Breviora Etymologica

July 14, 2017 | Autor: Franco Crevatin | Categoria: Etymology, Romance Linguistics, Ancient Greek Language, Dialetti italiani
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Breviora etymologica Franco Crevatin Università di Trieste

Abstract. Alcune proposte etimologiche: 1. Una parola istriana per ‘incubo’ 2. I nomi delle porte medievali di Capodistria 3. La parola epica greca oureus ‘sentinella’ 4. pitta ‘un tipo di pane’.

1. Istriano (Buie d’Istria) gata mora ‘incubo’ L’incubo è immaginato come un gatto di colore nero che si pone sul petto del dormiente e che con il suo peso gli causa difficoltà respiratorie e senso di oppressione. L’idea non pare diffusa, stando alla carta 812 dell’Atlante ItaloSvizzero (AIS; Jaberg, Jud 1928-1940): tuttavia è giustificabile facilmente, perché nel Medioevo il diavolo e le forze del male erano spesso associate a questo incolpevole animale. Non è necessario soffermarsi su gatta indifferente al sesso, essendo la voce nota, anche se solo in sintagmi fissi e proverbi, nei dialetti istriani e più in generale nei dialetti italiani, ma moro non è aggettivo denotante il colore scuro, bensì la reinterpretazione del prestito del (dialettale) croato mòra ‘incubo’, voce che ha una vasta diffusione balcanica (ad es. albanese morë, neogreco μώρα); sempre in Istria (S. Lorenzo del Pasenatico) è infatti attestato mora nel senso di ‘incubo, folletto’. La parola slava ha lo stesso etimo dell’alto tedesco mara (femminile) ‘incubo’, passato in molti dialetti dell’Italia nord-orientale nella forma (s)mara ‘incubo; svogliatezza, senso di oppressione’. In conclusione, l’espressione è un sintagma tautologico con un contenuto culturale (tardo)medievale.1

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La bibliografia sul tema è enorme e rinvio per tutti a Klaniczay, Pócs (2006).

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2. Porte medievali di Capodistria Capodistria aveva nel tardo medioevo dodici porte, che in parte dovevano coincidere con quelle più antiche (Naldini 1700), e i cui nomi sono trasparenti (porta Maggiore, della Muda, Isolana, ecc.). Una si distingue per la non immediata trasparenza etimologica e per quanto essa ci documenta della storia più antica della cittadina, ossia porta Zubenaga. La formazione in -ācus è alquanto rara in Istria ed è attestata anche nel nome di una delle porte alto medievali di Pola,2 Stevagnaga: quest’ultimo deriva da un nome proprio Stephanius, non infrequente in epoca tardo romana (v. ad es. Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) 13, 7352; 10, 7089 ecc.), ed è ragionevole collegare la dimensione cronologica del tipo onomastico con l’accresciuta importanza della città in epoca tardo antica (Novak 2007). Il toponimo Zubenaga è altresì tardo antico e presuppone l’antroponimo Iovinus,3 nome attestato nel IV-V sec. (v. Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft (PWRE) s.v.) e si salda con la fondazione stessa di Capodistria: la cittadina infatti venne costruita su un isolotto roccioso in epoca tardo antica in posizione facilmente difendibile (Crevatin 2011: 150-151), concentrandovi gli abitanti degli insediamenti vicini più antichi. Di questi ultimi, in parte almeno presso il monte Sermino (toponimo preromano), restano alcune tracce linguistiche nei toponimi Porton (presso il Sermino, a Bossamarin e nella zona del monte S. Marco) che rinvengono, come il ponte Porton (o porta Porton sulla valle del Quieto tra Grisignana e Visinada), al lat. portōrium, la stazione del pagamento doganale ai margini del territorio di un agro municipale, nel caso in questione quello più antico di Trieste/Tergeste; si ricorderà che in epoca pre-augustea il confine dell’Italia romana era al Risano. Di origine verosimilmente diversa è il nome della porta (e del rispettivo rione) di Bossardaga/Bossedraga, che bisogna probabilmente derivare da *(fa)vasiraga < faba syriāca (Romanisches Etymologisches Wörterbuch (REW) 8502); derivati italiani in Penzig (1924: 103), il nome del bagolaro (Celtis australis), come mi proponeva anni fa Doria; il toponimo è attestato infatti anche ad Umago nella forma Mussadraga.

Ricordo che il nome porta Rata, anticamente Caracta, rifatto in maniera dotta in Aurata, viene da cataracta, designazione dovuta al tipo di chiusura a saliscendi (Crevatin 1973-1974: 51). 3 Meno verosimile foneticamente sarebbe un etimo Iovianus. 2

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3. Una nota micenea ad Aristotele Aristotele nella Poetica propone un’interpretazione particolare del passo omerico A 50 (1461a, 10). Apollo scende irato dall’Olimpo per l’offesa rivolta da Agamennone a Crise, suo sacerdote; il dio ha con sé l’arco e le frecce mortifere e si appresta ad operare una strage nel campo acheo: prima di colpire i soldati, οὐρῆας μὲν πρῶτον ἐπῴχετο καὶ κύνας ἀργούς ‘colpiva i muli e i cani veloci’. Così interpretava la vulgata, un’esegesi rimasta favorita sino ad oggi, mentre Aristotele preferiva riconoscere in οὐρῆας l’accusativo della parola rara (o obsoleta: γλῶττα) οὐρεύς ‘guardia, sentinella’. Evidentemente lo Stagirita pensava fosse ragionevole che il dio avesse colpito per primi i guardiani, uomini e animali, del campo greco: effettivamente l’erudizione antica (e si vedano gli Scholia Vetera ad Il. [ed. Erbse] ed Eustazio ad locum), pur non accogliendo l’esegesi di Aristotele, si è sempre trovata in imbarazzo nel giustificare l’uccisione di muli e cani: i moderni (Latacz 2002: 45; Kirk 1985: 58) hanno rilevato, a sostegno dell’interpretazione tradizionale, che spesso gli animali sono tra le prime vittime dell’epidemia. In effetti οὐρεύς nel senso di ‘guardia’ ricompare in K 84, verso atetizzato per ragioni poco chiare da Aristarco, ed è possibile che l’esegesi antica sia stata messa in imbarazzo dalla rarità della parola, il che la metteva ai margini o addirittura al di fuori della dizione epica; ma a favore di Aristotele milita un fatto sino a pochi anni fa ignoto, ossia l’indiscutibile antichità della formazione: nel greco miceneo (Wachter 2009: 227) è infatti attestato l’antroponimo wo-we-u Ϝορϝεύς < wo-wo ϝόρϝος ‘confine’. Se dunque l’interpretazione di Aristotele è criticabile, non lo è certo per ragioni linguistiche, perché οὐρεύς poteva essere a buon diritto parola del lessico epico. 4. ‘Pitta’ e questioni connesse La strada dell’etimologia è segnata da sconfitte; questa nota è dunque una dichiarazione di resa, forse di qualche utilità per chi con maggiore valore e fortuna verrà dopo di me. Vanno fatte due premesse giustificative: molto di quello che dirò si basa su una divinatio semantica; credo cioè che una serie di parole condividano un rapporto motivazionale ed un’aria di famiglia; naturalmente, questo non è un fatto, bensì un’impressione personale. In genere la divinatio è di ordine lessicale e proprio per questo motivo, resa indipendente dalla realtà morfologica che nei fatti costituisce il presupposto fondante, può essere pericolosamente ingannevole e dunque a maggior ragione può esser fuorviante una divinatio onomasiologica. Un esempio per

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render chiaro il mio pensiero. Da tempo sospetto che una comune parola slava (soprattutto – ma non solo – meridionale) e che è stata addirittura inserita come voce oscura nelle parole indoeuropee ricostruite, ossia ˹pizda˺ ‘organo sessuale della donna’ sia invece di etimo evidente, cioè *pi-sd-ā ‘sopra cui ci si siede’ o simili. L’intuizione andrebbe circostanziata morfologicamente per essere pienamente accettabile. In secondo luogo ripeto quanto tutti sanno, ossia che noi conosciamo abbastanza bene solo il latino retorico e scolastico ma ignoriamo largamente il latino di ogni giorno: questa realtà sommersa emerge solo da qualche iscrizione, dove peraltro c’è sempre il condizionamento della scripta, e dalle parlate neolatine: per questi motivi percepiamo come banale il senso di ‘credere’ per putāre rispetto a ‘potare’ e non vediamo sĭmus per sŭmus, soprattutto non vediamo quanto era domestico, locale, estraneo ai circuiti del mercato sovraregionale; eppure anche quello – e forse a maggior ragione – era il latino o meglio erano i ‘latini’ dell’Impero. La dieta alimentare romana, soprattutto nel campo delle paste alimentari, non era di enorme varietà ma terminologicamente più ricca di quanto ci documentino le fonti. Ne ho discusso recentemente a proposito del meridionale tria (Crevatin in corso di stampa) e molto resta da fare; basti dire che il nome della pizza (Gaeta pizza a. 997), di diffusione centro-meridionale, è ancora poco chiaro. È usuale connettere pizza e pinza (italiano settentrionale, nome di una focaccia cotta nella cenere, poi nome di un dolce tradizionale) a *pitta, di cui diremo oltre, ma c’è una difficoltà non da poco, ossia il vocalismo tonico, perché pizza presuppone una -ī-, mentre *pitta e derivati una -ĭ- e ricordo solo il valtellinese ‘focaccia piatta’, (Grosio) péta ‘straterello di materia cosparso in superficie’, il napoletano péttola ‘sfoglia di pasta tirata col matterello’, l’abruzzese péttələ ‘sfoglia di pasta’. È così, la ˹pitta˺ è una semplice focaccia piatta, un piatto povero in genere di cereali poco nobili e cotto sotto la cenere, come la sarda pillonka, la romagnola piad(in)a, una preparazione di vastissima diffusione, dall’arabo ʽiš all’indiano chapāthi. Da dove viene la voce sarda? Secondo Wagner (1960 s.v. pidzu) viene da pĭlleus, parola che indicava originariamente, via metafora, lo strato superficiale, sottile del terriccio e l’ipotesi è pressoché certa, poiché il tipo ˹peglia˺ (ad es. AIS 1268, 1292, ecc.) è ben documentato nel senso di ‘buccia, pellicola’ e si può presumere, ma alla fin fine ciò non è determinante, che ci sia stata un’immissione di pĕllis. E il romagnolo piad(in)a? Di primo acchito sembrerebbe un ‘pigliata’ nel senso di ‘(pasta) rappresa’, ma altrettanto ragionevole pare un derivato in -ātus da ˹peglia˺, poiché derivati simili sono noti (AIS 1, 60: 715) e soprattutto perché il ‘rapprendersi’ non pare una referenza contenutisticamente sensata. Come si vede, siamo di fronte ad un insieme

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coerente, una pasta sottile e di formato tutto sommato ridotto. Certo, in Italia meridionale esiste, con lo stesso significato, anche il tipo ˹pitta˺ con -ī-, per il quale a questo punto, alla luce delle forme abruzzesi e campane, si può legittimamente sospettare il prestito greco. Il passo successivo è abbastanza naturale: se la ˹pitta˺ è dunque una ‘schiacciata’, balza all’occhio il suo legame con l’italiano settentrionale, largamente nord orientale, ˹petàr˺, il cui significato basico, con mille sfumature e specializzazioni, è quello di ‘schiacciare, appiccicare, appioppare’, ad esempio il rovignese petàr ‘incollare, appiccicare’. E non solo: alcuni derivati (ad es. veneto pétola ‘macchia’, istriano [Capodistria] pétola ‘crosta della polenta’) sono molto meglio comprensibili in questa prospettiva piuttosto che in quella tradizionale che rinvia a pĕditum. Dovrebbe a questo punto esser chiaro che la referenza semantica ha bisogno di qualche ulteriore elemento per poter saldare in unum le varie vicende e credo che essa possa esser costituita dal greco πιττάκιον, passato in latino nella forma pittacium. Il pittacium era un pezzo di panno, di cuoio o di carta spesso usato come impiastro o come etichetta, un breve rescritto o una ricevuta, insomma una toppa (e nei dialetti italiani sopravvive nel tipo ˹petaccia˺ e simili nel senso di ‘cencio’; v. ad es. AIS 5, 950: 713, un senso presente nei Glossaria latini tardo antichi e altomedievali),4 qualcosa che si attacca a pressione, senso perfettamente congruente con quello greco originale. Il pittacium poteva esser l’etichetta incollata su un vaso o su un’anfora per specificarne il contenuto. Ritroviamo, insomma, la referenza a qualcosa di piatto, che si appiccica.5 A questo punto l’etimologo potrebbe fermarsi, ma forse non tutte le armi sono spuntate, anche se riconosco che si entra nell’imponderabile pur se possibile. Pittacium era ottimamente integrato nella lingua latina e certamente non veniva sentito come prestito se non da persone colte e competenti nella lingua greca, per cui nella coscienza morfologica del parlante comune esso poteva essere colto del tutto naturalmente come un derivato con il suffisso -āceus, ossia pitt-āceus e si ricorderà che nell’ortografia tarda è ben documentata la forma in -acius del suffisso. È ben vero che nel latino letterario -āceus forma prevalentemente aggettivi di materia, ma nel parlato le cose dovevano esser diverse e preludere a quelli che saranno poi gli usi neolatini, È estremamente probabile che questo sia l’etimo del settentrionale ˹petàš˺ ‘ventre, pancione’, desunto dalla ‘trippa’ degli animali (ad es. AIS 6, 1095 Cp.) che ha appunto l’aspetto di un cencio; la parola ha spesso subito incroci (ad es. con ‘bottaccio’ e simili). 5 Qui e non con pĕditum va collocato anche il tipo lessicale soprattutto veneto (con molti derivati) ˹pétola˺, il ‘cacherello’ che rimane attaccato (detto di animali e di esseri umani). 4

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come prova il testuācium (lībum) di Varrone (L. L. 5, 106), la focaccia sacrificale cotta in testu caldo, dove l’uso è relazionale. Se ciò, come credo, è avvenuto, il parlante aveva a sua disposizione uno pseudo primitivo ˹pĭtta˺ che poteva facilmente indicare qualcosa di piatto e sottile, qualcosa che veniva (e restava) attaccato; dal recuperato primitivo era possibile formare un denominale *pĭttāre, verbo destinato ad una notevole fortuna. La pĭtta designò così la piatta focaccia ed il nome passò al greco tardo e si diffuse, con quanto designava, nel mondo balcanico. Credo che l’ipotesi sia formalmente corretta, ma siccome essa assomiglia più all’enigmistica che all’etimologia, offro la resa. Chiedo tuttavia l’onore delle armi. Bibliografia AIS = Jaberg K., Jud J. (1928-1940) Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen, Ringier, 8 voll. (trad. it. AIS. Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale, Milano, Unicopli, 1987, 2 voll.). Crevatin F. (1973-1974) Porta Rata, in “Bollettino del Centro per lo studio dei dialetti veneti dell’Istria” 2, 51-52. Crevatin F. (2011) I sandali dei Bawlé. Alcune proposte di linguistica culturale, in “Incontri Linguistici” 34, 129-151. Crevatin F. (in corso di stampa) Tra etimologia e storia culturale, in Aa.Vv. Atti del secondo convegno internazionale dell’Atlante Linguistico Dialettale della Basilicata, Potenza, novembre 2012. Kirk G. S. (1985) The Iliad: a Commentary, vol. 1, Books 1-4, Cambridge, Cambridge University Press. Klaniczay G., Pócs E. (2006) Christian demonology and popular mythology, Budapest/New York, Central European University Press. Latacz J. (Hrsg.) (2002) Homers Ilias: Gesamtkommentar, I, 2, München, Saur Verlag. Naldini P. (1700) Corografia ecclesiastica o’ sia Descrittione della citta, e della diocesi di Giustinopoli detto volgarmente Capo d’Istria, Venezia, appresso Gierolamo Albrizzi. Novak A. (2007) L’Istria nella prima età bizantina, Trieste/Fiume, Centro di ricerche storiche Rovigno. Pauly A., et al. (1894–1980) (Hrsg.) Paulys Real- Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft: neue Bearbeitung, Stuttgart, J. B. Metzler. Penzig O. (1924) Flora popolare italiana: raccolta dei nomi dialettali delle principali piante indigene e coltivate in Italia, Genova, Orto botanico della Regia Università. REW = Meyer-Lübke W. (1935) Romanisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, Winter. Wachter R. (2009)3 Wort-Index Homerisch–Mykenisch, in Latacz J. (ed.) Homers Ilias: Gesamtkommentar: Prolegomena, Berlin/New York, de Gruyter, 209-234. Wagner M. L. (1960) Dizionario Etimologico Sardo, Heidelberg, Carl Winter.

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