette gradini celesti dura fino al Medioevo. Un manoscritto del XIII secolo, ad Heidelberg, che raffigura l’universo, mostra il trono della maestà su sette gradini circolari decrescenti, che danno l’idea, sulla terra, delle volte celesti. Una iscrizione, “sette gradini a modo di una vasta volta”, rende chiaro il significato, ed è particolarmente preziosa in quanto fornisce lo schema del Paradiso di Dante, da sempre un rompicapo per i commentatori: Dante, all’apice del cielo materiale esterno, guarda in alto e vede oltre ed intorno, altre ed altre distese. Siccome sta in piedi, al centro sotto di esse, i gradini del trono gli appaiono come un anfiteatro rovesciato, “la rosa bianca”: E si distende in circolar figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Paradiso, XXX, 103-105

Il trono alto che sovrasta tutto diventa un modello; e tutti i troni devono avere sette gradini. Si confrontino la descrizione del trono di Salomone nel Libro delle Cronache e le osservazioni di Flavio Giuseppe: “Il re fece inoltre un grande trono d’avorio, e lo rivestì d’oro puro. E c’erano sei gradini per giungere al trono, con un poggiapiedi, legato al trono, e due colonne ai lati 122

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del seggio, e due leoni presso le colonne. Così c’erano dodici leoni, da una parte e dall’altra, sui sei gradini; non ne erano stati fatti di simili in nessun regno”. È nel Secondo Libro delle Cronache [IX 17-19]. Flavio Giuseppe cambia qualcosa, ma in entrambi i testi ci sono le sette coppie di leoni ai sette livelli di altezza: “Un trono di prodigiosa grandezza, d’avorio, con sei gradini, e su ciascuno, ai lati, due leoni; in alto altri due leoni; ma, sul seggio del trono, vi erano mani per accogliere il re, e, quando lui si accomodava, si appoggiava su un giovane bove che vegliava alle sue spalle, e ogni cosa era legata con l’oro”. Anche nel Talmud ci sono le sette coppie di animali, ma, per aggiungere genuinità, gli animali e gli uccelli sono come prede l’uno per l’altro “a simboleggiare i nemici che dimorano insieme in pace”. “E il lupo allora dimorerà con la pecora”. Al di sopra del trono era appeso un candeliere d’oro, con sette braccia, decorato con rose, boccioli, coppe e strumenti; sui sette rami vi erano incisi i sette nomi dei patriarchi: Adamo, Noè, Sem, Abramo, Isacco, Giacobbe e Giobbe. Gli scrittori arabi aggiungono altre meraviglie. Due leoni erano fatti dagli spiriti, e collocati ai piedi del trono; due aquile 123

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erano state collocate sopra lo scranno, e quando il re saliva al trono i leoni protendevano le zampe, e, quando sedeva, le aquile gli facevano ombra con le loro ali. Sembra che tutto questo sia stato portato a compimento per il trono del palazzo imperiale di Costantinopoli, costruito ad imitazione del trono di Salomone e chiamato con questo nome. Le belve d’oro si rizzavano e ruggivano, e là vicino c’era l’albero d’oro con gli uccelli che cantano. Eppoi i gradini dovrebbero essere decorati con i colori planetari; così è il trono del prete Gianni, come ci garantisce Sir John Maundeville: “Fra i gradini che ascendono al trono, dove l’imperatore siede ai pasti, uno è di onice, un altro di cristallo, un altro di diaspro verde, un altro di ametista, un altro di diamante, un altro di calcedonio, ed il settimo, sul quale posa i piedi, di crisolito. Tutti questi gradini hanno una cordonatura d’oro puro, con altre pietre preziose incastonate insieme a grandi perle d’Oriente. I fianchi del seggio del trono sono di smeraldi, bordati, in perfetta nobiltà, di oro puro e resi ancora più nobili con altre pietre preziose e grandi perle. Tutti i pilastri nella sua sala sono d’oro puro, con pietre preziose e molti rubini, che di notte danno una grande luce a tutto il popolo, e, anche se il rubino dà già abbastanza luce, nondimeno arde, ad ogni ora del giorno e della notte, un vaso di cristallo, pieno di balsamo, che diffonde fragranze per l’imperatore, ed espelle tutta l’aria viziata e tutte le corruzioni”. Nella Storia di Alessandro il trono dello sconfitto Dario ha questi sette gradini. Erano di ametista, smaragdino, topazio, granato, adamante, oro e terra. Il primo protegge dalla ubriachezza, il secondo protegge la vista, il topazio riflette un’immagine rovesciata, il granato è il più luminoso, l’adamante, il più duro, attira le navi, l’oro è il principe dei metalli, e la terra rammentava al re che anche lui non era altro che polvere. Fa-Hsien, in India, nel IV secolo, vede una reliquia del Buddha esposta su una “base fatta delle sette sostanze preziose, sormontata da una campana di lapislazzuli, entrambe decorate con perle”. In Egitto il rivestimento del trono e del suo poggiapiedi faceva immaginare la distesa blu del cielo, cosparsa di stelle. An124

Le sfere planetarie

che in Messico il trono era azzurro. Il re è stato sempre, in ogni luogo, un dio seduto sul trono celeste. Vi è sempre una ragione, anche nel disegno più immaginifico. Il settemplice sistema planetario tiene in araldica. Per citare il barone Portal, sul simbolismo dei colori: “Tutti i blasoni”, dice Anselmo nel Palais de l’Honneur, “si distinguono per due metalli, cinque colori, e due pellicce. I due metalli sono or e argent; i cinque colori sono l’azzurro, il rosso, gules, il nero, il sinople, un verde, il porpora; e le due pellicce sono di ermellino e di vaio. Aristotele al suo tempo diede i nomi ai metalli e ai colori conformandosi ai sette pianeti. Or fu chiamato il Sole; argent la Luna; azur Giove; gules Marte, il rosso; sable Saturno, il nero; sinople Venere, quel verde; porpure Mercurio; ed ogni dio era raffigurato con i suoi metalli e colori appropriati”. Nel Medioevo, quando il numero delle sfere celesti aumentò a nove, con nove ordini di spiriti per governarle, la ripartizione in sette dei metalli e delle tinture fu portata a nove, con altri due colori, il tenne, un ambrato arancione, e il colore del sangue. Il Boke of St. Albans, redatto nel XV secolo dalla dama Juliana Berners, ci trasmette il mito medievale dell’araldica e dei nove colori: “La legge degli emblemi che era stata raffigurata e incominciata prima di ogni legge nel mondo, prima della legge della natura, e prima dei comandamenti di Dio”. “E questa legge degli emblemi si basava su nove differenti ordini di angeli del cielo incoronati con nove diverse pietre preziose dai colori diversi, e dalle diverse virtù, e anche di essi angeli son raffigurati negli emblemi i nove colori”. “La prima pietra era chiamata Topazio, che significa oro negli emblemi” (la sua virtù è la verità). I sette o i nove colori araldici perfetti sono così le pietre ed i metalli preziosi dei sette pianeti o dei nove cieli. Lydgate poteva ben dire di tali pietre usate nelle decorazioni araldiche: “queste pietre vengono dal paradiso. Per questo sono preziose e uniche”. Nell’araldica antica questa tradizione viene conservata, e i colori vengono chiamati o con i loro comuni nomi araldici o con 125

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i nomi delle gemme, o dei pianeti: i nomi comuni vengono utilizzati per blasonare le divise dei semplici cittadini, le gemme per i nobili, e i pianeti per i principi sovrani. Or Argent Sable Gules Azur Vert Porpure

Topazio Perla Diamante Rubino Zaffiro Smeraldo Ametista

Sole Luna Saturno Marte Giove Venere Mercurio

I colori naturali dei pianeti visti ad occhio nudo, o sotto un basso potenziale, si dice siano: Saturno Giove Venere Marte Mercurio

Blu profondo Bianco Giallo Rosso Azzurro pallido

Confrontando gli elenchi, si nota che il Sole e la Luna sono i due metalli, Marte è sempre rosso, Saturno sempre nero, Venere è gialla o verde, Mercurio è blu o porpora, e Giove è quello meno sicuro. Le corrispondenze araldiche enunciate nel Palais de l’Honneur possono forse essere accettate come autorevoli. Il significato del colore viene così descritto da un mago moderno, Eliphas Levi: “Coloro che amano il blu sono idealisti e sognatori; coloro cui piace il rosso sono materialisti e passionali; il giallo per chi ama il fantasticare e il capriccio; il verde si adatta a chi ama il commercio e le tecniche; coloro che danno la preferenza al nero sono governati da Saturno”. Questo concorda con il ruolo dei pianeti sui diversi temperamenti, per come lo conserviamo anche nel linguaggio comune: Gioviale, Mercuriale, e Saturnino o Melanconico. Abbiamo visto sopra le associazioni tra i metalli e le sette 126

Le sfere planetarie

stelle; le corrispondenze sono abbastanza ovvie, e nella scienza moderna si usano gli stessi segni, e in un caso lo stesso nome. Vi è ancora moltissima astrologia nelle scienze. Sole Luna Marte Mercurio Giove Venere Saturno

Oro Argento Ferro Mercurio Stagno Rame Piombo

L’elenco di Chaucer è identico a questo, tranne che per l’argento vivo di Mercurio, che è contratto in argento. John Gower in Confessio Amantis stabilisce simili corrispondenze, tranne sul fatto che “Giove s’accorda col bronzo”. In Oriente il metallo perfetto era, naturalmente, la lega di tutti questi. Afferra una volta i colori e le qualità dei sette pianeti, e possiedi la chiave maestra dell’astrologia. Siccome questi poteri possono essere presenti nelle dodici case celesti votate alla Nascita, alla Prosperità, al Matrimonio ecc., così la fortuna della persona potrebbe esserne influenzata. Due capitelli del Palazzo Ducale di Venezia mostrano come questi poteri governino l’uomo e le scienze: uno raffigura le sette età, l’altro le sette arti liberali. La Luna Mercurio Venere Il Sole Marte Giove Saturno

governa

l’infanzia la fanciullezza l’adolescenza la prima età virile l’età virile la vecchiaia la decrepitezza

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Le sette arti erano la grammatica, la logica, la retorica, l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia. La tradizionale associazione di colori e pietre con i pianeti non è ancora del tutto estinta in Occidente, dove si vedono ancora vecchie spille fatte con sei pietre colorate, e con delle pietre di lava montate attorno ad una settima pietra centrale, e incise su tutte sono le teste dei pianeti, al centro la testa a raggi di Apollo. In Oriente tutto questo è ben compreso. Il meraviglioso tesoro di ori della Birmania, dell’Indian Museum di Londra, che raddoppia in splendore i più splendenti gioielli barbari, con il bagliore dell’oro rosso, e la ricchissima disposizione di pietre grezze, che incantano l’immaginazione fino all’esaltazione, ha, nella maggior parte dei pezzi, otto pietre preziose incastonate attorno ad un enorme rubino, grande come una noce. Questo gruppo simbolico è chiamato Nauratan, nove gemme. In tutta l’India queste “sono le uniche pietre considerate preziose”. Torniamo di nuovo alla montagna del mondo in Caldea, dimora degli dèi, culla delle nazioni, e, come il Meru, monte di pietre preziose. Nelle tavolette viene chiamata Nizar, e la sua cima ha un nome a noi familiare per la sua rappresentazione architettonica: ziggurat. Madame Z.A. Ragozin ci mostra con chiarezza questo scopo simbolico. “Questa concezione era talmente vivida nelle idee del popolo, e la venerazione nei suoi confronti così grande, che tentavano di riprodurre il modello della montagna sacra nei palazzi dei loro re e nei templi dei loro dèi”. “Come gli dèi avevano dimora sulla cima della montagna del mondo, così i loro templi dovevano occupare un luogo tanto simile alla loro residenza quanto fosse permesso dai flebili mezzi dell’uomo. Che questa non fosse una fantasia infondata è dimostrato proprio dal nome ziggurat, che significa ‘cima di montagna’, ed anche dai nomi di alcuni di questi templi: uno dei più antichi, e di certo dei più famosi, nella città di Assur, veniva chiamato ‘la casa della montagna delle nazioni’”. E il professor Sayce, nelle sue Hibbert Lectures, è ugualmente preciso: “Come la cima del monte del diluvio, il Nizar, veniva chiamata ziggurat o tempio a torre, così, di converso, monta128

Le sfere planetarie

gna del mondo è stato il nome dato ad un tempio a forma di ziggurat a Calah”. “Una tavoletta in frammenti che dà, come credo, la versione babilonese della costruzione della torre di Babele, la identifica specialmente come ‘l’insigne cumulo’. Il nome dato alla torre del tempio principale a Kis era ‘l’insigne montagna dell’umanità’”. La nostra ultima immagine del paradiso terrestre e della montagna del mondo sarà quella del regno di Atlante, per descrivere il quale Platone raccoglie dalla tradizione solo quel che gli serve, usandolo con il realismo di Swift. Le zone intercalate di acqua e di terra, ed i muri multicolori, dimostrano come questa sia una leggenda reale del celeste monte Meru, ed anche la raffigurazione di un paradiso buddhista, offerta qui per un confronto. Per prima prenderemo la storia, raccontata dal Buddha ad Ananda, del “Grande re della Gloria”: “Kasavati era la città regale… e, ad est e a ovest, si estendeva su dodici leghe di lunghezza, e, a nord e a sud, su sette leghe di larghezza”. “Kasavati, la città regale, o Ananda, era circondata da sette bastioni. Di questi, uno era d’oro, e uno d’argento, e uno di berillio, e uno di cristallo, e uno di agata, e uno di corallo, e uno fatto di tutte le gemme”. “Nella città regale di Kasavati, o Ananda, vi erano quattro porte; una era d’oro, e una d’argento, e una di giada, e una di cristallo”. “Ad ogni porta erano stati eretti sette pilastri, costruiti con le sette sostanze preziose; di quattro volte l’altezza di un uomo. La città era circondata da sette file di palme, d’oro, d’argento e di gemme; i loro frutti erano gioielli, dai quali, quando erano scossi dal vento, veniva fuori una musica deliziosa. In questa città si trovava un palazzo della virtù, una lega da est a ovest, e mezza lega da nord a sud, con 84.000 camere, ciascuna d’oro, d’argento, di berillio e di cristallo; davanti ad ogni porta si ergeva una palma. Il palazzo era tutto decorato con una rete di campane d’oro e d’argento, appese dappertutto, la cui musica era dolce ed inebriante. C’era un lago di fiori di loto bordato con lastre d’oro, d’argento, di berillio e di cristallo”. 129

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“Io ero quel re e tutto questo era mio! Guarda, o Ananda, come tutte queste cose siano passate, estinte, svanite!”. Sono citazioni tratte dalle traduzioni del Rhys Davids, nel volume XI dei Sacred Books of the East. L’isola di Atlantide, in Platone, aveva nel centro una pianura, in mezzo alla quale vi era una montagna. Poseidone recintò l’altura, facendo zone alternate di mare e di terra, più grandi e più piccole, che si circondavano l’una con l’altra; due zone erano di terra e tre di acqua, che lui trasse fuori, come con un tornio, dal centro dell’isola, sempre equidistante. “Il suo figlio maggiore lo chiamò Atlante, e da lui tutta l’isola e l’oceano presero il nome di Atlantico. Inizialmente estraevano dal terreno qualunque cosa potesse essere trovata laggiù, sia minerali che metalli, e quello che ora è solo un nome, e che allora era qualcosa di più di un nome, l’oricalco, veniva estratto dalla terra in molte parti dell’isola… Inoltre, tutte le fragranze del mondo, radici o erbe, o legni, o essenze che stillano dai frutti o dai fiori, crescevano floride su quella terra… Tutte queste cose portava quella sacra isola, che a quel tempo vedeva la luce del Sole, ed erano belle e meravigliose, e in infinita abbondanza”. “Fecero ponti tra le varie zone e aprirono corsi d’acqua da una zona ad un’altra… Tutto questo, con le zone ed il ponte, circondarono con un muro di pietra e mettendo su ogni lato torri e porte attraverso le quali entrava il mare”. “Un tipo di pietra era bianco, un altro nero, ed un terzo rosso; alcuni dei loro edifici erano semplici, ma in altri avevano messo insieme pietre diverse, variando lo schema per compiacere l’occhio, e perché fossero naturale fonte di gioia. Avevano coperto l’intera cerchia muraria che circondava la zona più esterna con uno strato di bronzo, mentre il perimetro della cerchia successiva era ricoperto di stagno, il terzo, che circondava l’acropoli, baluginava con il rosso fuoco dell’oricalco. I palazzi dentro le mura erano costruiti così: al centro il santuario, consacrato a Clito e a Poseidone, rimaneva inaccessibile, circondato da un muro d’oro. […] Qui c’era anche il tempio dello stesso Poseidone, uno stadio in lunghezza, mezzo stadio in 130

Le sfere planetarie

larghezza, proporzionato in altezza, con uno strano aspetto asiatico. Rivestirono d’argento tutta la parte esterna del tempio, ad eccezione degli acroteri, e gli acroteri li rivestirono d’oro; all’interno del tempio il soffitto era d’avorio, intarsiato dappertutto d’oro, argento e oricalco; tutte le altre parti, pareti, colonne e pavimento, le rivestirono di oricalco. Nel tempio collocarono statue d’oro: c’era il dio in persona in piedi su un carro, auriga di sei cavalli alati, egli stesso tanto grande da toccare con la testa il soffitto del tempio… Abbiamo parlato a sufficienza della disposizione del palazzo reale. Allontanandoti dal palazzo e attraversando i tre porti all’esterno, arrivi ad una muraglia la quale, dal mare, circondava tutto; in ogni punto era distante cinquanta stadi dalla zona più ampia, o dal porto, e racchiudeva il tutto”. “Tale fu la grande potenza accordata dal dio all’isola perduta di Atlantide. Avevano tutto a disdegno fuorché la virtù, e si curavano poco della loro vita attuale, e pensavano senza brama al possesso di oro e di altre ricchezze, che a loro sembrava soltanto un peso: né erano intossicati dal lusso, né la ricchezza li aveva privati del controllo di sé, ma erano, al contrario, sobri e vigili, e vedevano con chiarezza che tutti questi beni si accrescono con la virtù e l’amicizia reciproca”. È il Crizia di Platone. “Sei stato nell’Eden, giardino di Dio; tu eri coperto di ogni pietra preziosa […] io ti posi sul monte santo di Dio; e tu camminavi in su e in giù in mezzo a pietre di fuoco”.

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CAPITOLO SETTIMO

Il labirinto Hai lasciato il tuo cammino azzurro in paradiso, o figlio del cielo dai capelli d’oro! L’ovest aprì le sue porte, il giaciglio del tuo riposo è là. Le onde vengono per contemplare la tua bellezza. Sollevano le loro teste tremanti. Vedono te amabile nel tuo sonno. Indietreggiano con paura. Sta nella tua ombrosa caverna, o Sole! Fa che il tuo ritorno sia nella gioia. Ossian

Nella Bibbia di Amiens John Ruskin descrive il labirinto che una volta era intarsiato sul pavimento della navata della cattedrale, “rimosso” nel 1825 “per ingentilire l’antico pavimento”. In quell’esplosione di fervore, dalla metà del XII alla fine del XIII secolo, che trovò forma nelle pietre delle grandi cattedrali – in Francia specialmente – quando lo schema di immagini e di simboli era compiuto, e nessuna parte dell’edificio poteva così prescindere dal suo insegnamento, uno di questi labirinti apparteneva di diritto al pavimento: “per il popolo un emblema riconosciuto di molte cose”. Questo labirinto di Amiens era ottagonale, e largo 12 metri circa; l’effigie dell’architetto era nel centro, con un cartiglio su cui era scritta la data 1288. Ce n’era un altro, simile, a St. Quentin; ed uno a Reims, quadrato, di 10 metri di larghezza, fu posato nel 1240 e distrutto nel 1779. Un altro, circa nello stesso periodo, fu distrutto nella cattedrale di Arras. A St. Omer, nell’abbazia di St. Bertin, montagne, bestie e città furono raffigurate sul percorso, con il tempio di Gerusalemme al centro. Qualcuno dice che il labirinto sia il simbolo della vita e della spira di serpente del peccato. “Si credeva che tutto l’apparato fosse una rappresentazione delle complicate pieghe del peccato che avvolgono l’uomo, e di quanto impossibile sarebbe il districarsene senza il soccorso della Provvidenza”. Dagli Annales di Didron. 132

Il labirinto

A Bayeux, nella sala capitolare, c’è un labirinto fatto da piastrelle modellate. Un raffinato esempio era a Sens; un altro, ancora esistente, sta nell’abbazia di Santo Stefano a Caen. Quello di Chartres, particolarmente bello, intarsiato con pietre scure su pietre chiare, ha un percorso di circa 200 metri che gira e rigira in spirali verso il centro. Nel taccuino dell’architetto Villard de Honnecourt, del XIII secolo, c’è il disegno di un labirinto come questo di Chartres, di disegno assolutamente identico. Pare che questi labirinti francesi venissero chiamati la lieue o Chemin de Jerusalem; essi venivano posti all’estremità occidentale della navata, e il popolo faceva un pellegrinaggio in ginocchio, seguendo le spire del tracciato verso il centro, chiamato Sancta Ecclesia o Ciel. C’è un esempio tedesco nella chiesa di San Severo, a Colonia. In Inghilterra ve ne era uno a Canterbury, ma nessuno è ancora nelle nostre chiese. Vi sono, comunque, molti labirinti intagliati sul manto dei prati. Uno di questi, a Saffron Walden, ha un diametro di 33 metri: tutto coperto di erbacce, la sua forma è intuibile dall’alternarsi di solchi e sporgenze. Altri si trovano a Wing, nel Rutlandshire; Alkborough, nel Lincolnshire; Boughton Green, Northants; St. Catharine’s Hill, Winchester; Sneiton; Nottinghamshire; Pimpern, vicino a Blandford. Hanno avuto nomi come Miz-Maze, Julian’s Bower, Troy Town, o Shepherd’s Race. La datazione di queste opere è sconosciuta, ma, secondo lo storico locale, sembra si celebrasse una specie di festa di primavera presso il labirinto di Saffron Walden. Quelli formati da siepi tagliate, “i labirinti verdi”, sono una cosa normale nell’arte topiaria: alcuni disegni si trovano nelle opere di Serlio e di altri autori. Ve n’era uno bello e regolare nell’antico palazzo di Teobaldo, ed il labirinto di Hampton Court è noto a tutti. Sul labirinto d’acqua della Hypnerotomachia, minuscole lance percorrevano i canali e sette porte a torre distribuivano il flusso; era evidentemente simbolo della vita. In Italia si trovano alcuni magnifici esempi: uno di questi, a Ravenna, in San Vitale, è raffigurato qui sopra; un altro è in San 133

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Michele a Pavia; altri due sono a Roma, in Santa Maria in Trastevere e in Santa Maria in Aquiro. Attraverso gli esempi romani sulle pavimentazioni e sui gioielli siamo riportati indietro fino alle monete greche di Creta, dove, nel V o nel VI secolo a.C., questo apparato appare per la prima volta. Certo, le varianti del semplice disegno dei labirinti possono essere infinite; la loro somiglianza è il fatto impressionante, sicché, considerato il labirinto soltanto come apparato o modello, vi è un’unica tradizione per i duemila anni che vanno dalla moneta greca di Cnosso al disegno, poi stampato, di Botticelli nel Rinascimento; e ci interroghiamo su come abbia potuto trasmigrare da un luogo all’altro. Non vi sono falsi tracciati, e nemmeno cul-de-sac, o vicoli ciechi, ma semplicemente un percorso involuto, dall’entrata al nucleo, che segui per intero e percorren134

Il labirinto

do il quale giungi necessariamente al centro. Quando fu recisa la radice della tradizione, dal Rinascimento, tutto questo fu alterato, e i labirinti divennero invenzioni, ognuna diversa dall’altra, tele di ragno di seduttivi falsi percorsi. Le spire e i raddoppi del labirinto posato in St. Quentin sono, oltre qualunque possibilità di semplici coincidenze fortuite, identici a quelli di Alkborough, che è all’aperto. Così è per il labirinto di Sens, simile a quello di Boughton Green. Il labirinto di Chartres è identico nel disegno a quello sullo stipite del portale a Lucca, con questa differenza: il primo, con un diametro di circa 9 metri, è decorato al centro, il secondo non è che un graffito abbozzato. Il quale è, a sua volta, identico a quello della mappa del mondo di Hereford, e a quello raffigurato nel taccuino di Villard de Honnecourt, con l’unica eccezione che quest’ultimo è al contrario. Questi quattro labirinti, dunque, sparsi fra l’Italia, la Francia e l’Inghilterra, sono assolutamente legati per forma e proporzione, numero di pareti e disegno delle spire; sono trascrizioni l’uno dell’altro o di un originale comune. Quelli a Ravenna, sull’incisione di Botticelli, e in un quadro a Cambridge, non sono che semplici variazioni di questa forma tipica, o di una forma romana incisa su una parete di Pompei, o, ancora, degli esemplari originali cretesi, qui riprodotti, sulle monete di Creta. Si è sempre pensato che il modello originale fosse il labirinto di Dedalo, a Creta, dentro il quale, aiutato dal filo di Arianna, penetrò Teseo, tornando sano e salvo. Questo è il soggetto dell’incisione di Botticelli. Nella mappa di Hereford la pianta del labirinto riempie 135

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quasi del tutto l’isola di Creta: vi è scritto Labirintus id est domus Dealli. Il grande labirinto sul pavimento di Amiens reca l’iscrizione Maison de Dalus. Anche sull’esemplare di Lucca c’è un’iscrizione: “Questo è il labirinto che Dedalo cretese costruì, dal quale nessuno che era dentro poteva uscire, eccetto Teseo; né avrebbe potuto farlo se non fosse stato aiutato con un filo da Arianna, e tutto per amore”. È scritto da John Ruskin in Fors Clavigera. A Pavia il Minotauro è rappresentato nel vortice centrale in forma di centauro. Il labirinto di Pompei reca l’iscrizione Labyrinthus hic habitat Minotaurus. Quelli sulle monete greche appartengono alla città fondata da Minosse in persona, dove si diceva fosse stato costruito il labirinto; e il rovescio delle monete porta la testa di Teseo, che così accompagna il simbolo del suo “problema di vita”. Così, dai più antichi Greci fino al Rinascimento vi è una ininterrotta sequenza di esempi che attribuisce questa forma alla casa del Minotauro. Possiamo ben comprendere che, una volta in opera ed associati con riti di pellegrinaggio e di penitenza, i labirinti avrebbero potuto facilmente acquisire differenti nomi locali – “la via per Gerusalemme” e tutto il resto – ma la forma ed il rito esistevano prima di tutte queste denominazioni. Che ai tempi dei Romani venissero tracciati sui prati, e che ci fosse una tradizione popolare di seguire le spire del percorso, è mostrato da Plinio, il quale, parlando del complesso ipogeo di camere, il cosiddetto labirinto di Moeris in Egitto, dice: “non è nemmeno come vediamo nei pa136

Il labirinto

vimenti in mosaico o nei giochi campestri dei ragazzi, dove una striscia sottile contiene passaggi sui quali si può camminare per molte miglia”. Durante il regno di Commodo, Q. Giulio Mileto aveva fatto edificare un labirinto come una istituzione per il divertimento del popolo. Lo si legge nel Manuale di Archeologia di Karl Otfried Muller. Il choros, o luogo delle danze, costruito da Dedalo per Arianna – per come aveva luogo nelle storie, certo, non nella pietra – era probabilmente un labirinto come questo. La danza indiana in onore di Krishna, come dio del Sole, è descritta come una “danza circolare verso il Sole, nella quale i danzatori si dimenavano, e giravano, e volteggiavano in una voluta imitazione del Sole, della Luna e dei pianeti”. Questo si ripete nella processione del tempio di Jagannath, quando si circumdeambulava il tempio sette volte, imitando le stelle, o alla Caaba della Mecca. Il signor Albert Reville, raccontando di simili danze in Messico, dice che i fedeli entravano in unione con la divinità imitandone i movimenti. “Vi erano molte danze sacre il cui carattere era l’imitazione del moto delle stelle”. Conoscere la giusta forma di queste involuzioni era della più grande importanza. Il signor Andrew Lang ci dice che, per i selvaggi, “chi non balla la nostra danza è uno straniero”. La trama di una delle nostre storie popolari, Childe Rowland, racconta delle terribili conseguenze del correre attorno ad una chiesa “a ritroso”, vale a dire in direzione opposta al movimento del Sole. In Inghilterra “i fanciulli, fino ai giorni nostri, si divertono correndosi dietro all’interno di esso, il primo conduce gli altri per molti giri, si addentrano parecchio e poi tornano indietro. Stukeley suppone che il labirinto fosse stato chiamato Julian, da Iulus e dai giochi troiani raccontati da Virgilio”. Questo è tratto dalla Enciclopedia delle antichità di Th. Dudley Fosbroke, del 1825. Il signor Gerald Massey ci dice che i labirinti sono “ancora raffigurati nei giochi dei bambini in Cornovaglia e nel Galles, e consistono in sette cerchi attorno ad un centro intagliati sull’erba del prato”. Nelle contee occidentali si dice che qualunque cosa disordinata e confusa sia “come Troy Town”. 137

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Erodoto inizia con i quattro racconti della leggenda sull’origine della guerra di Troia: le storie di Io, di Europa, di Medea e di Elena. Sembrano essere varianti di una “fiaba antica” di una principessa istigata a fuggire via oltre il mare. Ci si aspetta da un eroe in terra straniera che compia grandi imprese e resista a grandi pericoli; il re di quel paese assegna il compito con un inganno malizioso; ma sua figlia vede, ama, ed aiuta l’eroe. Lui vince, e volano insieme oltre il mare; ma il fato non sopporta a lungo; ed allora arriva una dolorosa separazione. “Dappertutto si va in cerca della leggiadra fanciulla che è stata rapita; dappertutto grandi lotte per ritrovarla: la guerra di Ilio è stata combattuta in ogni terra ariana”. Lo dice Sir G. Cox. Il figlio di Europa, Minosse, diventa il grande re ed il legislatore di Creta, e tutta la storia si ripete. Una grande prigione fu costruita da Dedalo per confinarvi il Minotauro, e ad Atene viene imposto il tributo di sette fanciulli e di sette fanciulle da sacrificare ogni anno al mostro nascosto. Un anno, uno dei fanciulli è Teseo, l’eroe che deve far finire “l’infamia di Creta”. “Quando Teseo arrivò a Creta, secondo la maggior parte degli storici e degli autori, Arianna, innamoratasi di lui, gli diede un gomitolo di corda, e lo istruì su come traversare con esso gli intrichi del labirinto. Con tale aiuto, issa le vele, portandosi via Arianna”. È il racconto di Plutarco. Minosse, il re, ha tre caratteristiche nel mito classico: è, prima di tutto, il grande amministratore della legge; è il giudice del mondo sotterraneo dei morti; è il signore del labirinto. È già, dalla prima volta in cui incontriamo il suo nome nei poemi omerici, il re terreno di Creta e il sovrano dei morti nell’Ade: “E là vidi Minosse, lo splendido figlio di Zeus, con scettro d’oro fare ai morti giustizia, seduto; e intorno al sire si difendevano quelli, seduti o in piedi nella dimora dalle ampie porte dell’Ade […] ed Arianna, la figlia del mago Minosse, che Teseo un tempo portò da Creta al colle della sacra Atene”. Nell’undicesimo libro dell’Odissea. La storia è molto vicina a quella di Osiride, in Egitto. Osiride, sopraffatto dalle potenze del male e delle tenebre, va, per essere il giudice del mondo sotterraneo, nella sala della giustizia, 138

Il labirinto

che è circondata da muri dove sono dodici o quindici porte in successione che devono essere traversate. Si raggiunge la sala con percorsi tortuosi, che non potrebbero esser trovati senza la guida dei dipartiti, il Libro dei morti. Iside parte alla ricerca del suo amato, e le potenze delle tenebre sono finalmente sconfitte da Horus, il Sole nascente di un nuovo giorno. Il mito egizio è stato universalmente considerato un mito solare, essendo la casa di Osiride con le sue sette sale il mondo sotterraneo, “la dimora notturna”, passando attraverso la quale il Sole di notte trova la sua via per ritornare ad est. “Osiride è il Sole calante. Plutarco lo identifica con Ade. Entrambi, dice, in origine significavano le dimore, ed arrivarono a significare il dio, dei morti”. È nello studio del Lefebure sugli ipogei egizi. “Osiride è il Sole di ieri, sopraffatto dalla Notte nella persona di Set, il quale, a sua volta, fu sconfitto da Horus, il figlio di Osiride… Horus è il Sole nella sua piena forza”. Lo scrive il Renouf. Il potere delle tenebre è rappresentato come il serpente gigante Apap, “con il quale” dice Lenormant “il Sole, nell’aspetto di Ra o di Horus, si batte durante il suo passaggio di notte attorno all’emisfero inferiore, e sul quale è destinato a trionfare prima di ricomparire ad est. Lo scontro tra Horus e Apap si rinnova sempre alla settima ora della notte, poco prima del sorgere del Sole”. Nel suo recente libro, Il ramo d’oro, James George Frazer considera Osiride un dio della vegetazione. Ove questo venisse accettato, non sarà in conflitto con la conclusione cui si perviene in questo capitolo. Che sia Sole o Vita vegetale, si ritira comunque negli oscuri inferi: casa delle tenebre, inverno e morte. Teseo, viene generalmente ammesso, è un doppio di Ercole, l’eroe solare. Melqart, il dio Sole dei Fenici, Horus degli Egizi, ed altri analoghi, dimostrano con chiarezza come l’impresa del labirinto fosse una delle tante discese nel regno della notte per combattere il serpente, drago o Minotauro, della morte e delle tenebre. La storia di Erodoto sulla fondazione della città di Ecbata139

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na ad opera del grande legislatore dei Medi, è strettamente legata alla fondazione di Cnosso ed alla costruzione del labirinto da parte di Minosse, che istituì la legge a Creta. Senza necessariamente discutere sull’esistenza di una vera Ecbatana, dalle sette mura, ognuna dedicata ad un pianeta, o di un vero Deioce, possiamo però vedere la stretta connessione tra questa storia ed altre storie in cui si parla del Giudice Giusto nel mondo sotterraneo, dalle sette mura, dei morti. Il labirinto di Minosse, come lo si trova sulle monete, è una cittadella dalle sette mura come questa. Deioce, il primo re dei Medi, dice il Padre della Storia, o dei miti popolari, il folklore, “si applicò con grande zelo alla amministrazione della giustizia, e il popolo lo scelse come re. E siccome i Medi gli obbedivano anche in questo, costruì mura alte e potenti in quella che ora è chiamata Ecbatana, con delle cinta di mura concentriche. […] Deioce per primo stabilì queste regole: nessuno doveva presentarsi al cospetto del re; per ogni cosa ci si doveva servire di intermediari; nessuno doveva vederlo […] in modo che, non vedendolo mai, lo potessero ritenere di un’altra natura. […] Si dimostrò molto severo nel tutelare la giustizia. Gli presentavano per iscritto, nell’interno del suo palazzo, i termini della questione […]. Così egli regolava le controversie di diritto […] se veniva a sapere che qualcuno commetteva un delitto, dopo averlo fatto chiamare, gli infliggeva un castigo proporzionato alla colpa, e dovunque esercitasse il suo dominio c’erano degli osservatori e degli ascoltatori che gli riferivano ogni cosa”. Non è questo un Minosse che impartisce giustizia a tutti gli uomini nel mondo sotterraneo, piuttosto che un re umano in una città terrena? Non dobbiamo però dimenticare che i re e i tiranni stavano rinchiusi in volontaria solitudine, come Mokanna, il profeta velato di Khorassan, e, in generale, i monarchi divinizzati. Strabone, parlando di Averno, presso Cuma, ritenuto dai popoli dell’Italia il luogo della discesa a venire, dice che: “Qui c’è una sorgente d’acqua, vicina al mare, potabile, dalla quale, tuttavia, nessuno beveva, poiché pensavano fosse l’acqua dello 140

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Stige. Pensavano anche che l’oracolo dei morti si trovasse qui, da qualche parte. Eforo, popolando il luogo di Cimmerii, ci dice che essi dimorano in abitazioni sotto terra, e che comunicano fra loro attraverso certi passaggi sotterranei; e che conducono gli stanieri, attraverso tali meandri, dall’oracolo, molto in profondità sotto la superficie della Terra. Essi vivevano insieme ‘in miniera’, con le offerte donate all’oracolo e con quanto veniva loro concesso dal sovrano. Era tradizione per i servitori dell’oracolo di non vedere mai la luce del Sole, e di lasciare le loro caverne solo di notte. Alla fine, questi uomini furono comunque sterminati da uno dei re, dato che l’oracolo lo aveva deluso: ma l’oracolo esiste ancora, benché spostato in altro luogo. Tali erano i miti dei nostri antenati”. Maximilian Wolfgang Duncker cita un autore greco del II secolo, il quale, descrivendo i Sabei, riporta l’eco di una tradizione simile: “La loro capitale, Mariaba, sta su una montagna. Qui vive il re, che amministra la giustizia per gli uomini; ma non gli è mai permesso di lasciare il suo palazzo. Se si comporta altrimenti, è lapidato dal popolo, in obbedienza ad un antico oracolo”. Le popolazioni che oggi vivono in una fase di sottosviluppo raccontano del giudizio dei morti esattamente nello stesso modo. “Gli Australiani credono, secondo il Bosman, come i popoli della Costa d’oro, che un mago molto potente viva lontano dentro la Terra; i negri pensavano che gli spiriti dei morti andassero da questo stregone per essere giudicati secondo il merito delle loro azioni. Qui abbiamo una dottrina, citando il signor Andrew Lang in Myth and Ritual, che risponde alla fede greca nel mago Minosse, in Eaco e in Radamanto, e all’idea egizia di Osiride come giudice dei defunti”. In Erodoto, una storia si riferisce a Rampsinito, nel cui regno, ci dice, “c’era una perfetta amministrazione della giustizia”. “Questo re discese ancor vivo sotto terra, in quello che i Greci pensano sia l’Ade; e ivi giocò ai dadi con Demetra, talvolta vincendola, talvolta essendone vinto”. Venne istituita una cerimonia che imitava questa discesa; e, in un’altra storia, questo stesso re possiede una meravigliosa stanza dei tesori, violata, con grande abilità, da un maestro del furto, il Sole, sempre, per tut141

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ti i popoli, tesoro di ricchezze, che irrompe nella prigione del mondo di sotto. Una storia, questa, come ha mostrato W.A. Clouston, che si trova nelle tradizioni di molti popoli, persino ai nostri giorni, e che potrebbe, dopo tutto, corrispondere a quel che Sir G. Cox, arrivandoci da un altro punto di osservazione, vede in essa: il Sole che si apre un varco e che si libera della prigione degli inferi, e che è, per tutti i popoli e in ogni epoca, tesoro di enormi ricchezze. La storia greca di Teseo e Arianna ha il suo corrispettivo fenicio in Adone e Astarte, che sono Tamuz e Istar per gli Assiri. “Uno degli antichi miti babilonesi più popolari”, dice il professor Sayce, “raccontò di come Istar avesse sposato il giovane e bello dio Sole Tamuz, e di come ella scese nell’Ade alla sua ricerca quando lui fu trucidato dalla zanna del cinghiale dell’inverno”. Istar “era la dea della stella della sera”. Nei racconti delle sue avventure nel mondo sotterraneo, “la dimora dalla quale non c’è uscita”, ci pare di giungere ad una idea chiara sul punto di partenza di queste storie, almeno nel pensiero se non nella geografia. Anche il passo seguente è tratto dal libro sulla Magia dei Caldei di Lenormant: “Il paese donde nessuno ritorna è diviso in sette zone, come quelle dell’Inferno di Dante, sul modello delle sette sfere planetarie […]. Sette porte vi davano accesso, ciascuna sorvegliata da un guardiano […]. L’idea dei gironi del mondo sotterraneo si trova anche nella mitologia egizia del rito dei defunti: nella sua discesa il morto doveva passare attraverso quindici piloni”. Nel centro di questa terra di tombe erano il palazzo del sovrano ed un tempio della giustizia. Ogni volta che Istar passa attraverso ognuna delle sette porte, il guardiano esige i suoi gioielli e i suoi paramenti. Al primo dà la sua corona; al secondo gli anelli delle sue orecchie; al terzo la sua collana di pietre preziose; al quarto il pettorale che ha sul cuore; al quinto la sua cintura di gemme; al sesto i braccialetti; e al settimo il suo mantello. Nella versione di Georges Perrot non è soltanto un paese diviso in zone, ma una vera città dalle sette mura, una struttura simile al labirinto di Dedalo. “Sappiamo dalle storie su Istar che esso era visto come un immenso edificio situato nel centro 142

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della Terra, delimitato sui lati da un grande fiume nelle acque del quale erano immerse le fondamenta del mondo. Questa landa dei morti è chiamata ‘la terra dove nulla si vede’, oppure ‘la terra da cui non vi è ritorno’. L’edificio è circondato da sette forti mura. Su ognuna c’è una sola porta, che viene sprangata con un chiavistello appena entra un nuovo arrivato”. Le formule descrittive mostrano come il tutto sia immaginato con molta chiarezza. “La casa dove la sera non ha mattino, da cui non vi è ritorno. Là sono anche le fondamenta della Terra, punto di confluenza delle potenti acque”. Essendo la Terra convessa e cava, come una coppa rovesciata, il palazzo del sovrano dei morti stava nel vuoto sotto di essa: attorno fluisce l’oceano terrestre, e su di essa poggiano le fondamenta del mare di sopra. I sette involucri sferici che passano sotto la Terra, come, sopra, nei cieli, la dividono in altrettante regioni. Tamuz, Teseo, Horus – il Sole potente – penetrano in questa prigione, ed escono dalla Porta orientale, ma la via è tanto involuta che nessuno dei morti trova la via del ritorno. Questa è l’origine del labirinto, e non dobbiamo meravigliarci se i mistici del Medioevo facevano uso del suo simbolismo al limite non consacrato delle loro chiese. Questo mondo sotterraneo dalle sette mura è quasi universale. In Origene c’è un racconto sugli Ofiti, con le loro invocazioni ai sette demoni, guardiani di altrettante porte poste lungo il percorso dell’anima. Nei frammenti zoroastriani pubblicati da Isaac Preston Cory vi è sempre lo stesso assetto del mondo sotterraneo. Sopra la Terra vi erano sette firmamenti in sequenza, uno per pianeta, ma sotto di noi: “Non cadere giù, perché un precipizio si apre sotto la Terra e trascina in giù con una discesa a sette balzi, sotto la quale sta il trono della terribile necessità”. Nel più recente Shah-Nameh, il Libro del re persiano, di Firdusi “il Paradisiaco”, Rustem, l’Ercole dell’Iran, compie sette grandi imprese in sette giorni, e, quando raggiunge un luogo chiamato “sette montagne”, lotta contro un demone “dentro una profonda ed orribile caverna”. 143

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In India sembra esistere dall’età dei Veda lo stesso schema di un sottomondo labirintico, perché tale appare la caverna donde, per una via senza sentieri, son condotti fuori gli armenti di nuvole del Sole. Nel sistema hindu, sotto l’olimpico monte Meru, con le sue sette parti, “vi sono sette mondi sotterranei, che sono tutti paradisi bellissimi, benché abitati da demoni e naga; questi sono per metà uomini e per metà serpenti, e sono governati da tre grandi rettili che regnano su tutti i serpenti della Terra”. La cosmogonia maomettana è molto simile. Secondo il Lane vi sono sette cieli materiali e sette terre, l’una sotto l’altra; anche la Gehenna è divisa in sette livelli, cui si accede, secondo il D’Herbelot, da sette grandi portali. Nella tradizione ebraica della Cabala esistono sette sale infernali. L’inferno buddhista più profondo, chiamato in cinese “prigione terrena”, è circondato da un muro di ferro suddiviso in sette comparti. Questi versi dell’Edda mostrano il pensiero degli uomini del Nord, che era anche quello dei nostri antenati inglesi: Fuori e dentro Sembrava che io andassi attraverso tutti e sette i mondi inferiori.

Il professor Rhys, in una delle Hibbert Lectures cita una storia sulla discesa dell’eroe celtico nella terra delle ombre. Le stesse parole avrebbero potuto esser state proferite da Istar, per quanto sono tipiche: Quando andai nella terra di Scath, Là era la fortezza di Scath, con la sua serratura di ferro; L’ho presa. Sette mura v’erano attorno a questa città; Odiosa era la sua cittadella.

Dante, come scrive nel Convivio, trova nelle sfere planetarie – seguendo Tolomeo, ma alle sette aggiungendone due: la sfera delle stelle fisse e quella del primum mobile – la sua disposizione, ripartita in nove, delle cerchie del paradiso e del144

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l’inferno. Assai notevole è il modo con il quale mette in relazione la sua discesa a quella di Teseo nel labirinto di Dedalo. Minosse è il guardiano ed il giudice che assegna ad ognuno il suo girone, e mantenendo il cammino verso il settimo girone si imbatte nel Minotauro: e ’n su la punta de la rotta lacca l’infamia di Creti era distesa. Lo savio mio inver’ lui gridò: “Forse tu credi che qui sia ’l duca d’Atene, che su nel mondo la morte ti porse? Pàrtiti, bestia, ché questi non vene ammaestrato dalla tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene”.

Non appare forse, la descrizione delle Malebolge, fedelmente basata sul labirinto del pavimento a Ravenna, di certo a Dante molto familiare? Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l’ordigno. Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra ’l pozzo e ’l piè de l’altra ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura, tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da’ lor sogli la ripa di fuor son ponticelli, così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini è fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli. Canto XVIII

È purtroppo diffusa l’abitudine di vedere nel sistema di 145

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Dante solo invenzioni arbitrarie, ma Dante scrisse con un umore ben diverso da come lo fece Milton. Dante non incorpora sue proprie fantasie, ma rimane fedele al sistema dell’universo della sua epoca. Nelle parole di Dean Milman “Dante è l’unico topografo accreditato dell’inferno medievale”; topografo è la parola. In alcuni esempi abbiamo il Sole nel mondo sotterraneo, non oscurato da alcuna personificazione, come nel “Riposa nella tua caverna tenebrosa, o Sole”, di Ossian, citato in esergo a questo capitolo, che concorda, e questo è notevole, con ciò che han detto del Sole, nelle regioni del Nord, a Pitea, il viaggiatore di Marsiglia: “I barbari erano soliti indicarci la tana o il giaciglio del Sole; perché le notti in un luogo duravano solo tre ore, in un altro luogo solo due ore”. Si confronti con l’antropologia del dottor Tylor. Il signor Andrew Lang riporta, nel suo Myth and Ritual, una storia degli Indiani Piute: “Giù, profondo nelle viscere della Terra, profondo, profondo, sotto tutta la Terra, c’è un grande buco. Di notte, quando è passato sopra il mondo, guardando giù su tutto, ed ha finito il suo lavoro, lui, il Sole, va nel suo buco, e si trascina con fatica e lentamente in esso fino a raggiungere il suo giaciglio, al centro della Terra. Così allora, lui, il Sole, si ferma là, suo letto per tutta la notte. Questa tana è così piccola, e lui, il Sole, è così grande che non riesce a rivoltarsi in essa; e così deve, avuto tutto il suo sonno, andare oltre, e di mattina lo vediamo uscire da est. Quando lui, il Sole, è così uscito, inizia a dare la caccia, su nel cielo, alle stelle, sua progenie, per catturarne e mangiarne alcune, quali che siano e come può, poiché se non cattura e mangia così non può vivere. Lui, il Sole non è tutto visibile. La sua forma è come un serpente o una lucertola. Non la sua testa possiamo vedere, ma il suo ventre, pieno di stelle che ha in tutti i tempi inghiottito”. La Luna, continua il racconto, è sua moglie, e dorme nella stessa tana, ma quando lui ritorna e le si oppone, lei viene via. Come in Esiodo, una sola casa non può contenerli entrambi; e così il Sole e la Luna non appaiono allo stesso momento nel mondo di sopra. Questi, dunque, sono stati i pensieri degli uomini sulla Ter146

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ra popolata dai loro morti, e sulle profondità di caverna nelle cui spire buie il Sole deve infilarsi di notte, per riapparire di mattina, vincitore sulle potenze delle tenebre. L’Aurora, la Luna e Venere posson bene indicare come si conquista un nuovo giorno, e congratularsi per la sua uscita dalle porte; ma non possono essere insieme a lungo: Arianna deve essere abbandonata a Naxos, quando il Sole corre verso ovest. Questo è l’argomento delle “gesta” di Teseo. Esiodo, invero, scrisse una “discesa di Teseo”, oggi perduta, ed una simile avventura sembra intrecciarsi all’Odissea, dove Circe, l’incantatrice, analoga ad Istar, dà istruzioni ad Ulisse per la sua visita nella terra delle ombre. La radice di questa storia è la discesa di Tamuz nella città dei morti dalle sette mura; sarebbe dunque naturale chiedersi: dov’è la porta di questa città? Siccome essa era sempre “ad ovest”, per gli Egiziani, per i Babilonesi, per i Fenici e per i Greci, il luogo dipendeva dal paese in cui la domanda veniva posta. La storia di Europa, e quella di Teseo e di Arianna, deriva, lo si sa, dai Fenici, e possiamo ben capire come, guardando dalle coste della Siria, Creta, isola ad ovest, divenisse uno dei primi fra questi molti luoghi, i quali si spostavano, via via che la civiltà venne verso ovest, in direzione del Sole calante: la Sicilia di Persefone, e, ancora, oltre le Colonne d’Ercole. Procopio racconta di come i defunti si radunassero sulle coste della Gallia e fossero portati di là, in Britannia; erano, di certo, invisibili, ma la barca affondò con il carico giù nelle acque, con una rapidità che rispondeva ad una forza sconosciuta. Tenerife era un altro di questi luoghi, e così in una mappa spagnola del 1346 porta il nome di isola dell’Ade; l’Irlanda venne chiamata il “purgatorio di san Patrizio”; più in là, poi, c’è la Nuova Atlantide dell’oceano occidentale; ed ai tempi di Colombo il popolo si tramandava ancora l’idea di un paese al quale avevano dato il nome di “Sette città”. Naturalmente sarebbero nate diverse leggende di persone che, per fato o seduzione, vagarono oltre quella soglia. Pausania ci dice di un uomo di Cnosso che si perse in una caverna dove fu sopraffatto da un sonno che durò quarant’anni; Plinio ha un racconto simile; e tali sono i racconti medievali di Tannhäuser, di Tommaso il Poeta, e di 147

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Ogier il Danese, sui quali si vedano Wright, Patrick’s Purgatory, Baring Gould, Curious Myths, e Hartland, Science of Fairy Tales. In un altro gruppo di storie del tutto analoghe, è la fanciulla ad esser portata via nell’oscuro mondo di sotto. Persefone, che raccoglie fiori di croco e bianchi gigli sui campi di Enna viene portata via, come Europa, ma non a Creta: nell’oscuro labirinto del mondo sotterraneo viene rapita da Plutone, signore di quel mondo, perché trascorra una parte del suo tempo lontana dal chiaro mondo dell’estate, lei che era la primavera stessa, “ed ella primavera”, come dice Dante. Una storia come questa trova la sua spiegazione in quest’altra storia, tratta dalla Storia di Alessandro. Nella lontana India, Alessandro, avendo visto gran parte delle meraviglie di quella terra di meraviglie, giunge “in una regione dove vide donne che, sepolte durante l’inverno, risorgevano con l’avvicinarsi dell’estate, rinnovate in bellezza e grazia”, o, come è graziosamente espresso nei versi, pubblicati dal Dunlop, del poema cortese di Lambert-li-Cors: Quant l’este revient, et le beau temps s’espure en guise de fleur blanche revienient a nature. Quando l’estate ritorna, e il bel tempo si apre in guisa di fiore bianco ritornano alla natura.

E questo accade in tutte le storie gentili nelle quali questa eroina prigioniera deve essere risvegliata dal bacio dell’eroe, modellato su Teseo o su Sigurd; e così, pure, il loro palazzo è circondato da recinti disposti ad anello: sette. Nel racconto hindu, Rama sogna di una impareggiabile bellezza; gli viene detto che vive molto lontano 1) in un palazzo di vetro, 2) attorno al quale scorre un fiume, 3) attorno al fiume c’è un giardino fiorito, 4-7) e attorno al giardino vi sono quattro fitti boschi. Migliaia di principi han fallito nel tentare di superare questi ostacoli; tutti, finché non arriva l’eroe prescelto. In un’altra storia, Panch-Phul Ranee, “la regina dei cinque fiori” abitava in una piccola casa attorno alla quale c’erano sette larghi fossati e sette grandi siepi 148

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fatte di lance. La storia è tratta da Old Deccan Days. Nelle fiabe russe l’eroe va nell’altro mondo attraverso un buco nella Terra, uccide un grande serpente o un ibrido, Koščei l’immortale, e libera la fanciulla prigioniera. Nella versione serba guadagna di nuovo terra volando su un’aquila. La più conosciuta di tutte queste fiabe è La Belle au Bois Dormant di Perrault, la Bella addormentata nel bosco. La Rosa di Grimm dorme in un labirinto di rovi dentro cui nessuno può entrare finché non arrivano l’eroe, e la stagione, la primavera. Nel Ramayana, Sita, chiamata “figlia del solco”, viene rapita da Ravana, re del mondo sotterraneo e signore delle ricchezze; è riconquistata da Rama, ma la Terra la reclama sempre daccapo; come dice il professor Max Müller, riferendosi a Brunilde, vediamo così che la primavera, risveglio e germoglio, se ne è andata, portata via da Gunnar, come Proserpina è portata via da Plutone, e come Sita è portata via da Ravana. Una storia simile a questa, sulla “regina dei fiori”, Rosebriar o Rosa-Mundi, viene collegata ad una vera Rosamond Clifford, “il più bel fiore di tutto il mondo”. Il labirinto di Woodstock appare così in Stow: “Rosamond, la bella figlia di Walter, Lord Clifford, concubina di Enrico II [avvelenata dalla regina Eleonora, come qualcuno pensò], morì a Woodstock [nel 1177] dove il re Enrico le aveva fatto costruire una casa meravigliosa per tecnica e artifici; in modo che nessuno, uomo o donna, potesse raggiungerla se non chi fosse stato istruito dal re, o chi condividesse con lui quel segreto. La casa venne da alcuni chiamata il Labirinto o il Lavoro di Dedalo, a guisa di un nodo in un giardino chiamato Maze. Ma tutti dicevano che alla fine la regina l’avesse raggiunta grazie ad una matassa di fili, forse di seta; ed agì in tal modo che lei, dopo, non visse a lungo; ma quando morì venne seppellita a Godstow in un convento di suore, vicino ad Oxford, con questi versi sulla sua tomba”: Hic jacit in tumba, Rosa mundi, non Rosa munda: Non redolet, sed olet, quae redolere solet.

Lasceremo questo mito con la bella storia, raccontata dal 149

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Maundeville, sulla figlia di Ippocrate tramutata in serpente, “e dicono che lei rimarrà in quella forma fin al giorno in cui arriverà un cavaliere tanto audace da osare raggiungerla e baciarla sulla bocca, e lei giace in un vecchio castello dentro una caverna, e appare due o tre volte all’anno”. Il castello nella caverna, e non la fanciulla, è quel che propriamente appartiene al nostro argomento. Questa figurazione del sottomondo, quale labirinto dei morti, ha avuto una ulteriore influenza, oltre ai labirinti raffigurati sulle pavimentazioni, sull’architettura. Formava il piano ideale della tomba. Gaston Camille Charles Maspero è molto chiaro: “Durante il giorno l’anima pura non era in serio pericolo, ma di sera, quando le acque eterne che scorrono lungo la volta celeste scendono in grandi cascate all’ovest, e vengono inghiottite dalle viscere della Terra, l’anima segue la guida del Sole e delle altre lucenti divinità nel mondo sotterraneo, irto di imboscate e pericoli. Per dodici ore il manipolo divino sfila attraverso lunghi e lugubri androni, dove molti spiriti, alcuni ostili, altri benevoli, ora lottano per sbarrare il passaggio, ora per prestare aiuto a chi deve superare le difficoltà del viaggio. Grandi porte, ciascuna sorvegliata da un serpente gigantesco, erano interposte, una dopo l’altra, e conducevano ad un’immensa sala piena di fuoco e di fiamme, popolata da mostri ripugnanti e da carnefici, il cui compito era torturare i dannati. Poi arrivavano varchi ancor più oscuri e angusti, si avanzava ancor più a tentoni nelle tenebre, ancora lotte con spiriti malevoli, ed ancora il benvenuto degli dèi propizi. A mezzanotte iniziava il viaggio verso l’alto, verso la regione orientale del mondo; ed al mattino, raggiunti i confini della landa delle tenebre, il Sole emergeva da est per illuminare un nuovo giorno”. Le tombe dei re erano costruite sul modello del mondo della notte. Avevano i loro corridoi e le loro porte, le loro sale a volta che si inabissavano nelle profondità della montagna. I dipinti murali portano ancora oltre questa stessa intenzione: il piano dell’edificio ne definiva la geografia, ma questi dipinti raffiguravano il vero scenario del mondo sotterraneo. “A Tebe come a Menfi vi 150

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era l’intenzione di assicurarsi che il doppio del re gradisse la nuova dimora, e di condurre l’anima a raggiungere la compagnia delle divinità del ciclo solare di Osiride, come pure di guidarla attraverso il labirinto delle regioni infernali. Prese come un ciclo, queste raffigurazioni formano una narrazione per immagini dei viaggi del Sole e dell’anima attraverso le ventiquattro ore del giorno e della notte. Ogni ora viene rappresentata, ed anche la zona di influenza di ogni ora, con il suo confine circostante, la cui porta è sorvegliata da un enorme serpente. Questi serpenti hanno vari nomi, come ‘Volto di Fuoco’, ‘Occhio di Fiamma’, ‘Occhio del Male’. Il re era assalito, come Dante e Virgilio alle porte dell’inferno, da suoni spaventosi e grida di lamento. Ogni girone aveva la sua propria voce, che non va confusa con le voci degli altri gironi. Qui il rumore era un immenso ronzio di vespe; laggiù è come il lamento delle vedove per i loro mariti, o l’urlo delle bestie per il compagno; altrove era come il rombo del tuono. Il sarcofago, come le pareti, era pieno di queste scene, dal significato ora lieto ora sinistro”. Questa interpretazione è stata pienamente confermata da Georges Perrot. “L’anima doveva presentarsi di fronte al tribunale di Osiride, il Sole della notte… Nella tomba c’erano insidie e stretti corridoi, abissi aperti, e labirinti di corridoi che si intersecano. Quindi i sepolcri del periodo tebano contengono la soluzione egizia del problema che ha da sempre turbato l’umanità. I loro corridoi sotterranei riproducono in scala minore le caratteristiche principali del mondo sotterraneo”… “Una riproduzione in miniatura delle regioni dell’altro mondo”. Amelia B. Edwards scrive sulle tombe dei re: “Discendere in uno di questi grandi sepolcri è come calare se stessi nel mondo sotterraneo, e percorrere la via delle tenebre; traversando la soglia guardiamo in su quasi aspettandoci di leggere quelle terribili parole secondo le quali tutti quelli che entrano devono lasciarsi dietro ogni speranza. Il corridoio è inclinato davanti ai nostri piedi; la luce del giorno svanisce alle nostre spalle. Alla fine del percorso, ecco una rampa di gradini, e alla fine di questa rampa, in basso, vediamo un altro corridoio in discesa, verso il profondo della completa oscurità”. 151

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La tomba di Seti I si inabissa a 143 metri sotto terra; essa stessa è profonda 54 metri. In un’altra tomba i passaggi, vani, scalinate, pozzi e camere sepolcrali coprono 22.296 metri quadrati. L’interno del magnifico sarcofago di alabastro di Seti I, nel Museo di John Soane, è interamente coperto da rilievi che segnano il percorso del Sole e il passaggio delle porte per raggiungere la sala della giustizia. È un atlante egizio; né gli Egizi erano privi di una guida per la terra da cui nessun turista ritorna: la guida per i morti veniva infatti depositata nel sarcofago, ed in essa venivano loro dette tutte le vie traverse, e tutte le astuzie degli spiriti maligni per sviarli dall’unica retta via. Proprio come ci dice Carl Bock: quando nel Borneo muore un capo, le direzioni vengono cantate, in modo che il morto non sbagli strada e possa evitare di essere indotto su false piste. Facendo attenti confronti, le tombe importanti sono labirintiche; ed è ipotizzabile che le figurazioni scolpite a forma di labirinto – quelle incise ad esempio sulle lastre di Micene, come dimostrato dallo Schliemann – abbiano talvolta l’intenzione di raffigurare la terra dei morti. Le camere nelle tombe etrusche sono particolarmente involute, come si deduce dalle piante fornite da George Dennis. La tomba di Porsenna viene così descritta da Plinio: “Fu sepolto sotto la città di Chiusi, là dove aveva fatto costruire un monumento quadrato con pietre squadrate, di 91 metri di lato, alto 15 circa. Entro questa base quadrata c’è un labirinto inestricabile, tale che, se uno v’entri senza un gomitolo di filo, non può trovar l’uscita”. Sembra che nelle pratiche iniziatiche e nei misteri si costruissero imitazioni del labirinto del mondo oscuro. Il professor Sayce cita da una tavoletta assira che descrive l’iniziazione di un sacerdote di Samas il dio Sole: “viene fatto discendere in una artificiale imitazione del mondo sotterraneo”. E i Misteri eleusini esprimevano la stessa idea. Nella tradizione buddhista, Asoka, nei suoi giorni di crudeltà, costruì davvero “un inferno” e là torturava gli esseri. Un altro mito molto diffuso, riferito ad edifici antichi, quello del percorso sotterraneo, sembra esprimere un pensiero analogo, che trova forse la migliore spiegazione nel percorso sotter152

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raneo del Sole, il quale sarebbe passato, secondo ogni fedele, proprio sotto il suo tempio. Comunque sia, è attendibile quel che ci dicono in molte antiche chiese ed abbazie inglesi, specie se in rovina: “c’è un passaggio sotterraneo che continua da qui per miglia e miglia; passa sotto il fiume, e l’altro capo è al castello”. Vi è un esempio di questa storia in Francia, dove si racconta di un passaggio tra Arles e l’anfiteatro di Nîmes. Sir A.H. Layard ha sentito la stessa storia nella parte più remota della Persia; proprio come ad Erodoto in Egitto si raccontò che c’era una galleria sotterranea che collegava la grande piramide al Nilo; o, come fu detto al viaggiatore francese Theveniot, che questa galleria collegava la piramide alla testa della grande Sfinge, dalla quale si usciva fuori. La spedizione sull’Eufrate dedicò del tempo alla ricerca di un passaggio che si diceva essere esistito sotto il fiume, come dice lo stesso W.F. Ainsworth. Una storia come questa, una volta che ha fatto presa sull’immaginazione, sembra avere una immortale vitalità.

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CAPITOLO OTTAVO

La Porta d’oro del Sole La Porta orientale Dove il grande Sole inizia il suo cerimoniale. Milton Le porte del paradiso paiono aprirsi lentamente, e quelli che son chiamati gli armenti luminosi dell’Aurora escono dalla oscura stalla tornando ai consueti pascoli… Non soltanto l’est, ma l’ovest e il sud e il nord, tutto il tempio dei Cieli, è illuminato. Max Müller, Mitologia comparata

Quando la Terra, o piuttosto la catena dei monti che circonda i confini estremi dell’oceano, era fondamento del cielo solido, si dovette escogitare qualcosa per spiegare la scomparsa e il ritorno del Sole. Un nuovo Sole, si pensò, era creato al mattino per morire la notte, la creatura di un solo giorno. Altri credevano che, quando esso raggiungeva l’oceano, galleggiasse in tondo passando dal nord fino al luogo del suo risorgere ad est; o che, dato che la Terra si ergeva a nord come una grande montagna, il Sole fosse nascosto a periodi dietro di essa. Il modo antico di vedere, comunque, era che vi fossero due varchi, la porta d’Oriente e la porta d’Occidente. Attraverso una il Sole entra al mattino nel tempio del mondo, per uscire di sera passando attraverso l’altra, e così proseguire il suo ritorno lungo la via oscura del mondo sotterraneo. Così narra Esiodo: Là dove Nyx e Hemure venendo vicine si salutano passando alterne il gran limitare di bronzo: l’una per scendere dentro, l’altra attraverso la porta esce, né mai entrambe ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l’una fuori della casa l’altra percorre e l’altra dentro la casa aspetta l’ora del suo viaggio fin che essa venga. 154

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Nei Veda: “L’aurora splendente brillò ed aprì per noi le porte che, tra gli stipiti, s’aprono alte e larghe”. A Babilonia viene mostrato lo stesso schema, in testi come le invocazioni al Sole nascente, pubblicate nei Records of the Past, e da Lenormant, la prima delle quali è, in modo singolare, uguale a quella di Esiodo. “Dischiuse i grandi cancelli da ogni lato; rese forti i portali a sinistra e a destra; nel centro pose i corpi luminosi. Fissò la Luna per governare la notte e per vagare nella notte fino all’alba del giorno”. “Sole, Tu brilli nei cieli inferiori: Tu apri i chiavistelli che chiudono gli alti cieli: Tu apri i cancelli del cielo”. Oppure: “Nella grande porta degli alti cieli, in quel varco che Ti appartiene”. Gradini salivano al cielo dalla porta d’Oriente e scendevano ad Occidente. Lo riporta François Lenormant. Il dottor Hayes Ward, nel terzo volume dell’«American Journal of Archaeology», presenta una dozzina di sigilli babilonesi con la figura cesellata del dio Sole che passa attraverso il portale a due imposte dell’est ed inizia ad ascendere alla montagna del cielo. Vi sono due figure di guardiani della soglia. Per gli Egizi il Sole era Colui che Apre. Le porte della terra dei morti sono spesso menzionate nel Libro dei morti, e sono raffigurate sulle tombe. In Virgilio, nelle Georgiche [III, 260] è lo sbattere di questi grandi portali del firmamento a far risuonare il tuono da tutta la volta celeste; probabilmente un pensiero primitivo, dato che è un’ottima spiegazione: “quem super origens porta tonat caeli”. Per i Fenici, Ercole, Melqart il dio del Sole, fissò nel lontano Occidente le Colonne di Ercole, identificate in seguito con le montagne sui due lati dello Stretto di Gibilterra; ma nemmeno all’epoca di Tacito si era riusciti a stabilire dove, e nemmeno cosa, fossero. Dato che tali erano le porte della struttura del mondo, possiamo aspettarci che le porte dei templi avessero una precisa relazione con i loro grandi prototipi; e come abbiamo visto nel capitolo III, non solo l’edificio offriva le sue quattro pareti ai quattro prospetti del cielo, ma era antica usanza universale che la grande porta fosse la “Porta dell’alba”. Questa porta di enorme 155

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dimensione era propriamente l’unica apertura del tempio, che serviva sia per la luce che per entrare: essa veniva spalancata all’alba, ed il Sole, così, in un atto unico, entrava nel tempio del mondo e nel suo microcosmo. Il suo simbolo marca, come vedremo, le porte del tempio, e, per naturale corrispondenza, quel che appartiene ad una idea è riflesso nell’altra. In Egitto le porte del mondo sotterraneo attraverso le quali transita il Sole vengono mostrate nelle illustrazioni del Libro dei morti come grandi piloni uguali agli ingressi del tempio. Ogni pilone del tempio diventa una Porta del Sole, e, scolpito e dipinto al centro dell’architrave, vi è il disco rosso del Sole. “E il globo alato”, dice il Wilkinson, “ha sempre il suo posto sopra le porte”. E Perrot e Chipiez: “Esso era generalmente decorato con il globo alato, un emblema di cui poi si appropriarono tutte le nazioni che entrarono in contatto con l’Egitto. Questo emblema, nella sua forma pienamente sviluppata, era formato dal disco solare, sostenuto ai lati dall’ureo, il serpente che significava regalità. Il disco ed i suoi sostegni hanno ai loro fianchi due ali spiegate dalle estremità arrotondate come un ventaglio, che simboleggiavano l’instancabile lavoro del Sole nel compiere il viaggio di ogni giorno da un capo del firmamento all’altro. Gli egittologi ci dicono che il gruppo nel suo insieme significa il trionfo di ciò che è giusto su ciò che è sbagliato, la vittoria di Horus su Set, della luce sulle tenebre. Un’iscrizione rinvenuta a Edfu ci rende noto che dopo questa vittoria Thoth ordinò che l’emblema venisse scolpito su tutte le porte dell’Egitto, ed in effetti vi sono ben pochi architravi a non averlo”. È così, vi era una leggenda sacra secondo la quale il dio della Sapienza ordinò che il Sole fosse rappresentato sopra ogni portale, come simbolo della vittoria del Sole sulle tenebre, nella lotta all’irrompere del giorno presso la porta dell’Est. Queste porte colossali sono gli oggetti più importanti, rispetto ai quali i santuari vengono solo dopo; tanto che un tempio egizio può esser definito come una sequenza di porte. Erano molto impressionanti in quanto tali ed il loro significato rituale deve aver di certo costretto alla meditazione e al silenzio chiunque vi entrasse. Amelia B. Edwards così descrive Karnak, 156

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Denderah, ed il tempio scolpito nella roccia ad Abu Simbel: “Attraversando il cortile nella luce ardente del Sole arrivammo ad un possente portale. Rimane soltanto un frammento sporgente della pietra dell’architrave. Quella pietra, quando era integra, misurava 12 metri e 42 centimetri di larghezza. Il portale deve aver toccato i 30 metri in altezza”. Questo su Karnak. “Il globo alato dipinto a scala gigante sulla modanatura sembra sospeso in volo sopra il portale del centro”. E questo su Denderah.

“Certe mattine dell’anno, proprio nel cuore della montagna, appena il Sole si leva ad Oriente sulla sommità delle colline, un lungo raggio diritto colpisce attraverso il portale e trafigge come una freccia l’oscurità dell’interno, penetra nel santuario, e cade come fuoco dal cielo sull’altare, ai piedi degli dèi. Nessuno, fra chi abbia atteso l’arrivo di quella saetta di luce solare, può dubitare che quello fosse un effetto calcolato, e che si fossero fatti scavi orientati secondo un angolo speciale allo scopo di produrlo. Così si può dire che Ra, cui era consacrato il tempio, vi entrasse ogni giorno, e, con una diretta manifestazione della sua presenza, si compiacesse dei sacrifici di coloro che lo adoravano”. Questo, infine, su Abu Simbel. Una figura di Horus che sorregge il disco del Sole è scolpita sopra la porta. L’iscrizione di Ramesse II nel tempio di Ptah, a Menfi, può ben gloriarsi: “Le sue porte sono come l’orizzonte celeste della luce”. Allo stesso modo i Fenici contrassegnavano con la figura del 157

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Sole il centro delle loro porte; e a Byblos presero in prestito il globo egizio. Ad Ebba il Sole sorgeva in mezzo a due lune, come dice il Perrot. I grandi propilei cerimoniali dei templi, come si vede sulle monete, hanno in figura, appena sopra, il Sole e la Luna. Fra le rovine di Medeba, nel territorio dei Moabiti, il dottor Tristram rinvenne sull’architrave di un antico portale emblemi scolpiti del Sole e della Luna. L’acroterio del portico dell’Heraion di Olimpia, il più antico tempio conosciuto in Grecia, era un disco solare; un altro esempio dello stesso genere è riportato dal Lebas e dal Waddington. Nel periodo classico dell’arte siriana la maggior parte dei grandi portali dei templi recava, scolpita sulla parte inferiore dell’epistilio, un’enorme aquila dalle ali spiegate. Il grande portone orientale del tempio del Sole a Baalbek, “la città del Sole”, è il più bello di tutti: era largo circa 6,4 metri e alto, perciò, circa 12, dato che la proporzione condivisa imponeva che l’altezza fosse il doppio della larghezza. “Qui sulla superficie di sotto, vale a dire l’architrave della porta, vi è la celebre figura dell’aquila con la cresta, di stupenda fattura, che stringe tra gli artigli un caduceo e, nel becco, lunghe ghirlande aperte le cui estremità vengono rette da spiriti alati. La cresta dimostra che essa non è l’aquila romana; ma, dato che la stessa figura si trova nel grande tempio del Sole a Palmira, Volney ed altri studiosi hanno pensato che fosse l’aquila Orientale consacrata al Sole”. Nelle Biblical Researches in Palestine del Robinson. L’architrave di Palmira è stato illustrato dal Wood e dal Dawkins. La porta si rivolge ad est e la grande aquila sembra volare dentro il tempio, con le ali spiegate di 3 metri o 3 metri e mezzo di apertura; il resto dello spazio è coperto da stelle e vi sono anche due spiriti dell’alba. Di fronte, sul lato orientale del vasto cortile, uno spazio quadrato di 213 metri, c’è un magnifico propileo. I Memoirs della Palestine Exploration Society descrivono i resti di un tempio in uno stile simile a Kades, rivolto esattamente ad est, con tre portali, di cui quello centrale è molto grande. “L’architrave, che giace spezzato davanti al portale, reca sulla parte inferiore una rappresentazione della divinità alata, il Sole; 158

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rassomiglia all’architrave del piccolo tempio di Baalbek”. Un altro notevole esempio è il grande portale ad est del tempio di Baalzamin, riprodotto e descritto da E. Melchior de Vogüé. Qui c’è, per prima cosa, una “testa del Sole con i raggi” sull’architrave; la parte bassa dell’architrave del portico a pilastri reca l’uccello del Sole, e sulla parte frontale vi è un grande disco scolpito. Il cornicione, o arco, della porta un tempo portava solo un disco del Sole circolare, come quello della tomba a Shefa Amr, in Galilea, qui illustrata. Questa tradizione fu poi seguita nell’usanza dei cristiani di Siria di collocare sull’architrave un disco con il sacro monogramma o la croce, generalmente con elementi a forma di nastro, sulla destra e sulla sinistra, che sono quanto sopravvive dell’ureus egizio che, in una posizione simile, accompagnava la sfera del Sole. Questo diventa un luogo comune della decorazione nell’arte bizantina, che sia a Costantinopoli o a Venezia. Anche in Persia le porte venivano dedicate al Sole. A Hatra, sulla Porta orientale di un tempio, che si presume esser stato costruito all’epoca della dinastia dei Parti, era raffigurato il Sole

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nascente in mezzo a due lune; su questo tempio, e su molti altri, erano collocati sulla destra e sulla sinistra degli uccelli, emblemi dell’alba. Anche in seguito, sotto i re sassanidi, venne conservata questa tradizione sul grande arco di Cosroe II, a Tak-i-Bostan. Il Flandin mostra sul suo coronamento una Luna crescente e sui lati degli spiriti volanti. Vi era anche, pensa George Rawlinson, una sfera, “per esibire all’astante, nel punto culminante di tutta la struttura, gli emblemi conosciuti di due delle divinità nazionali”. Un simbolo del Sole viene messo, allo stesso modo, al centro sopra le grandi porte cerimoniali del recinto dove sono gli stupa buddhisti, rivolti verso i quattro punti cardinali, poiché il

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rituale stabilisce che la processione entri dalla porta ad est, circumambuli la cupola, che rappresenta il firmamento, ed esca ad ovest. Queste ruote, simboli del Sole, permangono a Sanchi; e la tradizione sembra esser stata in genere seguita, se un’antica fonte locale racconta che il Raja di Ceylon incastonò delle gemme nel centro dei “quattro soli” del grande stupa. “Questo forse”, aggiunge il generale Cunningham, “indica come il buddhismo abbia assorbito in sé l’antico culto del Sole, poiché il cerchio era uno dei simboli più ovvi e comuni del Sole”. Nel Talmud il Sole era la grande ruota che gira: “Non fosse per il rumore del roteare del Sole si sarebbe potuto udire il baccano della Città [Roma]; e non fosse per il rumore della città, si sarebbe potuto udire il suono della ruota che gira”. Nell’Orissa, non troviamo unicamente il Sole, o il Sole e la Luna, ma tutti i pianeti. “Il Nava Graha, o nove pianeti, decora gli architravi di tutti i templi della dinastia dei Kessar”. Così scrive James Fergusson. A volte sono figure scolpite, altre volte nove semplici bugne.

È impossibile non fare un confronto tra le grandi porte buddhiste, con i loro triplici architravi e i dischi solari, ed i propilei dei templi fenici, le cui immagini si conservano sulle monete. Si veda quella di Paphos, raffigurata qui. Queste porte avevano doppi architravi che univano i due stipiti, altrimenti separati, e sopra il centro dell’architrave vi sono il Sole e la Luna. Probabilmente gli stipiti delle Porte del Sole ad est e ad ovest sono l’origine dei due pilastri che facevano da simbolo di Melqart nei templi fenici, poiché questo simbolo non era una pietra unica, un aerolito senza forma, ma una coppia di pilastri di metallo o di vetro smeraldino, quasi certamente connessi da un ar161

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chitrave. Sono luoghi sacri e “Portali del paradiso” dedicati a Colui che apre. Georges Perrot nota che, “parlando dei templi fenici e siriani, gli autori classici hanno spesso menzionato gli alti pilastri che si ergevano in coppia davanti al santuario. Nei templi di Melqart, a Gades, erano di bronzo, alti otto cubiti, e recavano una lunga iscrizione. Nel santuario della stessa divinità a Tiro l’ammirazione di Erodoto fu infiammata dalla vista di due pilastri, uno d’oro puro, l’altro di smeraldo, vale a dire lapislazzuli o vetro colorato. Queste stele stavano forse in luoghi simili a quelli occupati a Gerusalemme da Jachin e Boaz, le due famose colonne di bronzo che si innalzavano sulla soglia di un edificio eretto, anch’esso, da un architetto fenicio”.

Son stati rinvenuti pilastri simili scolpiti come simbolo di Melqart su una stele votiva, si veda Phoenicia di Perrot, ed essi formano un vero portale, un trilite, poiché, separati, vengono uniti da un architrave; sopra di essi vi sono il Sole e la Luna; corrispondono alla porta del tempio sulla moneta di Paphos. Il professor Robertson Smith, nel recente volume della Enciclopedia Britannica, alla voce “Tempio”, dice in modo definitivo che “tali pilastri gemelli o stele gemelle di pietra, ricorrono continuamente nell’arte sacra fenicia, e sono per noi ancora familiari come le Colonne d’Ercole”. Gli obelischi egiziani, che stanno ai lati dei grandi portali dei templi, ci fanno da subito venire in mente una analoga intenzio162

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ne. Sia nei tempi antichi che nell’epoca moderna il loro simbolismo rimanda al Sole. “Dedicato al Sole”, è scritto sull’obelisco innalzato da Augusto a Roma. Secondo Plinio, essi “rappresentano i raggi del Sole”. “Gli obelischi”, dice George Ebers, “erano sacri a Ra, il Sole”. È stato scritto che talvolta essi erano completamente ricoperti d’oro, o che, a volte, l’apice veniva coperto con bronzo dorato; sembra che alcuni reggessero sfere o dischi, anch’essi di metallo dorato. Un’iscrizione descrive due obelischi eretti dalla regina Hatshepsut, sorella del grande Thutmosi: “Le loro punte sono coperte dal rame dei migliori tributi di guerra di tutti i paesi: le si vedono da molte miglia di distanza. Vi è un flusso di splendore irradiante quando il Sole si leva al centro, fra i due”. Lo scrive Heinrich Brugsch. Le lapidi ed i bronzi degli Assiri sembrano chiarire che i “pilastri solari” erano ai lati delle entrate, o venivano innalzati alla destra e alla sinistra di un altare. In India, pilastri che sostengono ruote del Sole si trovano ai portali d’ingresso degli edifici sacri. James Fergusson dice: “La mia impressione è che tutti i pilastri sormontati da leoni davanti alle grotte, come a Karla, sorreggessero originariamente una ruota di metallo”. Questi “pilastri dei chakra”, di simile fattura, sono frequenti nelle sculture dei buddhisti, e sembra che le ruote girassero su un asse. Nell’Orissa, ci dice il dottor William Wilson Hunter, sopra i “pilastri del Sole” vi è l’auriga del dio, oppure un’aquila. In Perù e in Messico troviamo esattamente le stesse interpretazioni di questo pensiero universale. Nel tempio placcato d’oro di Cuzco “le porte si aprivano verso est, e, in fondo, c’era il disco d’oro del Sole, messo in modo da riflettere sulla sua splendente superficie i primi raggi solari del mattino, e riprodurre così l’astro d’oro”. “Colonne del Sole” erano innalzate in Perù. “Esse venivano considerate ‘seggi del Sole’, che amava posarsi su di essi. Agli equinozi e ai solstizi mettevano dei troni d’oro su di esse, perché lui vi si sedesse”. Sulla base erano tracciati quadranti che servivano da meridiane. Lo dice Albert Réville, in una delle Hibbert Lectures. Il portale monolitico a Tiahuanaco reca al centro dell’archi163

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trave “una figura che probabilmente rappresenta il Sole”. In Clements R. Markham. In Cina è lo stesso. La porta di una tomba a Canton, raffigurata dal Dresser, ha tutto l’architrave scolpito con il Sole che viene fuori dalle nuvole; ma la forma più consueta era quella di porre sulla trave o sul colmo dei grandi portali dotati di un soffitto, i Pailoo, un Sole fiammeggiante che sorgeva in mezzo a due dragoni, guardiani della soglia. L’usanza di costruire simili porte senza porta persiste ancora nei templi shintoisti del Giappone. Il dottor Dickson dice che il recinto del tempio “è contrassegnato da una porta di pietra, torii, il portale sacro. Il torii è una caratteristica di ogni santuario shintoista: consiste in due pali verticali, sulle sommità dei quali si posa una trave orizzontale appena sporgente da entrambi i lati; sotto c’è una trave trasversale più piccola, le cui estremità non sono sporgenti. Il materiale usato è generalmente il legno, ma può essere la pietra, o il bronzo. I torii servivano originariamente come piedistallo per gli uccelli sacri, tenuti per avvertire dello spuntar del giorno; ma dopo l’avvento del buddhismo il torii arrivò ad essere considerato come una porta”. Possiamo qui notare che le banderuole a forma di gallo su tutte le chiese sono uccelli dorati che salutano il Sole. Nel recente libro del signor Samuel Bing sull’arte giapponese viene notato che tutto è simbolico nell’architettura del Giappone. “Il torii è una pertica per appollaiarsi, come indica la parola, e le sue due travi ricurve sono fatte in modo che il Sole, re della Natura, possa arrivare, come un uccello, e posarsi là”. Hokusai, il grande artista giapponese, ha dedicato un libro proprio a questo tema; e dà conto così delle curve sulle massicce coperture dei portali dei templi: “Il Sole, rappresentato da un grande cerchio su una linea orizzontale, è sostenuto alla sua destra e alla sua sinistra da quattro cerchi più piccoli, che rappresentano le quattro stagioni”. Anche se un diagramma che ci mostra pare troppo distante per essere appropriato, è interessante che Hokusai associ definitivamente il Sole con la porta; ed i nostri ampi confronti rispondono a sufficienza alla domanda di Bing che nel suo libro cita Hokusai: “Questa spiegazione ha un 164

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qualche valore storico, o è soltanto ingegnosa e poetica? In ogni caso, basta che essa venga da un artista giapponese che non limita a questo le sue indicazioni sulla natura per dimostrare quanto in Giappone sia forte la convinzione che le forme architettoniche provengano, più o meno, da lontani ricordi di un qualche antico simbolismo”. L’ipotesi che i torii fossero prima di ogni altra cosa pertiche per gli uccelli, nell’uso o nell’etimo, certamente non è ben fondata, anche se fu avanzata dal signor Ernest Mason Satow. Senza dubbio derivano, con il buddhismo, dalle porte che conducono, in India, agli stupa, che là sono chiamate torana, “Porte celesti”. In Giappone, si entra nel palazzo del dio-sovrano a Kyoto dal “Cancello del Sole”, dice il Reid; e il dottor Dresser ha visto pellegrini che adoravano il Sole nascente in mezzo a due rocce collegate da un fastello di paglia, cui erano appesi i simboli shintoisti. Questi simboli shintoisti sono il torii stesso, lo specchio, strisce di carta attaccate a un bastone, e la fune. Quest’ultima è di fibra di riso, “che varia di spessore, dal pesante cavo, spesso appeso sui torii, o entrata del tempio, a quello spesso non più di un dito, appeso sopra le porte delle case”. In Perù veniva sospesa, tra dure rocce attraverso una valle, una catena per catturare il Sole. Lo scrive Frazer, nel Ramo d’oro. I due pilastri davanti al tempio di Paphos, dice C.O. Muller, erano uniti da una catena. Nei templi hindu, si trova a volte una catena che pende come una ghirlanda attraverso il portale. L’idea di localizzare il Sole, catturandolo sulla Porta orientale, sembra, quindi, una idea universale. Possiamo ricordare che spesso si pensava al vero Sole come fosse in catene nel compiere le sue fatiche quotidiane. In Arcadia, Pausania visitò un bosco sacro a Zeus: “Sulla cresta più alta della montagna c’è un cumulo di terra battuta, l’altare di Giove Liceo; si può vedere da quel luogo la maggior parte del Peloponneso; e di fronte all’altare si ergono due pilastri rivolti al Sole nascente, sui quali sono due aquile d’oro di fattura ancora più antica” [VIII, 2]. Nel luogo sacro più antico della Grecia, il preomerico ora165

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colo di Zeus a Dodona, c’erano due colonne; su una c’era una coppa di bronzo, sull’altra una statua di bronzo. Alcune sfere appese a delle catene erano disposte in modo che, fatte oscillare dal vento, battessero contro il vaso. Senza dubbio gli elementi realizzati con catene e melograni attorno ai vasi dei pilastri di Salomone erano ideati, allo stesso modo, come campane eoliche, che facevano vibrare una musica ad ogni soffio di vento, come le campane d’oro, appese all’esterno dei templi in Birmania, con la precisa intenzione di richiamare i dolci suoni del paradiso. Per queste porte di Salomone, e quelle di Erode, si veda il capitolo “Toran” nell’opera di James Fergusson sul Santo Sepolcro e il tempio di Gerusalemme. L’ingresso, secondo Flavio Giuseppe, era privo di porte, “perché era il simbolo del cielo, aperto dappertutto e dapperutto visibile”. Nel Talmud è scritto che esso era alto circa 18 metri e largo 9. Sopra i pilastri vi erano cinque travi di legno, ognuna sporgente di un cubito rispetto a quella sottostante. “Una vite d’oro era distesa su questa entrata al tempio, avvinta alle travi di sostegno”. Altre porte della Siria erano decorate con viti scolpite; e questo ci dà un’ulteriore origine di Bisanzio. Il portico e l’ingresso erano interamente rivestiti d’oro. La porta interna veniva spalancata al momento del sorgere del Sole, e il rumore dei catenacci sciolti, si diceva, veniva udito persino a Gerico. Dal portico scendeva un velo ricamato di stelle. I propilei greci dell’acropoli nascono dalla stessa idea; ed è di un qualche interesse notare che gli antichi portali dei Greci e degli Etruschi avevano forme comuni ed adeguate a tali strutture isolate: gli stipiti inclinati e l’architrave che li sovrastava per intero. I Giapponesi dicono che “se non sei passato sotto la toran entrando nel tempio, le tue preghiere non verranno ascoltate”; sempre nel Fergusson; ed alcuni cristiani che erano stati obbligati ad abbandonare la loro fede, dovettero passare sotto uno di questi torii, come un segno; perché anche questa non è altro che la Porta del cielo. Probabilmente l’usanza di schiacciarsi passando fra due colonne è stata, in antico, associata a questa idea. San Willibaldo nell’VIII secolo disse, a proposito della chiesa 166

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dell’Ascensione: “L’uomo che riesce a insinuarsi tra il muro e le colonne è libero dai suoi peccati”. Coppie di pilastri vengono associate anche a monumenti che commemorano i morti, o vengono usate per ricordare il passato. È antica la leggenda delle due colonne di bronzo nel tempio di Ercole a Gades. Procopio, nel De bello vandalico, dice che ai suoi tempi esistevano due immense stele di pietra nella città di Tirgisi in Numidia, con un’iscrizione degli abitanti, nella lingua dei Fenici, con questa leggenda: “Noi siamo coloro che sono fuggiti da Joshua, il ladro, il figlio di Nun”. Una testimonianza ancora più antica, si diceva, conservava, in questo modo, le conoscenze di coloro che vivevano prima del diluvio. “I figli di Seth segnarono la conoscenza delle cose celesti su due colonne”. “E perché le loro invenzioni non andassero perdute prima di essere conosciute a sufficienza, ricordando la predizione di Adamo secondo la quale il mondo sarebbe andato distrutto, una volta per la forza del fuoco ed un’altra volta per la violenza dell’acqua, fecero due pilastri, uno di mattoni, l’altro di pietra. Scrissero le loro scoperte su entrambi, poiché se il pilastro di mattoni fosse stato distrutto dal diluvio, sarebbe rimasto il pilastro di pietra, per presentare all’umanità tali scoperte, e anche per annunciare che esisteva un altro pilastro, di mattoni, che avevano eretto. Orbene, esso rimane tuttora nella terra di Siriade”. È in Flavio Giuseppe [I-II]. Si diceva che la coppia di immensi pilastri di fronte al tempio di Hierapolis fosse in qualche modo associata al diluvio. Il tipo di sepolcro più caratteristico e ripetuto era il dolmen o trilite; il quale andava dal più rozzo insieme di pietre grezze ad un lavoro perfettamente rifinito: un paio di colonne con trabeazione. In questa forma si trovano specialmente in Siria e nei luoghi che avevano rapporti con i Fenici; ma questa tradizione è diffusa su un raggio talmente ampio da escludere che essa derivi da un paese solo. In Rude Stone Monuments, il Fergusson ha già riscontrato le affinità con la torana, illustrando una tomba buddhista a forma di torana che corrisponderebbe ai sepolcri trilitici dell’Occidente. Come in Egitto, ed in generale presso tutti i popoli dell’antichità, si pensava che l’anima passasse at167

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traverso la porta ad ovest; e come nella maggior parte delle tombe antiche, quelle della Persia e della Licia, ad esempio, c’è una falsa porta, una semplice raffigurazione di un portale, con due guardiani della soglia. Abbiamo già visto che la tomba era il doppio del mondo sotterraneo: non saremmo dunque giustificati nel considerare questi triliti sepolcrali come l’ingresso della tomba e, allo stesso tempo, come il portale del mondo sotterraneo? In Egitto era di certo così. Maspero ci dice come nelle tombe delle dinastie, quelle più antiche e quelle più tarde, l’elemento principale fosse una falsa porta, l’ingresso nella “eterna dimora” dei morti. Si trovava spesso ad ovest, ma quella posizione non era stata stabilita da alcuna regola. Ma ne siamo certi?, aggiungo. Nelle epoche più remote era rappresentata come una vera porta, bassa e stretta, incorniciata e decorata come la porta di una casa normale, ma non traversabile. Un’iscrizione scolpita sull’architrave, a caratteri grandi e ben leggibili, commemorava il nome ed il rango del proprietario. Nella piramide di Unas, della VI dinastia, la camera era rivestita di alabastro, e scolpita a rappresentare grandi porte monumentali; e, spingendo ancora oltre questo carattere della duplicazione, “piccoli obelischi, alti circa 1 metro, son già stati rinvenuti in tombe della IV dinastia. Stanno su entrambi i lati della porta che conduce alla dimora dei morti”. Nella Encyclopaedia of India, alla voce Toran redatta dal Balfour, si avanza la stessa ipotesi: “Il dolmen, o l’altare trilitico, al centro di tutti quei monumenti chiamati druidici, è con ogni probabilità una toran, consacrata al dio Sole… al quale (in India), appena costruito il tempio, si innalzava una toran”. Gli obelischi egizi venivano principalmente utilizzati per importanti iscrizioni, e la loro pertinenza simbolica come memoriali eterni verrà rinforzata da quel che dice il Perrot sul significato geroglifico dell’obelisco: “era utilizzato per scrivere la sillaba men, la quale significava solidità o stabilità”. Dal Dizionario biblico impariamo che Boaz e Jachin, i nomi delle colonne di Salomone, avevano un valore equivalente. Jachin, “egli stabilì”, e Boaz, “in lui c’è forza”. Il Renan legge: “Possa la doppia colonna ergersi solida”. Difficilmente possiamo ancora aver dubbi: le 168

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colonne gemelle rappresentano gli eterni e irremovibili pilastri della porta del paradiso celeste, attraverso la quale il fedele deve passare per raggiungere il tempio; o l’anima, per raggiungere l’altro mondo. Le soglie devono avere guardiani. Le porte degli Assiri erano, sotto questo aspetto, come le Porte del Sole ad est e ad ovest, ove il firmamento solido poggiava su due spiriti alati in forma di toro. La “via del Sole” alle “grandi porte gemelle” era sorvegliata dalla coppia di cherubini scorpione. Lo dice W. St. Chad Boscawen, nei suoi studi su Babilonia. “Leggiamo invocazioni ai due tori che stavano ai lati della porta della dimora infernale, che non erano più simulacri di pietra, ma esseri viventi, come i tori alle porte dei palazzi celesti degli dèi”. “L’invocazione che segue era indirizzata alle orecchie del toro ‘posto sulla destra del recinto di bronzo’, poiché essi immaginavano che la porta dell’inferno avesse ai suoi lati tori dalla testa umana, come quelli che sorvegliavano le porte dei palazzi assiri; solo questi tori erano spiriti viventi: ‘O, grande toro, grandissimo toro, che scalci verso l’alto, che apri l’accesso all’interno!’. Il toro alla sinistra del recinto di bronzo veniva invocato a sua volta”. È ancora il Lenormant. A questo punto è chiaro come queste non siano le caratteristiche del tempio e della porta del palazzo viste nella Porta del Sole verso il mondo sotterraneo, ma l’esatto contrario; poiché questi guardiani erano conosciuti, nelle età della storia, prima che fosse possibile realizzare “simulacri” di pietra come quelli che si vedono al British Museum. Nell’iscrizione fatta sul toro della porta di Khorsabad, il suo grande costruttore afferma: “Io ho aperto otto porte in direzione dei quattro punti cardinali. Alle grandi porte dell’est ho imposto il nome di Porte di Samas (il Sole) e di Bin”. Un altro re fa decorare d’argento “la porta dell’alba”. Gli enormi tori con la testa d’uomo erano riproduzioni, per le porte del palazzo, delle creature che custodivano le Porte del Sole ad est e ad ovest, cui erano consacrate. “Queste, dice il Le169

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normant, sono le spiegazioni, tratte dalle iscrizioni cuneiformi, sulla natura e sul significato degli spiriti dalla forma di tori alati con volti umani, le cui immagini erano poste come guardiani alle porte degli edifici di Babilonia e di Assiria”. Queste rappresentazioni dei guardiani delle Porte del Sole avevano un’influenza magica e benefica, come mostra un’iscrizione di Esarhaddon: “Tori e leoni scolpiti nella pietra, che con il loro aspetto maestoso impediscono ai nemici malvagi di avvicinarsi: i guardiani dei passi, i salvatori del cammino del re, che li ha costruiti sulle porte… Possa il toro della buona fortuna, il genio della buona fortuna, il guardiano dei passi del mio sovrano, colui che dà gioia al mio cuore, per sempre vegliare su di lui! Che la sua attenzione non cessi mai più”. In Egitto le porte del mondo sotterraneo erano sorvegliate da creature dalla forma di animale che spesso sono menzionate nel rituale. Abbiamo anche visto che il disco del Sole era posto sopra la porta in memoria della battaglia tra Horus, il Sole nascente, ed il Potere delle tenebre: per intraprendere tale guerra Horus prese la forma di un leone dalla testa umana, la Sfinge; e questa creatura è chiamata il “Sole sull’orizzonte”. Non è evidente che le sfingi, guardiani della soglia dei templi – una singola coppia, o un grande viale dove sono a centinaia – derivino da queste creature? È la stessa cosa in Oriente e in Grecia. “I poeti vedici”, dice il professor Max Müller, “hanno immaginato due cani che appartengono a Yama, il signore degli spiriti dei dipartiti. Sono chiamati messaggeri di Yama, assetati di sangue, dal grosso muso, marroni, con quattro occhi, e pallidi: i ‘figli dell’alba’. Al dipartito viene detto di passare da loro nella sua via verso i padri, che stanno in gioia presso Yama. A Yama si chiede di proteggere i dipartiti da questi cani; e gli stessi cani, infine, vengono implorati perché garantiscano la vita ai viventi e permettano loro di vedere ancora il Sole. Questi due cani rappresentano uno dei più umili fra i molti concetti del mattino e della sera… La Grecia, benché abbia riconosciuto in Hermes la guida delle anime dei defunti, non lo ha mai degradato al rango di cane da guardia dell’Ade. Questi cani da guardia, Cerbero e Ortro, rap170

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presentano, comunque, i due cani di Yama, l’ombra del mattino e della sera, qui visti come poteri ostili e demoniaci”. Uno di essi era nero, l’altro maculato. Ora si confronti tutto questo con la concezione omerica di un palazzo degno di tale nome, il palazzo di Alcinoo: Ulisse … All’ostello reale il piè movea, E molte cose rivolgea per l’alma, Pria ch’ei toccasse della soglia il bronzo: Ché d’Alcinoo magnanimo l’augusto Palagio chiara, qual di Sole o Luna, Mandava luce. Dalla prima soglia Sino al fondo correan due di massiccio Rame pareti risplendenti, e un fregio Di ceruleo metal girava intorno. Porte d’ôr tutte la inconcussa casa Chiudean: s’ergean dal limitar di bronzo Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo Sosteneano architrave, e anello d’oro Le porte ornava; d’ambo i lati a cui, Stavan d’argento e d’ôr vigili cani: Fattura di Vulcan, che in lor ripose Viscere dotte, e da vecchiezza immuni Temperolli, e da morte, onde guardato Fosse d’Alcinoo il glorioso albergo.

Questo modo di vedere è stato già proposto dal signor Charles Francis Keary, nei suoi Outlines of Primitive Belief: “Le due divinità della soglia hanno, mi immagino, un significato speciale. Io vedo in esse i discendenti dei Saramei, o di qualunque cosa nelle antiche credenze ariane venisse prima di questi guardiani della casa della morte, che sono proprio fratelli dei due cani del Cacciatore Selvaggio, Hackelburg. Il giardino che sta attorno al palazzo di Alcinoo rappresenta con evidenza una dimora dei beati. È proprio come il giardino delle Esperidi, e come tutte le descrizioni, tracciate prima o dopo, del paradiso terrestre”. È interessante trovare ancora questi due cani, guardiani del171

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la soglia della terra dei morti, nelle credenze d’Irlanda. Lady Wilde ci dice che a coloro che assistevano ai funerali si ingiungesse, per un po’ dopo il passaggio dell’anima, di non lamentarsi con grida, per paura di svegliare i due cani che sorvegliavano la via, ed avrebbero così sbranato il pellegrino che arrivava alle porte. Le due grandi bestie, sostegni rampanti di un pilastro centrale sopra la Porta dei Leoni a Micene, non sono che i guardiani “delle fauci della morte, la porta dell’inferno”. Una forma trattata esattamente nello stesso modo la si può trovare, al British Museum, sui timpani delle tombe licie, ove le sfingi fan da guardiano alla falsa porta. Oppure, a volte, c’è un pilastro centrale, come nella composizione di Micene, di cui, purtroppo, il capitello è andato distrutto. Due sfingi come queste, con il pilastro, stanno sopra l’epistilio centrale dell’antico tempio di Assos; e questa disposizione diventa poi uno dei luoghi comuni dei progetti, ma giustamente, ed a lungo, associato alla porta del tempio o del sepolcro. Il prototipo caldeo è mostrato in Chaldea di George Smith: due ibridi, uomini-scorpione, “i custodi del Sole”, stanno ad entrambi i lati di un oggetto simile a un pilastro, e sopra di essi è sospeso il simbolo del Sole. L’usanza di collocare in effigie orribili mostri, umani o ibridi, sulla porta di entrata è universale. La consuetudine ha forse una radice nella semplice natura delle cose, nel suo essere sentita, all’istante, come appropriata; ma non si può dubitare che i guardiani della Porta del Sole fossero messi là per rispondere al quesito: “Perché i morti non ritornano?”. Queste bestie “fanno festa a tutti coloro che entrano”, ma fanno a pezzi tutti coloro che vorrebbero ritornare indietro. “Facile è la discesa nell’Averno”. In tutto l’Oriente, in India, in Cina, nel Siam, ed in Giappone, le porte sono protette in questo modo. Davanti ai templi giapponesi vengono messe due statue chiamate “i vendicatori”, come spiega il Dixon; e Bird ci dice che sulle porte delle case e persino degli armadi vi sono stampe di questi guardiani. Su qualche tempio indiano vi sono enormi cavalli rampanti, i cui cavalieri trafiggono i nemici con la lancia. 172

La Porta d’oro del Sole

Nelle antiche strutture dei buddhisti a Ceylon le porte vengono sorvegliate da creature gigantesche, che adempiono alla stessa funzione di protezione magica degli spiriti assiri. Sono chiamati dvarpala, “guardiani delle vie d’accesso”. “Si supponeva che queste grottesche figure demoniache fossero dotate di un potere misterioso, abbigliato in intenso orrore, capace di spaventare, scacciandoli, i nemici”. I gruppi di feroci leoni agli ingressi delle chiese lombarde hanno identico significato. L’antica usanza cristiana, come mostrato dal De Vogüé in Siria, era di mettere Michele e Gabriele ai due lati della porta; altre volte, invece delle figure, il disco centrale sull’architrave recava le lettere X, M, G che stanno per Cristo, Michele e Gabriele. Il Manuale di iconografia bizantino prescrive che questi arcangeli siano dipinti a destra e a sinistra, all’interno della porta; e Jameson ci dice che essi venivano dipinti anche sugli stipiti dell’arco di trionfo del presbiterio. Se la porta è la porta della morte, questo fa comprendere quella curiosa credenza primitiva secondo la quale il toccare la soglia era di cattivo auspicio. Gli antichi viaggiatori in Oriente ci dicono con quanta cura questo fosse da evitare; e sappiamo come le spose dovessero essere sollevate al di sopra della soglia. Spesso è stato detto che noi percepiamo un sistema, e vediamo i nostri moderni metodi di pensiero in antiche credenze che venivano seguite senza una consapevole motivazione. Questo è senza dubbio perfettamente vero, ma si dovrebbe sottolineare, in risposta, che un metodo può spiegare persino gli sviluppi inconsci del pensiero. Non è una risposta a Ruskin il dire che Turner ammetteva che il critico d’arte avesse visto più di quanto avesse visto il pittore nei suoi quadri: questa è la giustificazione del critico. L’entrata in uno dei templi del Perù è stata aperta perforando un’unica enorme pietra, perfettamente quadrata, ed interamente coperta di sculture. L’idea del “monolitismo” è stata talmente affascinante che forse è stata soltanto la suprema difficoltà a renderla poco frequente. Tavernier dice di aver visto un portale di una moschea a Taurus “cavato tagliando una grande pietra bianca trasparente, alta circa 3 metri e mezzo e larga 7”. 173

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Le tre pietre degli stipiti e dell’architrave erano quanto di tecnicamente più prossimo al monolitismo potesse esistere. Pausania ci dice che in molti templi le porte venivano spalancate soltanto una volta all’anno. Dice che la porta della tomba di Elena di Adiabene, a Gerusalemme, “non può essere aperta fuorché in un particolare giorno dell’anno. E allora essa si apre da sola grazie ad un meccanismo, resta aperta per un po’, e poi si richiude”. Di solito la stessa porta ad Oriente veniva coperta con del metallo scintillante. Nabucodonosor dice del tempio di Babilonia: “Ho reso brillante come il Sole la porta della gloria”. Questa pratica era talmente conosciuta in Grecia, che Aristofane fa un’allusione fugace alle porte dorate del tempio. Lo stesso in Siria; nel tempio di Mabog, Hierapolis, le porte erano dorate, ed anche l’intero santuario, pareti e soffitto. Due immense colonne, alte quasi 55 metri, stavano ai lati della porta, all’interno della quale, sulla sinistra, aveva sede il trono del Sole. La grande porta ad Oriente del tempio di Erode era completamente dorata, ed anche una porzione della parete che la circondava. È così che abbiamo la “Porta d’oro” del Protovangelo; a Gerusalemme, oggi, l’ingresso all’area sacra ha lo stesso nome. Costantinopoli e Ravenna avevano simili porte, e così Roma, perché le Mirabilia Urbis parlano della Porta aurea. In Egitto, come abbiamo visto, gli obelischi erano dorati, come probabilmente erano le porte; e l’usanza tiene bene nell’India e nella Birmania moderne. Nel palazzo di Spalato le quattro porte ai punti cardinali erano chiamate Porta d’oro, di bronzo, di ferro e Porta del mare. Alcune porte dei templi greci erano rivestite con l’avorio. I primi edifici cristiani guardavano naturalmente al tempio come a un modello, e si può vedere in Eusebio che persino la torana ebbe un posto fra le nuove strutture. Descrivendo la chiesa di Tiro, Eusebio dice che fu eretto, distante, verso il Sole nascente, un magnifico propileo, per attirare chi passava; passando attraverso la corte e le altre porte, si raggiungeva l’entrata al tempio vero e proprio, rivolta, anche essa, verso il Sole nascente, e laminata di bronzo. Più tardi, quando si prese a entrare nelle chiese dalla parte 174

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che volgeva al Sole calante, il potere dell’antico simbolismo era andato perduto: eppure esso ebbe una lunga sopravvivenza, anche se nell’inconscio profondo. Fin nel Medioevo il metallo scintillante era l’unico materiale adatto per le porte d’ingresso. Quelle della basilica di San Giovanni, a Damasco, erano d’argento; quelle di Costantinopoli e di Roma di bronzo dorato. Era anche abitudine, in tutto il Medioevo, scolpire i segni dello zodiaco sull’architrave della grande porta ad ovest. I portali di Venezia, in particolar modo, hanno scolpiti, quasi invariabilmente, il Sole e la Luna, sul coronamento dell’architrave; e c’è un bell’esempio a Piacenza, con i segni dello zodiaco sull’architrave, ed il Sole e la Luna al suo zenit. John Ruskin, ne Le pietre di Venezia, dice: “Il Sole e la Luna sui lati della croce sono costantemente impiegati nelle chiavi di volta degli archi bizantini”. Dell’archivolto del portale centrale di San Marco, scrive: “Le sculture dei sei mesi si trovano nella sottostante superficie, a cominciare dal fondo a sinistra di chi entra, e si susseguono torno torno l’archivolto. Risultano comunque divise in due gruppi, poiché al centro c’è una bella raffigurazione del giovane Cristo che siede in una nicchia trapunta di stelle a rappresentare il firmamento, e, ai lati, il Sole e la Luna che presiedono sul giorno e sulla notte”. Tornando indietro, quando Giosia liberò il tempio di Gerusalemme dagli oggetti e i simboli dell’idolatria che ivi erano stati allestiti dal suo predecessore apostata, la biga simbolica del Sole fu rimossa facendola uscire dal cancello ad Oriente. “Ed egli portò via i cavalli che i re di Giudea avevano donato al Sole quando entravano dentro la casa del SIGNORE… e bruciò i carri del Sole col fuoco”. Questo era, senza dubbio, un trono del Sole come quello di Mabog. La bella metopa greca, rinvenuta a Ilio, con Febo, rappresentato proprio nel suo uscir fuori, che sorge sulla sua quadriga, era stata evidentemente ideata per esser posta sopra il portico dell’ingresso ad Oriente; che fosse sola, al centro, o fosse bilanciata dal carro discendente della notte. Come dice il dottor Schliemann: “Qui Elio, per così dire, irrompe dalle porte del giorno, e sparge la luce della sua gloria sull’universo”. Questo, il 175

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momento esatto del sorgere del Sole, è un tema bello ed appropriato per l’entrata ad est di un tempio; lo si trova, ancora più potente, sul frontone orientale del Partenone. Scena della scultura è l’Olimpo; ed il soggetto centrale è la nascita di Atena. Sull’angolo sinistro del frontone, per citare Murray, “Elio è rappresentato mentre emerge dalle onde sul suo carro. Il Michaelis ha notato che l’angolo dov’era stata messa questa figura è il punto più buio del frontone orientale, e che esso è in piena luce soltanto al momento del sorgere del Sole. L’angolo destro del frontone appartiene al carro della dea della notte… il cavallo rappresenta un motivo in voluto contrasto rispetto alla coppia sull’angolo opposto. Le teste dei cavalli di Elio son trascinate verso l’alto con fiammeggiante impazienza quando emergono dalle onde; l’inclinazione verso il basso della testa qui descritta, con le narici dilatate, indica che il carro di Selene sta per svanire sotto l’orizzonte”. È il momento preciso della doppia azione dell’aurora, descritto da Omero e da Esiodo, “dove rientrando il pastore chiama il pastore, e quello uscendo, risponde; qui, un uomo senza sonno prenderebbe due paghe, una pascendo bovi, l’altra pecore bianche menando; perché son vicini i sentieri della notte e del giorno”. Vicino ad Elio giace il dio della montagna, e accanto ad essi le Ore. “E cigolano da Sole le porte del cielo, che l’Ore sorvegliano”. È nell’Iliade, V, 749. Il Bournouf, nella sua Légende Athénienne, esamina l’orientamento di questo tempio: una linea assiale, incisa con cura sul pavimento, punta 14°11’ a nord-est, dove lui pensa appaia il primo raggio dell’alba agli equinozi. Il frontone raffigura il dramma eterno dell’aurora: “l’intera scena riflette il cielo come in uno specchio”. Il grande portico del Partenone è la vera Porta del Sole. Da esso sorge il Sole e la notte si ritira, su esso stanno gli dèi dell’Olimpo. In conclusione, la porta rappresenta uno dei simboli più puri, che sia religioso o politico. I luoghi sacri, come Babele, erano le “Porte di Dio”, e sulla porta il re incontrava il popolo e amministrava la giustizia. I palazzi d’Oriente avevano un porti176

La Porta d’oro del Sole

co, come quello di Salomone: “Fece anche il vestibolo del trono, ove rendeva giustizia, cioè il vestibolo della giustizia”, è nel Libro dei re [VII, 7]. Avendo seguito le tracce della tradizione, siamo in grado di descrivere a grandi linee il rituale dell’aurora compiuto alla Porta orientale, con l’aiuto della bella descrizione di Ezechiele degli “abomini commessi in Israele”. “Mi condusse allora all’interno del portico della casa del Signore, e vidi la porta del tempio del Signore, e fra il vestibolo e l’altare c’erano circa venticinque uomini, prostrati con le spalle volte al tempio del Signore e la faccia a Oriente, che adoravano il Sole verso Oriente”. È il momento del sorgere del Sole, freddo e carico di promesse; tutte le porte sono spalancate verso est. I fedeli attendono, e le punte d’oro degli obelischi ardono già. Il Sole mostra il suo orlo rosso attraverso la porta cerimoniale della corte esterna, aperta. I fedeli si prostrano in adorazione. C’è un improvviso senso di risveglio, di calore e vita e luce, una vibrazione che traversa l’aria. Le piccole campane messe a festoni fra i pilastri fan tremolare note argentee; una voce profonda vibra dal santuario. I fedeli si alzano in piedi. Le grandi porte del tempio si chiudono con un fragore che riecheggia come tuono. Baal è entrato nel suo tempio.

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CAPITOLO NONO

Pavimenti come il mare … il mare, piatto come un pavimento di lapislazzuli, saliva impercettibile, sull’orizzonte, fino al cielo. Gustave Flaubert

In Le pietre di Venezia Ruskin ha scritto sui pavimenti delle basiliche di Murano e di San Marco: “Avvicinandosi al pavimento, già al primo passo siamo in preda ad uno stordimento, perché è un mosaico greco; ondeggia come il mare ed è tinto come il collo di una colomba”. “Sulle cupole della copertura la luce entra solamente attraverso i piccoli fori, come grandi stelle; qua e là un raggio errante o anche due entrano da una finestra lontana, spingendosi nell’oscurità, cadendo sul pavimento, accendendo con un breve lampo fosforico le onde di marmo che si sollevano per poi ricadere in mille colori”. Il signor George Edmund Street, nel 1854, ha descritto “la selvaggia bellezza del pavimento” di San Marco che si agita su e giù come un mare pietrificato; e si è spinto oltre, nel suggerire che quella ondulazione di superficie fosse intenzionale, per fare del pavimento qualcosa di simile al mare. Per quanto magnifica come fantasia, questa teoria non è stata accettata da tutti, e la somma delle prove tratte dagli esami tecnici della costruzione e del suo assetto le si oppone. Per di più, Street si riferisce anche al pavimento della “chiesa madre” di Costantinopoli come ad una rappresentazione disegnata dell’acqua; il pavimento, però, è interamente ricoperto da stuoie, e non è mai stato riprodotto in disegno, né descritto con precisione. La storia del pavimento che rappresenta l’acqua, come compare in molti libri recenti su Costantinopoli, è tratta dalla descrizione della chiesa fatta dal von Hammer. L’originale è offerto da Codinus, un ufficiale del palazzo imperiale di Costantinopoli, che nel XV secolo ha scritto un rapporto su Santa Sofia, dal quale un amico ha estratto le citazioni che seguono. Nella chiesa, come Giustiniano l’aveva compiuta, “i vari colori del pavi178

Pavimenti come il mare

mento erano come l’oceano”. Il pavimento andò distrutto quando il tetto crollò dentro la chiesa; e durante i lavori di riparazione intrapresi da Giustino, il nipote di Giustiniano, “dato che non poteva procurarsi in altro modo pietre screziate, inviò Marses, il patrizio, a Proconneso per estrarre un marmo che si avvicinasse il più possibile a quello originale. Furono posati quattro fiumi di marmo bianco screziato di verde, come i quattro ruscelli che scorrono dal paradiso verso il mare”. I marmi qui nominati sono quelli che noi conosciamo come pavonazzetto e verde antico: ed alcuni amici che hanno esaminato il pavimento, per quanto riuscivano a vederne attraverso le fessure fra “quelle detestabili stuoie”, dicono che esso è fatto di lastre di marmo biancastro con strisce di verde; ma è impossibile senza altre prove stabilire se il pavimento sia quello originale. È solo nel mito che troviamo l’architettura ideale, pensiero puro, libero da costi e funzioni. Gli scrittori fantastici ci hanno donato delizie nel decorare i loro edifici da sogno con meravigliosi pavimenti: bronzo nel palazzo di Alcinoo, mosaici di gioielli in Amore e Psiche, diaspro, onice, pietra corallina, nelle storie medievali, quadrati alterni d’oro e argento per gli scacchi viventi. Ma i pavimenti veri difficilmente erano meno belli. Alcuni avevano superfici di marmo nero o erano fatti completamente di lastre bianche, “come la neve”, dice Procopio della pavimentazione di una chiesa costruita da Giustiniano. Un altro pavimento, nel palazzo di Costantinopoli, “imitava i fiori del campo”. Nei pavimenti medievali, di solito, come soggetti si sceglievano passi della storia naturale, seguendo in questo la tradizione romana e quella orientale. Le quattro stagioni, ad esempio, erano uno dei modelli preferiti nei pavimenti dell’epoca classica, a Cartagine o a Cirencester. Dalla Siria il Renan portò un mosaico di una chiesa cristiana di Tiro, che rappresenta le Stagioni, i Mesi e i Venti. In Italia, l’Anno ha spesso il suo trono nel centro, che regge il Sole e la Luna, ed è circondato dai Mesi, con i rispettivi Lavori campestri. I quattro Fiumi dell’Eden sono versati da grandi vasi, e gli angoli son riempiti dagli animali della Terra. A Brindisi e ad Otranto vi sono pavimenti dal raffinato disegno, qualunque possa essere il loro significato: “Le prin179

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cipali ripartizioni sono formate da alberi giganteschi, poggiati su elefanti, che si spingono fino in fondo alla navata; i rami sono vivi per tutte le specie di animali”. Questi motivi, afferma il Woltmann, sono presi dai disegni dei tappeti orientali. Comprendiamo, ancora una volta, che il seguire qualunque pensiero sulla decorazione, ci porta in Oriente, si direbbe in Persia; e siccome l’estremo Oriente ha subìto in uguale misura l’influenza dell’arte persiana, possiamo vedere in quel paese almeno il centro della vera capacità decorativa ariana. Quando Assuero diede la sua festa a Shushan il pavimento era di “porfido, e marmo, e alabastro, e di una pietra dal colore blu”, lapislazzuli. C’è un bellissimo pavimento assiro al British Museum, di alabastro e lavorato come un arazzo; e Sadi ci parla di una tomba il cui pavimento è di marmo e di turchese. Filostrato descrive un tempio del Sole visto da Apollonio in India, i cui muri erano di marmo rosso come il fuoco con striature dorate; sul pavimento vi era una immagine del Sole, con i suoi raggi imitati da una abbagliante profusione di rubini e diamanti. Avremmo potuto aspettarci di incontrare pavimenti con temi geografici; ma non abbiamo descrizioni di lavori del genere, ad eccezione del tappeto di Cosroe – che rappresenta un giardino, con i suoi sentieri, gli alberi, i corsi d’acqua, aiuole di fiori di primavera dai colori più squillanti – e di un tappeto che apparteneva ad uno dei califfi fatimiti, che rappresentava la Terra con le sue montagne, mari, fiumi, strade, e città, specialmente la Mecca e la Medina, ciascuna indicata col suo nome. Ma, di gran lunga superiore a tutti questi disegni realizzati o immaginati, il più bello di tutti è il pavimento come il mare; il pensiero del quale entra in noi come certe vibrazioni della musica. È il pavimento del tempio celeste nell’Apocalisse: “E davanti al trono era un mare di cristallo… E coloro che hanno conseguito la vittoria… stanno ritti sul mare del cristallo, ed hanno le arpe di Dio”. Si faccia il confronto con il firmamento, che è come il “terribile cristallo” sul quale era stato posto il trono di zaffiro di Ezechiele, ed anche con “l’opera lastricata” di zaffiro trasparente [XXIV, 10] nel Libro dell’Esodo. Lo pseudo-Enoch, nella sua visione del cielo, entrò in una spaziosa casa di cristal180

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lo, “le sue pareti, come anche il suo pavimento, erano formati da pietre di cristallo, e così, di cristallo, era il suolo”. Questa è l’idea definitiva su cui si basano i pavimenti di cristallo delle storie fantastiche; ma forse, come vedremo, l’idea non era tratta, in modo diretto, né consapevole, dalla Rivelazione. Nella Warre of Troy di Lydgate, il pavimento della grande sala nel palazzo di Priamo è di diaspro. Nel Gest Hystoriale, che narra la distruzione di Troia, Ettore, ferito, fu fatto giacere nel glorioso “palazzo di Ilio”: Era sostenuto da pilastri di pura pietra Che si elevavano superbi; e il pavimento splendido tutto di cristallo, luminoso come il Sole.

In ogni angolo vi era un pilastro, e su di esso un’immagine d’oro con “gemme bene incastonate”. La figura è ripetuta nella tomba di Ettore “trucidato a tradimento”, con le stesse figurazioni e lo stesso pavimento di “chiaro cristallo”. “Come scrive Dares nel suo trattato”: ecco la fonte di tutte queste meraviglie! Ma Dares frigio e Dictys cretese non dicono nemmeno la metà di cose tanto belle nel loro scialbo e monotono racconto. La genealogia del palazzo nel mito risale forse, passando dalla Storia di Alessandro, e da Apuleio con Amore e Psiche, alle città d’oro dell’Oriente, di cui l’omerico palazzo di Alcinoo è una versione greca. Giustiniano, a Costantinopoli, sembra proprio essersi comportato come volesse rivaleggiare con Salomone come costruttore. Il suo trono non era soltanto fatto alla maniera di quello di Salomone, ma era proprio chiamato “il trono di Salomone”; e quando ebbe costruito Santa Sofia, la più splendida chiesa che la cristianità abbia mai visto, esclamò: “Gloria a Dio! che mi ha ritenuto degno di compiere un’opera tanto sublime; o Salomone, ti ho superato!”. Si è detto che dapprima volesse fare d’oro il pavimento della sua chiesa, come il tempio; ma, temendo la stoltezza degli uomini, optò per il pavimento di marmo, che somiglia all’acqua. Ora, c’è una leggenda orientale su Salomone che posa un 181

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pavimento come il mare nel suo meraviglioso palazzo a Gerusalemme: “Quando la regina di Saba udì della fama di Salomone, venne per metterlo alla prova con domande difficili”. È nel Libro delle Cronache. Queste, secondo la tradizione orientale, erano enigmi, come quelli che si scambiavano Salomone e Hiram di Tiro. Ma “nulla era nascosto a Salomone”, e lui, en revanche, replicò trasportando il trono della regina Balkis nel suo palazzo con l’aiuto degli spiriti che lo avevano sempre servito, cosicché, al suo arrivo, lei si trovò di fronte al suo proprio trono. “Le fu detto: ‘Entra nel palazzo’. E quando lo vide, credette fosse un’acqua profonda, e sollevò il manto e si scoprì le gambe per immergervisi. Allora Salomone disse: ‘È un palazzo lastricato di cristallo’”. È la sura XXVII del Corano. Oppure, come interpreta qualcuno, aggiunge il Sale, questo avveniva nel “cortile davanti al palazzo che Salomone aveva ordinato di costruire in risposta all’arrivo di Balkis; il pavimento era di vetro trasparente, disposto su di un corso d’acqua nel quale nuotavano i pesci. Di fronte a questo pavimento c’era il trono regale, su cui sedette Salomone per ricevere la regina”. Si parla di un pavimento simile nel palazzo della città di bronzo, nelle Mille e una notte, forse il più bel saggio di architettura fantastica che si possa trovare nella letteratura. L’emiro Moosa ed il suo seguito giunsero in una città dalle alte mura, dal cui centro brilla la torre di bronzo. Entrarono in città e si affrettarono verso il palazzo, e trovarono una sala costruita di marmo levigato, decorato di gioielli. “Chi la guardava pensava che sul suo pavimento scorresse l’acqua e che chiunque vi avesse camminato avrebbe potuto scivolarvi sopra. L’emiro Moosa ordinò per questo allo sceicco Abd-Es-Samad di gettarci sopra qualcosa, per far sì che potessero camminarvi sopra; e lui lo fece, e così riuscì a trovare il modo per farli passare sul pavimento”. La storia, inclusa nel Corano da subito dopo l’anno 622, deriva probabilmente dal Talmud, che contiene questa versione: tutti i regni si congratulavano con Salomone come degno successore di suo padre Davide, la cui fama era grande in tutte le nazioni, eccetto in una, il regno di Saba, la cui capitale si chiamava Kitore. 182

Pavimenti come il mare

A questo regno Salomone spedì una lettera. “Da me, Salomone il re, pace a te e al tuo governo. Sappi che il Dio Onnipotente ha voluto ch’io regnassi sul mondo intero, sui regni del nord, del sud, dell’est e dell’ovest. Ascolta! Loro sono venuti da me con i loro auguri, tutti, tranne te, sola. Vieni anche tu, ti prego, e sottomettiti alla mia autorità, e ti saranno resi molti onori; ma se ti rifiuti, allora dovrò con la forza costringerti a riconoscermi. A te, regina di Saba, è indirizzata in pace questa missiva, da me, Salomone il re, il figlio di Davide”. Quando Salomone sentì che la regina stava arrivando, mandò ad incontrarla Benayahu, il figlio di Yehoyadah, generale della sua armata. Quando la regina lo vide, pensò che fosse il re, e scese dalla sua carrozza. Allora Benayahu domandò, “Perché mai sei scesa dalla carrozza?” ed ella rispose, “Non sei forse sua maestà il re?”. “No”, rispose Benayahu, “non sono che uno dei suoi ufficiali”. Allora la regina si voltò e disse alle dame del suo seguito: “Se lui non è che uno dei suoi ufficiali, ed è così nobile e imponente nell’aspetto, quanto grande dev’essere il suo capo, il re”. E Benayahu, figlio di Yehoyadah, condusse la regina di Saba al palazzo del re. Salomone si preparò a ricevere la regina in una sala pavimentata e rivestita di vetro: la regina da principio fu talmente ingannata dall’apparenza del luogo da immaginare che il re sedesse sull’acqua. “E quando la regina ebbe saggiato la sapienza di Salomone e poté esser testimone della sua magnificenza”, disse: “Io non avevo voluto credere a quanto avevo sentito, ma ora sono venuta ed i miei occhi hanno visto tutto; ebbene, non mi era stato detto neppure una metà di quel che ho visto! Beati i tuoi servi, che stanno sempre alla tua presenza e ascoltano la sapienza delle tue parole! Sia benedetto il Signore Dio tuo, che ti ha messo su un trono per governare nel diritto e nella giustizia”. Vi è una storia quasi identica in un altro dei libri fondamentali del mondo, il poema epico Mahabharata, scritto in san183

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scrito, che canta del lungo conflitto tra due casate reali rivali. Uno dei Raja celebra un sacrificio regale. “Compiuto il sacrificio, Duryodhana entrò nel luogo dove era stato celebrato e vide molte bellissime cose che non aveva mai visto nel suo regno ad Hastinapur. Fra le altre meraviglie vide una piazza, fatta di cristallo nero, che, agli occhi di Duryodhana, parve limpida acqua, e quando arrivò ai bordi di essa, prese a sollevarsi le vesti per non bagnarle, e poi, gettandole via, si tuffò per bagnarsi e colpì con violenza la testa sul cristallo. Allora provò molta vergogna e abbandonò quel luogo”. Il signor J. Talboys Wheeler suggerisce che il racconto possa aver origine dal Corano, ma ammette che possa aver avuto anche un’origine propria. Vi possono comunque essere pochi dubbi sul fatto che questi palazzi trascendentali, tramandati in millenni di storia dell’India, trovino la loro origine nelle costruzioni di una terra che non subisce il vento dell’inverno, né alcun degrado: è la città d’oro, le cui fondamenta stanno nelle acque al di sopra del firmamento. In un racconto fantastico italiano del XV secolo, chiamato Hypnerotomachia, sembra che l’autore abbia raccolto tutte le 184

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meraviglie architettoniche della storia e del mito; ma da dove mai ha potuto trarre una storia come questa? Polifilo, dopo essersi inoltrato, zona dopo zona, fra i giardini di un’isola, arriva alla fine ad un tempio circolare, aperto verso il cielo, ed entrando in esso si stupisce davanti a “una meraviglia più grande e stupefacente di qualsiasi cosa abbia mai visto”. Tutta l’area dell’anfiteatro era, così sembrava, pavimentata con una sola lastra di ossidiana, interamente nera e di una invincibile durezza, tanto lucida e brillante che, sulle prime, ebbe il timore di annichilirsi, sprofondando in un abisso. Il pavimento rifrangeva la luce del giorno con tale perfezione che Polifilo poteva contemplare il cielo, profondo e limpido, come riflesso in un mare calmo: tutto era come in uno specchio levigato. Secondo la storia del Corano, il trono di Salomone sembra stare sulle acque, proprio come si immaginava il trono di Dio. “È Lui che ha creato i cieli e la Terra in sei giorni, ma il Suo trono era sopra le acque, là da prima della creazione”. È nella sura XI del Corano. “Poiché i maomettani credevano che questo trono, e le acque sulle quali poggia, acque che immaginavano sostenute da uno spirito o dal vento, fossero cose create, assieme ad alcune altre, prima del cielo e della Terra. Presero questa 185

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fantasia dagli ebrei, i quali sostengono anche loro che il trono della gloria allora ci fosse già, e fosse tenuto sospeso sulle acque dal soffio della bocca di Dio”, secondo quanto scrive il Sale. Un racconto di questo pavimento di acque al di sopra del firmamento sta nel Dizionario biblico redatto da Smith: “Inoltre, la funzione del rakia, che è firmamento o solida espansione, nell’ordine del mondo richiedeva potenza e sostanza. Serviva a separare le acque di sopra dalle acque di sotto… e di conseguenza fu creato il rakia come sostegno al bacino superiore. ‘Lodatelo, cieli dei cieli, voi acque al di sopra dei cieli’” nel Libro dei Salmi [CXLVIII, 4 e CIV, 3] “dove Geova è rappresentato mentre ‘costruisce le Sue camere d’acqua’, non semplicemente nell’acqua, che era la materia con cui eran fatte le travi e le giunture”. Nella visione di Ezechiele di un tempio perfetto, dopo avere visto ogni cortile ed ogni vano, dopo averli misurati con la sua canna, viene di nuovo condotto alla porta: “Quand’ecco che le acque sgorgavano da sotto la soglia della casa ad Oriente: perché il fronte della casa era rivolto ad Oriente”. Le acque scaturivano dalla parte a sud dell’altare, e dopo aver attraversato il cortile e la porta esterna, diventavano un fiume potente che scorreva verso il mare. È il fiume dell’acqua della vita, “e tutto vivrà, dove il fiume arriva”. Per tornare ancora una volta a Costantinopoli: Charles Bayet, in L’Art byzantin, descrive la camera del talamo dell’imperatore, nel palazzo imperiale, e cita Costantino Porfirogenito. Una parte del palazzo, chiamata “Cenourigion”, fu edificata da Basilio il Macedone; una delle stanze aveva sedici colonne, di marmo verde, e di onice, scolpite a tralci di vite, e la volta era rivestita di un mosaico d’oro. “Ma nulla poteva eguagliare la stanza del talamo regale. Il pavimento era un mosaico, con al centro un pavone dentro un cerchio di marmo della Caria, circondato da raggi e da un cerchio esterno. Da questo secondo cerchio scaturivano, per così dire, corsi d’acqua o fiumi di marmo verde della Tessaglia, che fluivano, si sarebbe detto, verso i quattro angoli della stanza; il Bayet scrive: comme des ruisseaux ou des fleuves de marble vert de Thessalie; i quattro interspazi lasciati liberi fra i flutti di mar186

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mo recavano aquile, lavorate a mosaico, che sembravano esser vive e respirare. La parte bassa delle pareti era intarsiata con vetri, con molte tessere di vari colori, a forma di fiore. Al di sopra di una fascia d’oro, le pareti erano ricoperte da mosaici, sul cui sfondo d’oro sedevano in trono Basilio ed Eudoxia, con i loro figli intorno. Al centro del soffitto, baluginava una croce di smeraldo su un cielo illuminato di stelle”. Nello stesso libro, il Bayet riporta la storia, tratta da Codino, della chiesa di Santa Sofia inondata d’acqua, una storia che, anche se non messa in discussione dall’autore, sembra essere talmente poco realistica e verosimile per i troppi danni evocati da essere ovviamente un mito, proprio come nasce un mito dal racconto di un pavimento come il mare. “Quando crollò la cupola, Antemio ed Isidoro erano morti, ma quest’ultimo aveva lasciato un nipote che fu incaricato dei lavori. Egli aumentò l’altezza della cupola, e, allo stesso tempo, apportò maggiore solidità ai grandi archi. Questa volta le centine vennero lasciate sul posto più a lungo, come tutta l’impalcatura. Poi si inondò con l’acqua la parte inferiore della chiesa, perché le travi di legno, se fossero cadute, non potessero causare alcun danno”.

Nel grande spazio di Santa Sofia non è possibile ammirare il pavimento; ma in una delle gallerie un pavimento di marmo verde è rimasto scoperto. Esso è formato da lastre molto grandi di 187

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antico marmo cipollino, che Browning chiama onion stone: le lastre furono posate in modo che le due parti della divisione operata dalla lama dentata fossero affiancate una all’altra, ottenendo così una venatura simmetrica simile ad un’onda. Brindley, la più alta autorità inglese nel campo dei marmi, dice: “Quando il taglio non segue l’asse delle venature, il marmo cipollino produce effetti simili alle onde del mare, per i quali gli architetti romani e quelli bizantini avevano una grande predilezione”. In San Marco a Venezia, dove il pavimento è rivestito per la maggiore parte da mosaici fra i più variegati e intricati che esistano, vi è, proprio nel luogo più importante di questo spazio, al centro, davanti alla parete divisoria del coro, un simile “mare” di marmo. Dodici immense lastre di cipollino – ognuna lunga circa 3 metri e mezzo e larga 1 e mezzo – sono disposte nello stesso modo, come affrontandosi, coprendo una superficie di 9 per 7 metri circa con le loro venature ondeggianti. Il blocco di marmo dal quale queste lastre vennero tagliate fu portato dall’Oriente, e le lastre furono posate in una evidente imitazione del pavimento di Santa Sofia. Se il soffitto appartiene di diritto al cielo, il pavimento va restituito al mare. Quando Galla Placidia scampò al naufragio, offrì in dono, facendolo consacrare, il pavimento di San Giovanni Evangelista in Ravenna: una raffigurazione del naufragio che rievoca le peripezie della regina, simile alle onde del mare agitate dalla tempesta. Il signor Baring Gould ha descritto il pavimento che rinvenne in un palazzo gallo-romano nelle vicinanze di Pau: “Nella sala principale il pavimento era molto elaborato; il disegno, tuttavia, era rozzamente troncato da una croce mostruosa, di circa 6 metri per 4 circa, con la cima verso sud e la base verso l’inizio di una rampa di gradini di marmo, che scendono verso qualcosa che non sapevamo dire se fosse un bagno o un vestibolo. Lo sfondo della croce era bianco, i bracci pullulavano di seppie, aragoste, anguille, ostriche, e pesci che nuotavano come fossero nel loro elemento naturale; e il centro, al punto d’incontro dei bracci della croce, era tenuto da un gigantesco busto di Nettuno col suo tridente”. Sir Charles T. Newton dice: “Sul mosaico rinvenuto a Oud188

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nah, in Algeria, abbiamo una rappresentazione del mare, notevole per la pienezza dei dettagli con cui è realizzato. Il mosaico riveste il fondo e i lati della vasca, e, come sempre nei bagni degli antichi, fa da raffigurazione dell’acqua che la vasca contiene. Sui lati si trovano ippocampi, figure che cavalcano delfini, e isole di pescatori; sul pavimento vi sono pesci, granchi e gamberi”. Ai bagni di Caracalla, a Roma, ci sono pavimenti marini come questi, lavorati in figure, o in motivi di raffigurazione convenzionale delle onde del mare. Ai bagni di Tito, vi era persino un fondo di lapislazzuli, una grande piscina di azzurro oltremare. Se prendiamo una qualsiasi collezione di pavimenti romani a mosaico, come, ad esempio, quelli che ora sono esposti sullo scalone del British Museum, o i disegni a South Kensington, è evidente come molto spesso i pavimenti siano disegnati come un mare; vi sono soggetti come Nettuno e Anfitrite, Ulisse sulla sua nave, o un pescatore in barca, con la rimanente superficie piena di pesci. Ancora più spesso vi sono solo pesci e mostri marini “che nuotano come fossero nel loro elemento naturale”, col mare rappresentato da una fluttuante superficie bianca a mosaico, con una linea spezzata, più scura, che guizza nelle varie direzioni. Uno degli esempi più belli è quello inglese, rinvenuto a Cirencester e riprodotto dal Lysons. Difficile pensare che tutti questi mosaici fossero nei bagni. A Lydney, sul fiume Severn, si è trovato un mosaico che costituiva la base di un tempio del celtico “Dio degli abissi”, cui il pavimento era dedicato; vi sono figurate le offerte, a dimostrare che questo era un tempio. Grandi serpenti marini e pesci nuotano sulla superficie del pavimento. Lo scrive C.W. King. Il miglior esemplare di pavimento greco a mosaico riconosciuto come autentico, quello del pronao del tempio di Zeus, a Olimpia, del quale esiste ancora solo un piccolo frammento, rappresenta un tritone ed un pesce che nuotano. All’interno del tempio, proprio di fronte alla grande statua di Zeus in trono, opera di Fidia, c’era una superficie di marmo nero di 20,4 metri quadrati, che traversava tutto il santuario ed era leggermente più bassa rispetto al resto del pavimento. Pausania l’ha descritta, e le fondamenta ne indicano ancora la collocazione. Lucida 189

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dell’olio cosparso sulla figura di avorio, questa superficie deve esser stata simile al profondo mare fermo, il mare del cielo che sosteneva il trono di Zeus, e dentro il quale galleggiavano le stelle. Vi è una irresistibile suggestione dell’acqua in questi pavimenti di marmo, quando siano perfettamente lucidati. La Beaufort, ad esempio, vide in una moschea di Damasco quel che nel tempio di Olimpia ogni devoto dello Zeus in trono deve aver visto e compreso: “Il pavimento di marmo levigato brillava oscuro, come un lago di acqua nera, riflettendo le poche lampade come stelle”. Una rappresentazione del mare celeste con le sue stelle è molto adatta per la pavimentazione del luogo sacro, su cui poggia la figura del dio, o l’altare. Era cosa comune nel Medioevo raffigurare i segni dello zodiaco sul pavimento del santuario, segnandolo così come l’“opera di pavimentazione” del cielo stesso. “Guarda come il pavimento del cielo / scintilla tutto di stateri d’oro”. È William Shakespeare, nel Mercante di Venezia. Nascosto all’estremo occidentale della chiesa c’era il labirinto del mondo sotterraneo, ma il luogo santo, elevato su sette gradini, era proprio il paradiso. In Inghilterra abbiamo un bellissimo zodiaco sul pavimento di Canterbury. Il coro di St. Remy, a Reims, aveva un pavimento di marmo e di smalto: su un lato era raffigurato il paradiso terrestre con i quattro fiumi, la Terra poggiata sull’oceano, e le stagioni; sull’altro lato erano i quattro punti cardinali, il cerchio dello zodiaco, e all’interno del cerchio le due orse del polo nord, punteggiate di stelle. Alcuni pavimenti britannici dell’epoca romana mostrano il Sole al centro, circondato dai pianeti. Nella cupola della Roccia a Gerusalemme, si diceva che una lastra di pietra scura incastonata nel pavimento fosse un pezzo del pavimento del paradiso. Molte chiese italiane hanno motivi undati sui pavimenti, ed in alcuni esempi siamo in grado di identificarli come volute rappresentazioni delle acque. Nella cripta di un’antica chiesa a Pia190

Pavimenti come il mare

cenza lo spazio di fronte all’altare ha un pavimento di mosaico con linee ondulate tra le quali nuotano i pesci, e cerchi che racchiudono i segni zodiacali; questi segni celesti che galleggiano sull’acqua sembrano denotare il mare superiore. Nel grande bacino del battistero di Pisa il fondo, ancora una volta, rappresenta certamente l’acqua che contiene. A Firenze, il pavimento del battistero è disposto in motivi che ricordano l’acqua increspata che scorre, con il Sole ed i segni zodiacali. Con tutti questi esempi, non si può dubitare che i motivi a onde nello spazio centrale di Grado, o in parti di San Marco, rappresentino il mare con disegni tratti dalla tradizione. Per gli Egizi, il regno di Osiride era irrigato da una rete di ridenti canali. Riferendosi ai defunti fortunati che venivano ammessi in questi Campi Elisi, Sir Wilkinson scrive: “Horus lo porta al cospetto di Osiride, il quale, nel suo palazzo, con Iside e Nefti come sue attendenti, siede sul suo trono nel mezzo delle acque, sulle quali fiorisce il loto, che sostiene sul suo fiore aperto i quattro spiriti di Amenti”. Nell’illustrazione della scena da cui il Wilkinson trae la sua descrizione, si vede Osiride sotto un baldacchino sostenuto da pilastri, seduto su un trono posto sull’acqua, e l’acqua è raffigurata da un parallelogramma coperto da linee a zigzag. In alcuni templi egizi la parte inferiore delle pareti laterali è affrescata con lussureggianti piante acquatiche, e vicino al pavimento c’è la linea a zigzag dell’acqua. Le basi delle colonne sono avvolte da foglie d’acqua; i fusti sono fasci di papiri d’acqua. A volte gli dèi vengono rappresentati come sostenuti dal mare superiore, con Ra sulla sua barca, o sul trono, come in quel mare scoperto dalla spedizione della signorina Edwards ad Abu Simbel, su una piattaforma blu coperta di stelle. Il faraone aveva l’effigie dei suoi nemici dipinta sulle suole dei calzari così da poterli calpestare nella polvere; e sui lati del suo poggiapiedi erano scolpite figure di prigionieri prostrati: così, con una intenzione simbolica, i troni ed i poggiapiedi del Ramesseum, e delle tombe dei re, erano coperti da un tessuto blu cosparso di 191

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stelle. Il re, come un dio, schiaccia i nemici sotto il poggiapiedi mentre poggia il piede sul flusso azzurro ove nuotano le stelle. Tutto ciò non è casuale; è invece un rigoroso simbolismo che si ripete molte volte. Le stelle sono trattate esattamente come lo sono quelle dei soffitti stellati dei templi, un simbolo riconosciuto del cielo e del paradiso riservato ai luoghi sacri. La tavoletta babilonese più bella e meglio conservata, al British Museum, rappresenta il re al cospetto del dio del Sole, Samas. Essa è stata riprodotta con cura in un’incisione del Lenormant, nella Histoire Ancienne de l’Orient, e dal Perrot. L’immagine del dio siede in trono, sotto un baldacchino; di fronte a lui c’è un grande disco del Sole con i raggi fiammeggianti, che viene fatto ruotare per mezzo di funi quando il re avanza. Il pavimento di questa composizione, sul quale stanno il trono, l’altare del Sole e i devoti, è una superficie d’acqua, e su di essa c’è un corteo delle stelle, senza dubbio stelle, perché sopra il dio sono cesellate le forme del Sole, della Luna e di stelle, e le stelle sul pavimento replicano queste forme con esattezza. Il testo dice che la tavoletta rappresenta il re condotto al cospetto di Samas nel suo tempio a Sippara, ed è verosimile che quel pavimento raffigurasse davvero il mare superiore. Non è privo di una qualche relazione con questi pensieri, potremmo supporre, il fatto che un pavimento assiro, ora al British Museum, sia tutto decorato con il loto. Vi sono molte prove, oltre a quelle già fornite, che il mare celeste formi il pavimento del mondo superiore; la nostra volta celeste è la parte inferiore del pavimento, come in Blake: “Ecco la volta del cielo pavimentato!”. Nel sistema brahmanico, il paradiso è ben irrigato con grandi magnifici laghi. “Questi laghi”, scrive la signorina Gordon Cumming, “sono coperti da ninfee, rosse, blu e bianche, ed ogni fiore ha migliaia di petali; e sul più bello di questi calmi laghi c’è un trono, glorioso come il Sole, sul quale il bellissimo Krishna riposa”. Di più: tutta la città di Krishna era costruita sulle acque. Per i buddhisti, il “trono di loto” del Buddha sta sulle acque, e il Buddha è chiamato “il Gioiello nel loto”. Persino nel Rig Veda, Yama, il Signore della morte, è “colui che raduna gli 192

Pavimenti come il mare

uomini che son salpati verso le formidabili acque”, “l’oceano celeste”; e Varuna dimora in un palazzo d’oro, dove “è seduto sul trono in una inavvicinabile luce, sulle acque del cielo”. Nell’Avesta, la “superba montagna”, l’esterno della cupola del firmamento è il seggio degli dèi e la sorgente di tutte le acque della Terra. Nel paradiso dei Birmani ci sono “splendidi palazzi, con i pavimenti di cristallo, colonne d’oro, e pareti gemmate”. Appartengono senza dubbio ad una fase analoga di pensiero i laghi sacri connessi ai templi indiani; su di essi i templi sembrano galleggiare come case degli dèi. Era lo stesso in Grecia, in Siria, a Babilonia, ed in Egitto; qui i sacerdoti imitavano il viaggio del Sole, e qui nuotavano i pesci sacri. “A Sais, scrive Erodoto, nel sacro recinto… c’è un lago che, per grandezza, m’è sembrato pari, press’a poco, a quello che c’è in Delo ed è chiamato lago ‘circolare’. Presso questo lago di notte fanno le rappresentazioni delle dolorose vicende di Lui; rappresentazioni che essi chiamano misteri”. In una delle sue iscrizioni, Nabucodonosor dice di voler circondare il tempio da lui innalzato con un lago. E in India il tempio d’oro di Amritzur sembra galleggiare su di un mare artificiale, traversato da un’unica via, iniziando a percorrere la quale, come nota Lady Dufferin, il pellegrino si toglie le sue “scarpe terrene”. A Marttand, il cortile del tempio veniva riempito d’acqua, e dentro l’acqua venivano messe delle pietre, che partivano dalla porta, sulle quali camminare. La fontana delle abluzioni è comune nelle religioni d’Oriente. Anche se la sua funzione è ovvia, la purezza pratica e quella simbolica, l’acqua era pur sempre “acqua santa”, e rappresentava la sorgente della vita. Il professor Sayce, in una delle Hibbert Lectures, dice che “i templi di Babilonia erano provvisti di grandi bacini riempiti d’acqua, adoperati a scopo di purificazione, che somigliavano al mare fatto da Salomone nel suo tempio di Gerusalemme, ed erano chiamati profondità o abissi”. Inoltre, Pausania menziona mari nei templi greci. Che vi sia qualcosa che ha un grande effetto sull’immaginazione in questo fare un pavimento simile al mare è dimostrato a sufficienza dai seguenti esempi tratti dalla letteratura moderna e 193

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dalla poesia, in autori francesi, tedeschi e inglesi. Nell’ordine: Flaubert descrive così l’assemblea al tempio di Cartagine: “Gli Anziani si sedettero sugli sgabelli d’ebano, dopo essersi coperti il capo con la coda dell’abito. Rimasero immobili, le mani incrociate dentro le ampie maniche, e il pavimento di madreperla sembrava un fiume luminoso che nel suo fluire dall’altare verso la porta scorresse sotto i loro piedi nudi”. Nel romanzo egizio di Georg Moritz Ebers, Uarda, viene costruito un palazzo provvisorio per la cerimonia di benvenuto a Ramesse, di ritorno dalla guerra in Siria. Dato che l’autore si basa sulle sue corrette conoscenze archeologiche, la descrizione del pavimento della sala del banchetto potrebbe esser tratta dai dipinti murali. “Il palazzo era di un’altezza eccezionale ed aveva un soffitto ligneo a volta, dipinto di blu e punteggiato di stelle, in modo da rappresentare il cielo notturno. Spessi tappeti, che sembravano aver trascinato sulla terra asciutta la riva del mare, con il loro sfondo azzurro disseminato di pesci, e di molte conchiglie e piante acquatiche, ricoprivano il pavimento della sala dei banchetti”. William Morris fa uso della stessa idea nella descrizione di una nuova chiesa trecentesca, in A Dream of John Ball: “I bianchi fusti degli archi si innalzavano dal pavimento splendente al chiaro di Luna come usciti fuori da un mare, scuro, ma colpito da bagliori di luce”. Nella storia di Amore e Psiche, nel suo paradiso terrestre, sembra che il pavimento sia preso dal racconto della regina Balkis ricevuta da Salomone, perché l’idea, nella storia di Apuleio, non c’è. Infine ella giunse in una fresca stanza, Pavimentata abilmente come specchio d’acqua, Dove i pesci rossi parevano nuotare in mezzo a erbe acquatiche; E all’inizio ella così pensò infatti, E si tolse presto i sandali dai piedi; Ma quando questi incontrarono il pavimento vetrato, D’improvviso, l’ombra di un sorriso a lungo dimenticato Animò per un momento quel suo volto ansioso.

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Pavimenti come il mare

L’ultimo esempio è quello nel poema di Southey, Thalaba, che non è tanto una ripresa della tradizione, quanto un ritorno all’idea originaria che sottende l’intera serie: una imitazione, fatta da mani umane, in un paradiso artificiale, dell’acqua o del trasparente pavimento di cristallo sopra il firmamento, dove sta il trono. Sheddad, che secondo il racconto arabo era vissuto ai primordi del mondo, costruì per se stesso, così, uno sfarzoso padiglione di piacere e un giardino di delizie: Qui le colonne di smeraldo nei cortili di marmo Fan danzare i loro raggi verdi, come quando, nella pioggia, Il Sole brilla amabile sul grano di primavera; Qui Sheddad volle posare il pavimento di zaffiro Come per posare i piedi sull’azzurra luce divina, Come il pavimento blu del firmamento.

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CAPITOLO DECIMO

Soffitti come il cielo Egli dapprima inquadrò, per i figli della Terra, il paradiso come un soffitto. Oh, Santo Creatore! Caedmon Guarda tu questo audace sospeso firmamento, Questo soffitto maestoso increspato di fuoco d’oro. William Shakespeare, Amleto

Parliamo del cielo come di una volta, o di una cupola; ma prima che le volte o le cupole fossero state inventate, non lo si sarebbe evidentemente potuto associare a nessuna delle due. Il cielo a quell’epoca era quindi, senza dubbio, un soffitto, una superficie piana. Ovvio che il cielo fosse pensato come concavo e semisferico già in tempi veramente antichissimi, ma questo è evidentemente un punto di vista più avanzato e filosofico dell’altro. Se diamo per provato che la cupola, in architettura, fosse conosciuta ed innalzata per la prima volta in Caldea – si veda il Perrot – da un popolo che vedeva il cielo come un emisfero solido ed era molto propenso al simbolismo della natura nelle sue costruzioni, non potremmo, allora, associare forse il disegno e l’audace costruzione della cupola alla forma della cupola celeste e al desiderio che il “soffitto” del tempio ricordasse sempre la copertura del grande tempio della natura? Vi è una tale corrispondenza, tanto chiara e vincolante, fra cielo e ceiling, il soffitto, che descrivere una cupola sembra sempre richiamare la somiglianza con il firmamento, come ad esempio nella St. Paul’s Cathedral: La cui cupola simile al cielo è stata modello, raggiunta da un’arte che osi, 196

Soffitti come il cielo

dell’abbraccio dell’infinito. W. Wordsworth

Si può dire che nelle grandi epoche dell’architettura i soffitti fossero sempre cieli. Viollet-le-Duc ci dice, nel suo Dizionario dell’Architettura, alla voce “Pittura”, che tutto il programma cromatico degli interni del XIII secolo doveva adeguarsi alle volte, che erano dipinte con l’azzurro più brillante, parsemé, disseminato di stelle d’oro, vicino al quale nessun colore poteva persistere in sé tranne il vermiglio, il nero ed altro oro. La Sainte Chapelle a Parigi può esser presa ad esempio; e in Inghilterra, un esempio è il “glorioso coro di Conrad”, costruito nel 1150. In Italia, nella stessa epoca, questa pratica era universale. Basterà riferirsi alle cattedrali di Siena e di Orvieto con le loro volte di azzurro stellato; ad Orvieto, è ancora intatta la meravigliosa armonia di colori cangianti e evanescenti, dal blu al verde smeraldo, come il cielo della sera mentre arde, sola, la prima stella. Nella cappella dell’Arena di Giotto, la cappella degli Scrovegni a Padova, le pareti sono coperte di pannelli affrescati, tutti con lo stesso sfondo, di un blu che porta in alto al cielo della volta. Ancora in Italia, ma questa volta nel puro stile bizantino che viene direttamente da Costantinopoli, la cupola del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna è un magnifico esempio in brillante mosaico: blu, con un pulviscolo profuso di stelle allo zenit. Si veda l’illustrazione. Nella stessa Santa Sofia, il ciborio sovrastante l’altare era sostenuto da quattro colonne d’argento, e il soffitto della cupola sfavillava di stelle. Il manuale che il Didron è riuscito ad avere sul mon197

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te Athos descrive come i soffitti debbano essere dipinti simili ai cieli. Nella vera Roma antica, sembra che nella Domus Aurea il gusto fastoso di Nerone sia stato toccato da questi soffitti; e Tacito racconta la scena al teatro di Pompei, in occasione del ricevimento per un principe orientale: “Il palcoscenico e tutto l’interno di quella nobile struttura erano rivestiti d’oro: non era mai stata messa in mostra una tale profusione di prosperità e di magnificenza. Per proteggere gli astanti dai raggi del Sole, una tela di porpora, intarsiata con stelle d’oro, fu dispiegata sopra le loro teste”. Un esempio romano può esser visto nel Dizionario di Smith, alla voce “Penates”. A dimostrare che tutto questo toccasse l’immaginazione e non fosse solo una consuetudine decorativa, più dei fatti abbiamo miti e leggende, e nelle Mirabilia Urbis Romae, la guida della città eterna del XII secolo, c’è il racconto di “un tempio chiamato ‘Holovitreum’, fatto di vetro e d’oro con arte matematica, dove era un astrolabio con tutti i segni celesti, che fu distrutto da san Sebastiano”. Un manoscritto del XIV secolo, incluso nello stesso libro, descrive le meraviglie dell’anfiteatro Flavio. “Il Colosseo era il tempio del Sole, di meravigliosa grandezza e bellezza, fatto con molti diversi vani a volta, ricoperti tutti da un cielo di bronzo dorato, donde venivan prodotti tuoni, lampi, e fiamme ardenti e da dove la pioggia cadeva da canne sottili. Oltre a tutto ciò, vi erano i simboli sovracelesti e i pianeti Sol e Luna, trainati sui loro carri. Ed in mezzo dimorava Febo, vale a dire il dio del Sole, il quale, con i piedi sulla Terra, raggiungeva il cielo con la testa, reggendo nella mano un globo, a significare che Roma governava il mondo”. Il nostro Ranulf Higden, nel Polychronicon, aggiunge alcune parole alla potenza e alla meraviglia del dio Sole di questo luogo: “Questa statua di bronzo, rivestita di oro imperiale, continuamente emetteva raggi attraverso l’oscurità, ruotava assieme al Sole senza mai volgersi ad esso; tutti i Romani, quando si avvicinavano, si prostravano in segno di soggezione”. La storia d’un tempio di vetro è di particolare interesse. All’incirca negli stessi anni, Benjamin di Tudela ne descrive un altro, che era a Damasco. 198

Soffitti come il cielo

Nella saga di Dietrich, das Heldenbuch, il re Laurino del Rosengarten possiede un palazzo sotterraneo nel quale conduce la sua sposa. In esso “le pareti erano di marmo levigato intarsiato con oro ed argento; il pavimento era fatto di un’unica pietra d’agata, il soffitto di uno zaffiro, e da esso pendevano rubini che splendevano come stelle nel cielo blu della notte”. Nel Parsifal, Titurel, antenato dell’eroe, costruisce sul Monsalvat, la montagna selvaggia, un tempio degno di custodire il Santo Graal. Si accorse che la roccia, il cuore della montagna, era un solo enorme blocco di onice; essa fu livellata e levigata fino a farne un pavimento, e lucidata con grande cura. Una mattina, per miracolo, il disegno era già pronto, e tutti i materiali eran già predisposti, e con un aiuto sovrannaturale il tempio fu presto completato. Era di forma circolare ed aveva settantadue cori ottagonali e trentasei campanili. Al centro c’era una torre con molte finestre, e la sua cuspide era un rubino, e dal rubino veniva fuori una croce di limpido cristallo in cima alla quale c’era un’aquila d’oro con le ali spiegate. “All’interno dell’edificio, viti scolpite e rose e gigli si attorcigliavano attorno alle colonne, e formavano pergolati, sui rami dei quali frullavano uccelli che sembravano vivi. Ad ogni incrocio degli archi c’era un diamante luminoso che volgeva la notte in giorno; e la copertura a volta era di colore blu, di zaffiro, sulla quale si doveva vedere un miracolo dell’arte: il Sole, la Luna, e le stelle, disposte dai costruttori, si muovevano in cielo con lo stesso ordine degli astri veri. Nel vasto spazio interno del grande tempio fu costruito un secondo santuario, più piccolo, simile al primo ma molto più bello. Questo era il luogo destinato al Santo Graal, quando esso fosse sceso sulla Terra”. La Alexandriade, in poesia, descrive il palazzo di Candace, fatto interamente d’oro, incrostato di pietre preziose, poggiante su pilastri di lucido porfido. Una camera interna fu meravigliosamente posta su fondamenta create con le arti magiche, fatta per “muoversi per mezzo di prodigi”. “Venti elefanti ammaestrati la facevano ruotare”, e, quando vi entrarono la regina ed Alessandro, essa cominciò a ruotare. Immagini analoghe sono impiegate nelle storie popolari me199

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dievali, come L’invenzione della Croce, nella Leggenda aurea di Caxton, e in altri poemi più antichi dedicati alla Croce. Uno di essi, del XIII secolo, pubblicato dalla Early English Text Society, racconta: c’era una volta un re chiamato Cosdre, Cosroe. Egli conquistò molte terre. Giunse a Gerusalemme e s’impossessò di un frammento della dolce Croce, che portò in Persia. “Una bella torre d’oro e d’argento molto alta egli fece subito costruire / Di gemme e di pietre preziose circondata la fece fare / Il cerchio del Sole, della Luna e anche delle stelle / Vi splendeva, come se fossero vere e veloci ruotavano attorno / E il tuono vi fece, che le genti spesso spaventava. / Attraverso piccoli fori con mezzi d’ingegno l’acqua copiosa di là / Spesso faceva in tal guisa cadere al suolo come se fosse pioggia / Per quanto è possibile all’uomo operare con l’ingegno / Egli, saggio, ne costruì la forma come un alto cielo”. In questo luogo innalza un trono e vi siede come un dio. L’imperatore Eraclio muove guerra a Cosroe e lo trova sul trono nel suo falso paradiso, lo fa a pezzi proprio lì, e poi restituisce il sacro legno a Gerusalemme. Rawlinson, scrivendo di Ecbatana nel «Journal of the Geographical Society», cita Cedreno, lo storico bizantino, sulle guerre di Giustiniano e di Eraclio contro Cosroe. Eraclio, nel prendere possesso di Canzaca, “trovò l’abominevole immagine di Cosroe; una effigie del re sul trono, sotto la cupola sferica del palazzo, come se sedesse in paradiso; attorno a lui si trovavano gli emblemi del Sole, della Luna e delle stelle, cui, nella sua superstizione, credeva di essere devoto come a delle divinità, fra angeli muniti di scettro in posizione ieratica, e congegni di strana fattura che distillavano gocce d’acqua, per rappresentare la pioggia, ed emettevano suoni tempestosi per imitare il fragore del tuono. Tutte queste cose distrusse con il fuoco l’imperatore, e, nello stesso tempo, ridusse in cenere il tempio e tutta la città”. Canzaca fu conquistata da Eraclio nell’anno 628. Nel settimo capitolo del suo libro, Le cinque grandi monarchie dell’antico Oriente, alla pagina 528, il Rawlinson scrive dello splendore ancor più grande di Dastagherd: “Gli Orientali dicono che il palazzo poggiasse su quarantamila colonne d’argento, che fosse 200

Soffitti come il cielo

decorato con trentamila ricchi arazzi sulle pareti, e fosse, inoltre, ornato da un migliaio di sfere appese al soffitto”. “Si diceva che la corona reale – di cui nessuno poteva cingersi, ma che era appesa al soffitto con una catena d’oro proprio sopra la testa del re, quando sedeva nella sua sala del trono – fosse decorata con mille perle, ognuna delle quali grande come un uovo. Il trono stesso era d’oro, sollevato su quattro piedi, ognuno fatto da un unico enorme rubino”. E questo alla pagina 640. Le sfere erano “forse di cristallo o d’oro”. Una tenda nascondeva il re dagli sguardi dei sudditi, e i cortigiani erano disposti in sette ranghi. Nel paradiso annesso c’erano animali per la caccia del re, leoni e tigri, gazzelle, pavoni e fagiani. Ma il più splendido di questi palazzi era quello di Ctesifonte, conquistato dagli Arabi non più di dieci anni dopo la campagna di Eraclio, la facciata del quale è intatta ancor oggi, con il suo grande portale ad arco, largo 22 metri circa e alto 26. “Nel centro si trovava la sala delle udienze, e qui il monarca era solito sedere su un trono d’oro; era una sala maestosa, di 30 e 4,5 metri di lato e 26 circa di altezza, con un magnifico soffitto a volta, addobbato con stelle d’oro messe in modo da rappresentare i movimenti dei pianeti, seguendo il percorso dei dodici segni dello zodiaco”. Il tesoro straripava di oro, gemme ed armi; e ancora di spezie, resine e profumi. “In una delle stanze si trovava un tappeto di broccato bianco di 137 metri di lunghezza e 27 di larghezza, con il bordo lavorato di pietre preziose dai vari colori, a rappresentare un giardino con tutti i tipi di bellissimi fiori. Le foglie erano di smeraldo, i fiori e i boccioli erano di perle, rubini e zaffiri, e di altre gemme di immenso valore”. C’erano un cavallo d’oro con una sella di gioielli, e un cammello d’argento, armature d’oro, scimitarre, e “corazze di Salomone”. È sempre George Rawlinson, alla pagina 565. Non si può dubitare, con tante testimonianze, che il cerimoniale della corte persiana continuasse nei secoli. Il re era un dio, “fratello del Sole e della Luna”, come si definisce da solo; e sedeva al centro di un universo tutto suo, assistito dai sette ordini della gerarchia celeste, come in Cina, dove sono nove gli ordini a circondare il trono. 201

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Si accorda bene con il genio teatrale di Nerone il fatto che lui abbia copiato questo simbolismo solenne e magico – che, abbiamo anche visto, era parte dei culti di Mithra – in una semplice stanza da pranzo del suo palazzo. Di questo meraviglioso palazzo, chiamato Domus Aurea, casa d’oro, sobri estensori di annali fanno racconti meravigliosi che reggono addirittura il confronto con le meraviglie dei racconti fantastici. “In nulla”, dice Svetonio, “era egli più prodigo che nelle sue costruzioni. Completò il suo palazzo facendolo continuo dal Palatino al colle Esquilino, denominando dapprima l’edificio semplicemente come ‘Il Passaggio’; ma dopo il crollo a causa del fuoco, fu ricostruito, e ad esso diede nome di ‘casa d’oro’. Tanto basti dire delle dimensioni e della mobilia: il portico era tanto alto da contenere una statua colossale di lui stesso alta 36 metri circa; e gli spazi interni erano così vasti che vi era un triplo portico lungo un chilometro e mezzo circa; e un lago come il mare, circondato da edifici che avevano l’apparenza di una città; e nell’area interessata dal palazzo vi erano campi di grano, vigneti, pascoli, e boschi nei quali viveva un gran numero di animali di ogni tipo, selvatici e domestici. In alcune parti il palazzo era completamente ricoperto d’oro, e ornato con l’oro e la madreperla. I soffitti delle sale da banchetto erano a volta; e parti dei soffitti, intarsiate con l’avorio, erano fatte per ruotare, e far piovere fiori, mentre da apposite cannule un profumo veniva diffuso sugli ospiti. La sala principale del banchetto, a pianta centrale, ruotava di continuo, giorno e notte, imitando il movimento dei corpi celesti. Le vasche venivano alimentate con le acque del mare e del fiume Albula, il Tevere. Sulla iscrizione dedicatoria di questa magnifica casa, quando fu completata, tutto quel che disse, per esprimere su di essa il suo consenso, fu che lui adesso aveva ‘una dimora adatta ad un uomo’”. Filostrato dice che Apollonio di Tiana, a Babilonia, “visitò una casa per gli uomini, il cui soffitto era a cupola ad imitazione dei cieli, e rivestito con zaffiri, pietre azzurre che assomigliano al cielo. Appese a questa volta v’erano le immagini che essi veneravano come loro divinità, d’oro, e la luce che emanavano pareva venire dal cielo. È qui che il re siede per amministrare la 202

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giustizia. Quattro figure d’oro dalla forma di uccelli pendono dal soffitto”. Era di certo in un luogo simile che sedeva Assuero, simile a un dio, quando Esther era timorosa di avvicinarsi al suo cospetto. In Persia, dove i soffitti moderni ancora imitano il cielo, questa sembra essere una tradizione ininterrotta che risale alle epoche più antiche. Nessun soffitto delle costruzioni assire è rimasto intatto, ma è significativo che su un’iscrizione si possa leggere: “Io ho voluto la costruzione di un soffitto con il legno di cedro, bello come le stelle del cielo, decorato con l’oro”. È probabile che i templi fossero decorati sui soffitti e le pareti con lapislazzuli, o con ceramiche blu, perché sono stati rinvenuti dei frammenti. In Messico, il santuario rappresentava un cielo disseminato di stelle, e in Cina i soffitti degli edifici sacri di Pechino sono ricoperti di porcellana azzurra. Nei templi della Siria vengono scolpiti zodiaci sui soffitti di pietra. E nei templi dell’Orissa si seguiva la stessa tradizione. Si dice che nella Atene del III secolo a.C. i soffitti concavi venissero nobilitati dai segni celesti. I molti frammenti dei soffitti greci rinvenuti negli scavi, e riprodotti nei libri, fan capire che i soffitti erano, di solito, suddivisi in piccoli pannelli quadrati o a lacunari, ciascuno con lo sfondo blu e una stella d’oro. A volte i lacunari erano leggermente concavi. Questo metodo è seguito anche nel British Museum, e in altre opere classiche moderne. Un soffitto moderno ideato con un vero sentimento del mistero è quello messo su dal marchese di Bute a Mount Stuart House: sul soffitto della biblioteca, la configurazione dei cieli al momento della nascita del marchese è rappresentata con precisione. È in Egitto che vedremo riconosciuta in pieno l’attitudine di dedicare i soffitti al cielo, e questo non solo nel tempio ma anche nel sepolcro; là, sulla tavola delle offerte, vi sono il cibo e il vino, per il nutrimento, e sulle pareti sono raffigurate tutte le opere dell’anno mondano, e tutti gli svaghi; non sono semplici decorazioni, ma un “doppio” delle cose del mondo, perché il defunto non soffra per alcun bisogno nella sua molto durevole dimora. Sopra ogni cosa sta il cielo in effigie; il blu profondo della notte 203

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con le sue stelle, senza nubi ed immobile; fatto per non essere mai visto da altri occhi se non dagli occhi del defunto.

Nei dipinti sacri il margine superiore della scena è occupato dall’ideogramma che sta per cielo o soffitto, una fascia orizzontale con, alle estremità, una voluta verticale rivolta verso il basso, che a volte è blu, e fa da sfondo ad una fila di stelle. “Con la fascia di stelle al di sopra di ogni scena, raffiguravano il cielo, o il soffitto del tempio, ove si riteneva avesse avuto luogo il cerimoniale rappresentato. In effetti, i soffitti dei templi erano molto spesso decorati con stelle bianche, con un punto rosso nel centro, disseminate nel cielo blu; queste stelle a volte rivestono l’intero soffitto, e sono quindi l’unica decorazione”. Lo si legge nella Description de l’Egypt. Questo geroglifico è anche il simbolo della personificazione del cielo, Tpe, Wilkinson dice: “Essa era la deificazione del cielo stesso, o di quella parte del firmamento ove stanno le stelle; era rappresentata, a volte, sotto il carattere geroglifico che significa ‘i cieli’ trapunti di stelle; e a volte come una figura umana, il cui corpo, curvato in avanti con le braccia distese, sembra coprire e comprendere la Terra, imitando la volta celeste e abbracciando tutto l’orizzonte. In questa postura racchiude in sé i segni zodiacali, come a Esneh ed a Denderah”. E Champollion dice: “Gli Egizi paragonavano il cielo ai sof204

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fitti di un edificio, e i soffitti della maggior parte dei templi sono prevalentemente dipinti di blu, cosparsi di stelle… La dea del cielo è raffigurata sotto forma di donna, il cui corpo, disposto in orizzontale e lungo oltre ogni proporzione, abbraccia un ampio spazio, circoscritto dalle gambe e le braccia… Va notato che il corpo della dea Tpe, raffigurato nelle sculture astronomiche, è disposto in modo tale da richiamare la forma del geroglifico”. A volte sono mostrate due divinità, che vengono così descritte dal Lenormant: “Due figure femminili sono disposte in modo tale che i loro corpi formano, per così dire, un soffitto piano, del quale le gambe e le braccia sono, agli angoli, le colonne di sostegno; esse sono Tpe, il cielo, e Nut, l’oceano celeste”. Il soffitto del portico a Philae, raffigurato nella Description della Commissione francese, reca entrambe queste figure distese sul soffitto; i loro corpi sono adagiati di profilo, con le gambe e le braccia piegate ad angolo retto rispetto al torso: prima di un’epoca tarda, gli Egizi non ritraevano mai le figure di fronte. A Denderah questa difficoltà è stata superata, e la dea è di faccia, e restituita in speciale bellezza! La terza figura, che a volte si trova, toccata con le punte delle mani e dei piedi dalla dea che la sovrasta, è Seb, la Terra.

Nel primo volume della Description vengono dati altri esempi. Ad Esneh, il soffitto del portico ha una di queste figure su 205

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ogni lato, di perfetta forma rettangolare, lo spazio è riempito di segni zodiacali e di stelle. Ad Erment, tre lati del soffitto sono presi da una di queste figure, con il corpo che si estende in lunghezza immensa, perfettamente diritto, e riempie il lato longitudinale del soffitto, che è tre volte più lungo dei lati ove sono le gambe e le braccia. Il soffitto del portico di Denderah è, fra tutti, l’esempio più caricato. I corpi delle dee, coperti dallo zig zag dell’acqua, si estendono lungo i lati, come lunghi flussi d’acqua, su cui galleggiano file di stelle; e lo spazio intermedio è occupato dai segni zodiacali, e da altre figure astronomiche, e da altre stelle. Molto più antico, e di gran lunga il più impressionante, è l’esempio rinvenuto nelle tombe dei re a Tebe, del grandioso periodo della XIX dinastia. La figura nuda è di bellissime proporzioni, dipinta con la precisione della pittura vascolare greca, e colorata, senza alcuna remora, del più splendente azzurro dei lapislazzuli. La vigile dea del cielo, che tutto abbraccia, nascosta nell’oscurità della parte più lontana della sala, scruta in giù dall’alto del soffitto, il corpo adorno dei dischi luminosi dei pianeti, “le stelle sul corpo della dea celeste Nut”. C’è un altro tipo di soffitto celeste a Denderah. Una sala quadrata ha un grande cerchio che ne sfiora i lati; attorno, all’esterno, ci sono i segni dello zodiaco, e lo spazio centrale è riempito dalle costellazioni boreali. La forma più semplice, fatta solo di stelle, fitte e disseminate come margherite in un prato, è la più bella rappresentazione dell’“intensa e luminosa volta del cielo, cosparsa di stelle”. Una buona tavola a colori di una di queste sta nel lavoro del Lepsius. Su un luminoso cielo blu, grandi stelle bianche a cinque raggi – ma perché mai le stelle si rappresentano con cinque raggi? – sono disposte in ordine sfiorandosi appena. Al centro di ogni stella vi è un punto di rosso splendente, che, sul bianco con il blu attorno, sembra far danzare le stelle e farle ondeggiare davanti agli occhi; in altri esempi, le stelle sono bianche su una superficie nera, come nelle piramidi di Dashur; in altri ancora le stelle sono d’oro. Scrive il Perrot: “I soffitti dei templi di Tebe avevano di solito uno sfondo blu, sul quale gli avvoltoi, con le 206

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loro grandi ali spiegate, si libravano fra stelle d’oro”. Per non elencare tutti gli esempi, ci accontenteremo di osservarne uno fra i più antichi. Nel 1881 Maspero aprì una piramide a Sakkara, che apparteneva ad un re, l’ultimo faraone della V dinastia. Qui, tanto indietro nel tempo che nessun uomo può calcolare quanto, “le pareti laterali sono rivestite da splendidi geroglifici, dipinti di colore verde, e il soffitto è cosparso di stelle dello stesso colore”. Infine, il sarcofago stesso era decorato allo stesso modo, con un pathos ancora superiore a quello del tempio o della tomba, con i loro soffitti come il cielo. I sarcofagi di epoca tarda, al British Museum, hanno i coperchi, dipinti nella parte interna per somigliare al cielo, di un verde-blu punteggiato di stelle; lungo i bordi, su due file, vi sono i segni zodiacali; tra questi, disposta nella sua lunghezza, è la dea dei cieli, rappresentata di fronte, bianca e serena, i suoi occhi per sempre rivolti in giù verso quelli di colui su cui lei vigila. Questi uomini dell’Egitto amavano lo stesso cielo che anche noi amiamo.

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CAPITOLO UNDICESIMO

Le finestre del paradiso e i trecentosessanta giorni Fermo! Fermo! Fermati uomo! Per amore dei trecentosessantacinque, che ci sono nell’anno. Racconto popolare serbo

Il parallelo, che si fa molto spesso, tra l’infanzia dell’individuo e quella della razza umana, ha un buon fondamento nell’apprendimento graduale del numero da parte di entrambe. Per tutt’e due la numerazione comincia con “Uno, due, e così via, all’infinito”; tutt’e due usano il simbolo di un determinato numero per riferirsi ad una grande quantità; e tutt’e due, quando il procedimento si raffina, associano d’istinto i numeri con le dita, che son cifre, della mano. Sembra che il contare per cinquine sia venuto prima del sistema decimale delle due mani, e lo si utilizza ancora quando si scarica la merce: l’incaricato fa con il gesso, sull’imposta o su una apposita tavoletta, quattro segni diritti ed il quinto in diagonale. In principio si faceva come i bambini, che per sommare o sottrarre si aiutano con le loro piccole dita. Proprio come i bimbi tirano su le mani e mimano il cinque, o il dieci, così si faceva nell’infanzia dell’uomo. La sua tabella dei conti era sempre a “portata di mano”, e le sue misure di lunghezza non sbagliavano mai: il palmo, la spanna, il piede, il cubito, e il braccio. Le tabelle dei Caldei con le “misure di lunghezza” iniziavano così: “cinque dita, una mano”, come si fa ancor oggi per misurare a spanne un cavallo. Sullo stadio ancestrale del numero John Lubbock racconta qualche storia. I Boscimani non avevano nomi oltre il “due”; tre era detto “due più uno”, quattro “due più due”, e così via. Di rado perdono i loro capi di bestiame, perché si accorgono di una perdita non contando le teste, “ma dall’assenza di una faccia che conoscono”. “In tutto il mondo le dita vengono usate per contare; e anche se i nomi dei numeri adoperati dalla maggior parte delle raz208

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ze sono logorati dall’uso e non possiamo più riconoscerne il significato che avevano in origine, vi sono molte tribù selvagge per le quali le parole impiegate non sono che le espressioni verbali dei gesti fatti contando con le dita. Laddove vengon dati nomi alla prime quattro cifre, il cinque è ‘una mano’, e continuando vi sono l’uno, due, tre e quattro dell’altra mano; e il dieci è ‘due mani’. Per tale ragione, di certo, il dieci del sistema decimale della matematica è stato scelto proprio perché abbiamo dieci dita”. Vitruvio spiega tutto questo: “gli antichi trassero i sistemi delle misure, che in tutte le costruzioni sembrano essere necessarie, dalle membra del corpo, come il dito, il palmo, il piede, il cubito, e li ripartirono secondo un numero perfetto, che i Greci dicono téleon, perfetto, ed istituirono come numero perfetto quello che è denominato dieci. E infatti il dieci fu ricavato dal numero delle dita delle mani, mentre dal palmo fu ricavato il piede. Siccome la natura ha ricavato il numero dieci dalle dita di entrambe le mani, anche Platone considerò il dieci come numero perfetto, in quanto la decina è composta dall’insieme delle singole unità, che presso i Greci son dette mónades. Infatti, appena le unità divengono undici o dodici, non sono perfette, poiché superarono la decina, finché non pervengano ad un’altra decina”. Abbastanza ovvio è affermare che il primo intervallo periodico registrato e calcolato è quello delle fasi lunari: ventinove giorni, dodici ore, quarantaquattro minuti; il numero intero più vicino ad “una Luna”, così trenta, trenta giorni, “sei mani”. Poi sarebbe stato misurato l’anno: dodici mesi, trecentosessanta giorni, il vero anno primordiale. Come gli Egizi e i Greci abbiano iniziato a correggere questo errore è detto da Erodoto: “gli Egiziani furono i primi a scoprire l’anno, avendo diviso il ciclo delle stagioni in dodici parti, e l’avevano scoperto, a quel che dicevano, osservando gli astri. Il loro modo di calcolare, a mio parere, è più esatto di quello dei Greci. In quanto i Greci, in vista appunto delle stagioni, introducono ogni due anni un mese intercalare; gli Egiziani, invece, che considerano i dodici mesi di trenta giorni, ogni anno introducono cinque giorni oltre il nu209

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mero solito; e così, per loro, il ciclo delle stagioni, periodicamente, si presenta sempre alla medesima data”. Che i trecentosessanta giorni fossero l’anno originario, incrementato con i cinque giorni aggiunti, è ampiamente provato dagli studiosi dei monumenti. I cinque giorni aggiunti venivano tenuti separati e considerati festivi; e una leggenda secondo la quale Osiride non sarebbe nato nell’anno trovava conferma nel fatto che era nato in uno di quei cinque giorni. Che l’originario anno dei Greci fosse anch’esso di trecentosessanta giorni è dimostrato con maggiore chiarezza in un altro passaggio di Erodoto, e in Omero, citato qui sotto. Dei Romani Plutarco dice che, prima di Numa, “non avevano idea della differenza tra il corso annuale del Sole e quello della Luna, ed erano fissi nell’unico pensiero che l’anno consistesse di trecentosessanta giorni”. Era la stessa cosa in Assiria, come han reso evidente le tavole astronomiche. “Dodici mesi per ogni anno, trecentosessanta giorni di numero, com’è registrato”. Il percorso del Sole attraverso le stelle era ripartito sui dodici mesi, i dodici segni dello zodiaco, e questi, suddivisi nei loro trenta giorni, diedero i trecentosessanta gradi, base, da allora, di ogni misura degli angoli. Il giorno veniva diviso in sei parti, ed ognuna suddivisa in sessanta, e lo stesso per la notte, com’è ancor oggi in Giappone. Nel racconto biblico di Noè e il diluvio, cinque mesi consecutivi facevano esattamente centocinquanta giorni; di conseguenza l’anno doveva farne trecentosessanta. L’anno hindu nei Veda era uguale, con il dio Sole che aveva settecentoventi figli gemelli, trecentosessanta giorni e trecentosessanta notti. Nel Mahabharata, un giovane brahmino scende, passando per una caverna, nella città dei serpenti. Vede due donne intente a tessere un velo, una con fili bianchi e l’altra con fili neri, i fili del giorno e della notte. Vede una ruota con dodici raggi; trecentosessanta raggi escono dal mozzo, i giorni dell’anno. In Messico il numero dei giorni, in antico, era senz’altro lo stesso, perché cinque giorni erano intercalari. Così il dodici e il trecentosessanta sono diventati numeri importanti e facilmente riconoscibili, punti fissi in un mare di 210

Le finestre del paradiso

astrazioni. “Tanti quanti le lune”; “tanti quanti i giorni in un anno”. Questi importanti punti fermi su cui camminare sono il dieci, il dodici, il trenta e il trecentosessanta; di certo non proprio esatti nel ritmo ciclico, che pure è sicuro e saldo. La serie si incrementerà di molto, comunque, se dividiamo per due uno dei numeri al centro della serie e raddoppiamo l’altro: avremo sei, dieci, sessanta (dieci per sei), trecentosessanta (sessanta per sei), tremilaseicento (sessanta per sessanta), ecc. Che questo modo di vedere l’incremento della numerazione sia corretto o meno in ogni particolare, esso trova comunque una sufficiente conferma nelle tavolette matematiche degli Assiri, ove basi della scala sono il numero sei e il numero dieci: sessanta, seicento, tremilaseicento. Lo spiega W. St. Chad Boscawen. E Berosos ci dice persino i nomi di questi numeri: “Dunque, un sarus si ritiene essere tremilaseicento, un neros, seicento, e un sossus, sessanta”. Il resoconto caldeo del diluvio dà ripetuti esempi dell’impiego di questo sistema: “Ed il Dio, il signore immutabile, ha ripetuto il suo comando in un sogno: ‘Costruisci un battello e completalo. Con un diluvio distruggerò materia e vita. Adoperati per caricare sul battello la sostanza di tutto ciò che ha vita. L’arca che costruirai dovrà misurare seicento cubiti in lunghezza e sessanta cubiti di larghezza e di altezza’. Ho spalmato sulla sua parte esterna, tre volte, tremilaseicento misure di bitume, e sulla sua parte interna, tre volte, tremilaseicento misure di bitume, e, tre volte, tremilaseicento portatori han portato sulle loro teste le ceste delle provviste. Ho tenuto tremilaseicento ceste per il nutrimento della mia famiglia, ed i marinai hanno diviso tra loro, per due volte, tremilaseicento ceste”. Lo scrive il Lenormant. Questo numero importante, trecentosessanta, quanti sono i giorni dell’anno, è quasi sempre la base di quei lunghi periodi che troviamo nella primordiale cronologia mitica. A Babilonia, secondo Berosos, ognuno dei dieci re antidiluviani regnò per la durata di un multiplo di un tale periodo, raggiungendo un totale di quattrocentotrentaduemila anni, vale a dire trecentosessanta anni moltiplicati per dodici, moltiplicati per cento; e si pensi che dal diluvio fino alla conquista persiana passarono tremilaseicento anni. In India, la cronologia sacra procede con lo stes211

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so metodo, come viene dimostrato dal seguente passo di Sir George Christopher Molesworth Birdwood: “L’anno degli dèi consiste di trecentosessanta anni dei mortali. La prima era è durata quattromilaottocento anni degli dèi; la seconda, tremilaseicento, la terza duemilaquattrocento, e la quarta, l’era attuale, era oscura, che ha avuto inizio intorno al 3101 a.C., è limitata a milleduecento anni degli dèi”. Il giorno di Brahma dura quattromilatrecentoventi milioni di anni, trecentosessanta per dodici: tale è la cronologia brahmanica, ma vi è un altro sistema, “basato sui regni di Manu, che si susseguono, evidentemente derivato dai tempi vedici: ogni volta Manu doveva regnare per quattromilionitrecentoventimila anni, vale a dire trecentosessanta per dodicimila”. Nel distruggere le coincidenze dei numeri cronologici, il von Bunsen stabilì un ciclo di sessanta anni, ma il numero dei giorni dell’anno è pur sempre l’evidente spiegazione del periodo degli Egizi, come dice Manetone in un’epoca tarda, quando già si conosceva con grande precisione un corretto anno solare di 365,25 giorni. Ci viene detto come le antiche cronache egizie comprendessero trentaseimilacinquecento e venticinque anni, in altrettanti volumi: cento volte i giorni dell’anno. Plinio affermò che il labirinto d’Egitto era esistito per tremilaseicento anni. Questo numero è il primo fra tutte le somme sensibili che incontriamo nella letteratura greca, come è segnalato dal signor W.E. Gladstone nell’Odissea [XIV, 20]: “Fra tutti i numeri nominati da Omero, quello più importante, che sembra utilizzato con un significato chiaro e preciso, è quello dei trecentosessanta porci custoditi da Eumeo ad Itaca. La ragione per considerare che questo numero abbia un senso alquanto definito nella mente del poeta è che esso ha una associazione evidente con il numero dei giorni che allora, forse, si contavano in un anno”. In Cina, afferma Evariste Regis Huc: “Questo numero, il trecentosessantacinque che corrisponde ai giorni dell’anno, esprime, secondo il genio cinese, un grande multiplo, una serie ininterrotta”. 212

Le finestre del paradiso

Si racconta, di un certo costruttore, che il suo metodo di calcolo era di indovinare la quarta parte e di moltiplicare poi questa parte per quattro; ci sembra che gli antichi moltiplicassero per trecentosessanta. Il professor Max Müller ci spiega che già nell’anno 600 a.C. “ogni verso, ogni parola, ogni sillaba nei Veda era stata accuratamente calcolata”; il numero delle sillabe era quattrocentotrentaduemila, un numero che abbiamo già incontrato, e che si forma sulla base di trecentosessanta. Vitruvio afferma che la circonferenza della Terra era stata accertata da Eratostene di Cirene in duecentocinquantaduemila stadi; vale a dire cento volte il numero dei gradi, moltiplicato per il numero mistico dei pianeti. E Dante, nel Convivio, dice che i saggi d’Egitto han contato ventiduemila stelle del cielo, la cifra tonda più prossima a trecentosessanta per sessanta, che fa ventunomila e seicento. Nel Talmud si parla di “tante migliaia di miriadi di stelle quanti sono i trecentosessantacinque giorni dell’anno solare”, e nel libro persiano Bundahish, vi sono seimilaquattrocentottanta stelle, trecentosessanta per diciotto. Nella repubblica ideale di Platone vi sono cinquemila e quaranta, trecentosessanta per quattordici, abitanti. Nel sistema orfico vi erano trecentosessanta divinità, e per gli gnostici questo era il numero degli spiriti. Ma non era soltanto per il calcolo delle quantità ignote dei periodi mitici, per la moltitudine delle stelle, o per la circonferenza della Terra, che questa cifra veniva utilizzata: per la distanza fra i luoghi e le estensioni dei paesi serviva in pari misura agli antichi geografi, agli storici e agli astronomi. Erodoto, Strabone e Diodoro la utilizzano di frequente, ma, si direbbe, senza temere di essere imprecisi: Strabone, ad esempio, attribuisce all’Eufrate una lunghezza di trentaseimila stadi, una distanza da Paphos ad Alessandria di tremilaseicento stadi, ed un percorso di trecentosessanta stadi alla via Appia, da Roma a Brindisi. Per rilevare una circonferenza, in specie per le mura delle città, la misura veniva usata ancora più spesso e in maniera ancor più appropriata; dice Erodoto: “il lago che prende il nome da Meri, nelle cui vicinanze è stato costruito il labirinto, suscita 213

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una meraviglia ancor maggiore. Il suo perimetro è di 3600 stadi [665,46 chilometri], 60 scheni, lunghezza pari a quella, sul mare, della costa dell’Egitto”. George Rawlinson ha estratto dalle storie su Babilonia questi dati, relativi alla circonferenza delle sue mura: Ctesia 360 stadi [66,5 chilometri] Clitarco 365 stadi [67,4 chilometri] Q. Curzio 368 stadi [68,2 chilometri] Strabone 385 stadi [70,93 chilometri]

Ed è disposto ad accettare queste stime come abbastanza accurate; ma se, sul numero trecentottantacinque, concordiamo con il Bohn, curatore di Strabone, che dice: “i critici concordano sul fatto che si sia confuso il trecentottantacinque con il trecentosessantacinque; il numero degli stadi della cinta delle mura, secondo gli antichi autori, corrisponde al numero dei giorni dell’anno”, allora l’intera serie diventa adatta soltanto ad attribuire dimensioni al mondo del mito. Cartagine, scrive lo stesso autore antico, “è situata su una penisola, compresa da un cerchio di mura di trecentosessanta stadi che va da un mare all’altro, sessanta stadi del quale sono di mura sull’istmo”; inoltre, ci dice, vi era una zona fortificata sull’istmo di Chersoneso, di trecentosessanta stadi. Diodoro Siculo racconta che veniva eretto quotidianamente uno stadio delle mura di Babilonia, con il lavoro dei due milioni di uomini al servizio di Semiramide, cosicché il perimetro fu completato in un anno. Dice anche che trecentosessantamila uomini lavorarono alla costruzione della grande piramide, e che era tradizione, in un’antica festività egizia, che trecentosessanta sacerdoti raccogliessero l’acqua del Nilo in altrettanti recipienti, e li versassero in una cisterna che non tratteneva l’acqua, rappresentando così i giorni che scorrono via. E sulla tomba di Osiride, a Philae, ad ogni giorno di lamentazione venivano riempiti di latte trecentosessanta vasi. Anche Erodoto fa un uso frequente di questo numero: Dario, ci dice, divise il suo impero in venti satrapie che pagavano i tributi in oro o in natura; cinque di esse pagavano trecentoses214

Le finestre del paradiso

santa talenti; ed i Cilici dovevano offrire “trecentosessanta cavalli bianchi, uno per ogni giorno”. E ci dice anche, riferendosi a Babilonia, che: “quando Ciro, nella sua marcia contro quella città, arrivò al fiume Ginde, uno dei sacri cavalli bianchi, per una leggerezza, cadde nelle acque, che lo trascinarono via e lo fecero affogare. Ciro si infuriò con il fiume per questo affronto, e minacciò di render così debole la sua corrente da render facile alle donne, da quel momento, attraversarlo senza bagnarsi le ginocchia. Dopo la minaccia, rimandata la spedizione contro Babilonia, divise la sua armata in due parti; e, avendola così divisa, tracciò le linee di centottanta canali sulle due rive del fiume divergenti fra loro in ogni direzione dello spazio; poi, disposta la sua armata, ordinò agli uomini di scavare”. “Il suo piano fu effettivamente eseguito dal grande numero di uomini al suo comando, che però dedicarono ai lavori tutta l’estate. Quando Ciro si fu vendicato del fiume Ginde, disperdendolo in trecentosessanta canali, e la seconda primavera cominciò a risplendere, egli allora avanzò contro Babilonia”. Plinio affermava che la valle della Mesopotamia era di circa cinquecentoottanta chilometri in larghezza; ed Erodoto dice che quando i Persiani costruirono due ponti di barche sull’Ellesponto per l’invasione della Grecia, uno era fatto di trecentosessanta barche e l’altro di trecentoquattordici barche. Dall’Egitto, secondo questo autore, il re Amasis inviò in dono una corazza leggera per i Lacedemoni. “Questo corsaletto era di lino, con ricamate tante figure di animali, decorato con l’oro e il cotone grezzo: e per questo ogni suo filamento lo rende degno di ammirazione, perché è di fine lavorazione, e comprende trecentosessanta fili tutti diversi”. Plinio dice che i fili sono trecentosessantacinque. “Si racconta che c’è una canzone persiana nella quale sono elencate trecentosessanta proprietà benefiche della palma”. È ancora in Strabone. Altri Persiani moderni fanno quasi lo stesso uso di questo numero, poiché Sadi, riferendosi alle vene, dice che il corpo è come un prato attraverso il quale scorrono trecentosessanta rivoletti. Il coccodrillo, secondo gli antichi scrittori di storia naturale, aveva trecentosessanta denti e deponeva sessanta uova alla volta. Gibbon ci dice che gli Arabi trovarono 215

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in Spagna una tavola di smeraldo sostenuta da trecentosessantacinque gambe. Nel Kashmir c’era un villaggio con trecentosessanta fontane dedicate alla Luna. È nell’Ayeni Akberi, citato dal Maurice. Al Tavernier mostrarono, nella corte del castello di Augustbourg, in Danimarca, un albero così straordinariamente grande da offrire riparo a un gran numero di tavoli: “Non li ho contati, mais le Concierge nous dit qu’il y en a autant que des Jours en l’an”. Un libro cinese sugli uccelli, datato, su un bestiario mitologico, tra il III e il IV secolo, descrive Fung Hwang, la fenice di quel popolo, come la più importante delle trecentosessanta diverse specie di uccelli. Un monumento del VII secolo, segnalato da Huc, reca una iscrizione secondo la quale dopo l’abbandono della pura religione primitiva sorsero trecentosessantacinque sètte, sconvolgendo ogni idea certa. In un’opera giapponese dell’inizio di questo secolo, che traduce un originale cinese vecchio di circa duemila anni, la relazione mistica fra il mondo e l’uomo come microcosmo, “Piccolo Terra-e-Cielo”, viene tracciata con dettagli che hanno una impressionante somiglianza con quelli dei mistagoghi medievali. “L’uomo riceve la sua forma umana dal cielo e dalla Terra, e per questo assomiglia al cielo per la sua testa, che è rotonda, e alla Terra per i suoi piedi, che sono quadrati. Se in cielo ci sono i cinque elementi, il fuoco, l’acqua, il legno, il metallo, la Terra, anche nell’uomo ci sono le viscere che ad essi corrispondono: polmoni, cuore, fegato, stomaco e reni; se in cielo ci sono i cinque pianeti o stelle, la stella del fuoco, la stella dell’acqua, la stella del legno, la stella del metallo, la stella della Terra, anche nell’uomo troviamo le cinque dita e le unghie; se in cielo ci sono le quattro stagioni, i dodici mesi, ed i trecentosessanta giorni, anche l’uomo mostra di avere quattro arti, dodici grandi giunture, e trecentosessanta articolazioni minori”. Sta scritto in Nipon, di Fauld. A Costantinopoli, molte cose sembrano esser state disposte in base a coerenti piani numerici: al Collegio reale, distrutto, come si racconta, da un incendio durante il regno di Leone Isaurico – ma Gibbon sembra dubitare dell’esistenza di tale scuola – il preside veniva chiamato il Sole della Scienza, i suoi dodici associati erano i segni 216

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dello zodiaco, e nella biblioteca si trovavano trecentosessantamila volumi. Secondo quanto dice Codino, Giustiniano aveva assegnato a Santa Sofia trecentosessanta proprietà, ed aveva destinato il tributo annuale dell’Egitto, di trecentosessantacinque volte centomila sesterzi, per l’edificazione dell’ambone e della soglia. Sir John Maundeville crea un prete Gianni che era servito da trecentosessanta cavalieri, e ci dice che il re Davide aveva altrettante mogli e concubine. Erano tante quante sono nella storia di Hassan ne Le Mille e una notte, “trecentosessanta, come il numero dei giorni in un anno”. Il numero “tanti quanti i giorni in un anno” compare soprattutto nelle descrizioni delle città e degli edifici; dalle antiche descrizioni di Babilonia e di Cartagine, come abbiamo visto, fino all’Inghilterra di oggi, il numero e la sua frase ricorrono ovunque. La si pronuncia per Blenheim, per l’ospedale di Heriot a Edimburgo, per la Syon House di Castletown, vicino a Dublino, e per tanti altri luoghi, che hanno tante finestre quanti i giorni dell’anno; ma questa storia colpisce ancora di più ove sia applicata ad una normale casa di un gentiluomo di campagna. A chi scrive parlarono di una casa di questo genere per la prima volta quando era ancora bambino, e la memoria di questo, come qualcosa di misterioso, è all’origine di questo capitolo. Vi sono casi, come ad esempio nella cattedrale di Salisbury, in cui la concordanza si estendeva ai giorni dell’anno, alle settimane, ai mesi, e persino alle ore ed ai minuti. A Calais, quando si approda sotto i forti lampi rotanti del nuovo faro, ti viene detto che il faro ha tanti gradini quanti sono i giorni in un anno. Nell’Edda, il palazzo di Thor ha cinquecento e quaranta sale: Cinquecento porte E quaranta in più, Credo che ci siano nel Valhalla.

Questo vuol dire, si può supporre, sessanta sale per ogni piano, in un cielo a nove settori. 217

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Luciano descrive la città dell’isola dei Beati: “Al posto del grano, i campi danno pani appena sfornati come se fossero funghi. Ci sono trecentosessantacinque fontane d’acqua attorno alla città, ed altrettante di miele, e cinquecento, un po’ più piccole, di un dolce olio fragrante, oltre a sette fiumi di latte ed otto di vino”. Si dice che si facesse il giro di Kirwan la Santa, fondata dal Compagno del profeta, in trecentosessanta passi. Si dice della moderna Bukhara che abbia una moschea per ogni giorno dell’anno, come Il Cairo. Nushirwan fortificò una grande muraglia con questo numero di torri. Nel Talmud è scritto che vi sono trecentosessantacinque teste coronate a Roma, e lo stesso numero di capi a Babilonia. “Il Rabbino Samlai ha spiegato che a Mosè sono stati trasmessi seicentotredici comandamenti; trecentosessantacinque negativi, secondo il numero dei giorni in un anno, e duecentoquarantotto positivi, come il numero delle parti nel corpo umano”. L’autore medievale che descrive le stazioni liturgiche di Roma dice che la città eterna era circondata da quarantadue mura, con “grandi torri, trecentosessanta di numero”; le Mirabilia urbis del XII secolo parlano di trecentosessantuno torri. William di Malmesbury scrive della chiesa di San Silvestro, a Roma: “e anche là i trecentosessantacinque martiri riposano in un sepolcro”. C’è una leggenda, riportata dallo Stokes, su san Patrizio che visita Roma per via magica, e che riporta in Irlanda trecentosessantacinque reliquie. “Nella Grande Città, Roma, vi erano trecentosessantacinque strade, e in ogni strada trecentosessantacinque palazzi, e in ciascuno c’erano trecentosessantacinque gradini; ciascuno di questi palazzi conteneva provviste sufficienti per nutrire il mondo intero”. È scritto nel Talmud, commentato da P.I. Hershon. La persistenza di questa storia riguardo a Roma è degna di nota. Tuttora si dice che nella città vi siano trecentosessantacinque chiese. Lo scrive Amelia B. Edwards, in Nile. Ma non si tratta solamente di Roma; il numero è comune in tutta Europa; a Cipro, si dice che la città di Kuklia, l’antica 218

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Paphos, abbia avuto trecentosessantacinque chiese, e vi sono tracce evidenti di sei chiese! È nel «Journal of Hellenic Society», del 1888. In Grecia, Atene ed altre città pretendono di aver avuto lo stesso numero di chiese. L’antico tempio arabo alla Mecca aveva trecentosessanta statue attorno a quella di Hobal, il dio Sole. Il Sale, nelle sue note sul Corano, citando un autore arabo, dice: “vi erano non meno di trecentosessanta idoli, che uguagliavano in numero i giorni dell’anno”. Il Dupuis menziona le trecentosessanta cappelle costruite attorno alla superba moschea di Balk, eretta dal capo della famiglia dei Barmecidi, ciascuna per uno degli altrettanti spiriti; era anche lo stesso numero dei templi costruiti sul monte Lowham in Cina, e degli idoli nel palazzo del Mikado in Giappone. Plinio descrive la mirabile costruzione di Scaurus, che “eseguì la più grande opera mai compiuta dagli uomini, anche fra quelle che dovevano durare in eterno, voglio dire il suo teatro: questo edificio era di tre piani che poggiavano su trecentosessanta colonne”. L’ebreo Benjamin di Tudela era a Costantinopoli nella seconda metà del XII secolo. Scrive: “A Costantinopoli c’è il luogo del culto chiamato Santa Sofia, la sede del metropolita dei Greci, in disaccordo con il papa di Roma. Contiene tanti altari quanti sono i giorni dell’anno, e possiede innumerevoli ricchezze. Tutti gli altri luoghi di culto del mondo non eguagliano Santa Sofia nelle sue ricchezze; è decorata con pilastri d’oro e d’argento, e con innumerevoli lampade degli stessi materiali preziosi”. Questa storia, evidentemente, è tanto conosciuta nelle tradizioni popolari dell’Oriente quanto qui in Occidente. Wheeler, che viaggia in Grecia nel 1670, dice di Arta, dove c’è una chiesa bizantina: “Il signior Manno Mannia, un ricco mercante di quel luogo, mi ha detto che la cattedrale è un grande edificio con tante porte e finestre quanti sono i giorni in un anno”. Un autore maomettano, El-Harawi, ha visitato Costantinopoli nel XIII secolo, e scrive: “In questo luogo vi sono statue di bronzo e pilastri di marmo, meravigliosi talismani e altri monumenti di grandezza, uguali non se ne trovano nel mondo abitato. Qui c’è anche la Hagia Sofia, la più grande chiesa che hanno. Yakub Ibn 219

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Abd Allah mi disse che vi era entrato e che era proprio come l’avevo descritta: all’interno ci sono trecentosessanta porte, e dicono che uno degli angeli abiti lì. Attorno hanno fatto recinti d’oro, e la storia che dicono di lui è molto strana”. El-Harawi promette di parlare altrove “della disposizione della chiesa, delle dimensioni, l’altezza, le porte e i pilastri che sono in essa; ed anche delle meraviglie della città, del suo ordinamento, e dei tipi di pesci che in essa si trovano; della Porta d’oro, le torri di marmo, gli elefanti di bronzo, e di tutti i suoi monumenti e le sue meraviglie”, ed esclama concludendo, “Che Dio, nella sua bontà e grazia, faccia di questa città, che è superiore alla sua fama, la capitale dell’Islam!”. È molto curioso vedere come il professor Piazzi Smyth asserisca che ogni lato della grande piramide misurasse 365,25 sacri cubiti [167 metri]: i quattro lati, presi insieme, fanno cento “pollici piramidali” per ogni giorno dell’anno. Nella traduzione inglese del Doctor Faustus, del tardo Cinquecento, uno dei brani aggiunti all’originale tedesco, che racconta i viaggi di Faustus, descrive il grande castello di Sant’Angelo a Roma, di forma circolare. “Bene, poi andò a Roma, che stava e sta ancora sulle rive del fiume Tevere, che divide la città in due parti. Sul fiume vi sono quattro grandi ponti di pietra, e al di sopra del ponte detto ponte di Sant’Angelo, sta il castello di Sant’Angelo, nel quale vi sono tanti cannoni quanti sono i giorni dell’anno, capaci di sparare sette proiettili con un colpo solo”. Un altro esempio tratto da una fonte inglese lo si può trovare fra le carte dell’archivio di Richard Hakluyt, nel rapporto di Miles Phillips, un membro della spedizione che raggiunse le Indie occidentali sotto il comando di Master John Hawkins nell’anno 1568. In una città vicina al Messico, dice, “era stata costruita dagli Spagnoli una chiesa molto bella chiamata la chiesa di Nostra Signora, nella quale c’è un’immagine della Madonna, d’argento placcato d’oro, alta e grande come una donna alta; in questa chiesa, di fronte a questa immagine vi sono tante lampade d’argento quanti sono i giorni dell’anno, che sono tutte accese nei giorni di festa”. Nell’antica città greca di Taranto vi era, dice Ateneo, un can220

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delabro che aveva tanti bracci quanti sono i giorni dell’anno. I lumi di questo candelabro sono appropriati a quel che si dice qui, come lo sono le finestre, contate sempre con lo stesso numero, specialmente se le finestre sono quelle di un edificio di forma circolare, il che ci porterà a spiegare il perché questo numero sia universalmente applicato agli edifici. Diodoro Siculo dice del Ramesseum di Luxor: “Attraverso queste camere raggiungiamo l’apertura del sepolcro – di Ramesse II – dove c’è un cerchio d’oro di trecentosessantacinque cubiti di circonferenza, e di un cubito di spessore. Su questo cerchio sono segnate le divisioni per ogni giorno dell’anno, e in ciascuna son segnati il sorgere e il tramontare delle stelle, e l’influenza che gli astrologi egizi hanno attribuito a queste costellazioni”. Le due storie che seguono sono tratte da Benjamin di Tudela: “A Roma trovi ottanta sale per gli ottanta eminenti re, che erano tutti chiamati imperatore, dal re Tarquinio al re Pipino, il padre di Carlo, che per primo conquistò la Spagna, strappandola ai maomettani. Nei sobborghi di Roma c’è il palazzo di Tito, che era stato deposto da trecento senatori per aver perso tre anni nella conquista di Gerusalemme, la qual cosa, secondo il loro volere, avrebbe dovuto portare a termine in due anni. Là c’è anche la sala del palazzo del re Vespasiano, una costruzione molto grande e potente, ed anche la sala del re Galba con trecentosessanta finestre, uguali in numero ai giorni dell’anno. Il perimetro di questo palazzo è di quasi 5 chilometri. Una battaglia fu combattuta qui in tempi lontani, e nel palazzo sono caduti in più di centomila, e le loro ossa sono tuttora appese lì”. “In Damasco c’è una moschea musulmana chiamata la sinagoga di Damasco, un edificio di ineguagliata magnificenza. Dicono che era il palazzo di Ben-Hadad, e che una delle sue pareti fosse stata innalzata per incanto con il vetro. Questo muro contiene tante aperture quanti sono i giorni dell’anno solare, e il Sole nel suo graduale percorso proietta la sua luce nelle aperture, divise in tanti gradi quante sono le ore del giorno, cosicché con questo apparato tutti possono sapere che ora è. Nel palazzo vi sono vasche a forma di botte, riccamente decorate d’oro ed 221

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argento, e grandi abbastanza da permettere a tre persone di farci il bagno insieme. In questo edificio si conserva anche la costola di un gigante, lunga nove spanne e larga due, e che apparteneva ad un antico gigante chiamato Abchamos, il cui nome era inciso su una pietra della sua tomba: nell’iscrizione si afferma anche che lui ha regnato sul mondo intero”. In effetti, la cosa sembra possibile, se questa era la sua reggia, poiché essa non è altro che la cupola di cristallo della struttura del mondo, con le finestre nel firmamento, attraverso le quali il Sole brilla un giorno dopo l’altro. È qui che possiamo vedere la radice del nostro attribuire, nel mito, questo numero alle finestre dei templi del mondo; la tradizione, in origine, parlò della cupola del cielo, la casa del Sole, come la vera spiegazione dei fatti della natura; e la spiegazione viene applicata infine a edifici famosi fatti dalla mano dell’uomo, come un mito. Almeno in una occasione, ma probabilmente in più di una, il numero ha realmente deciso il disegno di un tempio. È la tripla piattaforma circolare dell’altare del Cielo a Pechino. “Le balaustrate hanno nove per otto, vale a dire settantadue, pilastrini e ringhiere, al livello superiore. Al livello di mezzo sono centotto; ed al livello più basso, centottanta. In tutto ammontano a trecentosessanta, il numero dei gradi in un cerchio”. Lo scrive, ancora, Joseph Edkins, nei Williamson’s Journeys in N. China. Le trecentosessanta finestre del cielo descritte nel Bundahish, gli antichi scritti persiani raccolti attorno all’VIII secolo, e pubblicati fra i Sacred Books of the East, sono, con sufficiente chiarezza, il prototipo della storia della moschea di Damasco, raccontata da Benjamin di Tudela. L’insieme è quasi un trattato scientifico, che è particolarmente chiaro nella esposizione dei molti livelli, allacciati fra loro sfera dopo sfera, dell’Olimpo celeste. Il monte Alburz è il firmamento entro il quale il Sole viaggia ed è contenuto. “Del monte Alburz, si dichiara che attorno al mondo e al monte Terak la rivoluzione del Sole avviene come in un fossato che cinge il mondo; il Sole ritorna indietro a causa della recinzione del monte Alburz che circonda il Terak. Poiché vi sono, attraverso l’Alburz, centottanta aperture ad est e centottanta ad ovest: e il Sole ogni giorno entra attraverso un’apertura 222

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ed esce da un’altra apertura; e tutta la connessione e commozione della Luna e delle costellazioni e dei pianeti è con esso… Quando arriva a Verak, l’Ariete, la notte ed il giorno sono di nuovo uguali, come nel momento in cui esso lasciava Verak. Quando ritorna a Verak, dopo trecentosessanta giorni, e dopo i cinque giorni Gatha, esso entra ed esce dall’unica medesima apertura; l’apertura non è nominata, perché se fosse nominata i demoni avrebbero conosciuto il segreto e sarebbero stati in grado di introdurvi il disordine”. Il curatore aggiunge che “per i cinque giorni supplementari, aggiunti, per completare l’anno, all’ultimo dei dodici mesi di trenta giorni, non sono state stabilite nell’Alburz ulteriori aperture, ed il Sole sembra avere la scelta fra le due aperture centrali delle centottanta che sono su ciascun lato del mondo. Questa disposizione pare indicare che l’idea delle aperture sia più antica della rettifica apportata al calendario che ha aggiunto cinque giorni Gatha ad un originario anno di trecentosessanta giorni”.

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CAPITOLO DODICESIMO

Il simbolo della creazione Nel locale in cui entrarono c’era soltanto un dipinto nero che rappresentava un’altra donna. Le gambe arrivavano fino in cima alla parete. Il corpo occupava l’intero soffitto. Dall’ombelico pendeva un filo cui era appeso un uovo enorme, e la donna ricadeva a testa in giù sull’altra parete, toccando il pavimento con le dita appuntite. Gustave Flaubert, Salammbô

William Burges, oggi defunto, costruì per se stesso una casa strana e dallo splendore barbarico: nessuno più di lui poteva avere, con il sentimento dell’arte del passato, un rapporto così sottile ed intimo, o tanto saturo di passione per il colore, lo splendore e il mistero. Qui c’erano l’argento e la giada, l’onice e la malachite, il bronzo e l’avorio, telai di finestre con gemme, sfere di cristallo di rocca, marmo intarsiato con metalli preziosi; lustro, iridescenza e colore dappertutto; vermiglio e nero, oro e smeraldo; dappertutto emblemi e motivi simbolici, ed una fusione della sensibilità orientale con il suo stile. Nella sua stanza da letto, il letto e gli altri mobili sono di colore vermiglio reso più intenso da uno smalto cremisi trasparente. In un affresco una sirena pettina i suoi lunghi capelli dorati, con uno specchio nella mano, uno specchio vero. Sul soffitto travi rosse traversano uno sfondo nero punteggiato da piccoli specchi convessi, larghi due pollici, circondati da raggi dorati; gli specchi restituiscono la luce delle candele, come stelle nel cielo di mezzanotte. Gli arazzi sono ricami d’Oriente, e i quadri sono miniature persiane. Il soffitto della stanza vicina è ancora più straordinario e misterioso: è diviso in quattro quadrati da grosse travi; nel punto centrale c’è uno specchio convesso grande come la Luna: ogni spazio quadrato ha nervature diagonali di 224

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un rosso chiaro, come sono i fenicotteri, e intorno ai punti di intersezione sono stati dipinti dei cerchi, da cui pendono uova di emù, quattro in tutto, grandi, dalla forma a mandorla, e di un verde ineguagliabile. Vibrano quando si entra nella stanza. Burges era stato a Costantinopoli, e là, pochi anni fa, nella chiesa Santa Sofia, “la più bella e nobile chiesa del mondo”, pendeva dalla cupola un leggero telaio di ferro, un ottagono di forse 18 metri di diametro, con raggi e linee concentriche al suo interno; un’enorme ragnatela, che doveva apparire come appesa – così è l’immenso – alla vera volta del cielo. Da questo telaio pendeva con semplicità una miriade di lumi ad olio, minuscoli vasi di vetro con gli stoppini galleggianti. In mezzo ai lumi erano appese delle uova di struzzo, tutte disposte con una precisione non maggiore di quella con cui si mettono le luci e le arance sugli alberi di Natale, lunghe, corte, diritte e storte, e talmente vicine al pavimento da entrare quasi nel campo visivo di colui che legge il “Libro Perspicuo”, mentre sale sull’alto pulpito della moschea conquistata con la legge ed una sciabola sguainata, le alternative offerte dall’Islam. Dalle fotografie si vede che volgari luci a gas hanno ora preso il posto del telaio originale con le lampade, che però è mostrato nella veduta dell’interno nel libro di Texier e Pullan. Queste uova pendenti sembrano essere impiegate dappertutto in Oriente, nelle chiese, nelle moschee e nelle tombe. Sempre a Costantinopoli i telai per le lampade nella moschea di Achmet sono decorati con sfere di cristallo e con uova di struzzo. Di solito vengono dipinte con colori luminosi e con una piccola incastellatura di sostegno in metallo, sulla parte superiore e su quella inferiore, con, sotto, un pendaglio o una nappa. Un telaio del genere, che porta lampade e uova, lo si può vedere nel meraviglioso acquerello di Lewis a South Kensington. I disegni degli interni delle moschee arabe in Egypt di George Ebers fan vedere, in alcuni esempi, una lunga corda, un uovo, e poi la lampada. A volte, una dozzina di uova sono appese in questo modo qua e là, o pendono in fila da una trave. Risalendo il Nilo, persino ad Assuan, Amelia B. Edwards descrive una moschea come “fresca, pulita e spaziosa, il pavimento coperto con 225

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stuoie, e qualche dozzina di uova di struzzo che pende dal soffitto”. Nelle chiese copte veniva mantenuta la stessa usanza, come si può vedere in Ancient Coptic Churches of Egypt, del Butler, da dove è tratta la citazione che segue; ed è interessante notare come un dettaglio in apparenza tanto insignificante, come appendere un uovo ad un soffitto, possa fermare l’attenzione, ed invitare alla ricerca sulle intenzioni che cela. “L’uovo di struzzo è un curioso ma comune ornamento, nelle costruzioni religiose dei Copti, dei Greci, e anche dei musulmani. Esso può essere trovato nell’antica chiesa del convento greco a Kasr-ash Shammah e nella maggiore parte delle moschee del Cairo, fissato a un telaio metallico e appeso ad un unico filo di metallo al soffitto. Nelle chiese viene normalmente sospeso davanti all’iconostasi; ma ad Abu-s-Sifain un uovo di struzzo è appeso anche alle cuspidi degli archi del baldacchino. Da qualche parte è messo sopra una lampada, infilato con la corda da cui pende, come nella chiesa della Natività a Betlemme; e a volte pende da un braccio di legno fissato ai pilastri della navata, come nella chiesa nestoriana di At-Tahara, a Mosul. Altre volte, al posto dell’uovo di struzzo, sono state utilizzate uova artificiali di una bellissima porcellana di Damasco, ricoperte da disegni blu e porpora, ma queste sono ormai completamente scomparse; nelle chiese delle due Cairo, credo, non vi è un solo uovo rimasto; ma, pochi, se ne trovano ancora nelle chiese dell’alto Egitto, e nelle moschee. La moschea-tomba di Kait Bey, fuori dalle mura del Cairo, contiene qualche bell’esemplare. Queste uova di porcellana sono molto più piccole delle uova di struzzo, ma più grandi di un uovo di gallina. Al British Museum c’è un uovo di porcellana che viene dall’Abissinia, con un cherubino, rozzamente abbozzato sotto la patina vetrosa. Un tempo apparteneva, è chiaro, ad un luogo di culto cristiano. Le ‘uova di Grifone’ erano un ornamento comune nelle nostre chiese medievali. Nell’inventario del 1383 d.C., ne vengono indicate non meno di nove, come appartenenti alla cattedrale di Durham; Pennant parla di due uova ancora rimaste nel 1780… Per il fatto che uova di marmo siano state scoperte, si dice, in qualche tomba dei primi martiri, a Roma, e che in tutte le terre cristiane 226

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le uova vengano associate al periodo di Pasqua, alcuni pensano che l’uovo fosse considerato l’emblema della resurrezione”. Un’altra spiegazione è stata fornita all’autore qui citato dai Copti stessi. Lo struzzo è considerato, è proverbiale, animale vigile, e per questo l’uovo diventa una forma di attenta e presente lungimiranza. “Questa spiegazione pare razionale”, aggiunge, “perché la dedizione dello struzzo alla sua covata, è, credo, in armonia con i fatti della storia naturale, e l’impiego simbolico dell’uovo può, allora, essere nato in Africa, dove le abitudini di questo uccello sono meglio conosciute. Ad ogni modo, questa è la migliore spiegazione del problema”. Da questa conclusione dobbiamo dissentire, perché l’usanza è universale e di antica origine, trasmessa da chi ha vissuto prima del cristianesimo; tutti gli indizi puntano alla prima spiegazione come spiegazione vera: la resurrezione, meglio, la vita. L’uovo è il tipico embrione, e quindi è il simbolo naturale della creazione. Non discutiamo che i Copti associno questo simbolo alla vigilanza, né contestiamo che esso venga oggi impiegato con un preciso significato simbolico. Per secoli, millenni invero, le uova sono state appese ai soffitti dei templi e delle tombe; ed ora possono essere accettate come semplici elementi ornamentali: ma anche così le uova sono considerate un presagio buono e sacro, a seconda dell’importanza dei punti cui sono appese, perché non pendono soltanto dagli edifici sacri, ma nei luoghi dell’onore e dell’importanza rituale. Nelle chiese di Atene le uova di struzzo sono appese davanti ai dipinti dell’iconostasi. Le “uova di Grifone” non erano necessariamente uova di struzzo; in un caso le uova esternamente erano marroni e pelose; l’interno era bianco con un tuorlo chiaro e liquido. Oggi le possiamo comprare per quattro pennies: le noci di cocco. Nei ritratti dei re orientali, viene a volte rappresentato un uovo appeso al centro del baldacchino del trono; è un’usanza tradizionale, presente anche nell’arte italiana; a meno che al suo posto non venga appesa una corona, come quella vista da Benjamin di Tudela a Costantinopoli, risplendente di gemme. Qualcosa che penda e dondoli liberamente deve esserci per soddisfa227

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re il gusto orientale; uno strumento per produrre bellezza cui ricorriamo raramente se non per le lampade, che han dovuto oggi dare strada al rigido tubo del gas. I copricapi dei cardinali sono appesi con un effetto splendido dalla oscura altezza delle volte delle cattedrali di Europa, abbattute ed erose dal tempo. Ma di tutte queste cose, un grande gioiello che oscilla da una corda potrebbe essere la cosa più misteriosa e magnifica, come quella sopra il trono di Pavone del Gran Mogol, come ha visto il Tavernier: “Quando il re siede sul trono, c’è un gioiello trasparente, con appeso un diamante di ottanta o novanta carati, attorniato da rubini e smeraldi, appeso in modo da essere sempre davanti ai suoi occhi”. Un altro pendente era un pappagallo verde fatto con un solo smeraldo. Corone votive appese erano frequenti nei tempi antichi. Si dice che Costantino avesse consacrato la sua al sepolcro del nostro Signore; mentre in Inghilterra, il re Canuto consacrò la sua a Winchester. Vi sono alcune di queste corone nel Museo di Cluny: tesori trovati a Toledo. Esse risalgono all’incirca al VIII secolo, e difficilmente vi sono nel mondo oggetti più strani e affascinanti, con i loro fili pendenti di gemme, diademi di fiammeggiante splendore, in oro barbaro. Abbiamo già visto in un altro capitolo come, in Persia e in Assiria, tali insegne e sfere pendessero dai soffitti. Incontriamo anche, in molti luoghi, la tradizione di appendere catene d’oro, come nel portico del tempio di Erode, in India, e in Scandinavia. Festoni di uova di struzzo pendenti si trovano a Gerusalemme e sul monte Athos e, come si possono vedere, in Occidente a Toledo e a Marsiglia. In India, la signorina Gordon Cumming ha visto uova di struzzo appese alla bellissima cupola di una delle grandi tombe di Delhi. A Tunisi, si portano tuttora le uova alle tombe, dove vengono appese come ex voto. Le moschee moresche e le tombe di Algeri sono affollate di uova, e a Kirwan, la città sacra dell’entroterra, sono appese sopra la tomba del “Compagno del profeta”, assieme a sfere dorate che contengono la terra della Mecca. A Damasco, Lady Barton descrive la tomba di san Giovanni: “lampade e uova di struzzo sono sospese sopra di essa; queste ultime sono gli ornamenti di tutti i luoghi sacri, e si dice portino bene”. Lo stesso sulla tomba del san228

Il simbolo della creazione

to Hasan e di suo fratello. È stato detto abbastanza per dimostrare che l’usanza di appendere queste uova sia, o sia stata di recente, seguita in Europa, Asia e Africa, da tutti i cristiani: cattolici, greci, copti, nestoriani abissini, armeni; e da tutti i musulmani in Turchia, Persia, India, Egitto e Algeria. Seguiamo questa tradizione nella storia. In un quadro del XV secolo di Marco Marziale, alla Natio-

nal Gallery, si vede un’abside, disegnata ad imitazione di quella di San Marco a Venezia, pensata come parte dell’interno del tempio. Dal centro di quest’abside pende una splendida lampada, infilato con una corda pende un uovo di struzzo, direttamente sopra il Cristo. In un quadro del Mantegna si trova una lampada simile. Appese sopra il sepolcro, come abbiamo visto spesso, o, come qui, sopra l’immagine di nostro Signore, le uova sono emblemi di resurrezione, ed è in questo senso che vengono utilizzate dappertutto, a primavera, come “uova di Pasqua”, 229

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non solo a Parigi o a Londra, ma ovunque nel mondo. Si legge nel Dizionario di archeologia del Walcott: l’uovo era il simbolo della creazione in Egitto, e della speranza e della resurrezione tra i primi cristiani; la tradizione di regalare uova colorate il mattino della Pasqua si ritrova in Oriente, in Tirolo, in Russia, in Grecia, e in molte parti dell’Inghilterra, dove risale ai tempi di Edoardo I, e la si seguiva anche a Gray’s Inn, durante il regno di Elisabetta. In Francia, il giorno di Pasqua, le uova pasquali vengono mangiate prima di qualsiasi altro cibo. Paolo II emanò una forma di benedizione delle uova per l’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda; Enrico VIII ricevette un uovo pasquale in una scatola di “filigrana d’argento dal papa”. Ed un punto interessante è il seguente: “De Moleon dice che ad Angers durante il giorno di Pasqua due cappellani, in piedi dietro all’altare, si rivolsero a due cubicularî, mentre questi avanzavano, chiedendo: ‘Chi cercate?’, e alla risposta: ‘Gesù il Nazareno, Colui che è stato crocifisso’, rispondevano: ‘Egli è risorto; non è qui’. A questo punto le donne che impersonavano le Marie prendevano dall’altare due uova di struzzo avvolte nella seta e scendevano cantando, ‘Alleluia, il Signore è risorto’”. Nella descrizione della Mosca del 1567, in un rapporto di Hakluyt, si racconta di come la gente preparasse le uova sotto Pasqua, tingendole di rosso con il basilico, “mentre per i genti230

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luomini e per le signore vi sono uova dorate, che trasportano in modo adatto. Ne fanno uso, si dice, per il loro grande amore e come simbolo della resurrezione, di cui gioiscono; perché quando due amici si incontrano durante le vacanze pasquali si prendono per mano e uno dei due afferma: ‘Il Signore o il Cristo è risorto’ e l’altro risponde: ‘È così, in verità’, e poi si baciano e si scambiano le loro uova, sia uomini che donne, baciandosi per diversi giorni”. Waterton ci informa che quando andava a scuola, nell’Inghilterra del Nord, il mattino di Pasqua avevano le uova pasquali colorate con la porpora. La tradizione di appendere un uovo a una cupola compare anche nella leggenda della lampada, dove lo stesso Aladino chiede l’uovo dell’uccello rukh per adornare il suo palazzo. È lo stesso uovo dell’uccello rukh che Sindbad vide, mezzo sepolto nelle sabbie di Serindib, come una cupola di 15 metri di diametro. La storia dell’uccello predatore si collega a quelle di altri immensi uccelli mitici. In Giappone si parla della comparsa di un grande uccello, assieme al terremoto e al diluvio, come una delle “sette calamità”. “Il Garuda degli Hindu, il Simurg degli antichi Persiani, l’Angka degli Arabi, il Bar Yuchre nelle leggende rabbiniche, il Gryps dei Greci, probabilmente erano tutte interpretazioni dello stesso mito originario”. Questo è tratto dal Marco Polo del colonnello Yule. Poi vi sono Amru e Chamru dell’Avesta, i quali, come l’aquila dei nordici, e la fenice nel mito di Alessandro, stanno appollaiati sull’‘albero di tutti i semi’. Le prodezze di questo uccello mitico sono uno dei soggetti del mito universale: vola stringendo un elefante nei suoi artigli, rapisce il potente eroe Rustem, oppure, nel Talmud: “Un uovo cadde dal nido dell’uccello chiamato Bar-Yuchnei, e sommerse sessanta città e spazzò via trecento cedri. Ci si chiese allora: ‘L’uccello, di solito, espelle così le sue uova?’ e il rabbino Ashi rispose: ‘No, quello era marcio’”. Già nelle iscrizioni sull’argilla si trovava menzione del possente uccello Zu, solitario su un’alta vetta. In Egitto era l’uovo d’oro covato dall’oca che aveva generato la materia del mondo; bisogna però dire che l’uccello va immaginato di adeguate dimensioni, o anche solo appena adegua231

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te, per il lavoro che deve fare! Quasi tutti i sistemi che raccontano la storia di una genesi concordano sul fatto che, al secondo o terzo passo della creazione, fosse creato dal Caos un uovo gigante. I sistemi egizi, fenici, assiri, indiani e greci sono, su questo punto, concordi. “Dal Desiderio e dal Vapore derivò la Materia primitiva. Era un’acqua fangosa, nera, gelida, profonda, che circondava mostri insensibili, incoerenti parti di forme che dovevano nascere. Poi la materia si condensò e divenne un uovo. Si ruppe: una metà formò la Terra, l’altra metà il firmamento. Comparvero il Sole, la Luna, i venti e le nuvole, e il fragore del tuono destò gli esseri senzienti”. I frammenti orfici ed Aristofane riflettono una tradizione greca del tutto analoga. Quando esistevano soltanto il Caos e la Notte: In principio, nel terribile caotico stipo di Erebo antico c’era un deposito nascosto di notte il primigenio depositò in segreto un Uovo Mistico che nel silenzio e nell’ombra fu covato e fatto schiudere.

È negli Uccelli di Aristofane. E possiamo completare lo schema da una fonte alquanto diversa, il nordico Kalevala: Da una metà dell’uovo, quella inferiore, Cresce la bassa volta di Terra; Dalla metà di sopra che rimane Cresce la volta alta del cielo.

Nel Libro di Manu indiano c’è un racconto del tutto simile. L’Eterno, desideroso di creare, diede origine con il pensiero al principio umido e in esso depositò la materia. Questo germe primitivo galleggiava nelle acque; presto la massa si condensò in un uovo, splendente come l’oro e pieno di luce. Da questo involucro misterioso nacque Brahma, il padre degli spiriti. Dopo un anno, l’uovo si schiuse da sé; la parte in alto formò il cielo, la parte in basso la Terra; e l’aria in mezzo, con le otto regioni e la ri232

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serva delle acque. Secondo un’altra storia, l’uovo racchiudeva in sé i cinque elementi, ed era racchiuso in sette involucri, come gli strati di una cipolla; le sette cortecce, aprendosi, divennero i sette cieli, e le sette regioni dello schema brahmanico del mondo. M. Dognée, ha analizzato, in Les Symboles Antiques, l’Oeuf, l’uso simbolico dell’uovo, così come esso appare nei monumenti e nella letteratura, eppure l’uovo di struzzo appeso, così come lo si trova nel tempio, nella tomba, nella chiesa e nella moschea, viene menzionato solo in una nota a piè di pagina. “In Giappone, nella pagoda di Miaco, dice, al di sopra di un grande altare quadrato hanno messo un toro d’oro massiccio su un masso di roccia; l’animale è ornato da un ricco collare e spinge con le corna un uovo che galleggia sull’acqua contenuta in una cavità della roccia. Per spiegare questa immagine, i sacerdoti raccontano quanto segue. Al tempo del Caos, prima della creazione, il mondo era celato ed inerte dentro un uovo che galleggiava sulla superficie delle acque… Il toro divino, immagine dalla forza creatrice, ruppe l’uovo con un colpo delle sue corna, e dall’uovo uscì fuori il globo terrestre”. Diversi scrittori medievali consideravano che la Terra stessa fosse oviforme. Beda paragonava il mondo all’uovo, come fece anche Edrisi, il geografo arabo: galleggiava sull’acqua, per metà emerso e in posizione diritta, e in cima c’era Gerusalemme. Il simbolo dell’uovo era particolarmente diffuso presso gli Egizi: compare nei monumenti, e nei testi, quale simbolo della creazione embrionale, come Ra nell’uovo. Wilkinson scrive dello struzzo: “persino le sue uova erano richieste per qualche uso decorativo o religioso, e queste, assieme alle piume, facevano parte del tributo imposto dagli Egizi a quei paesi conquistati ove abbondavano. Lo scopo di queste uova è sconosciuto; ma possiamo dedurre, da una favorevole predisposizione religiosa verso esse da parte dei cristiani di Egitto, che fossero legate ad una qualche superstizione, e che erano appese nei templi degli antichi Egizi, come accade ancora nelle chiese copte. Vengono considerate il simbolo dell’attenzione che guarda lontano; a volte vengono usate per altri scopi, come ci assicurano i monaci eremiti di Dayr Antonios: la corda delle loro lam233

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pade viene fatta passare attraverso il guscio di un uovo di struzzo per impedire ai topi di venir giù, aggrappandosi alla corda, per bersi l’olio”. Se l’uovo primordiale faceva parte della leggenda cosmologica di un popolo, è facile comprendere che un uovo qualsiasi non potesse essere simbolo dell’origine della vita, ma che un uovo particolarmente grande potesse invece essere ritenuto sacro, ed appeso nel tempio come un’immagine del mondo che galleggia nel vuoto: nella struttura e nella forma perfetta d’un uovo molto grande appare un qualche elemento di intrinseco mistero. Un uovo, ad esempio, esposto al Museo di Storia naturale misura circa tredici pollici di lunghezza e trenta pollici di circonferenza, con una capacità di due galloni ed un terzo. Sebbene manchino prove incontrovertibili sul fatto che venissero appese uova nei templi egizi, dalla Grecia abbiamo invece, chiarissimo, il resoconto di un testimone [Pausania, III, 16]: “Nelle vicinanze, a Sparta, in Laconia, si trova il tempio di Ilaria e Febe, che erano, asserisce l’autore dei Canti Cipri, le figlie di Apollo; le loro sacerdotesse sono vergini, chiamate Leucippidi come le stesse dee. Una delle statue delle dee fu ritoccata da una delle sacerdotesse, la quale, seguendo una pratica ancora conosciuta oggi, mise una nuova faccia sulla vecchia statua; ma un sogno la avvertì di non intervenire nello stesso modo sull’altra statua. In questo luogo è appeso un uovo, collegato al tetto con alcune fasce; si afferma che questo è l’uovo che avrebbe partorito Leda”. La storia di Leda e la storia parallela di Latona non sono che varianti dei miti cosmici della Notte e del Caos, da cui si è formato l’uovo del mondo. L’uovo, fermamente e universalmente accettato come un simbolo della vita e della creazione, diventa un emblema della resurrezione e della nuova vita; da ciò le diffuse usanze legate all’uovo di Pasqua, e il legame tra l’uovo e la tomba. Lo scrive Alfred Joshua Butler: “Sono state rinvenute uova di marmo in alcune tombe dei primi martiri a Roma”. “Introdotto nelle cerimonie funebri, l’uovo veniva depositato anche nella tomba insieme alle ceneri del defunto. Alcune uova, scrive Eugène Marie Dognée, sono state rinvenute nelle tombe a Nola”. Al British 234

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Museum ci sono sei grandi uova di struzzo decorate con intagli a basso rilievo, in stile arcaico, trovate in una tomba a Vulci, in Etruria. Georges Perrot, che le ha riprodotte, afferma che sono di origine fenicia. I fori che presentano, uno grande nel centro e tre piccoli intorno, e un solo foro all’altra estremità, mostrano chiaramente che ad esse veniva applicata una calotta, probabilmente di metallo, perché fossero appese, come si vede negli esempi orientali moderni. Il signor Dennis, in Etruria, dice che: “Le uova hanno fori in esse, adatti ad appenderle, e che esse richiamano alla mente l’uovo del grande uccello rukh delle Mille e una notte; o piuttosto richiamano il fatto che l’uovo di struzzo è, ai nostri giorni, appeso nelle moschee. Imitazioni di uova di struzzo di terracotta sono state rinvenute nelle tombe a Vulci, come se l’approvvigionamento di uova vere non fosse stato sufficiente. Uova di gallina si trovano spesso non solo in Etruria ma anche in Grecia e nelle sue colonie, a volte racchiuse in vasi. Molti musei italiani ospitano esemplari di questo singolare tipo di arredo sepolcrale, probabilmente, in questo caso, un emblema della resurrezione”. Al British Museum si trovano tutti gli esempi menzionati qui. Da una tomba di Bologna, ne parla F. Burton, è stato riesumato un etrusco con un uovo tra le mani. Il Dognée dice: “È stato seguendo il forte potere della stessa idea che le razze latine hanno ostentato la forma ad ovoide per le urne funerarie”, un esempio della reazione del pensiero e del costume ad un disegno fisso; la qual cosa, se è vera, ha certamente un buon fondamento nel caso delle urne egizie, alcune delle quali, al British Museum, hanno la forma di un uovo: e sulla tavola delle offerte che si vede nei rilievi, vi sono quasi sempre vasi in forma di uovo. In Antiquities of India, il Maurice, sull’emblema del serpente che s’avvolge attorno ad un uovo, e usato come simbolo sulle monete, dice: “I Fenici decoravano gli alti templi di Tiro con questo emblema, che là si vedeva sospeso in alto, che avviluppava tra le spire da genio l’uovo del mondo, il simbolo dell’universo”. Questo coincide perfettamente con, da una parte, il racconto di Pausania citato sopra dell’uovo appeso in memoria di 235

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quello deposto da Leda, e, dall’altra, con i miti caldei. Era un simbolo della prima nascita della Terra non solo per i Fenici ma anche per gli Assiri. “Il serpente del Caos”, scrive Boscawen, “avvolge la Terra tra le proprie spire prima di essere ucciso da Merodach, Signore della Luce”. Il serpente è rappresentato con il corpo di una donna, ed “era questa regina del Caos a regnare mentre la Terra giaceva, come l’uovo cosmico, tra le sue spire, in quel tempo in cui nessuno degli dèi era ancora venuto fuori”. Dell’antico uso votivo del serpente da parte dei semiti, il signor Robertson Smith ci dice che la gente della Mecca, una volta all’anno, visitava un albero sul quale avevano appeso armi, vesti e uova di struzzo. Al British Museum c’è una pietra oviforme della Caldea con un’iscrizione di Sargon I, al cui nome è collegata la più antica data certa della storia monumentale, il quale la dedica al tempio di Sippara: è di un bell’alabastro venato, alto circa tre pollici, ed è forata per essere appesa. Schliemann trovò a Troia e a Micene parecchie uova di alabastro orientale, che considerava ex voto. C’è un bellissimo esemplare di uovo di struzzo, nel Museo di Atene, la cui superficie è decorata con delfini, di una sostanza blu vetrosa, forse di origine egiziana. È stato trovato in una tomba 236

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a Micene, e pare che risalga ad un’epoca anteriore al VI secolo; è forato, per la corda, ed è un oggetto di singolare bellezza. Nel Museo di South Kensington vi sono due o tre uova di struzzo da appendere, con elaborate incisioni, di lavorazione persiana; e vi sono molte uova di porcellana, che vengono dalle chiese dell’Anatolia, dipinte con cherubini. È curioso notare come la lampada pendente esibisca la forma dell’uovo, tanto spesso associata all’Oriente. Il candeliere ebraico delle sinagoghe, a sette bracci, allacciati uno all’altro, hanno alla base un ciondolo a forma d’uovo. Molte delle lampade italiane del Rinascimento sono ovoidali, e, nel Museo di South Kensington, una lampada russa splendidamente smaltata ha anch’essa la stessa forma, con un pendente che è un uovo di struzzo per forma e dimensioni. Può darsi che questa forma sia, dal punto di vista estetico, la più adatta per qualcosa di appeso, la forma di ogni goccia d’acqua, mentre cade. Per noi è sufficiente che l’uovo fosse usato come un simbolo architettonico dell’origine del mondo, appeso alla cupola simile al cielo: testimonianza di una genesi, emblema del mistero della vita, speranza di resurrezione. Ora, quando ripensiamo all’uovo che Aladino desiderava appendere alla cupola del suo palazzo, possiamo sentire con lui che quella stanza, con le ventiquattro aperture decorate di gemme, non era perfetta senza di esso. L’errore fu però quello di chiedere al genio proprio l’uovo dell’uccello rukh, e di non accontentarsi del suo simbolo. Quest’avventura è la terza e ultima prova di Aladino, e la fine della storia: quando il fratello più giovane del mago africano, travestito come la santa Fatima, fu condotto nel palazzo dalla principessa Badr al-Budur; “Mia buona madre”, disse la principessa, “sono deliziata di poter gioire della compagnia di una santa donna come te, che porti con la tua presenza la benedizione su tutto il palazzo. E ora che ti parlo del palazzo, ti prego di dirmi cosa ne pensi. Ma prima che ti faccia vedere le altre stanze, dimmi: quanto ti piace questo salone?”. “Gentile dama”, rispose il mago simulatore, “perdonami la 237

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libertà che mi prendo. A mio modesto avviso, se nel mezzo di questa cupola vi fosse sospeso l’uovo d’un rukh, questo salone non avrebbe pari nelle quattro parti del mondo e il tuo palazzo sarebbe la più grande meraviglia dell’universo”. “Mia buona madre”, rispose la principessa, “che cos’è questo uccello che si chiama rukh, e dove potrei trovarne un uovo?”. “Principessa”, rispose la falsa Fatima, “è un uccello di una prodigiosa grandezza, che occupa la cima del monte Caucaso, e certamente l’architetto del vostro palazzo potrebbe trovarne uno”. Aladino ritornò tardi la sera stessa, quando la falsa Fatima aveva già preso congedo dalla principessa e si era ritirata nell’appartamento predisposto per lei. Appena entrato nel palazzo, si recò negli appartamenti della principessa. La salutò e la abbracciò, ma gli parve che lei non lo ricevesse con la consueta gioia. “Mia principessa”, le disse, “non vedo la tua solita felicità. È accaduto qualche cosa durante la mia assenza che vi abbia cagionato rammarico e malcontento? In nome del cielo, non nascondetemelo. Farei qualsiasi cosa in mio potere per far svanire questa nube di tristezza”. “È una piccola cosa”, rispose la principessa, “e mi dà così poca inquietudine che non credevo potesse essere evidente nel mio viso e nel mio comportamento. Ma poiché, contro la mia volontà, tu scorgi qualche alterazione, non ne nasconderò la ragione, per quanto di pochissima importanza. Credevo, come te, – continuò la principessa – che il nostro palazzo fosse il più superbo, il più magnifico, il meglio decorato del mondo. Ti dirò invece che cosa ho pensato mentre esaminavo bene il salone delle ventiquattro finestre. Non pensi, come me, che se ci fosse un uovo di rukh sospeso nel mezzo della cupola l’effetto finale sarebbe di molto migliorato?”. “Mia principessa”, rispose Aladino, “basta che voi troviate che vi manchi un uovo di rukh; vedrete dalla mia sollecitudine nel porre riparo di fronte a un tale difetto che non c’è nulla che non farei per amor vostro”. Aladino lasciò subito la principessa, e salì al salone delle ventiquattro finestre, e là, tratta dal petto la lampada che portava sempre con sé in qualunque luogo andasse, dopo i travagli 238

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subiti avendo trascurato tale precauzione, la strofinò per chiamare il genio, il quale si presentò subito. Aladino gli disse: “Oh genio! bisogna appendere un uovo di rukh al centro di questa cupola perché la cupola sia perfetta; io ti chiedo in nome della lampada che stringo di porre rimedio a questo difetto”. Non appena Aladino ebbe pronunciato queste parole, il genio lanciò un grido così alto e spaventoso che il salone ne fu scosso e Aladino non poteva smettere di tremare. “O miserabile!”, gli disse il genio con una voce che avrebbe fatto tremare di paura l’uomo più coraggioso, “Non ti basta che i miei compagni ed io abbiamo fatto ogni cosa che hai scelto di ordinarci? Vuoi ripagarci per i nostri servigi con ingratitudine tale da richiedere che io ti porti il mio Signore e padrone, e che lo appenda in mezzo a questa cupola? Per questa nefanda richiesta, meriteresti in questo stesso momento di essere ridotto in atomi insieme a tua moglie e al tuo palazzo. La tua fortuna è che la richiesta non sia partita da te e che in nessun modo l’ordine possa esserti attribuito”.

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Tecnica e Tradizione collana diretta da Guglielmo Bilancioni

1 - William R. Lethaby, Architettura, misticismo e mito 2 - Chiara Visentin, L’equivoco dell’eclettismo - Imitazione e memoria in architettura 3 - Colin Rowe, L’architettura delle buone intenzioni (in preparazione)

Finito di stampare nel mese di ottobre 2003 dalla Tipografia Lipe (San Giovanni in Persiceto, BO)

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