Attualismo e pensiero giuridico

June 15, 2017 | Autor: Marcello Mustè | Categoria: Giovanni Gentile, Idealismo, Attualismo
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ARS INVENIENDI

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Direttore Fabrizio L Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Comitato scientifico Louis B Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

Giuseppe C Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Domenico C Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Antonello G Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Matthias K Martin Luther Universität Halle Wittenberg

Edoardo M Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Rocco P Università degli Studi di Napoli “Federico II”

José Manuel S F Universidad de Sevilla

ARS INVENIENDI

Questa collana nasce come “porta” aperta al dialogo interculturale con studiosi vicini e lontani dalla grande tradizione napoletana e italiana. Lo scopo è di offrire un nuovo luogo di confronto senza pregiudizi ma con una sola prerogativa, quella della serietà scientifica degli studi praticati e proposti sui più aggiornati itinerari della filosofia e della storiografia, della filologia e della letteratura nell’età della globalizzazione e in un’Università che cambia. Le pubblicazioni di questa collana sono preventivamente sottoposte alla procedura di valutazione nella forma di blind peer-review.

Andrea Pinazzi Attualismo e problema giuridico La filosofia del diritto alla scuola di Giovanni Gentile

Copyright © MMXV Aracne editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Quarto Negroni,   Ariccia (RM) () 

 ----

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: novembre 

Questo libro è frutto della rielaborazione della mia ricerca di dottorato, condotta presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza di Roma tra il 2010 e il 2014. Sono grato ai miei supervisori: i professori Marcello Mustè, Francesco Saverio Trincia e Paolo Ridola, che, con competenza e attenzione, mi hanno incoraggiato e consigliato, guidando i miei studi senza mai indirizzarli. Cecilia Castellani, con disponibilità e gentilezza, mi ha aiutato nella consultazione dei documenti custoditi presso l’Archivio della Fondazione Giovanni Gentile. Le lunghe discussioni avute con Federico Lijoi mi sono servite a chiarire punti per me prima oscuri della storia della filosofia del diritto italiana ed europea. Mi è qui impossibile, e me ne scuso, menzionare tutti i colleghi e gli amici che in vario modo hanno stimolato i miei interessi scientifici, mi sono stati vicini e hanno contribuito allo sviluppo del testo. Oltre che agli amici con cui abbiamo dato vita in questi anni ad avventure scientifiche ed editoriali, un ringraziamento del tutto speciale lo devo, però, ad Antonella Soldo e Dino Tinè. Non avrei potuto portare a termine la mia ricerca senza il sostegno costante dei miei genitori. A loro questo lavoro è dedicato.

AP

Indice

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Prefazione

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Introduzione

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Capitolo I Giovanni Gentile 1.1. Prima dei Fondamenti, 37 – 1.2. Legge, diritto, morale, 44 – 1.3. Il problema dello Stato, 63 – 1.4. Il momento della politica, 71

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Capitolo II Giuseppe Maggiore 2.1. L’incontro con Gentile, 81 – 2.2. Le origini del problema: L’unità del mondo nel sistema del pensiero, 84 – 2.3. Il diritto e il suo processo ideale, 88 – 2.4. L’attualismo come unità, 99 – 2.5. La filosofia del diritto come concretezza della filosofia, 108 – 2.6. La critica all’attualismo, 114

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Prefazione Indice

Capitolo III Ugo Spirito 3.1. La Storia del diritto penale italiano, 125 – 3.2. Il nuovo Codice Penale, 146 – 3.3. La necessità di una riforma del sistema penale, 153 – 3.4. Il ruolo del giudice penale, 157

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Capitolo IV Arnaldo Volpicelli 4.1. 1924-1926: Natura e spirito e Pedagogia polemica, 164 – 4.2. Alla ricerca dei fondamenti di un diritto “fascista”: il confronto con la dottrina, 172 – 4.3. La riflessione sull’ordinamento corporativo, 178

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Capitolo V Guido Calogero 5.1. La Logica del giudice, 195 – 5.2. Giustizia, diritto, libertà, 211 – 5.3. L’esperienza giuridica come pedagogia morale, 223

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Capitolo VI Angelo Ermanno Cammarata 6.1. Intorno all’origine statuale o sociale del diritto, 236 – 6.2. Concetto giuridico e concetti giuridici, 243 – 6.3. La natura non coattiva della norma e il problema della libertà, 256

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Per finire

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2+5280;*R*

Prefazione

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il pensiero giuridico europeo — e non solo europeo — segnò la crisi profonda, quasi l’eclissi, dell’antica dottrina del diritto naturale, che perdurò vitale solo in alcuni autori, di sentimenti più o meno religiosi e cattolici, come Jacques Maritain in Francia, Rudolf Stammler in Germania, Giorgio Del Vecchio in Italia. Il disfacimento del giusnaturalismo (che sarebbe risorto, su basi rinnovate, alla fine del secondo conflitto mondiale) si accompagnava con un certo discredito gettato sul valore della legge positiva, con una tendenza che potremmo genericamente definire «anti-formalistica», in larga parte ispirata dalle maggiori tendenze filosofiche e culturali del momento, come il marxismo, l’antropologia e la psicanalisi, che orientavano la ricerca giuridica verso l’analisi del processo reale di formazione del diritto e sulle diverse fasi dell’applicazione giudiziale. Una tendenza, quella a cui si è ora accennato, che trovò espressioni molteplici e a volte contrastanti, dalla Freirechtsbewegung tedesca (Eugen Ehrlich, Hermann Kantorowicz), al «realismo» americano (Karl Llewellyn, Wendell Holmes) e scandinavo (Axel Hägerström), fino al pensiero di scuola marxista (Karl Renner) e all’antropologia giuridica (Henry Maine, Bronislaw Malinowski). Solo a partire dal secondo decennio del secolo, la critica del giusnaturalismo acquistò una fisionomia più solida e matura, con il positivismo analitico di Hans Kelsen, che di fatto

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Prefazione

eliminava i «valori di giustizia» dall’àmbito normativo del diritto, arrivando (con la Reine Rechtslehre del 1934) alla più netta separazione di fatti e valori, e infine risolvendo lo Stato (contro la vecchia dottrina di John Austin, poi in polemica con le nuove teorie di Carl Schmitt) in una susseguente personificazione dell’ordinamento giuridico. Nel medesimo periodo, gli studi italiani di filosofia del diritto, che vantavano un’illustre tradizione (dovuta soprattutto all’influenza della «scuola classica» di Cesare Beccaria e, successivamente, della «scuola positiva» di Cesare Lombroso), entrarono in una crisi sostanziale: a parte alcune eccezioni (di cui diede conto Guido Fassò nella sua insuperata Storia della filosofia del diritto), si verificò un arresto di indagini feconde e capaci di influenzare l’indirizzo generale della ricerca europea. La prima scossa venne, anche in questo campo, da Benedetto Croce, che nel 1907 pronunciò all’Accademia Pontaniana di Napoli la memoria sulla Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, aprendo un vasto dibattito tra i cultori della disciplina giuridica; e che poi riprese e perfezionò, nel 1909, i risultati della sua prima meditazione nella Filosofia della pratica. Economica ed etica, dove una intera sezione, la terza, era dedicata a Le leggi. In certo modo, le riflessioni di Croce ebbero il merito di immettere la cultura giuridica italiana nella corrente di pensiero che cominciava a prevalere in Europa, pur distinguendosene in alcuni punti essenziali; e non a torto vennero percepite, dagli studiosi italiani che le discussero, come una vera e propria provocazione. L’autore vi giungeva, d’altronde, sulla base di una conoscenza solida della dottrina tedesca — che aveva appreso nel «periodo romano» (quando si trovò ad abitare la casa dello zio e tutore Silvio Spaventa), poi analizzando, sulle prime annate della «Critica», molte opere della corrente produzione giusfilosofica — e solo in parte francese (soprattutto i trattati della scuola sociologica di Léon Duguit); ma vi giungeva, in modo particolare, dopo la conclusione degli studi sul materialismo storico, nei quali aveva enucleato il principio dell’utile o economico, e quindi dopo la prima delineazione (con l’Estetica del 1902 e i Lineamenti di

Prefazione

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logica del 1905) del suo «sistema dello spirito». Nella memoria del 1907, richiamò l’attenzione su «il fondamento o il concetto del diritto» attraverso una duplice e convergente scomposizione. Da un lato, la distinzione tra il diritto, concepito come attività economica, e la sfera etica, che significava una critica radicale del giusnaturalismo ma anche (come si vedrà negli anni successivi) un tentativo di raccoglierne la sfida e di riassumerne il problema, perché, se la morale veniva esclusa dal campo giuridico, pure interveniva, in modo essenziale, nella costituzione dell’atto pratico. D’altro lato, la riflessione di Croce scindeva in modo netto il concetto del diritto dal sistema delle leggi positive, al punto che non solo spogliava il momento giuridico dei caratteri propri della norma (coazione, esteriorità, liceità, minimo etico), ma arrivava a definire come giuridica anche l’azione delittuosa, quale poteva essere quella dell’usuraio o del giudice corrotto o, addirittura, quella dell’associazione mafiosa. Nella Filosofia della pratica, chiarendo ulteriormente la sua posizione, definì la legge come «un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe di azioni», cioè come la volizione di un astratto, utile per preparare l’azione e indirizzarla, ma del tutto diversa dal concreto e reale atto pratico, sintesi di eticità e utilità. In fondo, più che una filosofia del diritto, quella di Croce rischiava di presentarsi come la sua dissoluzione, almeno nel senso che riconduceva l’attività giuridica a una forma o categoria dello spirito (l’utile o economico), abbandonando nelle mani della giurisprudenza empirica ogni ulteriore specificazione e distinzione, come quelle tra diritto pubblico e privato o tra diritto soggettivo e oggettivo. La persuasione di Croce era appunto questa, che la filosofia avesse il solo compito di chiarificare il principio speculativo del diritto, senza tuttavia poterne giustificare la complessa articolazione. Ebbe il merito, come si diceva, di riportare la ricerca italiana a un livello europeo, pur respingendone gli indirizzi fondamentali, perché né il positivismo giuridico (per la separazione di diritto e norma) né il realismo (per l’esclusione della coazione e del principio di sovranità) né, tanto meno, le posizioni sociologiche o antro-

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Prefazione

pologiche sembravano acquisirvi uno spazio autentico di legittimità. Quando Giovanni Gentile cominciò a occuparsi di filosofia del diritto, trovò dunque già dissodato il terreno, non solo per le recenti acquisizioni e discussioni, ma anche per l’enucleazione delle non risolte aporie. Come Andrea Pinazzi argomenta nelle pagine di questo libro, la sua riflessione non può essere risolta in quella di Croce, come si trattasse di una reazione o di una risposta alle tesi dell’amico di allora (che poi, per profonde ragioni politiche, diventerà il suo principale avversario), ma deve essere penetrata nella sua fisionomia specifica. Questo principio di metodo, giustamente richiamato dall’autore, ha una particolare importanza e merita di essere sottolineato, non solo perché Gentile, ancora prima del 1916 (quando pubblicò la prima edizione dei Fondamenti della filosofia del diritto), aveva già affrontato questioni giusfilosofiche, dapprima nell’introduzione del 1904 alla nuova edizione dei Princìpi di etica di Bertrando Spaventa, poi nel lungo saggio su Cesare Lombroso e la scuola italiana di antropologia criminale (pubblicato nella «Critica» del 1909), ma anche per il fatto che fin dal 1899 aveva respinto il concetto fondamentale della filosofia giuridica di Croce, quello dell’utile, assegnando all’elemento economico un significato e uno spazio del tutto diversi. Ne derivava perciò una differente linea di riflessione sul fatto giuridico. È noto, per altro, che il libro a cui queste meditazioni vennero principalmente affidate, i Fondamenti della filosofia del diritto, ebbe una vicenda travagliata. Scritto in occasione del corso tenuto alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pisa nel 1915– 1916, quindi pubblicato nel 1916 per gli «Annali delle Università toscane» in una edizione piuttosto rara, uscì in seconda edizione per l’editore De Alberti nel 1923 con l’aggiunta di due testi — la risposta a Vincenzo Miceli del 1920 e uno scritto del 1914 sulla morale in Rosmini —, quindi nel 1937, in terza edizione, per la Sansoni con l’aggiunta dei due capitoli conclusivi, il settimo e l’ottavo, su Lo Stato e La politica, composti nel 1931 e nel 1930, e con l’inserzione dei due studi giovanili su Marx. Con la rilevante eccezione dello scritto del 1929 su Lo Stato e la

Prefazione

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filosofia, che presentò al Congresso italiano di filosofia, i problemi del diritto tornarono a essere affrontati soltanto nel libro postumo Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, scritto fra il 1942 e il 1943, soprattutto nel quarto capitolo (Società trascendentale o società in «interiore homine»), nel quale Gentile introduceva la dialettica dell’alter e del socius, nuova nella sua filosofia, come sottolineò nell’avvertenza, ma non del tutto nuova, come pure pretendeva, nella filosofia del diritto italiana, perché se ne trovavano esplicite tracce nell’opera di Igino Petrone (Il diritto nel mondo dello spirito del 1910), che probabilmente (come osservò Giorgio Del Vecchio nelle Lezioni di filosofia del diritto) la aveva derivata, oltre che da Fichte, da un volume di James Baldwin del 1899 (Social and Ethical Interpretations in Mental Development), e in quella di Giuseppe Maggiore, come ora Andrea Pinazzi dimostra nel secondo capitolo di questo libro. Anche Gentile, come Croce, negando ogni valore filosofico all’«empirismo giuridico» (come lo definì), si dispose alla ricerca del concetto o «categoria» del diritto, del «principio produttivo del fatto», trovandolo però non nell’utile o economico bensì nella volontà morale, intesa come unità inscindibile o meglio identità di teoria e prassi. Al pari di Croce, escludeva dall’origine teorica del diritto tanto la coazione quanto l’esteriorità (la comunità, spiegava, non è inter homines, ma in interiore homine), osservandolo infine come la stessa «azione giuridica», cioè come «il momento obbiettivo della volontà», nella sua concreta applicazione. In linea generale, quando, intorno al 1915, cominciò a elaborare una filosofia del diritto, Gentile si appoggiò soprattutto a due momenti della propria opera: al Sommario di pedagogia, che aveva pubblicato nel 1913, da cui trasse l’analogia tra l’autorità dello Stato e quella del maestro; e alla Teoria generale dello spirito come atto puro, che uscirà, come i Fondamenti, nel 1916 e che gli fornì le basi speculative per affrontare il problema giuridico, configurando il diritto come «il momento astratto della volontà», o anche come «la natura del mondo della volontà». Tuttavia, rispetto al quadro teorico dell’attualismo, come si era via via delineato, la

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Prefazione

questione della legge rivelò subito difficoltà e dissonanze, che si manifestarono, per esempio, nell’introduzione di due termini che trovavano una difficile collocazione nella sua filosofia: da un lato il singolare principio per cui, rispetto alla dialettica del bene e del male, cioè del volere e del non-volere, la legge non cadeva nell’uno o nell’altro dei due opposti, determinando quasi uno stato intermedio («non tutto ciò che non è bene — scriveva —, è male»); d’altro lato la definizione del diritto non solo come il «voluto» (come l’astratto), ma come il «già voluto», ossia come un astratto peculiare e caratteristico, consolidato e fissato nella struttura di un processo. Erano indizi di un disagio, o almeno di una inquietudine teorica, che scaturivano da una materia, come quella giuridica, che non si lasciava facilmente ridurre ai canoni stabiliti nella filosofia dell’atto e che Gentile, in verità, non riuscì mai a dominare del tutto. E che infatti provocarono svolgimenti e persino ripensamenti, come si può osservare leggendo il più tardo capitolo su La politica (originariamente pubblicato nel 1930 nell’«Archivio di studi corporativi»), forse il risultato più maturo della sua riflessione, dove il principio morale del diritto veniva in certo modo surrogato da quello politico, sia pure di una «politica» — come specificò — resa identica al volere morale. È difficile stabilire quanto la filosofia giuridica di Gentile risentisse dell’adesione al regime fascista (di cui fu ministro e poi presidente della Commissione dei Quindici), e quanto, all’inverso, il fascismo derivò dalle sue riflessioni sul diritto: certo, a parte il forte peso che il filosofo esercitò sull’ideologia del regime tra il 1922 e il 1927, non vi è dubbio che alcuni temi — dal corporativismo alla più generale visione totalitaria dello Stato — penetrarono nel suo pensiero, condizionandone pesantemente gli esiti. Ciò non significa, però, che la sua opera possa essere risolta nella storia dell’ideologia fascista, né che la sua influenza sulla successiva filosofia del diritto italiana, anche oltre i limiti dell’attualismo, sia stata marginale. Con questo libro, Andrea Pinazzi offre per la prima volta una ricostruzione puntuale e intelligente dell’itinerario di una «scuola» (come egli la definisce) che si costituì nel confronto vivo, spesso spregiu-

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dicato, con i suoi pensieri, nella quale l’autore annovera cinque figure di primo ordine della riflessione giuridica italiana: Giuseppe Maggiore, Ugo Spirito, Arnaldo Volpicelli, Guido Calogero, Angelo Ermanno Cammarata. Come il lettore vedrà, si tratta di una storia tutt’altro che lineare, per nulla risolta nel pacifico svolgimento dei concetti gentiliani, ma anzi inquieta e tormentata: è la vicenda di una «scuola», se così può dirsi, attualista sì ma non proprio gentiliana, perché gli autori che vi appartengono riuscirono a conservare un contatto con la meditazione di Gentile solo trasformandola in profondità, o addirittura spezzandone alcuni princìpi costitutivi. Due di essi — Maggiore e Spirito — ricostruirono, in maniera spesso ammirevole, la storia del pensiero giuridico italiano, proponendo una valutazione delle due grandi tradizioni nazionali, quella «classica» e quella «positiva». Ma in generale, il tentativo di proseguire l’insegnamento di Gentile si scontrò con due nodi speculativi, che il maestro aveva lasciati irrisolti, per motivi non casuali o contingenti ma che affondavano radici profonde nella sua visione filosofica: da un lato il problema della libertà e della responsabilità, che ebbe importanti conseguenze nella considerazione della dottrina penale; d’altro lato la questione dell’alterità, di quell’inter homines che Gentile aveva risolto o dissolto, anche nella sua ultima opera, nel concetto, o nel mito, della società trascendentale, in interiore homine. E presto si vide che senza questo momento dell’alterità o molteplicità intersoggettiva non era possibile restituire al diritto l’ampiezza delle sue prerogative. In entrambe le questioni che abbiamo segnalato — la libertà e l’alterità —, che disegnano le linee interne della storia tracciata in questo libro, la riflessione di Guido Calogero rimane forse quella più radicale ed emblematica, per il rapporto che seppe mantenere con l’idealismo e per la capacità di superarne gli esiti in una prospettiva più ampia e universale, che sfociò, in ultimo, in una originale filosofia del dialogo. Con Calogero, ma anche con Volpicelli e Cammarata (che tornarono a confrontarsi, sia pure con esiti ambivalenti, con le correnti più vive della cultura giuridica europea, a cominciare da Kelsen), la

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Prefazione

«scuola» dell’attualismo provò a compiere quel passo che Gentile, in fondo, non era riuscito a percorrere.

MARCELLO MUSTÈ

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