bruno e averroè

June 13, 2017 | Autor: Massimo Campanini | Categoria: Islamic Studies
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VERITÀ E DISSIMULAZIONE L’INFINITO DI GIORDANO BRUNO TRA CACCIA FILOSOFICA E RIFORMA RELIGIOSA

a cura di Massimiliano Traversino Opera pubblicata con il contributo della Fondazione Parco Letterario Giordano Bruno - Nola

IV Proprietà letteraria riservata. I diritti di traduzione in qualsiasi forma, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo, della presente opera sono riservati alla Editrice Domenicana Italiana s.r.l., come per legge per tutti i paesi.

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Progetto grafico e redazione di Giuseppe Piccinno.

ISBN 978-88-98264-50-6

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Sommario

M. Traversino, Presentazione .............................................

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PARTE PRIMA Percorsi del pensiero bruniano: cosmologia, antropologia, etica, magia, cristianesimo A. Bönker-Vallon, Mondi uguali, popoli diversi. Annotazioni sul nesso tra cosmologia e antropologia in Giordano Bruno ..............................................................................

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M. A. Granada, Giordano Bruno. De immenso, I, 1-3, con alcune riflessioni su Bruno e Schopenhauer ..................

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M. Campanini, Giordano Bruno e Averroè: tematiche a confronto ........................................................................

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M. Cambi, Magia e lullismo nel pensiero di Giordano Bruno ..............................................................................

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T. Leinkauf, The concept of “vinculum” and the problem of “contact” and activity between two kinds of being: material and immaterial, finite and infinite, natural and metaphysical ..................................................................

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A. Schütz, Parallel deaths: suggestions for a Christian contextualization of a teacher of “anti-Christianism”... 125 M. Traversino, Dogma trinitario e infinito universo in Giordano Bruno: spunti dal De docta ignorantia di Cusano ........................................................................... 155

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Sommario

PARTE SECONDA Elementi della semantica bruniana della natura: fisica e metafisica, teologia civile e teologia negativa, immanenza e trascendenza P. R. Blum, Giordano Bruno: l’Aristotele dissimulato .......

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A. Bönker-Vallon, Angeli come stelle. Angelologia e fisica eretica nel pensiero di Giordano Bruno ......................... 193 J.-F. Malherbe, Un approccio “congetturale” al pensiero di Giordano Bruno ......................................................... 209 B. Amato, Naturalis philosophia e divina philosophia nel Camoeracensis Acrotismus di Giordano Bruno ............. 223 A. Montano, Giordano Bruno. Tra “teologia civile” e “teologia negativa” ....................................................... 247 D. Knox, Immanenza e trascendenza nel dialogo II del De la causa, principio et uno ............................................... 277 PARTE TERZA Religione, politica e diritto nel tardo Cinquecento di Bruno e oltre D. Panizza, Il cosmopolitismo e le sue aporìe in Alberico Gentili ............................................................................ 295 E. Blum, Religione e politica nel pensiero di Giordano Bruno .............................................................................. 309 P. Prodi, Giordano Bruno e il papato .................................

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B. Sirks, Gentili and the Tudor view on regal power .........

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G. Garnett, La Francogallia di François Hotman: la storia come diritto consuetudinario ......................................... 359 R. Giacomelli, L’immagine dell’Anticristo. Diffusione e metamorfosi di un topos negli scritti degli esuli italiani del Cinquecento ............................................................. 381

Sommario

VII

M. Traversino, Sovranità in controluce. Bruno, Gentili e il dibattito cinquecentesco sulla condizione dei nativi americani ....................................................................... 411 Gli Autori ............................................................................

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Indice dei nomi ...................................................................

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GIORDANO BRUNO E AVERROÈ: TEMATICHE A CONFRONTO Massimo Campanini

Questo breve articolo rappresenta un’incursione in campi di cui non sono specialista. Non sono infatti uno studioso di Bruno anche se questo filosofo è stato un autore importante nella mia formazione culturale (mi sono laureato sul concetto di infinito in Giordano Bruno nell’ormai lontano 1977). Perciò, la mia discussione non rispetterà necessariamente la filologia e la storiografia: a me interessa parlare di quel che Bruno ha dato a me più che di quello che ha veramente detto. Ne chiedo scusa anticipatamente ai “brunisti”. Sono stato invece uno studioso di Averroè e sono consapevole del carattere sfaccettato e molteplice della sua bio-bibliografia. Sono consapevole del posto che egli occupa nella storia del pensiero islamico medievale e anche rinascimentale; del primato nella filosofia che contende ad Avicenna e soprattutto del ruolo centrale che egli ha avuto nella formazione del pensiero islamico contemporaneo. Negli ultimi decenni, infatti, Averroè è assurto a simbolo non solo e non tanto del razionalismo tout court, quanto piuttosto del razionalismo islamico. Basti pensare al lavoro di ‘Atef al-Iraqi1 e a quello di Muhammad ‘Abid al1 ‘Atef Al-Iraqi, Al-Naz’a al-‘aqliyya fi falsafat Ibn Rushd (La tendenza razionalistica nel pensiero di Averroè, Dar al-Ma‘arif, Cairo 1968.

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Jabri2 che hanno individuato in Averroè e nel lascito averroista la via maestra per una rifondazione in senso moderno di tutto il pensiero islamico. Studiare tematicamente Averroè vuol dire cercare di individuare un paradigma (o più paradigmi) che possa(no) servire alla crescita intellettuale, ma anche sociale e politica del mondo islamico. Fatte queste premesse, lo scopo di questo articolo è di effettuare un confronto a distanza tra Bruno e Averroè sulla base di alcuni nodali punti-chiave su cui di entrambi si può verificare la convergenza. Dal punto di vista storico, la questione è semplice. Le opere di Averroè circolavano ampiamente nel Cinquecento. Prestigiosi filosofi e professori universitari, come Nicoletto Vernia e Agostino Nifo possono in qualche modo essere considerati “averroisti” o almeno pensatori che con Averroè si sono confrontati nel bene e nel male e che hanno reagito alle sue provocazioni intellettuali. Ancora in pieno Cinquecento, l’edizione giuntina metteva a disposizione del pubblico colto i commentari averroisti ad Aristotele, commentari che costituivano un indispensabile completamento dell’opera dello Stagirita: senza i commentari di Averroè — si riteneva — non si era in grado di comprendere veramente e approfonditamente Aristotele. Inoltre, a parte i commentari, circolava ampiamente anche l’Incoerenza dell’incoerenza dei filosofi o Destructio destructionis philosophiae Algazelis, il testo filosofico, venato di problematiche teologiche, che più di tutti apriva la strada alla conoscenza dell’Averroè “musulmano”. Leggendo l’Incoerenza o Destructio, i latini avevano accesso diretto al modo di pensare di un autore — Averroè — che era bensì filosofo, ma nella cui elaborazione trovavano posto le metodologie e le prospettive esegetiche della teologia (kalam) e della giurisprudenza ( fiqh) islamiche. Orbene, è ormai assodato dalla critica che Bruno conoscesse approfonditamente tanto i commentari quanto la Destructio. Questo punto viene dato qui per sconta M. Abid Al-Jabri, La ragione araba, Feltrinelli, Milano 1996.

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to. I lavori di Rita Sturlese3, Eugenio Canone4, Gilberto Sacerdoti5 ma soprattutto Miguel Angel Granada6 e altri hanno già chiarito di che consiste l’“averroismo” di Giordano Bruno. In generale, questo articolo non pretende di dire nulla di nuovo su siffatto argomento, quanto di impostare un’analisi comparativa che sia più teoretica che storica. Proporrò qui tre tematiche caratteristiche di Averroè e cercherò di capire quale fosse la posizione di Bruno al proposito. 1. L’ETERNITÀ DEL MONDO L’eternità del mondo ovvero l’alternativa più netta della creatio ex nihilo costituisce uno dei problemi più ampiamente discussi nella filosofia medievale. Si tratta, nella prospettiva delle scienze fisiche e astronomiche contemporanee, di una problematica che non riveste più uno spessore teoretico, nel momento in cui conserva, invece, un’appassionante valore storico. Al di là di quelli che potrebbero essere gli argomenti addotti a sostenere il concetto dell’eternità del cosmo e dei suoi rapporti con l’onnipotenza divina, l’eternità del mondo risulta un’idea tutt’affatto moderna compatibile con la fisica contemporanea (basta pensare alle problematiche suscitate dalla dottrina del big bang e dell’unificazione delle quattro leggi fondamentali della fisica). Nel Medio Evo e nella prima età moderna, l’eternità del mondo risulta un’idea condivisa da quasi tutti i filosofi musulmani — da Avicenna ad Averroè — che per questo si pongono in rotta di collisione con la loro stessa religione. La religione 3 R. Sturlese, Averroes quantumque arabo et ignorante di lingua greca...Note sull’Averroismo di Giordano Bruno, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LXX (1992). 4 E. Canone, Giordano Bruno lettore di Averroè, in C. Baffioni (a cura di), Averroes and the Aristotelian Heritage, Guida, Napoli 2004. 5 G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità. Teologia politica nell’Europa di Shakespeare e Bruno, Einaudi, Torino 2002. 6 M. A. Granada, Giordano Bruno, Herder, Barcelona 2002; Id., La rivendicacion de la filosofia in Giordano Bruno, Herder, Barcelona 2005.

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infatti sostiene che il mondo è creato ex nihilo e che ha avuto un cominciamento nel tempo, mentre la filosofia, per ragioni sia fisiche sia metafisiche, ritiene che il cosmo sia eterno, coestensivo a Dio nella temporalità, seppure ontologicamente inferiore a Dio nella scala qualitativa dell’essere (a parte il carattere gerarchico della cosmologia filosofica islamica, con Dio al top di una scala ontologica digradante, Dio rimane il creatore, mentre il mondo è creato). Questo in generale, sebbene al proposito la posizione di Averroè sia più sfumata e ambigua, soprattutto quando parla da teologo, nelle fatawa (opinioni legali) e negli opuscoli dedicati a chiarire il rapporto tra filosofia e teologia, in primo luogo il celebre Trattato decisivo sulla connessione tra la Legge religiosa e la filosofia.. Da aristotelico, nei commentari alle opere scientifiche di Aristotele, Averroè fa propria la prospettiva della durata interminata del tempo sostenuta dallo Stagirita, sebbene da buon musulmano non neghi che il mondo è un “prodotto” dell’inesausta attività di creazione divina. Eppure quando prende posizione da teologo, il suo approccio risulta dialettico e di difficile condivisione. Prendiamo per esempio il ragionamento averroista nel Trattato decisivo, un libro denso e articolato, che si è ormai convergenti a considerare una fatwa, ovvero un’opinione giuridica del giurisperito Averroè tesa a legalizzare lo studio della filosofia in ambiente islamico. Orbene, il ragionamento di Averroè si dipana come segue7. L’essere si intende in tre modi: o esterno al tempo e privo di causa, cioè Dio; o interno al tempo e causato, cioè i singoli enti esistenti posti in essere da Dio; o esterno al tempo ma posto in essere da Dio, cioè l’universo nel suo complesso. L’universo è dunque eterno se paragonato a Dio e creato se paragonato ai singoli enti contingenti. Così, la questione della creazione o meno del mondo è risolta su un piano semantico, o meglio, per tradurre letteralmente Averroè, sul piano della denominazione (tasmiyya). Cre7 Averroè, Il trattato decisivo sull’accordo della religione e della filosofia, a cura di M. Campanini, BUR Rizzoli, Milano 1994, pp. 73-79.

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azione o eternità sono pure “denominazioni”; e queste denominazioni, come l’oggetto denominato cui si riferiscono (l’universo), non sono contraddittorie perché la verità è risolta sul piano linguistico. Come vedremo ancora nel successivo paragrafo 2 — trattandosi del nodo epistemologico centrale della gnoseologia averroista —, il Vero non contrasta col Vero (celebre aforisma del Trattato decisivo) significa per Averroè che la realtà è unica, epistemologicamente equipollente anche in due proposizioni diverse come “il mondo è creato” e “il mondo è eterno”, ma predicabile in modi diversi a seconda del tipo di linguaggio adoperato: dimostrativo per i filosofi, dialettico per i teologi-giuristi, retorico e affabulatorio per il volgo. Le proposizioni apparentemente contrastanti sono “vere” all’interno del loro codice e contesto linguistico. Dunque, per Averroè filosoficamente il mondo è eterno, sebbene teologicamente si può accettare l’ipotesi che sia creato. Giordano Bruno condivide con Averroè la conclusione filosofica, sebbene il loro approccio sia profondamente diverso sia nei presupposti fisici sia in quelli epistemologici relativamente allo statuto cognitivo della filosofia e della teologia. Bruno infatti è un infinitista copernicano. è dunque l’universo uno, infinito, immobile. Una dico è la possibilità assoluta, uno l’atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo e ottimo; il quale non deve posser essere compreso; e però infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza immobile. Questo non si muove localmente perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera, perché non è altro essere, che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe poiché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. [...] Questa unità è sola e stabile, e sempre rimane; questo uno è eterno, ogni volta, ogni faccia, ogni altra cosa è vanità, è come nulla, anzi è nulla tutto lo che è fuor di questo uno.8 8 G. Bruno, De la causa, principio e uno, in Id., Dialoghi italiani, a cura di G. Gentile e G. Aquilecchia, Sansoni, Firenze 1958, pp. 318 ss.

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Da questa visione, che non è erroneo definire mistica, derivano molte conseguenze. Per esempio, le direzioni spaziali, tipiche della fisica aristotelica, sono relative (ogni cosa è sopra o sotto rispetto non a uno, ma a molteplici centri di gravità) e la Terra non ha alcuna posizione privilegiata all’interno dell’universo (esistono infiniti soli attorno a cui ruotano infiniti pianeti popolati da specie di creature diversissime). L’infinito è immobile, eterno e ingenerato nella durata temporale; infinito e incommensurabile nella estensione spaziale. Al contrario, Averroè concepisce un cosmo chiuso e compatto e geocentrico. Illimitato ed eterno nel tempo, poiché non si può concepire una “oziosità” nell’azione produttrice di Dio che regge e regola l’universo, il cosmo è finito spazialmente, racchiuso in un sistema di sfere l’ultima delle quali raccoglie e abbraccia la Terra. Una visione cosmica che Averroè condivide perché non può fare a meno di svincolarsi dalla fisica e della cosmologia aristotelica. In Bruno l’eternità del mondo è un corollario della sua infinità. L’infinità spaziale implica che ci siano innumerevoli mondi e soprattutto innumerevoli stelle ognuna delle quali è centro a se stessa e circondata da sistemi di pianeti. Ma questa è solo una parte della verità. Complessivamente il mondo è tutto l’essere, immobile e identico a se stesso, ingenerabile (imperituro) e indistruttibile (al più sottoposto a una “mutazione vicissitudinale” che nulla lascia sfuggire dalle intrecciate maglie del suo essere tutto quel che può essere). Nell’uno tutto cosmico è pienamente attualizzata la coincidenza del poter essere con l’essere. La teorizzazione dell’Uno-Tutto è per Bruno frutto ad un tempo di travalicamento dei limiti logici aristotelici e di intuizione contemplativa mistica-intellettuale. La filosofia che “aggrandisse l’intelletto” e lo rende in grado di non temere l’annichilazione della morte, perché la singola parte dell’universo finisce poi per dissolversi e riprodursi nel grembo infinito della totalità dell’Uno. In Averroè l’eternità del mondo è il frutto del suo aristotelismo, prima ancora metodologico che fisico: il cosmo di Averroè è il cosmo della divina necessità dove il

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possibile è anche reale e il mondo non può essere diverso da come è. Le direzioni nello spazio cosmico sono esattamente determinate, l’alto e il basso rispetto al centro rappresentato dalla Terra. Nulla e nessuno può sfuggire a questa necessità che vincola Dio, nel produrre il mondo, a costruirlo nel migliore sistema possibile. Al contrario, il cosmo di Bruno, come quello di al-Ghazali, è il cosmo della divina libertà dove non c’è centro né periferia, implicante oltre a un relativismo dei luoghi, l’infinità dei mondi (come possiamo concepire una potenza divina “ociosa”?)9. 2. LA FILOSOFIA COME PERFEZIONAMENTO DELL’UOMO E SUA MASSIMA FELICITÀ Averroè nutre una concezione elitaria della filosofia. Il filosofo è colui che dispone degli strumenti intellettuali più raffinati e complessi al fine di formulare nel modo migliore, più stringente e convincente la verità (haqq in arabo). È necessario ritornare sul problema della “verità”, sebbene sia ben noto come Averroè lo risolva10. La verità è unica nel suo contenuto, molteplice nelle sue forme espressive. Che Dio esista, per esempio, è una verità unica che accomuna il volgo e i filosofi, e che esige l’assenso dell’incolto così come del sapiente. Il volgo però s’immagina Dio come una sorta di superuomo e lo concepisce e lo descrive antropomorficamente (ha viso, mani, occhi, si siede sul Trono, “discende” verso la Terra percorrendo le scale ordinate dei cieli, eccetera). Al contrario, il filosofo concepisce Dio come puro spirito, come un Essere assolutamente trascendente che non ha somiglianza con gli enti del mondo sublunare: quando si parla del suo “volto”, 9 Per un confronto epistemologico tra al-Ghazali e Averroè rimando alla mia M. Campanini, Introduzione alla filosofia islamica, Laterza, RomaBari 2004 (tradotta in inglese come Introduction to Islamic Philosophy, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007). 10 Si veda, ancora una volta, il Trattato decisivo.

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si intende la sua essenza spirituale; quando si parla del suo sedersi sul Trono si formula una mera metafora che indica il dominio sovrano che Dio esercita sull’universo, eccetera. Come allora coordinare e connettere (non tanto armonizzare, quanto appunto connettere e relazionare) le varie forme espressive in cui viene formulata l’unica “verità” dell’esistenza e della sovraeminenza di Dio? Per mezzo del linguaggio, risponde Averroè: il linguaggio dei filosofi è rigoroso, dimostrativo, apodittico; quello del volgo è affabulatorio e retorico. Col linguaggio del volgo ci si approssima alla verità; col linguaggio della filosofia la si coglie nella sua forma più pura e indiscutibile. Questa soluzione in certo modo marginalizza i teologi: la teologia utilizza metodi dialettici non dimostrativi; descrive perciò la verità in un modo ambiguo e insoddisfacente, che inganna i semplici, da un lato, e non convince i veri sapienti, dall’altro. Dunque la teologia è confinata in un angolo, epistemologicamente e sociologicamente. La verità religiosa risponde alle esigenze cognitive del volgo; la verità filosofica risponde alle esigenze cognitive dei veri sapienti. Si tratta della medesima verità espressa in due linguaggi differenti (il vero non contrasta col vero, ma gli porta testimonianza: al-haqq la yudadd alhaqq...): tra i due, il linguaggio dialettico e sofistico dei teologi è in fondo inutile o addirittura pernicioso. La capacità che ha il filosofo di accedere alla forma più pura e indiscutibile della verità, la capacità che ha il filosofo di interpretare nel modo più corretto e cogente i messaggi e le rivelazioni di Dio comporta due conseguenze. Da una parte che, sulle orme di Platone e di al-Farabi, il filosofo ha il diritto di governare. O per lo meno ha il diritto di consigliare il capo dello stato su come governare secondo giustizia e legge, facendo della filosofia il supporto più solido possibile delle indicazioni normative della legge religiosa. Dall’altra parte, che il filosofo è l’unico che ha la possibilità di avvicinarsi a Dio attraverso un perfezionamento dell’intelletto e delle sue divine facoltà cognitive che lo rendono simile a Dio e gli garantiscono la felicità.

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Nel Commentario medio alla Repubblica di Platone, Averroè esorta i califfi Almohadi (al cui servizio operava come medico e giudice) a riformare la politeia secondo i princìpi della filosofia, fecondamente elaborando e sostenendo la shari‘a con i raffinati e solidi strumenti della speculazione teoretica. D’altro canto, nei commentari al De anima aristotelico e nell’Epistola sulla congiunzione, Averroè proietta l’intelletto umano verso l’empireo della bellezza e della luminosità celesti articolando una dottrina che, ovviamente, non posso spiegare nei dettagli, ma che cercherò di sintetizzare in una breve formula. La premessa è che tutto l’universo appare come una gerarchia di motori (le Intelligenze) che muovono spinti da un amore che è passione intellettiva. In questa struttura cosmica, l’intelletto agente svolge, in relazione all’intelletto umano, la stessa funzione che il Primo motore immobile, Dio, svolge in relazione alle Intelligenze celesti: esso muove in quanto amato, in quanto oggetto d’amore, in quanto causa finale, ed è attraverso la congiunzione, la copulatio che siamo in grado di realizzare con lui, che noi uomini conquistiamo e acquistiamo la massima felicità, la felicità mentale e intellettuale. Si tratta, anzi, forse dell’unico modo reale attraverso il quale l’uomo — ovvero il filosofo — può conquistarsi l’immortalità che, come succedeva in al-Farabi, è o selettiva o propria non dell’individuo ma della specie11. Realizzando pienamente se stesso nella congiunzione o copulatio, l’uomo (ovvero il filosofo) conduce tutta la macchina del cosmo al suo effettivo perfezionamento. Nel contesto del pensiero di Averroè (è probabile che qui sia davvero possibile dire: nel contesto del pensiero averroista...) è interessante vedere come Giordano Bruno viva e interpreti la missione filosofica prima ancora su se stesso, sulla sua stessa vita ed esperienza, che sulla e nella dottrina. Il filosofo non è soltanto colui che è mosso dall’”eroico furore”; il filosofo è anche colui che è capace 11 Per la spiegazione dei dettagli non posso che rimandare al mio M. Campanini, Averroè, Il Mulino, Bologna 2007.

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di offrire in olocausto la propria vita in nome della difesa e dell’affermazione della verità. Il filosofo è colui che “allarg[a] i [...] pensieri ad alta preda”; è come Atteone che “significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina”12. Un compito e un obiettivo che non è comune a tutti gli uomini, che non tutti possono perseguire: Rarissimi, dico, son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplare la Diana ignuda, e dovenir a tale che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemino splendor de divina bontà e bellezza, vegnano traformati in cervio, per quanto non siano più cacciatori ma caccia.13

Pochissimi sono i veri filosofi capaci di penetrare i segreti della natura e in questo modo di cogliere l’effettuale essenza della divinità. Dunque la loro missione è una missione elitaria, di perfezionamento dell’intelletto e della conoscenza, una missione che potrebbe esigere il loro sacrificio di fronte all’insipienza e alla tirannia delle autorità. In questo orizzonte, l’averroismo di Bruno consiste nel suo non rinunciare alla missione filosofica, nel suo difendere le proprie idee e le proprie visioni sino al martirio. Non è questo il luogo né di indagare i motivi che spinsero Bruno a tornare in Italia, a Venezia, nel 1591, né di descrivere le vicende del processo che seguì il suo arresto prima e il suo trasferimento, poi, nelle carceri del Santo Uffizio a Roma. Bruno fu infine bruciato vivo e pagò con la vita le tensioni e gli eccessi dell’ultimo Cinquecento, di quei decenni in cui la lotta tra cattolicesimo e protestantesimo si combattè non solo tra concili e sinodi, ma anche sui campi di battaglia e con le persecuzioni. Durante il processo, Bruno applicò con costanza un piano di difesa fondato sul principio di dissimulazione; un piano complesso fatto di ammissioni e negazioni: ammettere G. Bruno, Degli Eroici Furori, in Dialoghi italiani, cit., p. 1006. Ibid., p. 1124.

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ciò che non si poteva nascondere o che, apparentemente, si conciliava con l’ortodossia cattolica; negare vigorosamente tutto ciò che risultava ambiguo o decisamente anticattolico, se non anticristiano. Questo comportamento processuale riflette una strategia che Bruno aveva già applicato componendo i suoi scritti “italiani”, soprattutto di argomento morale. In essi il Nolano travestiva di panni mitologici figure reali e personaggi delle storie sacre, dissimulando sovente una cattolica onestà per mascherare l’universale critica alle religioni storiche. Possiamo trovare qui i segni di un’altra sfumatura di “averroismo”. Ancora una volta non si tratta di principi rinvenibili direttamente nel maestro arabo, ma di interpretazioni enunciate da avversari e critici di Averroè. In ogni caso la dissimulazione “averroistica” è l’arma che Bruno adopera al processo per negare i lati più eterodossi del suo insegnamento e gli episodi più compromettenti della sua vita errabonda nei paesi riformati, e per essere nel contempo fedele alle proprie conquiste intellettuali. Descrivendo le sue opere ai giudici del tribunale inquisitorio, Bruno dirà che “La materia di tutti questi libri, parlando in generale, è materia filosofica... nelli quali tutti io sempre ho diffinito filosoficamente e secondo li principii e lume naturale, non avendo riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto”. La dissimulazione acquista così un valore gnoseologico e si lega, nella tradizione letteraria e umanistica, ai Sileni di Erasmo da Rotterdam, che paiono deformi esteriormente, ma che sotto quella scorza ripugnante celano un’anima nobile e purissima. La dissimulazione non fu sufficiente per salvare la vita a Bruno che, posto di fronte alla scelta di morire piuttosto che di abbandonare le proprie convinzioni filosofiche, scelse di sacrificare la vita per rispetto alla “verità” che credeva di aver raggiunto. Tutto ciò dà concretezza e, oso dire, nobiltà alla filosofia. Averroè e Bruno, in epoche e contesti diversi, testimoniarono il valore di quella professione peculiare che è la professione del pensare. Una professione che deve cercare di evitare le elucubrazioni fini a se stesse e cer-

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care piuttosto di rispondere alle esigenze e ai problemi del tempo in cui viene praticata. Averroè e Bruno, in tal senso, condivisero l’impegno politico della filosofia: intellettuali profondamente interni al loro contesto sociale e storico. Come si ribadirà subito qui sotto. 3. LA RELIGIONE COME LEX E ORDINAMENTO SOCIALE Nel Tahafut al-Tahafut ovvero Destructio destructionis Philosophie Algazelis, Averroè discutendo i rapporti che intercorrono tra la religione e la scienza si spinge a una affermazione che potrebbe essere fraintesa (cito con ampiezza questo passo topico): I filosofi credono che le religioni siano costruzioni necessarie della civiltà (sanâ’i‘ darûriyya madaniyya)14 e che i princìpi religiosi derivino dall’intelletto e dalla Legge rivelata per quanto riguarda gli elementi comuni a tutte le confessioni, sebbene [riguardo al problema della resurrezione] le Leggi religiose divergano più o meno. [I filosofi], inoltre, ritengono che non bisogni contrastare con affermazioni o negazioni alcuno dei princìpi generali [della religione] quali per esempio se sia o no obbligatorio servire Dio, oppure, più importante ancora, se sia vero o no che Dio esiste. Lo stesso ragionamento ripetono per altri princìpi, come l’esistenza e le gradazioni della beatitudine ultraterrena: infatti, tutte le religioni concordano nell’ammettere un’altra vita dopo la morte, anche se differiscono nel descriverne le modalità. Allo stesso modo, tutte concordano nell’ammettere la conoscenza, gli attributi e gli atti di Dio, sebbene poi differiscano in misura più o meno accentuata riguardo all’essenza di Dio e al suo modo di agire. Analogamente ancora tutte concordano nell’indicare che vi sono atti che conducono alla beatitudine nel mondo dell’aldilà, sebbene differiscano nella loro valutazione. In sintesi, secondo [i filosofi], [le religioni] sono necessarie perché conducono alla saggezza (hikma) in modi condivisibili da tutti gli uomini, mentre la filosofia ( falsafa) conduce 14 L’espressione potrebbe anche essere tradotta: “arti (o discipline) civili necessarie”.

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solo un numero limitato di persone intelligenti alla conoscenza della felicità. [La filosofia] implica l’apprendimento della saggezza, mentre le religioni mirano a insegnare al volgo in generale. Nonostante ciò, non esiste religione che non sia attenta anche alle particolari esigenze dei sapienti, sebbene si occupi in primo luogo di ciò cui tutta la massa può partecipare. Ma poiché l’élite [colta] si perfeziona e raggiunge la sua piena felicità in relazione alle masse, l’insegnamento universale [della religione] è necessario per l’esistenza e la vita di questa classe privilegiata, sia nell’età giovanile che in quella adulta — non v’è dubbio in questo — onde pervenga ad attingere ciò che è caratteristico del suo stato.15

Le religioni sono costruzioni necessarie della civiltà nel senso che servono a garantire l’equilibrio interno degli stati, oltre a indurre gli uomini sulla retta via, sia dal punto di vista della conquista del benessere sociale e comunitario, sia dal punto di vista della conquista dei crediti necessari per garantirsi l’immortalità e la beatitudine nell’altra vita. Non si tratta in alcun modo di svuotare la rivelazione della sua importanza teologica soprattutto in riferimento a diversi modi i sapere come la filosofia. Tant’è vero che nelle righe immediatamente successive, Averroè riconosce il convergere di tutti i sapienti — e dei filosofi in primo luogo — nell’ammettere la risurrezione dei morti (anche se non è esplicitamente ammesso che tale resurrezione sarebbe corporea oltre che spirituale). Al pensatore arabo importa arrivare all’ammissione della resurrezione come credenza religiosa obbligatoria senza necessariamente allinearsi a imporne il carattere di rinascita fisica oltre che spirituale. Nel riconoscere il valore pratico-sociale dei dogmi religiosi. Averroè interpreta in questo modo la vocazione “politica” dell’Islam (din wa dunya). Ma soprattutto suggerisce una dimensione pratica al punto gnoseologico nodale forte del Trattato decisivo: non c’è opposizione contenutistica (sebbene ve ne sia una metodologica ed epistemologica) tra filosofia e reli15 Averroè, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, a cura di M. Campanini, Utet, Torino 1997, pp. 533-534.

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gione. La verità filosofica e la verità religiosa esprimono appunto la stessa verità, anche se si possono divaricare i modi, le chiavi linguistiche attravrso le quali tali verità sono formulate. Come abbiamo appena ricordato, l’affermazione “forte” del Trattato decisivo è che non ci sono due verità (al-haqq la yudadd al-haqq): ci sono due modi diversi di parlare della medesima verità. Se ricordiamo che una delle proposizioni averroistiche condannate dal vescovo Tempier nel 1277 è che filosofia e religione si opporrebbero quasi sint duae contrariae veritates, ne deriviamo che i latini avevano frainteso Averroè e soprattutto che... Averroè non era averroista. Bruno al contrario è in fondo averroista se identifichiamo la vera religione con la filosofia. Nello Spaccio della bestia trionfante, Bruno personifica la saggezza, la Sofia e le pone in bocca l’osservazione che, fatte da noi o comunicate da uomini superiori, le “leggi” sono indispensabili per il retto vivere sociale: «tutte le leggi, altre sono donate da noi, altre finte dagli uomini, massime per il comodo della vita umana»16. Si noti che Bruno dice “finte” poiché le leggi debbono «adattarsi alla complessione e costumi di popoli e genti, [...] [onde] reprime(re) l’audacia col timore e fa(re) che la bontade sia sicura tra gli scelerati»17; esse non sono assolute, hanno piuttosto un fine pratico. Dunque gli dei stabilirono nel mondo la Sofia con la sua funzione etica di controllo e di disciplina delle passioni umane; dalla Sofia derivarono poi le leggi e le religioni. Scrive Bruno: «il mondo facilmente si accorgerà [...] di non poter sussistere senza legge e religione; [...] o che vegna dal cielo o che esca da la terra, non deve essere approvata o accettata quella instituzione o legge che non apporta la utilità e commodità» per gli uomini18. Elaborata dagli uomini o sancita dagli dei, la si chiami legge o religione, G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Dialoghi italiani, cit., p.

16

625.

Ibid., p. 652. Ibid., pp. 654-655.

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la normativa del comportamento sociale ha per fine la retta convivenza del consorzio umano. È riconosciuto dalla storiografia come questi princìpi fossero considerati nel Rinascimento come largamente averroisti. Così non vi è da stupirsi che Bruno (nella Cena delle ceneri) attribuisca ad al-Ghazali, “sommo pontefice e teologo mahumetano”, la dimostrazione del fatto che gli dèi «han fatto favore di proporci la prattica di cose morali; [...] il fine delle leggi non è tanto di cercare la verità delle cose e speculazioni, quanto la bontà dei costumi, profitto della civiltà, convitto dei popoli»19. In realtà, Bruno nomina al-Ghazali ma intende Averroè, teorizzatore di una sottile distinzione tra gli approcci alla verità dei filosofi e quelli del volgo. Nomina al-Ghazali perché più “neutro” rispetto al temuto nome di Averroè, padre di ogni miscredenza; e Bruno, da irregolare qual era, aveva tutti i motivi per cautelarsi. A Bruno premeva che le religioni storiche del suo tempo, il cattolicesimo e il protestantesimo, fossero entrambe sottoposte a un profondo processo di revisione. Entrambe erano infatti, sia pure in modo diverso, responsabili del caos e del sangue sparso dalle guerre di fede che laceravano l’Europa del tempo. Secondo il Nolano, la “legge” attuale, la “religione” attuale è sconvolta e pervertita; perciò bisogna stare molto attenti a non confondere i linguaggi e a non porre sullo stesso piano filosofi e volgo. Per questo è convinto, averroisticamente, che «confondere il linguaggio della legge e il linguaggio della verità è dannoso per l’una e per l’altra. La prima si muove sul piano della comunicazione civile, sociale; la seconda riguarda pochi sapienti. Legge e verità, natura e società si situano su piani distinti. E si servono di lessici strutturalmente diversi»20. L’averroismo di Bruno consiste dunque essenzialmente nel risolvere in chiave sociale e civile tutte le religioni Id., Cena delle ceneri, in Dialoghi italiani, cit., pp. 120-122. M. Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 108. 19

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storiche: «gli veri, civili e bene accostumati filosofi hanno sempre faurito le religioni; perché gli uni e gli altri sanno che la fede si richiede per l’istituzione di rozzi popoli che debbono essere governati, e la demostrazione per gli contemplativi che sanno governar sé e gli altri»21. Le religioni storiche, come vengono attualmente praticate, sono tutte considerate “invenzioni” sofistiche. Scrive infatti Bruno con sferzante ironia: «la medesma scrittura è in mano di giudei, cristiani e mahumetisti, sette tanto differenti e contrarie che ne parturiscono altre innumerabili contrariissime e differentissime; le quali tutte vi san trovare quel proposito che gli piace e meglio gli vien comodo: non solo il proposito diverso e differente, ma ancor tutto il contrario, facendo di un sì un non, e di un non un sì»22. La religione acquisisce, dunque, “averroisticamente” un duplice piano: quello storico, incarnato dall’asinità e dalla pedanteria cattolica e luterana allo stesso modo; e quello della rinnovata religione filosofica degli egiziani di cui Bruno e i veri sapienti dovevano farsi propagandatori. 4. DIVERSA CONCEZIONE DI DIO Se dovessimo trarre una conclusione sintetica e onnicomprensiva, sarebbe forse possibile suggerire che lo snodo fondamentale che ad un tempo lega e separa Averroè e Bruno è la loro teologia, o per meglio dire la loro concezione di Dio. Averroè, nonostante le sue professioni filosofiche rischiassero di allontanarlo dall’”ortodossia”, rimase un pensatore musulmano, profondamente legato anche agli aspetti giuridici della sua religione oltre che al principio di trascendenza. Certo, l’idea di Dio come Primo Motore implica una trascendenza con difficoltà riducibile alle indicazioni coraniche. Ma il Dio dei filo G. Bruno, De l’infinito, universo e mondi, in Dialoghi italiani, cit., p.

21

387.

Id., Cena delle ceneri, in Dialoghi italiani, cit., p. 126.

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sofi musulmani (penso ad al-Farabi e Avicenna oltre che ad Averroè, nonostante le loro radicali differenze teoretiche) è comunque un Dio che si sottrae ad ogni contatto o compromissione col mondo sublunare. Piuttosto, islamicamente, in Averroè la trascedenza si esprime nella legge e nella profezia: Dio abbrevia la distanza che lo separa dal mondo creaturale della natura e dell’umanità attraverso la rivelazione. La rivelazione non consiste solo della proclamazione dell’unità e unicità di Dio, ma anche nella indicazione delle regole e dei princìpi con cui deve regolarsi, per compiacere Dio, il mondo civile e sociale. La religione, appunto, come abbiamo detto, è costruzione necessaria della civiltà. Averroè, prima di essere filosofo, è giurista. Averroè, ancora una volta, non è averroista. Bruno, d’altro canto, è un immanentista: il suo Dio coincide con la natura in una forma molto peculiare di panteismo. Sono convinto che Bruno ritenesse in qualche modo “finte” (nel senso prima specificato) tutte le religioni storiche e rivelate: in ciò egli è averroista, oltre ad avanzare una critica penetrante al monoteismo personalistico. Dio non è una persona come nella tradizione delle religioni abramitiche. E infinite volte, con infinito variare di immagini, nei Dialoghi italiani Bruno esprime la mistica intellettuale del Deus sive natura. Con una di queste mi piace concludere questo rapido percorso che sintetizza idee già altrove dettagliate: Appresso si contempla l’armonia e consonanza de tutte le sfere, intelligenze, muse ed instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi, l’opre della natura, il discorso degl’intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, e il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose.23

Id., Degli eroici furori, in Dialoghi italiani, cit., p. 947.

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