Bioetica e chirurgia estetica

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La bioetica come ponte tra società e innovazione ISBN 978-88-548-9046-6 DOI 10.4399/97888548904669 pag. 193–221 (gennaio 2016)

Bioetica, bellezza e chirurgia estetica La illegittima manipolazione del corpo nella quarta generazione dei diritti N P∗

: . La bellezza: valore assoluto nella società estetizzata. La chirurgia estetica come rifugio,  – . Dalla bellezza come virtù alla chirurgia plastico–estetica: definizioni, percorso storico–evolutivo e legittimazione sociale della pratica medica,  – . Inflazione e pericolo delle richieste: la chirurgia estetica (inutile) baluardo di salvezza,  – . I problemi bioetici e l’intervento del CNB,  – . I Problemi giuridici: cenni, .

. La bellezza: valore assoluto nella società estetizzata. La chirurgia estetica come rifugio Che la bellezza sia da sempre stata al centro del mondo, questo è fuor di dubbio . Lo è fin da quando si combatté a Troia a causa di una bella donna (e, più esattamente, a causa del pomo regalato alla filommede perché ∗

Avvocato e dottorando di ricerca in Diritto amministrativo. . Ogni società ha avuto difficoltà nell’accettare la deformità e ha ricercato la bellezza come metafora della perfezione: la società spartana del VI secolo avanti Cristo ed il periodo nazista sono emblematici del rifiuto della debolezza e dell’imperfezione fisica. Il testo De divina proportione di Fra Luca Pacioli, ancora, evidenzia l’importanza simbolico–teologica della proporzione perfetta del corpo umano; e la filosofia greca, dal canto suo, ha addirittura formulato una categoria di pensiero che illustra il valore metaforico della bellezza, quella della kalokagathia, la quale anticipa una massima familiare nel mondo latino quale quella della mens sana in corpore sano. . « Non è casuale che il tema della bellezza », scrive U. E, Storia culturale della bellezza, Bompiani, Milano  p.  « sia associato così frequentemente alla guerra di Troia: l’irresistibile bellezza di Elena assolve di fatto la stessa Elena dai lutti da essa causati. Menelao, espugnata Troia, si avventerà sulla sposa traditrice per ucciderla, ma il suo braccio armato rimarrà paralizzato alla vista del bel seno nudo di Eelena ». . Questo è l’aggettivo attribuito da Esiodo (Theog., ) alla dea Afroite, lieve storpiatura dell’omerico filommeidès (amante del sorriso, Odyss., VII, ). Filommedéa è l’amante

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più bella delle sue “colleghe”); lo è fin da quando “qualcuno” morì ossessionato dalla vanità; lo è fin dai tempi di Cleopatra, regina d’Egitto; e, inutile negarlo, continua ad esserlo tuttora. Essa ha spesso creato discordia, seminato terrore e dolore. Ha soggiogato gli uomini e li ha resi schiavi di passioni, desideri, sogni effimeri. Paul Valery, cercandone una efficace definizione, l’ha fatta facilmente coincidere con quello che, normalmente, “fa disperare” ; e anche noi, forse, se volessimo cercare di definirla, oggi, dovremmo adeguarci a questa forte espressione provocatrice . Come già rilevato in altra occasione , mai come in questo momento storico, essa è diventata valore primario e indispensabile per l’individuo: è configurabile come una necessaria virtù, nella nostra società, un elemento essenziale per poter valutare coscientemente quali siano le altre caratteristiche d’una persona. Tutto ruota intorno all’apparire, ormai: anche l’arte ne risente nella sua classicità ; e la fotografia, dal canto suo, con l’indispensabile fotoritocco, ci insegna a guardare al modificato come ad un qualcosa di necessario. L’uomo moderno opera discriminazioni sociali, sulla base della bellezza. L’esempio più lampante lo si ha nell’ambiente lavorativo comune, quello, cioè, che prescinde, per definizione, dalla fisicità: l’immagine della persona diventa funzionale alla professione lavorativa da intraprendere, anche se ci trova al di fuori di un set fotografico o di una passerella. Interessante, l’analisi proposta dall’economista americano Daniel S. Hamermesh, il quale, nel suo ultimo libro Beauty Pays, ha dimostrato proprio quanto la bellezza possa aiutare in ufficio, perché aumenta l’autostima e catalizza l’attenzione degli altri. L’economista ha, infatti, calcolato che le persone più belle guadagnano di più delle colleghe e dei colleghi meno avvenenti; addirittura, gli uomini, dei genitali (poiché da essi nacque). . Così si esprime l’autore in Variété I, , trad. it., Adelphi, Milano, . . « La bellezza è una lama, certo, ma a doppio taglio. Il potere che ne deriva procura indubbi benefici sociali, ma ha la conseguenza nefasta di indurre chi ne gode a pensare che il fascino e la beltà siano i soli strumenti che gli sono riservati, e chi ne gode a pensare che sia il caso, il dovere di goderne ». (così R. G, Per piacere, Il Mulino, Bologna, , p. ). . Se si vuole, N. P, Vanità, moda e diritto alla salute. Problemi di legittimazione giuridica della chirurgia estetica, in “Medicina e Morale”, , pp.  e ss. . A questo proposito è interessante leggere il contributo di S. O’R, Il corpo nell’arte contemporanea, trad. it., Piccola Biblioteca Einaudi, Milano , in cui l’a. evidenzia il ruolo che il corpo ha assunto nelle varie forme di arte contemporanea.

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se brutti, subiscono una penalizzazione del tredici per cento in busta paga e la differenza cresce fino al diciassette per cento per gli uomini e al dodici per cento per le donne in caso di bellezza sfolgorante . Anche Timothy Judge dell’Università della Florida ha dimostrato che la bellezza aiuta in ufficio, tant’è che sul Journal of Applied Physiology ha scritto che « chi è bello guadagna di più, indipendentemente da intelligenza e preparazione », dopo aver esaminato uomini e donne fra i  e i  anni. Questo edonismo calcolato, gratificante e parsimonioso della contemporanea body culture, dipende, evidentemente, da una logica di scambio economico, oltre che dall’estremizzazione dell’individualismo estremo e della mercificazione delle persone . I mass–media, poi, giocano un ruolo fondante, in quanto contribuiscono ad accrescere notevolmente il culto della fisicità e dell’ostentazione della bellezza ed alimentano fortemente il binomio inscindibile tra l’aspetto fisico dell’interessato e la vita sociale in cui si sviluppa e si dispiega la sua personalità. Essi ci inculcano l’idea del bello come d’un qualcosa di necessario e ci inducono a pensare che solo il curato, il bello e l’esteta possa ambire a ottenere dei successi. Così, noi tutti ci sentiamo “religiosamente” obbligati a mostrarci/sembrare/essere/diventare belli e guardiamo allo specchio come al nemico della nostra vita; l’immagine è il mezzo di comunicazione più rapido e diretto tra le persone; e, per dirla alla Oscar Wilde, oggi, « solo i superficiali non fanno caso alle apparenze » . Il problema di fondo, poi, si acuisce ancora di più nel momento in cui, accanto alla proposizione del bello come fondamentale e necessario, i mezzi di comunicazione ci propinano, di rimando, anche delle idee precise e . Allora, secondo l’economista, per tutelare i brutti bisognerebbe fare uso delle leggi che, attualmente, proteggono i disabili. « Penso che sia sbagliato un aiuto statale per chi è brutto, ma indubbiamente il problema esiste », spiega. « Visto che i belli guadagnano il  per cento in più dei brutti e le belle l’, perché non pensare a un “risarcimento morale” per chi nasce inviso a Venere? ». Il problema dell’ingresso del mito della bellezza e dello stile nel mondo professionale è un fenomeno analizzato con molta accuratezza (grazie ad un valido supporto di testimonianze) e con evidente arguzia anche da N. W, Il mito della bellezza, Mondadori, Milano, . Qui l’autrice si riferisce soprattutto all’universo femminile ed utilizza certi racconti di casi concreti per provare quanto il mito della bellezza rappresenti un freno posto per arginare l’avanzata delle donne nella professione e nel successo; una sorta di reazione al femminismo. . Cfr., in questo senso R. J, Narcissism and the crisis of capitalism, in “Telos”, , pp. –. . Cfr., O. W, Il ritratto di Dorian Gray, trad. it., Rizzoli, Milano , p. .

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ben delineate di bellezza . In altre parole, essi ci spingono a diventare belli mostrandoci il bello per eccellenza, quello assoluto. Non solo, quindi, ci fanno capire quanto sia importante essere belli nella quotidianità, ma ci mettono di fronte al prototipo di perfezione per farci comprendere qual è lo stato di estetica che dobbiamo tenere in considerazione per verificare se siamo nel giusto esteriore, oppure no. La pubblicità, la televisione e il cinema condizionano i gusti e i canoni estetici, usando un linguaggio elementare ma ben sperimentato che fa presa subito sullo spettatore (e soprattutto, su quello debole e/o adolescente: è normale, infatti, che soggetti non ancora equilibrati interiormente, perché giovani o perché insicuri nel loro rapportarsi agli altri, cerchino di emulare modelli proposti dai mezzi di comunicazione di massa). Questa concezione del bello come assoluto e immutabile, però, ci porta a cercare un — inutile, immodificabile — modello di riferimento cui poterci relazionare, con cui poterci confrontare per cercare di capire fin dove si spinga la nostra bellezza (rectius bruttezza) e dove, quindi, sia necessario intervenire per poterla ampliare. Necessitiamo d’avere un corpo secondo il modello sociale assolutamente accettato, in quanto il culto d(i qu)ella bellezza, per dirla alla Malta, costringe a passi obbligati: non basta essere (diventare/ambire a diventare) belli, ma occorre essere belli come, assomigliare “a”. Su questa premessa, si gioca il valore della libertà personale: « l’uomo è solo libero di scegliere quello che gli altri hanno già scelto per il suo destino » . In questo modo, il canone di perfezione estetica che ci viene proposto ci induce a ragionare sempre più negativamente sui nostri difetti; e quelli che prima erano segni caratteristici di ciascuno, ora diventano segni particolari della diversità da eliminare. Un naso particolare è un naso anormale, un seno proporzionato è un seno piccolo. Le complicazioni, però, non tardano a rilevarsi: infatti, come già si specificava in altra sede , una simile concezione di bellezza risulta . Cfr., V. P, Le rughe di Barbie: storia di un lifting ed altre nevrosi, Sottotraccia, Salerno . . Prima di crearsi la necessità della bellezza, infatti, si crea quella più predominante di eliminare la bruttezza. . Cfr., R. M, Etica e chirurgia estetica, in “Bioetica e cultura”, , p. . . Cfr., N. P, Vanità, moda e diritto alla salute [. . . ], cit.,  e ss.; N. P, Atto medico, spersonalizzazione e chirurgia estetica. La nascita del nuovo diritto alla bellezza, in

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essere falsata da un processo sfocato ed erroneo — quale quello dell’assolutizzazione, appunto — che, in realtà, dovrebbe rimanere estraneo ad un concetto così labile come quello della appariscenza: la bellezza, infatti, è difficilmente definibile; e la moda, da cui essa dipende, cambia, evolve e si trasforma. Una modifica operata nel  potrebbe risultare essere assolutamente inadeguata nel . Se il nostro intento fosse quello di trovare una definizione generale per poterla adattare ai giorni nostri così come ai tempi passati, difficilmente riusciremmo rinvenirla; potremmo rifarci all’idea che di bello hanno i più, oppure, a quella che la tv e i media sembrano volerci inculcare. Ma, in realtà, ci accorgeremmo di come la mutevolezza della società renderebbe comunque impossibile adattare un concetto del nostro millennio a quello del tempo passato. Se così non fosse, dovremmo cercare di riconoscere che la venere di Willendorf, emblema del bello nel paleolitico superiore, sia quell’emblema di bello femminile che, tutt’oggi, si riconosce come imprescindibile; ovvero, ancora, che l’idea d’una donna bella del mondo post–romano, intesa come struccata e poco curata, rispecchi la concezione di donna bella che il  effettivamente ci sta “regalando”. Non voglio dimostrare la fallacia del ragionamento, quanto più, voglio proprio evidenziare come il mutamento abbia inciso su di un concetto che rimane, per definizione, vago e indefinito. Né possiamo dire che, abbandonata l’ottica del confronto tra le epoche, il problema sarebbe superabile tenuto conto solo dell’eventuale modello di bellezza riconosciuto come tale dalla maggioranza dei consociati nella realtà storica di riferimento. Passando dal piano oggettivo a quello soggettivo del gusto del singolo, infatti, qui, più che in ogni altro punto, ci si accorge di come nessuna definizione, pur se attualmente accolta dalla maggioranza, possa essere riconosciuta come assoluta da tutti, unitariamente. Pur rintracciando un concetto generico di bello come assoluto per i più, troveremmo sempre qualcuno in disaccordo col nostro dire, essendo il concetto consequenziale di “apprezzamento” estremamente soggettivo ed evidentemente relativo. Ognuno, soggettivamente, pur se riconosce il bello oggettivo, decide se apprezzarlo in base a come lo percepisce interiormente . “Medicina e morale”, , pp.  e ss. . Secondo alcuni, in realtà, sarebbe possibile operare l’assolutizzazione della definizio-

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Ad ogni modo, la perfezione estetica auspicata come necessaria prima e la necessità di modificarsi in base al modello maggiormente in voga poi, pongono l’individuo a disagio, nella dinamica dei rapporti inter–personali: egli soffre per le sue fisicità naturali, auspica la modifica che comporta meno fatica fisica delle altre e desidera sentirsi onnipotente nel poter raggiungere anche scopi lavorativi e vitali che, fino a prima, gli erano assolutamente preclusi. L’alternativa, dopotutto, non rappresenta, quindi, una scelta reale: non aderire al mito della bellezza significa non entrare a far parte della vita sociale. La strategia che governa questa logica è di carattere economico, perché incentiva un consumismo ad altissima redditività; e in un contesto del genere, quindi, considerare la bellezza come fondamentale/necessaria/vitale spinge l’uomo comune a interrogarsi sul come poterla raggiungere e sul come poterla attualizzare: è qui, dunque, che comincia a far capolino il discorso della chirurgia estetica; ed è proprio qui che il suo utilizzo inizia a destare seri problemi in ambito bioetico, quand’anche lo si rilevi troppo spesso correlato ad esigenze di vacuità e superficialità.

. Dalla bellezza come virtù alla chirurgia plastico–estetica: definizioni, percorso storico–evolutivo e legittimazione sociale della pratica medica Prima di affrontare i rapporti esistenti tra bioetica e chirurgia estetica, occorre indagare natura, legittimazione sociale e definizione di quest’ultima. ne, almeno nel periodo storico di riferimento da cui essa si estrapola (bello oggettivo): in questo senso, il piano soggettivo del gusto andrebbe a collocarsi in un momento successivo rispetto a quello della valutazione sociale e rimarrebbe da essa sopraffatto, però, per una semplice regola di rapporto maggioranza–minoranza. Sarebbe possibile, così, a prescindere dall’eventuale gusto soggettivo che ciascuno, poi, possa andare ad esprimere in relazione quel modello specifico, riconoscere dei canoni standard come assoluti in ogni contesto storico entro cui vadano formandosi; sulle loro basi, si potrebbe arrivare a giudicare oggettivamente la bellezza degli altri, la loro piacevolezza, la loro armonia fisica. In questa prospettiva, l’idea generale sarebbe assoluta nel periodo di riferimento; quella del gusto sarebbe l’eccezione, ma non considerabile come rilevante ai fini della definizione.

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Ciò al fine di capire perché ne sia stata legittimato l’utilizzo, perché se ne sia sentita la necessità della introduzione e, prima ancora, per meglio comprendere a cosa ci si riferisca, in concreto, quando la si consideri. La errata coincidenza che più normalmente si vuole riconoscere è quella tra la chirurgia plastica generale e la chirurgia estetica in senso stretto. In realtà, la distinzione esiste ed è fondamentale: la chirurgia estetica, infatti, è semmai un ramo della plastica e si pone nei suoi confronti come la species di un genus molto più ampio. La classificazione degli interventi plastici estetici normalmente riconosciuta come valida è quella che configura la presenza di: a) interventi plastici che ricostruiscono una condizione somatica gravemente deteriorata da infortuni (sinistri stradali, infortuni sul lavoro, interventi menomativi o demolitivi per curare gravi patologie, ecc.): è la cd. chirurgia plastica ripartiva ; b) interventi plastici necessari per correggere imperfezioni naturali, pregiudizievoli per la vita di relazione, per quella affettiva e/o professionale, oltre che, a volte, anche per la salute dell’interessato: è la cd. chirurgia plastica ricostruttiva ; c) interventi plastici fisicamente non necessari, rivolti a correggere imperfezioni estetiche che, per l’interessato, sono motivo di disagio. Essi sono essenziali per l’operato che voglia acquistare maggiore fiducia in sé e maggiore sicurezza nell’ambito della sua — importante — vita di relazione: quest’ultima specie è quella della chirurgia estetica in senso stretto , quella chirurgia, cioè, che si occupa di modificare il . L’esempio tipico è quello della ricostruzione mammaria a seguito di tumore: qui il medico agisce per eliminare un tipo di patologia che prescinde da aspetti meramente voluttuari del soggetto operato. L’intervento si completa, sì, con la plastica estetica di tipo ricostruttivo, ma tale fase rimane comunque conseguenza d’un intervento a monte necessitato da aspetti di cura salutare in senso stretto. . L’esempio classico è quello della labiopalatoschisi (cd. labbro leporino), malformazione che interessa il labbro superiore ed il palato provocandone una fessura più o meno estesa; in questo caso il sanitario si occupa di eliminare una natuale malformazione del soggetto malato. . A. B, La responsabilità del chirurgo estetico, in “Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ.”, , p.  definisce quest’ultima categoria come quella che « comprende tutti quegli interventi che nella norma potrebbero essere evitati ma che sono richiesti per svariate ragioni, riconducibili principalmente al desiderio (o al capriccio) di modificare il proprio aspetto per trasformare una parte del proprio corpo ritenuta non conforme ad un certo standard di bellezza, o piuttosto per cancellare i segni del tempo che, con intensità diversa, interessano irrimediabilmente ogni individuo ».

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corpo di qualcuno sulla base delle sue richieste, operando con mezzi e strumenti tipici dell’attività medica “classica”, ma con presupposti — apparentemente — diversi da quest’ultima. Il quadro, in questo senso, è chiaro e limpido: una confusione tra i vari livelli di chirurgia sarebbe inopportuna oltre che in alcuni casi fortemente pericolosa in sede di valutazione di responsabilità del sanitario e legittimazione della pratica stessa. A questo punto, occorre capire quando e perché sia nata la chirurgia estetica sub c), posto che la sua storia è relativamente recente . Parte dalla fine del XIX secolo, infatti, il desiderio chirurgico dell’uomo di modificare i propri tratti fisiognomici scomodi da “sopportare”. Prima d’allora, la voglia di migliorarsi esteticamente rimaneva chirurgicamente inattuata, posto che gli interventi di chirurgia plastica erano, perlopiù, meramente ricostruttivi (rectius riparativi) . . Sulla storia della chirurgia plastica in genere si rimanda fin da subito a E. H, L’invidia di Venere, trad. it., Odoya, Bologna ; S. T. A, La chirurgia plastica in Italia nel XX secolo, Sicpre, Milano . . Secondo alcuni la nascita della chirurgia plastica riparativa dovrebbe farsi risalire alla metà degli anni cinquanta, poiché è in quel periodo che il medico bolognese Leonardo Fioravanti documenta del proprio sbarco in Calabria (nella città di Tropea) e del proprio incontro con i fratelli Vianeo; essi, cirurgi dignissimi esperti nell’arte di fare li nasi, fautori di quella che Tommaso Campanella chiamò la magia Calabrorum Tropienaisum, erano ferrati in quella che noi, oggi, comunemente, chiameremmo rinoplastica. (« Et così m’imbarcai per Calabria, per andare à Napoli: ma prima andai à una città di Calabria che si chiama Turpia, nel laquale in quel tempi vi erano dui fratelli l’uno nomato Pietro, e l’altro Paolo, huomini nobili e facoltosi in quella città, e cirurgici dignissimi, i quali facevano il naso a coloro che per qual che accidente l’avevano perduto. Nella qual città mi fermai con animo di vedere se io poteva in qualche modo sapere, come questi tali operavano nel fare tale operazione; et ciò che successe lo dirò ». Così L. F, Il tesoro della vita humana, Melchior Sessa, Venezia, , p. ). Camillo Porzio, avvocato e storico del Regno di Napoli, definisce qualche anno dopo l’operazione chirurgica effettuata dai fratelli Vianeo come un’opra meravigliosa ristretta a un solo uomo (ai fratelli stessi, appunto) e incognita agli antichi (Cfr. C. P, L’istoria d’Italia nell’anno  e la descrizione del regno di Napoli, Tramater, Napoli, , p. ). In realtà, uno studio più approfondito del tema, consente di confutare le asserzioni (rectius convizioni) dell’avvocato, e di tracciare i veri pregressi della tecnica chirurgica così per come sono andati evolvendosi nel tempo. Quanto alla prima affermazione, ed al fatto che i Vianeo fossero stati i fautori, in Italia, d’una simile pratica ricostruttiva di nasi mozzati, esse ci dicono che già molti anni prima di quelli in cui si collocano i fratelli dignissimiesisteva nella penisola qualcuno che sapeva ben ricostruire i nasi con maestria: si trattava dei fratelli Branca, operanti a Catania fin dai primi anni del Quattrocento [nell’anno  il poeta Calenzio scriveva da questa città una lettera in cui raccomandava all’amico Orpiano, rimasto senza naso, di recarsi il prima possibile in Sicilia. Lì aveva assistito alla cosa “più maravigliosa del mondo”: un chirurgo che rifaceva

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La chirurgia plastica di quei tempi, in altre parole, serviva a riportare allo stato precedente una situazione estetica iniziale che, vuoi per malattie, vuoi per questioni sociali, vuoi per mutilazioni dovute a conflitti, era andata modificandosi negativamente. La motivazione principale d’una tale assenza di interventi va rilevata, fin da subito, nel fatto che, fino ad allora, gli interventi chirurgici versavano in condizioni poco allettanti, perché fortemente i nasi partendo dal braccio, o prendendoli agli schiavi (cfr. E. C, Opuscola Elisii Calenti ipoetae clarissimi, Roma, ). Dell’arte dei Branca, dopotutto, avevano già scritto anche degli storici ad essa contemporanei, come Pietro Ranzano e Etienne Gourmelen. Lo storiografo della corte aragonese di Napoli, Bartolomeo Fazio, poi, nel suo De viris illustribus, li aveva addirittura elogiati definendoli siculos chirurgico segregios, inventori d’un’arte mirabile e incredibile di ricostruire i nasi. Quanto alla seconda, ed al fatto che nessuno, nell’antichità, conoscesse di simili pratiche, le fonti autorevoli di cui disponiamo ci consentono di riconoscere che, in realtà, l’arte della chirurgia rivolta ad abbellire l’aspetto perché deturpato, non era affatto sconosciuta agli antichi, tant’è che la storiografia fa ormai unanimemente risalire l’origine della mirabile arte all’India del  a.C. (dove nel Sushuruta Samhita — considerato il primo trattato esplicitamente consacrato alla chirurgia plastica nella storia dell’umanità — il chirurgo indiano Sushruta descrive un metodo di ricostruzione del naso partendo dalla guancia del paziente –scrive il chirurgo indiano nel suo testo: « un bravo medico, dopo aver preso una foglia della dimensione del naso del paziente, aver ritagliato dalla guancia adiacente un tessuto della misura corrispondente ed aver inciso la punta del naso, deve attaccare il tessuto alla punta e unirlo velocemente con perfetti punti di sutura » — e ci dà la possibilità di provare come anche nell’antichità occidentale, per esempio, fossero già ben note ed applicate altre tematiche particolari di chirurgia plastica ricostruttiva: il riferimento va subito all’antica Grecia (dove nel Corpus Hippocraticum si fa riferimento al trattamento delle fratture o alle deformità della piramide nasale e di malformazioni del volto) e all’antica Roma (dove la chirurgia plastica sembra aver conosciuto grande diffusione grazie a Celso — che nel trattato De medicina elogiava l’attività del buon chirurgo impassibile ai lamenti e forniva indicazioni sulla ricostruzione del naso — e a Galeno — che condusse rilevanti studi sul tema della ricostruzione–). Con ciò possiamo dire che sì, è sicuramente innegabile, comunque, come nel corso del Quattrocento/Cinquecento l’evoluzione sociale e quella professionale siano state utili a conferire all’ars chirurgica grande importanza e prestigio, ma è anche assolutamente inevitabile riconoscere come il percorso evolutivo di quegli anni specifici si sia limitato, in un certo senso, ad arricchire le tecniche della chirurgia platica ricostruttiva al fine della sua perfezionane finale, senza però effettivamente provvedere a creare niente che non fosse già stato quantomeno sperimentato in precedenza. Lo stesso Gaspare Tagliacozzi, autore del primo grande trattato di chirurgia plastica nella storia occidentale nel , De curtotum chirurgia per insitionem, “padre moderno della chirurgia plastica” in quegli anni, quando elevò per la prima volta la chirurgia ricostruttiva al rango di scienza medica e raccontò della tecnica da lui utilizzata per la rinoplastica ricostruttiva, pare proprio che avesse per lo meno sentito parlare dei suoi predecessori, e da loro avesse preso parecchio nel momento della sua perfezione operatoria. In questo senso, sembra avesse ben appreso dai Branca, che, a loro volta, ben appresero dall’India: la storia, quindi, come si dimostra, torna sempre agli albori, inevitabilmente.

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dolorosi e igienicamente poco idonei. Nessuno, in altre parole, vi si sarebbe assoggettato, se di base non vi fosse stata una motivazione valida atta a supportare la necessità di miglioramento. In altri termini, la bruttezza naturale sarebbe stata corretta in altro modo e con altri metodi, piuttosto che con la chirurgia: essa, che era già l’ultima spiaggia per quanti dovessero ricorrervi — perché obbligati — da un punto di vista curativo, rimaneva assolutamente pensata come non applicabile/pensabile/giustamente sopportabile per motivazioni — chirurgicamente — futili come quelle dell’abbellimento. Dal XX secolo in poi, invece, l’introduzione della disinfezione e dell’anestesia cambiò radicalmente il modo di pensare e fece sì che il pensiero di modifica interessasse non soltanto quanti volessero tornare ad assumere connotati di normalità un tempo posseduti, ma anche quanti, pur partendo da normalità di base, andassero auspicando un miglioramento ed una modifica vera e propria del proprio stato fisico (sano) per riuscire a star meglio con se stessi, e con gli altri . La possibilità di fare chirurgia senza dolore, in questo senso, cambiò radicalmente la natura stessa degli interventi di chirurgia plastica, ed essi, da esclusivamente correttivi e ricostruttivi quali erano, progressivamente diventarono anche un qualcosa di strettamente correlato alla vanità, più che alla necessità . La chirurgia estetica, in questo senso, vide proprio nel Novecento il secolo di massimo sviluppo delle sue diverse tecniche, con l’ideazione di procedure anche molto complesse che si spinsero sempre più oltre, illuminate in equa misura da geniali menti di specialisti e da irrefrenabili voglie di pazienti desiderosi che, con il mito ideale da raggiungere, affidavano al chirurgo estetico la soluzione finale del proprio dilemma psico–fisico . . Con l’introduzione degli anestetici nel  e degli antisettici nel  le potenzialità di un singolo essere umano di modellare il proprio corpo secondo i propri desideri attraverso gli interventi chirurgici divenne immaginabile ed effettuabile. Proprio a quegli anni risale la lettera scritta sul giornale inglese Gentleman Magazine, con cui andò diffondendosi in Europa la pratica indiana della rinoplastica. « Il XIX secolo cambiò radicalmente le cose. Esso vide il rilancio della chirurgia come attività clinica basata sulle scienze (anatomica, fisiologica, patologica), grazie all’introduzione dell’antisepsi e dell’anestesia. La chirurgia plastica trasse notevole impulso da queste scoperte, sia nel settore della ricostruzione sia in quello nascente dell’estetica » (Così R. G, op. cit., p. ). . Il ° marzo del  al Manhattan Eye and Ear Hospital di New York, Edward T. Ely eseguiva per la prima volta su un dodicenne un intervento di otoplastica per la correzione delle orecchie “a sventola”. . Una precisazione appare opportuna e rilevante, in questo senso: l’anestesia e l’anti-

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In questi anni, dunque, cominciò a farsi strada l’idea di una modifica dell’aspetto esteriore slegata da altre esigenze funzionali/ricostruttive differenti e la volontà di bellezza prese il sopravvento. Il primo passo fu verso metodiche richieste per ringiovanire: nel corso del Novecento il punto focale della chirurgia estetica divenne proprio l’invecchiamento del viso e ci si concentrò, in particolare, sullo studio di una serie di tecniche chirurgiche che consentissero di eliminare le rughe e i rilassamenti visibili. Pare, infatti, che tutta la carambola di interventi di lifting facciali, tuttora in piena evoluzione e successo, abbia avuto inizio proprio nel , ad opera di uno storico culturale tedesco che eseguì la prima ritidectomia su una nobile donna polacca . Nel periodo delle guerre mondiali, poi, la chirurgia prettamente estetica subì di nuovo una forte limitazione e la chirurgia plastica in voga tornò ad essere solo ed esclusivamente quella riparativa/ricostruttiva dei tempi antecedenti ai primi anni del Novecento. sepsi furono necessarie, senz’altro, ma non sufficienti a far sì che quel ramo della chirurgia plastica che noi oggi chiamiamo estetica si rendesse autonomo. Esso riuscì a svilupparsi nel tempo, infatti, grazie soprattutto ad un immaginario rilevante intorno ai benefici della trasformazione corporea che la stampa andava propinando nell’ottica della sua strategia d’azione. Quello che veniva promosso, tanto nelle pubblicità del sapone, quanto negli articoli degli specialisti in psicologica, era il principio secondo cui l’apparenza esteriore era diventata indispensabile per avere successo nella vita. L’assunto fondamentale era che questo costituisse una rottura irreversibile rispetto al passato. A cominciare dagli anni venti e trenta si iniziò a dire ai consumatori americani, ma anche francesi, inglesi o italiani, che diversamente dal passato, dalla prima impressione ora sarebbe dipeso il loro successo o il loro fallimento sociale. La grazie o la bellezza cessavano di essere un semplice dono di cui si era più o meno dotato alla nascita, ma costituivano, specialmente per le donne, una risorsa su cui investire sulla base di un diritto–dovere di piacere agli altri. . Nome tecnico del più noto anglosassone lifting. . Fu la paziente stessa a suggerire la tecnica chirurgica, supportata da alcuni disegni che illustravano quanto e come la pelle del viso dovesse venire eliminata nella zona davanti all’orecchio. Inizialmente Holländer non voleva seguire i suggerimenti, ma fu persuaso dalla donna a cambiare parere; rimosse allora piccole quantità di pelle lungo la linea dei capelli e dietro le orecchie, effettuando inoltre nella parte superiore del viso alcuni cambiamenti minori che resero felice la sua paziente. Nel  anche il chirurgo tedesco Erich Lexer praticò un intervento simile su un’attrice: durante la notte, la pelle del viso veniva immobilizzata applicando un nastro sulla fronte e tirandolo forte con strisce di gomma sulla cima del cranio. Dopo un certo periodo di tempo, il chirurgo rimosse la pelle in eccesso seguendo le pliche cutanee lungo l’attaccatura dei capelli fino a dietro le orecchie. Lexter arrivò a definire l’esito del lifting un vero successo.

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Il mondo si trovò in una fase storica mai capitata prima d’allora, in cui i conflitti portarono uno strascico di innovazioni anche nel campo della medicina e della chirurgia ricostruttiva, le cui tecniche raggiunsero livelli molto raffinati grazie al triste fiorire delle necessità richieste dalla presenza dei numerosi mutilati. Le ferite al volto, per esempio, in quanto sempre visibili e non copribili con guanti o abiti di vario genere, furono subito avvertite come particolarmente sfiancanti psicologicamente; di conseguenza, furono riconosciute come un problema tanto chirurgico, quanto sociale; esse, per prime, resero opportuna una specializzazione dell’attività chirurgica ricostruttiva tale da poter porre fine allo stato di disagio psico–fisico che tali indegni segni di bruttezza provocavano sul malcapitato. La chirurgia estetica, terminato il periodo dei conflitti mondiali, facendo tesoro degli sviluppi della pratica ricostruttiva in quel periodo avvenuti, tornò nuovamente in auge e andò specializzandosi grandemente, utilizzando le pratiche della ricostruzione per un fine uguale a quello della chirurgia ripartiva, ma con un intento iniziale diverso da quello proprio di quest’ultima. Si delinearono, così, altre due tendenze della chirurgia della bellezza: da una parte, l’aumento del seno; dall’altra, la riduzione della massa adiposa e la “scultura” del fisico . Il passaggio ultimo di questo periodo di sviluppo, poi, sembrò andare ben oltre quando ci si accostò, progressivamente, alla rettificazione del sesso . . A cavallo tra XIX e XX secolo, secondo lo storico Lois Banner, gli standard naturali della bellezza si trovarono in competizione con quelli artificiali: il pensiero tanto femminista quanto progressista auspicava la bellezza naturale e la letteratura (in proposito influenzata da tali scuole di pensiero) era estremamente moralista. Lo sviluppo della personalità, unito al modo giusto di vivere, mangiare, e persino di pensare, venne a configurarsi come il mezzo effettivo attraverso il quale le donne potevano raggiungere la vera bellezza. Con l’avvento della cultura consumistica, poi, però, « l’aspetto esteriore, ottenuto solamente con metodi esterni resi disponibili dallo sviluppo della cultura della bellezza commerciale andò a soppiantare con facilità la natura interiore della ricerca della bellezza ». (Così E. H, op. cit., p. ). . La chirurgia dei genitali nacque intorno agli anni ’ principalmente presso l’Istituto di Scienze sessuali di Magnus Hirschfeld a Berlino. Qui vennero ideate alcune procedure per ricreare, ovviamente solo a livello estetico e non funzionale, dei genitali femminili su un corpo maschile. Ludwig Levy–Lenz e Felix Ahraham furono gli artefici di questo tipo di chirurgia, che permetteva di conservare la sollecitazione erotica anche nel cambio di sesso, ma senza neanche prendere in considerazione l’ipotesi della possibilità riproduttiva. In uno dei suoi primi studi, Richard Mühsam, dell’Ospedale municipale di Berlino, narra che già nel  un paziente maschio inviatogli da Magnus Hirschfeld chiese di essere castrato,

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Inutile riconoscere come, comunque, tali momenti evolutivi siano valsi sicuramente a rendere la chirurgia estetica quella che oggi è: una pratica medica a sé, specializzata e sempre in evoluzione; una tecnica chirurgica all’ordine del giorno, un’attività rassicurante per la psicologia del paziente; un percorso diventato ormai obbligato per i più, cui è necessario addivenire per star meglio con sé nell’ottica del rapporto con l’altro. Con la sua entrata in scena nel mondo della medicina, però, la chirurgia estetica creava qualche problema di legittimazione, a livello sociale. Ciò in quanto, come evidente, pareva essa escludesse un qualsiasi riferimento ad un profilo patologico, riabilitativo e di recupero funzionale dell’individuo; era come se ponesse sempre, in primo piano, quale unico obiettivo, l’apparenza esteriore della persona ed il suo perfezionamento secondo proprie esigenze o canoni predeterminati. Il concetto evocava, cioè, l’idea di mera voluttarietà, di bellezza intesa come strumento di autoaccettazione e autoaffermazione sociale e, non da ultimo, quella della terapia medica legata alla mera vanità o al(l’opinabile) capriccio del singolo. Ci si chiedeva, quindi, quanto e se fosse opportuno legittimare una operazione inutile dal punto di vista medico, ma capace di manomettere il corpo (e, di conseguenza, l’identità di una persona) . La medicina estetica era da considerare un’attività medicalmente ingiustificata, quindi, classificabile semmai come meramente cosmetie che nel  rimosse le ovaie di un travestito donna su sua richiesta. È da precisare che la castrazione, nel terzo e quarto decennio del ‘, veniva praticata senza particolare scalpore, perché ritenuta una terapia per le “nevrosi”, praticata su criminali, malati mentali e addirittura per la tubercolosi, perciò i racconti di Mühsam non destarono un polverone, come invece ci si aspetterebbe. Il cambio di sesso per via chirurgica non era, a onor del vero, una novità, visto che veniva praticato anche in quei casi di ambiguità sessuale dei neonati, con l’intento di plasmare organi sessuali femminili. . All’inizio del XX secolo, i chirurghi che si ritenevano rispettabili erano del parere che la chirurgia estetica, poiché metteva a rischio la salute di pazienti sani, andasse contro i capisaldi fondamentali della professione medica: la chirurgia della bellezza era appannaggio di medicastri e ciarlatani. A loro avviso, i nasi importanti, il seno piccolo e le rughe di ogni tipo erano una cosa naturale, e la dignità con cui venivano sopportati testimoniava la forza di carattere del loro possessore. Tutto questo era un atto frivolo finalizzato solo a “dilettar gli occhi”, alla spuria pulchritudo, alla bellezza effimera e falsa.

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ca , non curativa, terapeuticamente irrilevante e non giustificabile quale attività consentita dall’ordinamento. In realtà, non era soltanto la morale a condannare gli interventi volti al mero miglioramento estetico del proprio corpo: anche la rilevante giurisprudenza del tempo deponeva a sfavore di tale pratica, tant’è che considerava nulli i relativi contratti conclusi tra medico e paziente, sul presupposto della loro indubbia contrarietà al buon costume . Col tempo, quest’idea assai riduttiva è stata ampiamente superata dai vari processi interpretativi che hanno interessato lo sviluppo socioculturale della società, grazie ai quali si guarda, ancora oggi, all’aspetto strettamente patologico in un modo differente : la chirurgia estetica è una chirurgia anch’essa curativa, equiparabile, in tal senso, agli altri interventi di chirurgia plastica ricostruttiva–riparativa. Questa visione restrittiva, come già rilevavo altrove, è venuta progressivamente meno anche alla luce del nuovo concetto di salute, la quale ultima, stando alla definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità recepita dal nostro ordinamento, non è da intendersi come semplice assenza di malattia, bensì, come completo stato di benessere

. In dottrina l’operazione di chirurgia estetica è stata talvolta annoverata tra quegli interventi che, pur avendo natura medica, « non assumono finalità terapeutiche, ma riguardano piuttosto pratiche cosmetiche » (così A. B, op. cit., p. ). L’espressione chirurgia cosmetica veniva ripresa dalla dermatologia e già nel XIX secolo era per molti versi dispregiativa, tanto è vero che già il chirurgo tedesco Johann Friedrich Dieffenbach aveva ribadito la legittimità della propria chirurgia plastica ed estetica rispetto a quella della bellezza. . Vedi al riguardo Trib. Lyon,  giugno , in Gaz. Pal. , II. In questa decisione, i magistrati francesi furono chiamati a risolvere una controversia che, tenuto conto dell’epoca in cui fu contratta, presenta caratteri particolari e specifici. Un’anziana donna aveva stipulato un contratto col quale si impegnava, in cambio di soldi, a concedere la sperimentazione sul suo corpo di interventi chirurgici finalizzati esclusivamente al miglioramento del suo aspetto fisico. In particolare, recita la sentenza, si trattava di un « méthod [. . . ] tendant à effacer les rides du visage et du cou, et, plus spécialment, à dissimuler l’abaissement ou l’allongement des seins ». Tuttavia, il mancato raggiungimento dei risultati sperati, indusse la donna a ricredersi dell’opportunità di simili interventi, e a ricorrere alla giustizia per evitare il pagamento pattuito oltre che per pretendere un risarcimento dei danni per le sofferenze subite. Il collegio giudicante, senza alcuna esistazione, appurando l’inutilità degli interventi dal punto di vista della salute, li degradò a mere pratiques de vivisection sans utilité pour elle, dichiarando per tali motivi la nullità della convenzione stipulata per illiceità della causa, essendo quest’ultima contraria ai bones murs. . In questo senso si veda quanto affermato da F. P, Trattamenti sanitari, Chirurgia estetica e tutela della salute dell’uomo, Centro audiovisivi e stampa Università di Camerino, Camerino , p. .

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fisico e psichico della persona . In questo senso, risultano così consentiti, oggi, senza alcun dubbio, anche quegli interventi chirurgici che, in ossequio ad un più intimo desiderio di miglioramento estetico, siano rivolti a ottenere soltanto una modificazione del proprio aspetto esteriore ma siano capaci di incidere positivamente su di un disagio psichico dalla eliminazione del quale dipenda, per l’interessato, l’acquisto di una maggiore fiducia in sé e un miglioramento nel rapporto sociale con gli altri. Anche la giurisprudenza ha riconosciuto la necessità di operare su di un soggetto apparentemente sano, al fine di lenire le sofferenze fisiche e psicopatologiche legate al proprio aspetto ; e, sulla base della valutazione giuridico–sociale, anche l’etica ha genericamente superato i problemi d’accettazione d’una tale pratica chirurgica, recependo l’importanza dell’intervento in tutti quei casi in cui gli inestetismi che condizionano la vita sociale, affettiva e lavorativa siano in concreto suscettibili di una effettiva modificazione in positivo attraverso il ricorso alle tecniche della chirurgia estetica . Trovano così piena motivazione, anche in tale ambito, tutti quegli interventi per finalità estetiche che riescono a correggere il disagio psicologico sentito dai soggetti che non vivono favorevolmente la propria corporeità; se il trattamento di chirurgia estetica raggiunge questo difficile fine, riducendo o eliminando quel malessere che si . Sia consentito rimandare a N. P, Evoluzione del diritto alla salute e riconoscimento dell’autonomia del paziente tra tecnologia, spersonalizzazione e crisi valoriale, in “Dike kai nomos”, , pp.  e ss.; si veda anche, se si vuole, N. P, Il diritto alla salute e l’autodeterminazione del paziente tra guarigione effettiva e pericoloso sviluppo della tecnologia, in “Medicina e Morale”, , pp.  e ss. . Cass. Civ.  novembre , n. , in Foro it., , I, . . Una sorta di “precursore” dell’apparato ideologico e culturale che, in tal senso, giustifica oggi la chirurgia estetica, fu Jacques Joseph (chirurgo estetico tedesco): egli capì che la chirurgia estetica non era che una ramificazione della plastica ricostruttiva, fondante la propria opportunità su benessere mentale anziché sulla funzionalità; una certa specifica malformazione, nella sua ottica, per quanto non disabilitante, poteva essere causa di un’autentica infelicità nell’interessato, e questo era sufficiente a dare legittimità etica e professionale all’intervento. . Si potrebbe citare una decisione molto lontana nel tempo adottata dalla Corte di Appello di Lione il  maggio , ma molto moderna nel suoi contenuto, laddove si afferma che « certe anomalie fisiche che non alterano la salute possono avere gravi influenze sulla vita sociale e sullo stato mentale dei soggetti [. . . ] è giustificato un intervento chirurgico, anche se non del tutto esente da rischi, richiesto da un bisogno morale, lecito in quanto pone riapro ad una infermità dello spirito danneggiato quanto alla malattia fisica ».

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ripercuote negativamente in ambito comportamentale e sociale, l’opera del medico ha raggiunto il suo obiettivo, che rimane quello di migliorare lo stato di salute del proprio assistito. . Inflazione e pericolo delle richieste: la chirurgia estetica (inutile) baluardo di salvezza Purtroppo, però, l’utilità dell’intervento non è così scontata, oggi: infatti, nonostante essa sia stata socialmente accettata perché possiede valenza terapeutica, crea ancora degli evidenti problemi di accettazione, sul piano sociale. Come accennato sopra, la chirurgia estetica viene oggi utilizzata, sempre di più, col solo fine di diventare “più belli” e raggiungere il bello prescelto dai media. In altre parole, in una società come la nostra, si va incontro ad una sua inflazione di non poco conto e se ne fa un uso spropositato a prescindere da eventuali veri forti disagi psichici da eliminare tramite l’aggiustamento estetico. L’Italia è il settimo paese al mondo per numero di interventi di chirurgia plastica e di medicina estetica: a rilevarlo è un’indagine condotta dall’International Society of Aesthetic Plastic Surgery (ISAPS) . Perciò, laddove si voglia superare l’impasse iniziale, ritenendo plausibili gli interventi da un punto di vista sociale, perché diretti a risollevare una situazione psico–patologica individuale e soggettiva, gli interrogativi sorgono quando tale pratica non venga usata per eliminare uno status di bruttezza che provoca disagio, ma, al contrario, venga “sfruttata” per abbellirsi sempre di più nella prospettiva, meramente perfezionistica, del raggiungimento d’uno standard ben preciso che è stato proposto come unico. Essa, infatti, costituisce effetto, sfocio finale d’un ragionamento intimo che, condizionato dalla ossessionata ricerca della bellezza, fa da riflesso alla affannosa volontà di modificare il proprio corpo; si configura quale baluardo di salvezza per quanti vogliono e grazie al suo utilizzo “possono”, rappresentando il modo che ciascuno ha a . La top list mondiale della chirurgia plastica e della medicina estetica è guidata dagli Stati Uniti, dove nel  è stato eseguito il % degli interventi (pari a quasi  milioni di interventi). Seguono il Brasile (,%) e il Messico (,%). L’Italia si è posizionata in settima posizione grazie ai suoi . interventi, corrispondenti all’,% del totale.

Bioetica, bellezza e chirurgia estetica

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disposizione per vedersi pienamente soddisfatto. La chirurgia estetica diventa il mezzo migliore per quanti vogliano sostituirsi a madre natura per addivenire a quella sagoma corporea che li renda socialmente adeguati. In questo contesto, inoltre, essa non è più, esclusivamente, effetto finale d’un gioco di sogni, ma si tramuta, concretamente, in causa primaria del desiderio stesso. In quest’ottica, infatti, la tecnologizzazione della società porta all’esasperazione dei desideri; e la necessità della realizzazione spinge ad utilizzare appieno tale pratica chirurgica. La chirurgia, dal canto suo, preso atto di questa situazione, si fa portatrice di istanze del singolo e soddisfa il desiderio, concretizzandolo. E poi si specializza, si perfeziona e finisce per alimentarlo: essa incrementa le possibilità di risoluzione dei problemi e porta l’uomo a voler desiderare più di quello che avrebbe potuto volere, causando, inevitabilmente, l’esasperazione, ancora, del sogno. Tutto ciò, unito alla possibilità di disporre liberamente del proprio corpo, rappresentata dalla retorica mediatica proprio come esaltazione creativa della singolarità oltre ogni altra differenza, spinge l’uomo di oggi a credere possibile la scelta estetica della bellezza necessaria, senza alcun problema. Al chirurgo estetico si rivolgono donne e uomini, indistintamente, e il bisturi può essere definito bisex: dai dati elaborati ultimamente, risulta che è sempre maggiore la richiesta da parte del sesso maschile ed è raddoppiato il numero degli uomini che richiedono interventi di riduzione del grasso in punto vita, di scolpitura addominale, di blefaroplastica e depilazione definitiva. Si è diffusa l’idea dell’operazione di chirurgia estetica come il regalo gradito per la maggiore età, l’oggetto della lista nozze dei neo–sposi, il regalo natalizio migliore, l’operazione necessaria per trovare il lavoro dei propri sogni. Si pensi al caso dell’intervento di allungamento gambe, che consente a chi non abbia di base un’altezza rilevante, di entrare a far parte del mondo della moda senza problemi di fisicità limitativa. Atteso che la bellezza/perfezione è ormai un valore, l’uomo comune è spinto a modificarsi chirurgicamente per farla propria. Così, perdiamo la soggettività del gusto per scegliere l’oggettività del momento; ci omologhiamo, conformati e ci buttiamo a capofitto nella modifica dei nostri tratti essenziali. Scelto il modello, lo realizzo. Cambiato il modello, voglio realizzare quest’ultimo, pure, di nuovo. Allora,

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elimino il vecchio, mi ri–rifaccio e torno a vivere nuovamente. Il caso esemplificativo di questo processo di omologazione è quello del mutamento di etnia: se il modello di perfezione concreta è quello occidentale, chiunque provenga da ambiti geografici e razziali differenti si trova “costretto” a doversi perfezionare. Ed ecco che, allora, l’esigenza di migliorarsi esteticamente per superare i problemi psicologici cede il passo all’esigenza di modellarsi esteticamente per moda, e non per esigenza: sono esplicative la sollecitata riduzione di lunghezza delle dita dei piedi o l’inoculazione di collagene sotto la pianta del piede al fine di calzare meglio le scarpe a punta stretta e tacchi a spillo di ben dodici centimetri. Siamo schiavi della forma, più che della sostanza. Siamo schiavi d’un desiderio che ci rende sognanti e ci lascia comunque affamati, dopo averci sfamato in un primo momento della sua — apparente — realizzazione. Emblematico ed esemplificativo, a questo proposito, è il caso di Charlotte, la giovane ragazza di  anni che è assurta agli onori della cronaca inglese per essersi fatta operare esclusivamente per assomigliare alla bambola Barbie. Il tutto, fra l’altro, a prezzi esorbitanti: mila sterline (quasi mila euro) per avere le fattezze di un giocattolo. Siamo supportati, in tutto ciò, dalla stessa tv, la quale è arrivata addirittura a spettacolarizzare tale chirurgia, volgarizzandola ed effettuando varie operazioni in bella vista, suscitando le critiche più feroci da parte dell’etica e della deontologia. Trasmissioni ad hoc e serie televisive insistono proprio su questo punto: l’intervento è svelato nei minimi dettagli, l’operazione è mostrata in tutta la sua crudezza, anche se per pochi secondi . Si organizzano, poi, concorsi di bellezza per . Negli Stati Uniti, il programma televisivo Extreme makeover ha suscitato molte polemiche e incrementato tante richieste a proposito di interventi correttivi. In Italia, l’esempio lampante è il programma televisivo Bisturi, nel mirino del Codacons per il fatto d’aver proposto, in una delle sue puntate, un’operazione di chirurgia estetica di un transessuale (situazione criticata anche dal Presidente dell’Osservatorio sui diritti dei minori, vista la fascia protetta oraria durante la quale il programma andava in onda). Secondo una ricerca–studio effettuata dalla Villanova University in Pennsylvania, gli adolescenti appassionati di reality show (e, in particolare, di quelli sulla chirurgia plastica ed estetica) scelgono la chirurgia estetica (o, comunque, sono i più propensi a sceglierla). Due psicologi dell’università statunitense hanno seguito  giovani spettatori, con un’età media di  anni, e analizzato le loro reazioni di fronte ai reality. Così, hanno accertato che coloro che guardano trasmissioni televisive di questo tipo desiderano di più la chirurgia estetica per se stessi, rispetto a coloro che non li guardano. Inoltre, le ragazze sono più inclini a prendere in considerazione un intervento dopo questi show, definendoli addirittura « ispiratori »,

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rifatte, in occasione dei quali si premia, tra le tante donne concorrenti, quella maggiormente (anche se non meglio) rifatta. Questa spasmodica ricerca del bello mina anche la crescita ed i desideri dei minorenni, i quali risultano essere sempre più assuefatti e affascinati da tale processo di modifica estrema: aumentano sempre di più, infatti, le richieste degli adolescenti sotto i diciotto anni. Rinoplastica, mastoplastica additiva, liposuzione: le richieste sono davvero le più svariate. Questa necessità di migliorarsi per “star meglio al mondo”, considerata davvero come indispensabile, porta addirittura qualcuno a chiedersi se sia giusto che la chirurgia estetica, in quanto non finanziata dallo Stato e difficilmente eseguibile da chi non vanti una condizione economica agiata, perché costosa, resti appannaggio della classe sociale benestante, oppure no. L’antropologo inglese Alexander Edmonds ha auspicato la nascita del cd. “diritto alla bellezza”, di quel diritto nuovo, cioè, che, nella sua prospettiva, dovrebbe oggi trovare accoglimento espresso nei nostri ordinamenti giuridici : attestato che la società odierna vive d’estetica e che l’aspetto esteriormente gradevole aiuta nelle relazioni, oltre che nell’ascesa sociale, cosa succede al singolo paziente brutto quando, non potendo esso economicamente accostarsi alla chirurgia estetica perché troppo cara, sia costretto a vivere con la propria condizione estetica? Per Edmonds, in questi casi, è necessario che lo Stato, fattosi carico del disagio del singolo, lo aiuti nell’esplicazione effettiva del proprio desiderio e lo sostenga —tramite sussidi economici — nella esecuzione del trattamento chirurgico. « For the poor, beauty is often a form of capital that can be exchanged for other benefits, however small, transient, or unconducive to collective change »; la bellezza, definita come capitale erotico , è caconvinte che un intervento chirurgico possa aiutare a « realizzare i propri sogni quando si è infelici ». . Cfr., A. E, A ’necessary vanity’, in “The New York Times”, , p. ; I., The poor have the right to be beautiful, in “The journal of the royal anthropological institute”, , pp.  e ss.; I., Pretty Modern: Beauty, Sex, and Plastic Surgery in Brazil, Duke University Press, USA, . . Così lo definisce Catherine Hakim, descrivendo la bellezza come quel capitale capace di stimolare negli altri la sensazione di bello, di piacere, di soddisfacimento sessuale

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pace di assicurare, in capo a chi la possiede, l’accumulo di altro futuro capitale — stavolta concretamente materiale —. In altri termini, il bello può ambire ad un guadagno maggiore nel corso della sua esistenza, facendo leva su quello di cui è naturalmente dotato. Il capitale erotico, in quest’ottica, diventa equiparabile a quello dell’istruzione; e così come è giusto che chiunque, se privo di mezzi, abbia la possibilità di studiare per accumulare il secondo, così è giusto pure si vada ragionando allo stesso modo, in termini di sussidio/necessità, in relazione a questo argomento. « Is beauty a right, which », domanda Edmonds, « like education or health care, could be realized with the help of public institutions and expertise? ». Non credo ci sia molto da aggiungere, a proposito della pericolosità di una simile asserzione. . I problemi bioetici e l’intervento del CNB Questo aumento di richieste di interventi di chirurgia estetica superficiale stimola e rende necessaria la discussione bioetica sui limiti della legittimità di detta richiesta. In questo contesto, si pone il problema correlato alla banalizzazione della tecnica chirurgica e alla sua ingiustificata inflazione, il problema del suo uso definibile come spasmodico e sconsiderato perché non necessariamente correlato ad esigenze di miglioramento salutare, ma dipendente da desideri effimeri di mero innalzamento sociale. In primo luogo, tutto ciò è il risultato di quel nuovo rapporto paziente–sanitario che, oggi, viene riconosciuto : l’individuo, divenuto vero e proprio rex del suo corpo, si è nel tempo reso così indipendente da arrivare quasi a pretendere, dalla medicina, la realizzazione piena dei propri desideri, supportato, in ciò, dall’enorme progresso tecnologico che lo spinge sempre più a desiderare. (Cfr., C. H, Erotic Capital. The Power of Attraction in the Boardroom and the Bedroom, Basic Books, New York ). . U. N, Il consenso al trattamento medico, Giuffrè, Milano ; A. S (a cura), Il consenso informato tra giustificazione per il medico e diritto del paziente, Giuffrè, Milano ; C. C, Profili della responsabilità medica in A. V. Studi in onore di Pietro Rescigno. Giuffrè, Milano : ; G. R, Autonomia privata e diritti della personalità, Jovene, Napoli, ; R. P, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Giuffrè, Milano, .

Bioetica, bellezza e chirurgia estetica



Siamo di fronte alla cd. medicina dei desideri, la medicina dei « nuovi progetti sociali » , la medicina che, cioè, ci aiuta a diventare quelli che vorremmo essere grazie ad un nuovo corpo, e ad una « nuova capacità emotiva » . Modificare il corpo, oggi, non rappresenta più un’eccezione alla regola dell’intangibilità, ma, anzi, appartiene alla ordinarietà della vita. Il medico, in questo senso, non è più un “mero” guaritore, bensì, come mi piace definirlo, un artista del corpo , un magico artefice dei sogni di onnipotenza dei pazienti desiderosi . In questo contesto, particolarmente pericolosi si fanno i rapporti tra persona che desidera e corpo umano sul quale essa agisce : si assiste, infatti, alla nascita e allo sviluppo di « ambizioni al limite del bizzarro, di illusioni di onnipotenza, e di sogni di immortalità » . L’interessato riduce il proprio corpo a mera merce di scambio , un oggetto che può essere suddiviso, sezionato, scoperto, rimescolato, nell’ottica di una inconcepibile mercificazione . Si configura una so. Cfr. G. L, E. Z, Da parte della vita. Itinerari di bioetica, Effetà Editrice, Torino, , p. . . Cfr. G. R. Bioetica. Manuale per teologi, LAS, Roma , p. . . Cfr., H. J, Tecnica medicina ed etica, trad. it., Einaudi, Torino , p. : « se abbiamo detto che la regola per determinare le finalità dell’arte medica è la natura, ora bisogna aggiungere che oggi anche fini che vanno al di là di tale regola, persino quelli che gli vanno contro, reclamano per sé l’arte medica, e alcuni medici sono de facto al loro servizio. Va al di là della regola di natura, per lo meno prescindendo da essa, la chirurgia plastica, ad esempio, per abbellire o nascondere i segni della vecchiaia ». . Sul rapporto medico–paziente, P. M, Rapporto terapeutico in occidente: profili storici, in L. L, E. P F, P. Z (a cura di), I diritti in medicina, in S. R, P. Z (diretto da), Trattato di Biodiritto, cit.; C. C, F. D, Il rapporto terapeutico nell’orizzonte del diritto, in L. L, E. P F, P. Z (a cura), cit., pp.  e ss. . P. Z, Il corpo e la nebulosa dell’appartenenza, in “Nuova giur. civ. comm.”, , pp.  e ss. . L. T F, La bioetica fra agire etico e agire tecnico, in L. Tundo Ferente, Etica della vita: le nuove frontiere, Bari, Dedalo, , pp.  e ss. . Cfr. A. M (a cura di). Corpo e modernità, Edizioni Unicopli, Milano, , pp. –. . Cfr., P. B. H, La valorizzazione. . . , p. . L’a. scrive che, in quest’ottica, siamo di fronte ad una vera e propria mercificazione del corpo, con l’aggravante che la « sovrapproduzione e conservazione di materiale biologico, ha determinato l’allarmante fenomeno del biomercato o “supermercato dei corpi” ». Cfr. anche G. B, Bioetica quotidiana, Giunti Editore, Firenze , p. , in cui l’A.. precisa che in quest’ottica, pure le stesse malattie diventano fonti di profitto.

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cietà frammentata, che si congeda da qualsiasi valore ed è insofferente a qualsiasi limite. La tensione costante a concepirsi così per come si è visti dall’esterno implica, essa stessa, una dissociazione a livello profondo dell’essere umano dal proprio corpo. Il raggiungimento ossessivo della bellezza, però, non può giustificare un atto medico; ed ecco che, allora, di fronte a questo processo di omologazione, inflazione e finto rimedio psico– salutare, l’etica interviene e torna in campo combattiva, auspicando una riflessione accurata, completa, cauta. Sempre più pericolosa, poi, si mostra la questione quando si arriva addirittura a predicare l’inserzione di nuovi eventuali diritti correlati alla bellezza . Già l’espressione diritto alla bellezza, in realtà, distoglie dai veri diritti primari che sono in pericolo, manipolando lo stesso concetto di diritto, evoluzione del dovere, frutto della dittatura dell’apparenza. Come potrebbe scegliersi il soggetto bisognoso d’intervento? Su quali basi, dunque, andrebbe operata la scrematura di inizio, se non su quelle erronee della soggettività del singolo? Come potremmo capire chi sia davvero oggettivamente destinato ad usufruire d’un tale sussidio, e chi no? In altri termini, arriveremmo a sussidiare qualsiasi tipo di intervento voluto da chi sia economicamente svantaggiato, senza poter opinare la necessità d’abbellimento. Ma, garantire la bellezza a tutti significherebbe aumentare a dismisura la spesa sanitaria. Da un punto di vista politico–economico, inoltre, risulterebbe assai difficile capire, da una parte, come poter giustificare questa scelta di tassazione agli occhi del resto dei contribuenti, già sfiancati, in una condizione odierna, da situazioni di estreme difficoltà economiche; dall’altra, come controbilanciare l’interesse di tal genere con altri vari diritti — forse ben più preminenti — ancora oggi spesse volte rimasti inattuati, dunque non salvaguardati, nell’ottica dello Stato sociale. Il “diritto alla bellezza” non significa nulla. I diritti sono “a somma zero”, cioè per ogni concessione di tutela di un diritto qualcun altro diritto ci rimette altrettanto, Quindi, è giusto far pesare economicamente il riconoscimento di tale diritto su potenziali “controinteressati”? . Cfr., sul punto, M. F, Designer Vagina, immaginari dell’indecenza o ritorno all’età dell’innocenza. Genesis, numero monografico Plastiche, X (): –, p. ; I., Noi protagoniste, voi vittime e carnefici. . . o dell’uso strumentale del corpo delle altre, in A. S (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo–liberismo, Mimesis, Milano , pp.  e ss.

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Altro problema da tenere in debito conto, poi, è quello relativo ai minori: qui, più che in altri casi, si viene a concretizzare il pericolo di inutile e ingiusta manomissione del corpo, oltre che quello della pericolosa e irrisolvibile crisi dell’identità. Si attesta, infatti, la generale immaturità del tutelato. Quindi, la sua incapacità di scegliere giustamente in un periodo di vita ancora in fase di formazione piena. Nell’ambito della chirurgia estetica, in altre parole, l’opinione del minore non dovrebbe rivestire una importanza particolare: difficilmente essa potrà essere presa in considerazione come utile e determinante, ai fini dell’esplicazione finale. L’adolescente potrebbe ben essere influenzato dalle mode del momento. Il problema, inoltre, non si risolve neppure considerando l’intervento del genitore rappresentante: rimettere a quest’ultimo la scelta iniziale di richiesta e quella finale di effettivo intervento, comporta delle difficoltà applicative; innanzitutto, posta l’importanza del consenso dell’avente diritto e riconosciutane la sua esclusività in tema di giustificazione dell’atto medico (soprattutto quando non necessitato), si ritiene che sia assai inopportuno rimettere ad un soggetto estraneo la scelta dell’intervento. Nel caso degli altri tipi di chirurgia classica ordinaria, il problema viene facilmente superato perché il soggetto genitore agisce con lo scopo di migliorare la condizione salutare del paziente minore. Nell’ambito della chirurgia estetica, invece, egli non si sostituisce al minore soltanto nella fase della scelta della miglior terapia ; ma, anzi, si sostituisce a lui proprio nella esplicazione del disagio, posto che sceglie al suo posto, al fine di intervenire per attualizzare una guarigione effettiva dal disturbo psichico. In altre parole, il paziente non sceglie dopo che chi di competenza abbia eventualmente scientificamente riconosciuto la necessità dell’intervento, ma agisce in autonomia richiedendo una vera e propria “modificazione” del corpo altrui. Nel caso della chirurgia plastica estetica, il disagio da combattere è di tipo prettamente psicologico; e, dunque, appartenente al soggetto specifico che da tale disagio rima. È discusso, in dottrina, se i genitori agiscano come rappresentanti in sostituzione del minore o per il minore, o, addirittura, in proprio, in virtù del loro potere educativo. In realtà, soprattutto nell’ambito della chirurgia generale, la discussione a poco vale: quando il genitore agisce per conto del minore, deve farlo nel suo interesse, dunque il problema rimane come non posto, perché inesistente.

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ne afflitto. Quindi, è molto improbabile che qualcuno non afferente al campo della medicina psichica riesca a rilevarlo e a interpretarlo giudicandolo guaribile con un intervento di tal tipo. In questi casi, quindi, mi chiedo quanto davvero possa essere valido il consenso d’un genitore se, a prescindere dalla richiesta d’un proprio figlio, egli decida di sostituirsi a lui nel momento decisorio e auspichi l’intervento senza che tale richiesta sia supportata da mediche prospettive salutari migliori. Dopotutto, anche ammesso il tutore, nella prospettiva del superamento d’una tale riduttiva visione, vada seguendo la volontà del minore si erga a sostenitore d’un interesse esplicitato come fondamentale da parte dell’interessato diretto, nel momento dell’acconsentire all’atto di modifica potrebbe ben commettere l’errore di cui sopra: quello, cioè, di affidare le proprie valutazioni alla volubilità d’un soggetto in via di sviluppo, le cui idee potrebbero assolutamente cambiare dall’oggi al domani e la cui esigenza d’intervento potrebbe non essere in alcun modo correlata ad effettivi bisogni terapeutici di guarigione. Il problema è che difficilmente, in questo senso, la persona esterna alla psicologia del direttamente coinvolto può effettuare valutazioni differenziando la mera richiesta dettata dalla moda, dalla contrapposta eventuale richiesta dettata da una fondamentale necessità: in altri termini, il genitore potrebbe atteggiarsi a longa manus d’un soggetto capriccioso che, per moda ovvero per stile, voglia, desidèri, auspica un miglioramento ed una somiglianza ma non necessita davvero di effettiva cura chirurgica. Egli, allora, in quest’ottica problematica, per evitare le questioni di cui sopra, dovrebbe: a) sempre dissentire rispetto alla richiesta del paziente minore; b) evitare di richiedere e pretendere, in autonomia, interventi di modificazione sul corpo del minore, non potendo con certezza carpire la necessità dell’intervento e la sua effettiva positiva incidenza (anche nella prospettiva del lungo periodo) sulla vita quotidiana dell’incapace. Eppure, vi sono delle situazioni in cui la modificazione dei tratti ben potrebbe sul serio servire ad incidere positivamente sulla psicologia del malato. E che, quindi, risulterebbero essere svilite e mortificate da un simile atteggiamento di reticenza. Il governo italiano, invero, preso atto della problematica ha deciso di proibire la mastoplastica additiva a tutte le minorenni interessate, con

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ciò mostrando come sia davvero irrilevante, dinanzi alla proliferazione ingiustificata di richieste voluttuarie, il consenso d’un rappresentante eventualmente d’accordo col tutelato; ma, evidentemente, questo non basta: sono ancora molto frequenti i casi di rinoplastica, ovvero di rifacimento glutei e iniezioni di botulino. La problematica si acuisce nel momento in cui si consideri la questione dei bimbi minori down, i cui genitori sono spesso portati a richiedere l’intervento di chirurgia estetica per operare una normalizzazione dei tratti del proprio figlio nell’ottica d’una standardizzazione etnica generale: per questa disabilità, si amplifica il problema dell’ottenimento di un valido consenso e dei limiti già sopra enunciati nei riguardi del minore, posto che la decisione di intraprendere la via della chirurgia estetica si basa non sulla volontà del minore o dell’incapace con sindrome di Down, bensì, solo su quella dei suoi genitori. A fronte di tali difficoltà, non è strano, quindi, che, recentemente, il CNB abbia avvertito la necessità di intervenire, sul tema; e lo ha fatto rilasciando un parere, con cui ha cercato di porre l’attenzione sulla pericolosità della pratica chirurgico–estetica quando meramente superficiale . Nella prima parte del documento, il CNB riflette proprio sui limiti della legittimità di richieste di chirurgia estetica in specie nel rapporto che intercorre tra il paziente e il medico, “nel contesto della discussione sui molteplici fattori etici, sociali e culturali che influiscono sulla mutazione di atteggiamento nei confron. Il tema è stato proposto dal Prof. Umani Ronchi durante la plenaria del  gennaio . Il Parere è stato redatto dai Proff. Lorenzo d’Avack, Laura Palazzani e Giancarlo Umani Ronchi, con contributi scritti dei Proff. Salvatore Amato, Antonio Da Re, Riccardo Di Segni, Marianna Gensabella, Assunta Morresi, Demetrio Neri, Andrea Nicolussi, Monica Toraldo di Francia. Nell’ambito della stesura del Parere sono stati offerti apporti preziosi dalle audizioni in sede plenaria del Prof. Nicolò Scuderi (Direttore della Cattedra di Chirurgia Plastica dell’Università La Sapienza di Roma), della Dott.ssa Francesca Romana Grippaudo (Chirurgo plastico dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma) e della Dott. Anna Contardi (Coordinatrice nazionale Associazione Italiana Persone Down) nell’ambito della chirurgia estetica e del Prof. Giorgio Iannetti (Ordinario di Chirurgia maxillo–facciale presso l’Università di Roma, “La Sapienza”) e del Prof. Marco Lanzetta (Direttore dell’Istituto Italiano di chirurgia della mano) nell’ambito della chirurgia ricostruttiva. Il Parere è stato votato nella seduta plenaria del  giugno  e pubblicato il  luglio . Hanno espresso voto favorevole i Proff. S. Amato, L. Battaglia, F. D’Agostino, A. Da Re, L. d’Avack, E. Fattorini, A. Gensabella, A. Morresi, D. Neri, A. Nicolussi, L. Palazzani, V. Possenti, G. Umani Ronchi. Ha espresso voto contrario la Prof.ssa Claudia Mancina. Assenti alla plenaria, hanno espresso voto favorevole i Proff. A. Bompiani, S. Canestrari, B. Dallapiccola, R. Di Segni, M.L. Di Pietro, R. Proietti, L. Scaraffia, M. Toraldo di Francia.

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ti del corpo e di una dilatazione del concetto di salute in senso soggettivo”. Il CNB richiama i criteri deontologici che regolano la prassi medica, a volte trascurati — in questo ambito specifico — a favore di una accondiscendente esecuzione della richiesta espressa dagli individui, sottolineando la inaccettabilità di interventi sproporzionati, in quanto eccessivamente invasivi o inutilmente rischiosi e inadeguati rispetto ai possibili benefici richiesti dal paziente. Il Comitato, infatti, ritiene che la liceità dell’intervento debba essere subordinata al bilanciamento dei rischi e benefici, commisurato alle condizioni psico–fisiche del paziente, alla funzionalità degli organi interessati e ad una completa informativa al paziente, con una adeguata consulenza anche psicologica. Il parere sollecita ad una adeguata informazione e formazione sociale sui rischi e benefici degli interventi estetici e auspica un maggiore rigore nella formazione e professionalità del chirurgo estetico, mirata anche alla comprensione degli aspetti psicologici ed etici connessi alla specifica attività medica . Per quanto riguarda gli interventi sui minori e incapaci, esso ritiene che vi debbano essere limiti alla liceità, a meno che tali interventi non rispondano al loro esclusivo interesse oggettivo sotto il profilo della . Nella seconda parte del documento si affrontano, poi, i problemi bioetici emergenti nella chirurgia ricostruttiva. Il CNB — con particolare riferimento al trapianto del viso e di arti — raccomanda, data la loro sperimentalità e la non necessità per la sopravvivenza, una attenta valutazione dei rischi e dei benefici, rapportabili ad una considerazione generale del miglioramento della qualità della vita del paziente. È ritenuta altresì necessaria una adeguata consulenza anticipata rispetto all’intervento e prolungata nel tempo (anche allargata alla famiglia), a causa delle complesse problematiche che coinvolgono rischi e benefici, accompagnata da un costante monitoraggio psicologico del ricevente. Il paziente deve essere informato accuratamente ed esaustivamente dei rischi e della gravosità delle terapie antirigetto per la sua salute e del fatto che in ogni caso si determinerà una situazione di dipendenza da questi farmaci (con possibili esiti negativi) che potrebbe durare anche tutta la vita. È auspicabile che la realizzazione di un adeguato consenso informato possa anche avvalersi delle nuove tecnologie informatiche, favorendo la raccolta d’informazioni e conoscenze attraverso l’accesso a siti accreditati da istituzioni pubbliche competenti, nonché ai registri nazionali e internazionali dove siano stati pubblicati gli studi più recenti nel settore e dove siano reperibili pubblicazioni scientifiche generate dallo studio. Sono inoltre raccomandate campagne di sensibilizzazione per la donazione degli organi esterni e dei tessuti, così come in genere avviene per la donazione di quelli interni. Si auspica anche, in questo contesto, la possibilità di una integrazione normativa che preveda il consenso o dissenso “parziale” alla donazione degli organi esterni.

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salute, tenuto in particolare conto dell’età adolescenziale. In modo particolare, il CNB non ritiene lecita la chirurgia estetica proprio su bambini con sindrome di Down, finalizzata alla conformazione a canoni sociali di “normalità”, specie se presenta un carattere invasivo e doloroso, considerato anche che con questi interventi difficilmente si realizza un beneficio per la persona e sia frequente la possibilità di accentuare, anziché diminuire, il suo disagio personale. Il CNB, pur nel rilevare che nel dibattito bioetico attuale si tende a mettere in discussione la nettezza della distinzione tra “sano/normale” e “patologico/anormale” e ad accogliere la compresenza, nell’ambito della salute, di dimensioni soggettive ed oggettive, intende mettere in evidenza, relativamente alla chirurgia estetica, i rischi di una relativizzazione e soggettivizzazione eccessive della nozione di salute. In questo ambito, esso afferma, non è possibile definire a priori in modo specifico, esaustivo e definitivo i limiti di liceità degli interventi delineando in modo rigido la distinzione tra sfere di accettabilità ed inaccettabilità: vanno tuttavia richiamati gli obblighi deontologici che regolano la prassi medica, a volte obliterati — in questo ambito specifico — a favore di una accondiscendente esecuzione della richiesta avanzata dagli individui. E, pertanto, il CNB ritiene che in via casistica sia il paziente che il medico debbano rispettare criteri di proporzionalità e accuratezza (accertamento delle condizioni fisiche e psichiche del paziente, informative esaustive, consenso informato, valutazione rischi/benefici–aspettative). È attraverso questi criteri che è possibile giustificare la liceità della richiesta. Inoltre, il Comitato affronta il problema della scarsa qualità degli interventi, sottolineando che, in questo ambito, il rischio del paziente di finire in mani poco esperte o “nella bottega di un “mercante di interventi” o di trasformarsi da paziente” a mero cliente sono realtà sempre più attuali e preoccupanti”. Preoccupa, inoltre, il fatto che in Italia le persone che lavorano nel business del “ritocco” si calcolano in un numero ben maggiore degli iscritti alla Società, con il possibile rischio di molti professionisti “improvvisati”. Il CNB ritiene, alla fine, che la liceità dell’intervento sia subordinata ad alcune condizioni e priorità, come di seguito indicate: il bilanciamento dei rischi e benefici deve essere commisurato alle condizioni psico–fisiche del paziente, con riferimento anche alla percezione che il paziente ha del proprio corpo e dei risultati che si attende dall’inter-

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vento; la funzionalità degli organi interessati deve avere la priorità sul risultato estetico; la informativa al paziente deve essere completa, con una adeguata consulenza anche psicologica, con riferimento chiaro ed esaustivo alle complicanze psico–fisiche, ai limiti di realizzabilità dell’intervento e all’eventualità che le sue aspettative non siano soddisfatte del tutto.

. I Problemi giuridici: cenni I problemi sollevati dalla banalizzazione della chirurgia estetica non riguardano solo la bioetica, in realtà. Bensì, a mio parere, involgono anche il diritto. In questa sede, si accennerà soltanto a tale aspetto, al fine di proporre in modo sommario qualche riflessione. Per gli approfondimenti del caso, si rimanda ad altri scritti sul tema. Anzitutto, come su rilevato, la giurisprudenza e la dottrina hanno via via giustificato e accettato giuridicamente gli interventi di chirurgia estetica sulla base della loro riconosciuta utilità terapeutica. In questo modo, hanno anche rilevato la non applicabilità dell’art.  c.c. ai casi de quibus, il quale ultimo, come noto, limita la libertà dispositiva del singolo, specificando che gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Se, infatti, l’intervento di plastica correttiva vale a tutelare la propria salute — psichica —, l’atto dispositivo, anche se in astratto menomativo dell’integrità fisica e via dicendo, sarà giustificato dalla valenza e dalla finalità curativa insite nell’operazione stessa. Se la psicologia intaccata dal disagio non fosse rilevante ai fini della manomissione del proprio corpo, allora verrebbe meno la nuova interpretazione dell’articolo ; è stata ormai pacificamente riconosciuta, infatti, la impossibile applicazione dell’articolo  c.c. ai casi in cui il soggetto stia disponendo del proprio essere per fini classicamente salutari: si pensi al caso del cd. piede diabetico, dove il soggetto decide di amputare l’arto per evitare il peggioramento della propria condizione. Non sarebbe accettabile, perciò, ritenere invece operante tale limitazione nel

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caso in cui il paziente stia disponendo della propria fisicità per guarire, tramite l’estetica, da psico–patologie. Se è vero che l’articolo non limita il diritto alla salute, si può dire che esso trova concreta applicazione, però nei casi in cui la richiesta di azione non sia supportata da intenti di guarigione, bensì, miri solo al raggiungimento del proprio superfluo desiderio. In questo senso, la manipolazione del corpo crea degli evidenti problemi di coordinamento tra legittimità della richiesta e divieto di manomissione del corpo ex art.  c.c. Allora, in questi termini, la chirurgia estetica banalizzata è giuridicamente legittima? Di fatto necessita di un intervento del legislatore che sia atto a porre un freno a questa inflazione di pericolose modifiche ingiustificate: si pensi al caso d’un intervento non necessitato al seno, di mastoplastica additiva; la mancanza di terapeuticità, ben potrebbe rendere ingiustificata la cattiva riuscita dall’intervento da cui sia derivato il problema della lattazione; non potrebbe quindi questo essere definito come manomissione del corpo, forse? Dunque, disposizione contraria alla libertà dispositiva? Si veda pure il caso dell’imenoplastica, da cui derivi un problema all’apparato riproduttore: se è vero, infatti, che dominus membro rum suorum nemo videtur, allora, non è strano pensare ad una limitazione effettiva di tali superficiali interventi inutili. Trattasi, infatti, di manomissione del corpo. Di modifica, alterazione e inutile trasformazione. Allora, fino a che punto è lecito ricercare un miglioramento estetico del proprio corpo? Bisognerebbe cercare di capire dove sussiste l’esigenza salutare d’intervento e dove, invece, la tecnica risulti essere inutile/inapplicabile o perché non necessaria (l’atteggiamento di modifica è semplicemente dovuto al desiderio di vanità) o perché non medicalmente utile. In questo contesto, il confine tra i casi di legittimità/opportunità e inutilità dell’intervento dipende da una adeguata verifica della componente psichica del caso: in presenza di assenti valide motivazioni, il medico ha il dovere di astenersi dal praticare interventi inutili o, quantomeno, apparentemente non necessari. Spesso, però, il chirurgo plastico–estetico non sa bene se il motivo è di ordine medico o prettamente cosmetico: sono i chirurghi stessi ad affermare questa difficoltà. Dunque, si dovrebbe cercare di intervenire, a livello legislativo, per porre un freno a questa condizione di pericolo che mette in crisi etica e diritto, al contempo.

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