Brexit. E ora? (Intervista)

June 1, 2017 | Autor: Roberto Orsi | Categoria: European Union
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Brexit. E ora? (Intervista) di Roberto Orsi Lecturer 特任講師 Graduate School of Public Policy 東京大学公共政策大学院 Policy Alternatives Research Institute – The University of Tokyo 東京大学政策ビジョン研究センター

Il testo di questa intervista è stato pubblicato l’11 Luglio 2016 alla seguente pagina: http://www.rischiocalcolato.it/2016/07/brexit-ora-intervista-roberto-orsi.html Domande formulate da Andrea Muzzarelli.

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l Regno Unito ha deciso di uscire dall’Unione Europea. Quali sono, a suo avviso, gli scenari più probabili che oggi si intravedono per il futuro dell’Europa? Come potrebbero cambiare ora gli equilibri all’interno dell’Unione dei restanti 27 paesi?

Il Brexit segna un’ulteriore accelerazione nel processo, già ampiamente avviato da anni, di disgregazione europea. Si tratta di una crisi gravissima, innestatasi su e in parte causata da un’intera serie di altre crisi che attanagliano l’UE: dell’euro (di cui la situazione ellenica costituisce solo l’aspetto più evidente), dell’immigrazione, dell’Ucraina (nata dal trattato di associazione con l’UE, non dimentichiamolo) e i rapporti con la Russia. Queste crisi e molte altre che operano ora sottotraccia ma si paleseranno a tempo dovuto sono manifestazioni di un processo necrotico, da imputarsi fondamentalmente alla più o meno inconscia opera di autodistruzione portata avanti dalla classe dirigente europea ed europeista. A mio modo di vedere questo processo è irreversibile. Mentre l’attenzione dei media si concentra sulla situazione inglese e scozzese, pochi si rendono conto che il Brexit avrà effetti dirompenti sull’UE. Il Regno Unito non è Cipro, o la Lituania. Si tratta del secondo paese europeo per popolazione, e la seconda economia, nonché una delle tre potenze (insieme a Germania e Francia) che davano un senso politico all’Unione. L’UE perde insomma un pezzo sostanziale. E per quanto il Regno Unito abbia sempre giocato un ruolo ambiguo in Europa, ha anche avuto una funzione di ri-equilibrito rispetto all’egemonia di Berlino e alla cieca autoreferenzialità di Bruxelles, diventando un riferimento per i paesi del gruppo Visegrád, degli Scandinavi, in parte dell’Olanda e

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certamente dei Baltici in funziona anti-russa. Ora tutti questi meccanismi salteranno, e sarà dunque molto difficile tenere unito quello che resta dell’UE, particolarmente considerando che nessuna delle crisi sopra citate si avvia a trovare una soluzione, e numerose altre sono in procinto di materializzarsi. Ritiene che il Brexit potrà cambiare in maniera significativa l’atteggiamento “politicamente corretto” dell’Unione nei confronti dei movimenti migratori e del multiculturalismo? Quello a cui stiamo assistendo a partire dall’anno scorso in tema d’immigrazione può solo essere definito come una forma di follia collettiva che s’inquadra perfettamente nell’opera di autodistruzione sopra citata. Il Brexit non sarebbe riuscito a vincere il referendum se non ci fosse stata la crisi dell’immigrazione (che è poi un’invasione). È diventato chiaro che siamo di fronte a un fenomeno epocale e che l’attuale dirigenza politica europea, se non palesemente complice come in Italia, è sicuramente compiacente, impreparata, incapace di agire e di prevedere. Tuttavia, siamo qui in presenza di forze storiche dirompenti che stanno rapidamente distruggendo la credibilità delle istituzioni, dello stato di diritto, e persino la desiderabilità della pace sociale e internazionale. Il Brexit va in questa direzione: una cambiamento di rotta deve arrivare, costi quello che costi. La traiettoria attuale va interrotta, anche se ciò dovesse arrecare danni notevoli all’economia. I leader europei tuttavia (credo) non cambieranno mai atteggiamento, la qual cosa porterà in breve tempo a resistenze sempre più radicali tra la popolazione, che potrebbero andare ben oltre il voto ai cosiddetti “populisti”, e che potrebbero costare molto di più di un’elezione persa. Purtroppo questa leadership non si rende conto della posta in giuoco, continua a ragionare con schemi “multiculturali” ormai completamente fallimentari. Il cambiamento arriverà certamente, ma solo con la rovina della classe dirigente attuale, e subendo gravissimi danni sanabili solo con misure draconiane, le quali richiederanno comunque decenni. In una prospettiva geopolitica, non crede che un’Europa senza il Regno Unito (che potrebbe avvicinarsi ancor più agli USA) dovrebbe ripensare i propri rapporti con la Russia e la posizione di quest’ultima sullo scacchiere occidentale? Il rapporto con la Russia sarà comunque destinato a modificarsi nel lungo periodo. Esso diventerà un ulteriore elemento di divisione europea, considerando che ci sono paesi visceralmente ostili a Mosca che non cambieranno mai atteggiamento, e altri molto più amichevoli, per quanto l’egemonia americana non consenta per ora forme troppo esplicite di riavvicinamento. Ma se gli USA non saranno più in grado di esercitare tale egemonia, se Trump preferirà una sorta di isolazionismo, o semplicemente gli Americani saranno troppo occupati con i loro problemi interni, allora per alcuni stati europei la Russia potrebbe anche diventare un vero partner strategico, ed essere a tutti gli effetti re-

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inserita nel grade giuoco europeo, come lo fu nel periodo tra inizio Settecento e la rivoluzione del 1917. Trump, Brexit, movimenti “populisti”: oggi sono molte le forze su entrambe le sponde dell’Atlantico che, in opposizione – sincera od opportunistica – alle dinamiche proprie della globalizzazione (impoverimento del ceto medio in primis) spingono verso nuove forme di isolazionismo o indipendentismo. Con quali caratteristiche potrebbero riproporsi i nazionalismi e i localismi nell’odierno “villaggio globale”? Sarebbe una sorta di ritorno al passato (un passo indietro, come sostengono in molti) o, piuttosto, un necessario aggiustamento verso la costruzione di nuovi equilibri? Al di là dell’impressione che si possa in qualche modo scegliere tra proseguire sulla strada della globalizzazione o abbracciare nuove forme di isolazionismo, localismo, o nazionalismo, la situazione è invero più complessa, e purtroppo, meno rassicurante. Da un lato infatti, abbiamo raggiunto i limiti della globalizzazione: la complessità estrema nata negli ultimi vent’anni dopo la fine della Guerra Fredda si sta rivelando impossibile da gestire, e così il malcontento crescente a livello politico nel mondo occidentale. In qualche modo di tratta del classico caso di quello che in inglese si denota come “negative return to complexity”: oltre un certo livello, un sistema complesso non è più grado di espandersi, e si manifestano dinamiche interne in senso opposto. Dall’altro lato, non è ovviamente possibile “tornare indietro”, non più di quanto si possa ri-trasformare una zuppa di pesce in un’aquario di pesci vivi. Qui sta il grande problema del nostro tempo: abbiamo esaurito le opzioni più plausibili. Facciamo un paragone con il passato recente: alla fine degli anni 80, i dirigenti del mondo comunista erano ormai più o meno segretamente convinti che il loro sistema fosse fallito. Tuttavia, avevano di fronte a sé la possibilità immediata di sistemi alternativi, come la social-democrazia germano-scandinava (opzione preferita da Gorbaciov), o il neo-liberismo e la terapia d’urto “all’americana” (alla fine adottata, pur con tutti i distinguo, in Russia e altri paesi). Al tempo, questi erano sistemi certamente floridi, e con una forte reputazione. Oggi invece abbiamo solo la consapevolezza che il sistema attuale non funziona, ma non abbiamo chiare alternative sulle quali puntare. Questo anche perché ben pochi si sono avventurati negli ultimi vent’anni a immaginare possibili alternative, complice la “fine della storia” à la Fukuyama e l’ottimismo obbligatorio che, unito a una forte centralizzazione del lavoro intellettuale, ha praticamente censurato sul nascere ogni forma di dissenso costruttivo, tollerando e anzi incoraggiando solo pseudo-alternative come i vari movimenti “sociali” e “anti-capitalisti”, in realtà perfettamente integrati nel sistema attuale, per creare una facciata di pluralismo. Allargando l’orizzonte, è possibile che, in assenza di straordinarie rivoluzioni tecnologiche nei prossimi anni, si assista a un contrazione strutturale (non solo congiunturale) del sistema economico globale. Già ora molti economisti parlano di “stagnazione secolare”. Da un punto di vista politico, questa sarebbe una situazione inedita, dato che l’espansione del sistema-mondo continua con alti e bassi da 250 anni (o anche 500), e semplicemente non abbiamo alcun modo di gestire ordinatamente una 3

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riduzione del sistema stesso. Potremmo essere entrati, come credo, in un periodo fortemente caotico che durerà molto a lungo, senza che esso sia animato da una particolare coerenza ideologica o culturale, nel senso di un “progetto” complessivo. In un tale contesto, nuovi equilibri emergeranno solo in modi e tempi impossibili da prevedere, ma probabilmente si tratterà di un qualcosa che poco avrà a che vedere con il ritorno al localismo, anche se il localismo potrebbe agire come detonatore, per un periodo iniziale, di altri cambiamenti. Per dirla in breve: il Brexit, e Trump, sono solo l’inizio. Due mine sul terreno sempre più instabile dell’Unione Europea sono la Grecia e l’Italia, che potrebbero risentire dei contraccolpi del Brexit più del resto d’Europa. La prima è divenuta l’emblema di un’UE “matrigna”, lontana dai popoli e al servizio delle lobby dominanti. La seconda poggia su un’economia esangue, al punto che di recente il quotidiano inglese Independent ha pubblicato un articolo in cui si parla di un “collasso” ormai prossimo del Belpaese. Cosa ne pensa? La Grecia e l’Italia, pur con grandi differenze, sono nazioni in cui è molto facile osservare malattie terminali di società che come sonnambuli, mentre per decenni si parlava di insulse amenità, sono incappate in una spirale autodistruttiva. Come ho avuto modo di scrivere altrove, queste sindromi non sono un’esclusiva del Mediterraneo, ma si presentano in altri ambiti, sicuramente in Europa, con varia intensità. Semplicemente, un paese come l’Italia non sta facendo altro, da almeno una trentina d’anni, che bruciare il capitale umano e sociale accumulato in tempi non sospetti, per tirare avanti. La Grecia, il cui capitale umano è sempre stato molto esiguo in tempi moderni, è arrivata prima di altri alla fine di questo processo, tramite l’esaurimento delle sue risorse. Il punto è che non siamo più in grado, come società, di produrre vero capitale umano, ovvero di riprodurci (anche biologicamente, di qui la drammatica crisi demografica europea) e creare persone che sappiano gestire processi produttivi complessi, assumere ruoli dirigenziali con ottiche lungimiranti, o anche solo svolgere bene il proprio lavoro, per quanto umile esso sia. In un paese come l’Italia, viene da pensare che nell’ultima generazione tutti gli individui peggiori siano finiti ai vertici. Gli elementi migliori della società sono emigrati o stanno emigrando a fiumi. In questo quadro, è noto da anni che l’Italia è un paese fallito, mantenuto artificialmente in vita dalla BCE. Si assiste a un curioso balletto: il dissesto dei conti pubblici viene nascosto dalle banche nazionali che acquistano titoli di stato per anni con le liquidità messe a disposizione della BCE, ma al giro successivo sono le banche ad affondare (ecco la crisi bancaria di questi giorni), e ci si aspetta che il governo salvi le banche, sempre indirettamente con l’appoggio della BCE. Tuttavia tale appoggio era stato concepito come uno strumento provvisorio fino al traghettamento dell’Italia, tramite le famose riforme, verso una sostenibilità economico-finanziaria che non arriverà mai. Con la crisi dell’UE, è solo una questione di tempo prima che si rompa l’accordo politico in sede BCE che tiene Roma in vita. L’Italia è semplicemente troppo grande per essere salvata 4

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dalla Germania. Dopo un lungo periodo in cui era concentrata altrove, con la crisi bancaria l’attenzione internazionale torna ad occuparsi dell’Italia, e meritatamente, considerati i rischi sistemici che possono scaturire dal dissesto del debito nazionale (oltre 2.200 miliardi di Euro). Inoltre, se è vero che il PIL italiano è a crescita zero o quasi in tempi normali, ora che un deciso rallentamento ha colpito tutte le principali economie del mondo, non vedo come il paese possa evitare un’ulteriore contrazione, con tutte le consequenze finanziarie del caso. Un’altra grande incognita che pesa sul futuro del continente europeo è quella economico-finanziaria: i segni di recessione globale sono sempre più evidenti, mentre le politiche espansive della BCE, inondando di liquidità i mercati, hanno spinto i tassi di interesse sempre più verso (se non sotto) lo zero. È d’accordo con quanto scritto dall’economista Gerardo Coco, secondo il quale in un contesto del genere la crescita non è possibile perché ne mancano i presupposti? La crescita economica è stagnante, a ben vedere, da moltissimo tempo. Lo straordinario periodo di espansione economica indotta dalla macchina a vapore, dall’elettrificazione, e poi dall’economia del petrolio non si è per il momento prolungato in ulteriori balzi generati da nuove tecnologie altrettanto rivoluzionarie. Infatti, per quanto la rivoluzione dell’elettronica e dell’informazione abbiano trasformato profondamente le nostre società, non è stata in grado di invertire la traiettoria di declino nel tasso di crescita delle economia più avanzate, senza contare che il lavoratore-consumatore occidentale medio non vede una crescita del proprio reddito reale da decenni. Non è un mistero che la crescita economica mondiale abbia avuto una dinamica estensiva, piuttosto che intensiva: il tenore di vita “consumistico” si è espanso, nei limiti in cui questo era possibile, a nuove masse di centinaia di milioni di persone in Cina, nell’ex blocco sovietico, e in alcune realtà emergenti nel resto del pianeta (aree urbane del Sud-Est Asiatico, dell’America Latina, dell’India, del Medioriente). Il “vecchio sistema” è cresciuto insomma grazie alla sua espansione geografica, molto più che non grazie alla crescita di quanto già esisteva. Tuttavia, questo sistema economico non può espandersi all’infinito: non solo esistono ben noti limiti ambientali, ma anche sociali. Esso non riesce ad espandersi in aree dove le forme dell’organizzazione sociale e politica sono incompatibili con le strutture fondamentali richieste dall’organizzazione industriale (e di mercato). Ecco perché in fin dei conti la Cina e altri paesi asiatici sono riusciti a emergere come realtà industriali in misura molto maggiore dell’Africa, o del Medio Oriente. Ora siamo in una fase in cui più o meno tutti quelli che potevano essere portati all’interno del sistema sono stati fatti entrare. Ma d’altra parte assistiamo allo scattare della cosiddetta “middle income trap”: molti paesi emergenti non vedranno mai un benessere diffuso e una società veramente prospera come la Germania Occidentale anni Ottanta, o USA anni Sessanta, ma si stanno arenando su posizioni intermedie caratterizzate da grandi dislivelli tra ceti, e tra aree urbane e rurali, con tutte le conseguenze politiche del caso (esemplare a tal proposito la dinamica di un paese come la Thailandia). I paesi occidentali invece si sono inventati la finanziarizzazione selvaggia e il debito a tutti i livelli proprio per ovviare alla mancanza di 5

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una crescita reale. Ora i mastodontici livelli di debito non sono più ulteriormente espandibili, e d’altra parte abbiamo un quadro demografico fortemente negativo. I tassi a zero sono un’espressione di questo stallo generalizzato, ma rapprensentano anche un ulteriore fattore d’instabilità nel lungo periodo, in quanto tutti gli operatori finanziari sanno in fondo che essi non sono sostenibili, e questo genera una prudenza e una reticenza nell’investimento che continua ad alimentare la paralisi. Il fatto che viviamo in un mondo a tassi zero (o negativi) in quasi tutte le economia sviluppate da ben otto anni è una situazione senza precedenti nella storia. E se nonostante il mare di liquidità non si riesce ad avere autentica crescita, vuol ben dire che qualcosa di fondamentale si è rotto nel meccanismo dell’economia mondiale. Personalmente sarei stupito se non ci fosse un’altra crisi finanziaria di qui alla fine del 2017, ci sono molte criticità che stanno emergendo e sta diventando sempre più difficile, per la banche centrali, nasconderle sotto un mare di liquidità. A mio avviso si è creato un meccanismo perverso per il quale i problemi economicofinanziari sono stati per anni nascosti dalle politiche monetarie, ma queste non li hanno risolto, ma solo trasferiti in ambito politico e geopolitico. Di qui a sua volta la politica (come nel caso Brexit) crea nuova instabilità economico-finanziaria, e il ciclo ricomincia. Ma si tratta un ciclo sempre più stretto e accelerato. Pensa sia appropriato azzardare qualche similitudine tra l’Europa del 1914, che al termine della prima grande ondata della globalizzazione si lanciò (con una certa superficialità) in una guerra ferocemente autodistruttiva, e quella attuale? Se l’insipienza dell’attuale classe politica europea balza agli occhi, a proposito della Grande Guerra l’economista J.K. Galbraith ha scritto che non è possibile osservarla con distacco “senza pensare alla povertà mentale e all’inadeguatezza di coloro che ne furono coinvolti e ne ebbero la responsabilità”. Vedo similarità limitatamente all’inadeguatezza del nostri strumenti di governo rispetto alla straordinaria complessità del “villaggio globale”. Guardando a personaggi come i vari leader politici europei, mi viene da pensare che se siamo riusciti a evitare fino a questo punto effetti domino incontrollabili è solo perché questi signori sono molto più fortunati che non abili. Ma la fortuna non dura in eterno, e il Brexit sta lì a dimostrarlo. Rispetto al 1914, ci sono attualmente rischi geopolitici “tradizionali” solo nei confronti della Russia, ma questi possono essere contenuti. I rischi maggiori vengono a mio modo di vedere da una grande e rapida polarizzazione delle opinioni pubbliche in seno nell’Europa occidentale. Come ho avuto modo di scrivere recentemente, siamo in una situazione in cui il dialogo tra parti politiche sta diventando impossibile e/o inutile, abbiamo insomma un clima da pre-guerra civile in vari paesi. Il Brexit ha fatto scoprire che esistono masse di milioni di persone che “vogliono indietro il loro paese”, e questo significa un cambiamento di rotta a 180 gradi che pare non possa passare se non attraverso una redefinizione di chi appartiene e non appartiene alla comunità politica, e dovrà quindi materialmente fare le valigie. La situazione in Francia è anche peggiore. Se l’UE non 6

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riuscirà a sopravvivere, allora a quel punto potremo, nel corso di un certo numero di anni, vedere il risorgere di conflitti tra stati nel continente europeo, ma non nell’immediato. Tempi sicuramente molto duri ci attendono nei prossimi anni e decenni. ***

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