Caravaggio tra copie e rifiuti

July 18, 2017 | Autor: M. Terzaghi | Categoria: Caravaggio
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PARAGONE Rivista mensile di arte figurativa e letteratura fondata da Roberto Longhi ARTE Anno LIX - Terza serie - Numero 82 (705) Novembre 2008

SOMMARIO

Roma communis patria per Luigi Spezzaferro CHRISTOPH L. FROMMEL: La palazzina di Pio IV - CLAUDIA CONFORTI: Via Pia: Rus in Urbe - MARIA CRISTINA TERZAGHI: Caravaggio tra copie e rifiuti - PATRIZIA C AVAZZINI: O l t re la committenza: commerci d’arte a Roma nel primo Seicento - MICHEL HOCHMANN: Luigi Spezzaferro, l’histoire et l’historiographie du collectionnisme

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Alpi Lito, Firenze Finito di stampare nel mese di Gennaio 2009

MARIA CRISTINA TERZAGHI

CARAVAGGIO TRA COPIE E RIFIUTI Chiunque abbia accostato anche solo di sfuggita Gigi Spezzaferro, sa quanto Caravaggio fosse al centro dei suoi studi e dei suoi interessi1. La lucidità con cui ha individuato alcuni problemi e nodi non risolti del percorso e dell’interpretazione del Merisi non può essere elusa da chi affronta oggi lo studio dell’opera di Caravaggio. Ripercorrere e verificare le ipotesi di lavoro indicate dallo studioso diventa dunque quanto mai urgente per chi voglia addentrarsi negli studi sul pittore. Ed è quello che mi propongo di fare in questa sede, a partire dagli studi condotti sulle prime copie di opere di Caravaggio2. Quando, nel 2002, licenziava uno dei saggi capitali sul tema, Spezzaferro affermava con una certa baldanza: “A differenza di quanto avveniva qualche anno fa, credo si possa ormai affermare con sufficiente tranquillità che l’interpretazione dell’opera e dell’attività del Caravaggio non sia più pesantemente caratterizzata dai molti rifiuti delle sue opere pubbliche e in particolare delle prime che, artatamente attribuitegli da alcuni scrittori seicenteschi, furono poi, su questa base, acriticamente riferitegli da gran parte della storiografia successiva”3. A giudicare dalla posteriore, o contemporanea, letteratura critica, la questione non pare così pacificamente accettata4. “Per esser opera di Michelagnolo”: il primo ‘San Matteo’ Secondo Spezzaferro, delle sei commissioni pubbliche di Caravaggio a Roma una soltanto fu, non solo accettata senza problemi, ma anche universalmente lodata: la ‘Deposizione’ della Vallicella; una fu accettata con “estremo schiamazzo” dei “popolani”, cioè la ‘Madonna dei pellegrini’; due furono effettivamente rifiutate dai committenti: la ‘Morte della Vergine’ e la

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‘Madonna dei Palafrenieri’. I dipinti relativi alle commissioni più antiche, invece, che la storiografia vuole rifiutati, cioè la prima versione del ‘San Matteo’ Contarelli e le prime due versioni delle tele Cerasi, furono rifatti dall’artista per ragioni diverse, ma senza alcuna imposizione da parte dei committenti5. Spezzaferro imputava la fuorviante indicazione alla malignità delle fonti, e in particolare del Baglione (seguito dal Bellori, che invece aveva ben altri e più alti motivi critici), dal momento che il Mancini, forse meglio informato, e certamente più imparziale, tace della questione6. In realtà, nelle Considerazioni, Giulio Mancini non pare granché interessato alla ricezione delle opere pubbliche del Merisi, in generale. Egli si sbottona infatti soltanto sul rifiuto della ‘Morte della Vergine’, realizzata per conto di Laerte Cherubini e destinata ad ornare un altare della chiesa dei padri carmelitani scalzi di Santa Maria della Scala, mentre tace di tutto il resto7. Non è da molti anni che conosciamo il vero motivo per il quale il medico senese si è soffermato soltanto su questa vicenda. Egli era infatti perfettamente al corrente della questione poiché, dopo il rifiuto dell’opera da parte dei carmelitani scalzi, tentò in ogni modo di accaparrarsi la ‘Morte della Vergine’, che intendeva poi spedire a Siena al fratello Deifebo8. Ora, mi pare che la questione vada presa in seria considerazione per almeno due motivi. Il primo, più generico, riguarda la figura e l’opera dello stesso Mancini. È chiaro che un simile episodio evidenzia il punto di vista assolutamente personale con il quale furono redatte le Considerazioni sulla pittura. Nel resoconto manciniano vengono infatti narrate con particolare evidenza le vicende caravaggesche che l’archiatra senese conosceva di persona, privilegiando, forse senza troppi problemi storico critici, le notizie di cui aveva informazione diretta. D’altra parte, sapere effettivamente il perché e il per come di un rifiuto non doveva essere cosa semplicissima neppure per i contemporanei. Il secondo motivo è invece relativo al problema del giudizio positivo o negativo dell’establishment ecclesiastico sui dipinti pubblici di Caravaggio. Mancini chiede infatti ripetutamente al fratello Deifebo di assicurarsi che il mercato senese fosse in grado di accogliere una simile tela. L’acquisto del dipinto da parte di Giulio era infatti vincolato al fatto che il quadro, una volta posto su un altare di Siena, non avrebbe incontrato gli stes-

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si problemi in cui era incappato a Roma9. La faccenda sembra suggerire che, lungi dall’essere oggettivo, il giudizio per cui un’opera veniva accettata o rifiutata dai committenti era di carattere squisitamente personale. Questioni più generiche, quali l’allineamento o il disallineamento dei quadri di Caravaggio alla dottrina della Chiesa cattolica in quanto tale, vanno dunque sollevate con estrema cautela. La posizione della Chiesa stessa sembra, stando ai documenti in nostro possesso, tutt’altro che univoca su tale argomento. Un’opera come la ‘Morte della Ve rgine’, che i padri della Scala non trovarono consona alla decorazione di uno dei loro altari, finì infatti nella collezione di Vi ncenzo I Gonzaga, che certamente non può essere tacciato di eresia, o di atteggiamenti sovversivi nei confronti delle gerarchie della chiesa cattolica10. Per non parlare della ‘Madonna dei Palafrenieri’, sloggiata dall’altare di San Pietro per finire nel palazzo del cardinal nepote Scipione Borghese11. La vicenda della fortuna di ciascuna pala di Caravaggio è dunque una storia a sé, e va letta nel contesto in cui il problema si pose e venne risolto. Perché, dobbiamo ammetterlo, veri o presunti che siano stati i rifiuti, il pittore ne uscì in ogni caso senza perdere un solo scudo o giorno di lavoro: le tele vennero infatti sempre prontamente acquistate dai collezionisti al prezzo richiesto dai primi destinatari. Il problema dei rifiuti opposti ad alcuni dipinti pubblici del Merisi, dunque, non riguarda soltanto questioni di ortodossia delle novità iconografiche proposte dall’artista, esso evidenzia anche un mutamento profondo nei costumi del mercato romano: una pala non accettata dal committente diventava infatti subito una ghiotta occasione per mercanti e collezionisti. La vicenda del ‘San Matteo’ già a Berlino /tavola 42/12 r a ppresenta, a mio avviso, un punto di partenza imprescindibile per comprendere la contemporanea ricezione dei dipinti del maestro lombardo e il loro mercato. In quest’ottica mi propongo dunque di rileggere la complessa vicenda. Riguardo alla prima versione del ‘San Matteo’ Contarelli, Spezzaferro sosteneva che il dipinto non era destinato all’altare della cappella in San Luigi dei Francesi, bensì costituiva una prova eseguita dal Merisi per essere collocata su un altare provvisorio, per dar modo ai padri di San Luigi dei Francesi di celebrare la messa e ingraziarsi così i Crescenzi, esecutori testa-

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mentari del Contarelli, assicurandosi il contratto per i laterali della cappella13. La verifica dei risultati cui giungeva lo studioso, cioè il fatto che il ‘San Matteo’ non sia stato rifiutato dai destinatari, esecutori testamentari o padri di San Luigi dei Francesi che fossero, mi pare in questa fase dei lavori secondaria, quantomeno in ordine di tempo, all’analisi documentaria che condusse a formulare una simile ipotesi. Riprovando infatti ad allineare i dati sicuri che emergono dalle carte antiche, si riescono ad individuare una serie di solidi appigli, storicamente e criticamente ineludibili, sui quali ragionare della questione. Va innanzitutto tenuto presente che possiamo identificare nel ‘San Matteo e l’angelo’ già a Berlino14 la prima delle due versioni della pala d’altare della cappella Contarelli, grazie alle fonti. La pur ampia documentazione relativa ai contratti per la decorazione dell’ambiente non lascia infatti intendere nessun rifiuto o rifacimento del dipinto per volontà dei committenti15. E, a proposito di fonti, chi insinua per primo la questione del mancato apprezzamento del ‘San Matteo’ è il Baglione: “Per il Marchese Vincenzo Giustiniani fece un Cupido a sedere dal naturale ritratto, ben colorito sì, che egli dell’opere del Caravaggio fuor de’ termini invaghissi; & il quadro d’un certo S. Matteo, che prima havea fatto per l’altare di S. Luigi, e non era a veruno piaciuto, egli per esser’opera di Michelagnolo, se’l prese; e in questa opinione entrò il Marchese per li gran schiamazzi, che del Caravaggio, da per tutto, faceva Prosperino delle Grottesche, turciman(n)o di Michelagnolo e malaffetto co’l Cavalier Gioseppe”16. Il Bellori rincara la dose: “Avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo e postolo su l’altare, fu tolto via da i preti con dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe incavallate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso pubblicata in chiesa, quando il marchese Vincenzo Giustiniani si mosse a favorirlo e liberollo da questa pena; e interpostosi con quei sacerdoti, si prese per sé il quadro e gliene fece fare un altro diverso, che è quello che si vede ora sull’altare; e per onorare maggiormente il primo, portatolo a casa; l’accompagnò poi con gli altri tre Vangelisti di mano di Guido, Domenichino e dell’Albano, tra li più celebri pittori che in quel tempo avessero fama”17. Che dunque il ‘San Matteo’ già a Berlino, di certa pro-

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venienza Giustiniani, sia il dipinto destinato all’altare della cappella in San Luigi dei Francesi è fuori discussione. Sull’altare si trova invece la versione definitiva dell’opera, sensibilmente diversa, sia dal punto di vista iconografico che da quello stilistico, dalla tela Giustiniani. Tra i molteplici documenti relativi alla cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi restano due contratti relativi alla pala destinata ad ornare l’altare: il primo stipulato con il pittore Gerolamo Muziano (1565), il secondo con lo stesso Caravaggio (1602). A riguardo dell’iconografia, il primo contratto sta sulle generali: “in tabula (…) altaris (…) Sanctus Mattheus scribens evangelium cum angelo”18. Il cardinale Matteo Contarelli doveva aver dato tuttavia disposizioni più precise in materia. Lo apprendiamo da una “descriptio” acclusa al contratto del 1591, stipulato da Virgilio Crescenzi (esecutore testamentario del Contarelli, scomparso nel 1585), con il Cavalier d’Arpino19. Il Cesari fu infatti ingaggiato al posto dell’inadempiente Muziano per realizzare le ‘Storie di San Matteo’ a fresco, ma non la pala d’altare, raffigurante ‘San Matteo e l’angelo’, per la cui realizzazione si era scelto uno scultore, Jacob Cobaert, nel 158720. Al contratto con il Cavalier d’Arpino è accluso un documento che dettaglia l’iconografia delle storie, compresa la pala d’altare. Ora, non essendo stato richiesto alcun dipinto del genere al Cesari, è evidente che le norme erano quelle destinate al Muziano, e che dunque furono concepite dallo stesso Matteo Contarelli. Il ‘San Matteo’ di Caravaggio già a Berlino e oggi perduto si adegua precisamente a queste norme iconografiche, che recitavano: “All’altare sarà un quadro alto palmi dicesette et largo palmi quattordeci di vano nel quale sia depinta la figura di San Matteo in sedia con un libro o volume, come meglio gli parerà, nel quale mostri o di scrivere o di voler scrivere il vangelio et a canto di lui l’angelo in piedi maggior del naturale in atto che paia di ragionare o in altra attitudine a proposito per questo effetto”21, il secondo /tavola 43/, quello che ancor oggi si trova sull’altare, a quelle concordate con lo stesso Merisi: “L’effigie et imagine di San Mattheo in actu scribentis Evangelium con l’effigie et imagine ancor d’un angelo a man dritta in actu dictandi Evangelium et l’un et l’altro con li corpi intieri”22. La prima redazione del ‘San Matteo’, dunque, non risponde affatto, se non in minima parte, ad una invenzione di Cara-

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vaggio, ma si adegua precisamente alla volontà di Matteo Contarelli, e non potrebbe essere altrimenti, giacché, evidentemente, non esisteva ancora il contratto stipulato nel 1602 da Giacomo Crescenzi: “ad faciendum rem gratam illustri domino Francisco Contarello”, cioè per far cosa gradita al nipote ed erede di Matteo Contarelli, Francesco, rettore della Congregazione di San Luigi dei Francesi23. A fronte di queste considerazioni, il 1602 mi pare dunque, un fermo termine ante quem per la realizzazione del ‘San Matteo’ già a Berlino: nel caso fossero già state dettate nuove norme iconografiche in proposito, non avrebbe infatti avuto senso adeguarsi alle antiche. Tale datazione, che non mi risulta sia mai stata ribadita con forza, appare certa, a meno che non si respinga l’idea che i due dipinti rispondano a norme iconografiche diverse, come ha fatto, ad esempio, Mia Cinotti, opponendosi alla tesi della corrispondenza iconografica dei quadri alle diverse stesure contrattuali, avanzata per primo da Spezzaferro, con l’osservazione che le indicazioni iconografiche del 1602 sarebbero soltanto una sorta di “pro-memoria” di quelle più dettagliate del 156524. In realtà non pare ci fosse bisogno di alcun promemoria nella definizione dell’iconografia dell’intera cappella. Come si è visto nel caso del Cavalier d’Arpino, nei successivi contratti stipulati, si faceva costante riferimento alla normativa espressa da Matteo Contarelli. I notai accludevano infatti una copia della “descriptio” alla stipula del nuovo contratto, e mi pare utile sottolineare come, anche nei laterali della cappella Contarelli del 1599, Caravaggio seguì alla lettera il dettato di quel testo. Ma, soprattutto, la differenza balza agli occhi osservando i due dipinti: essi rispondono pienamente ai due diversi dettati iconografici. E mi piace a questo proposito citare le lucide osservazioni di Ferdinando Bologna: “Davvero è impossibile non avvedersi che il San Matteo desiderato dal Contarelli (e poi commesso al Cavalier d’Arpino ma da lui non eseguito) coincide a puntino con quello rifiutato al Caravaggio, e acquistato da Vincenzo Giustiniani — a incominciare dal particolare, individuante fuor d’ogni ambiguità, dell’evangelista “in sedia” —; quello saldato al Caravaggio il 22 settembre 1602, e tuttora in s i tu, non ha proprio nulla che assomigli al quadro Giustiniani, e invece ha il necessario per coincidere, quasi alla lettera, con le

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particolarità prescritte nel documento del febbraio”25. La diversità iconografica suggerisce dunque con forza che si tratti di due differenti commissioni, quindi, di quadri eseguiti in due momenti diversi e, come spero abbiamo sufficientemente dimostrato, in questo caso il ‘San Matteo’ di Berlino venne redatto in un momento ancora da definire, ma certamente anteriore al 22 febbraio 1602, mentre quello ora sull’altare della cappella venne consegnato alla fine di settembre di quello stesso anno, momento a cui risalgono i pagamenti per il supporto della tela e la cornice per fissarla al vano dell’altare26. Che il primo e il secondo ‘San Matteo’ fossero frutto di due diverse commissioni sembra indicato anche dal fatto che le due pale hanno dimensioni affatto diverse: la prima redazione (cm 223 x 183) è infatti più piccola di circa 70 cm rispetto alla seconda (cm 295 x 195)27. Come si è visto, nel programma iconografico formulato a suo tempo da Matteo Contarelli, erano indicate con precisione le dimensioni del vano dell’altare cui era destinato il dipinto, che doveva essere: “alto palmi dicesette et largo palmi quatordeci di vano”28. Non è difficile concordare sul fatto che qualsiasi pittore si fosse cimentato in quella commissione doveva giocoforza partire da lì. Ora, mi pare difficile credere che Caravaggio, che, come si è visto, ben conosceva le volontà di Matteo Contarelli, avesse invece equivocato le misure, tanto da realizzare una pala d’altare di oltre un metro e mezzo (cioè più di un terzo) più piccola del vano cui era destinata. Ovviamente, in assenza di precisi documenti, le spiegazioni possono essere molteplici. Alcune tuttavia vanno di necessità scartate. È innanzitutto escluso che la pala sia stata decurtata nei vari passaggi di proprietà: nel 1638 il dipinto già a Berlino è registrato nell’inventario del marchese Vincenzo Giustiniani con le stesse dimensioni con cui figurava nel museo tedesco29.In proposito è stato supposto che, dal momento che il Giustiniani sembra avesse destinato l’opera a far parte di un ciclo di Evangelisti, accanto a Guido Reni con un ‘San Luca’, Francesco Albani con un ‘San Giovanni Evangelista’ e Domenichino con un ‘San Marco’, le dimensioni del ‘San Matteo’ furono ridotte per uniformità30. Già Spezzaferro confutava l’ipotesi, adducendo il fatto che le misure dei quattro dipinti non corrispondono con precisione

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assoluta31. Alla luce dell’attuale conoscenza dei fatti artistici che si svolsero a Roma tra il 1600 e il 1602, mi pare, tuttavia, che l’argomentazione più decisiva sia il fatto che gli artisti coinvolti erano tutti più giovani e meno celebri di Caravaggio. Essi giunsero infatti a Roma tra la fine del 1600 e il 1601, quando il pittore era ormai noto a tutta la città. Semmai accadde dunque il contrario: furono questi ad uniformarsi all’opera del Merisi, come del resto affermava Bellori. E, d’altronde, nella stanza insieme agli Evangelisti di Reni, Albani e Domenichino era collocato un ‘San Matteo’ di mano di Nicolas Régnier, probabilmente copia di quello di Caravaggio, mentre l’originale del Merisi si trovava nella “Stanza grande dei quadri antichi”, accanto alle altre opere dell’artista di proprietà del marchese32. Oltre alla differenza delle misure e del dettato iconografico il fatto che il ‘San Matteo’ già a Berlino e quello ora sull’altare di San Luigi dei Francesi corrispondano a due commissioni diverse, e, dunque, vennero realizzati in due diversi momenti, sembra provato anche dallo stile delle due opere, di segno radicalmente opposto33. Il dipinto già in collezione Giustiniani appare infatti di un naturalismo più crudo e meno filtrato dalla lezione michelangiolesca, che invece sembra più meditata nell’attuale pala d’altare della cappella Contarelli. Il tono di quest’ultima tela è infatti assai più colto e pacato, e l’impaginazione della scena appare meno istintiva e più calibrata. Ben altro sembra l’interesse della tela già a Berlino, piuttosto attenta a rileggere la tradizione manierista nell’ottica di un realismo non privo di arzigogoli. Le pose del santo e soprattutto dell’angelo risultano infatti caricate oltre misura, quasi affastellate, mentre nell’attuale versione della scena l’impostazione è nitida e chiara. È evidente come un passaggio pittorico e soprattutto mentale di questo tipo vada inquadrato nell’evoluzione che caratterizza la pittura di Caravaggio ben oltre il crinale dell’anno giubilare. La prima versione del ‘San Matteo’ mi pare, invece, da leggere in stretta prossimità di un’opera come l’‘Incredulità di San Tommaso’ già in collezione Giustiniani ed ora a Postdam (Sanssouci). In entrambe le tele infatti si riscontra una profonda riflessione sullo stupore suscitato da un concreto, quanto inaspettato gesto di aiuto, al di là della concezione luministica più distesa nell’‘Incredulità di San Tommaso’ (ma ricordiamo che il ‘San Matteo’ è

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noto solo attraverso una fotografia). Molto ragionevolmente, Mina Gregori ha datato il dipinto di Postdam al 1600-1601 circa, il ‘San Matteo’ già a Berlino mi pare di poco precedente, suppergiù a cavallo del volgere del secolo34. L’accademia contro il libero mercato Tutt’altra questione è se l’esistenza delle due redazioni corrisponda alle esigenze dettate da un rifiuto, o se il reale motivo per cui l’artista eseguì due volte la pala d’altare della cappella Contarelli resti ancora da acclarare. D’altro canto il Baglione non afferma propriamente che il quadro venne rifiutato, ma che “non era a veruno piaciuto”, e lo fa in un contesto in cui si è dilungato a confutare le lodi dei quadri in San Luigi dei Francesi, riportando il giudizio negativo di Federico Zuccari: “Che rumore è mai questo? Io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione”, e a giustificare l’interesse di Vincenzo Giustiniani e Ciriaco Mattei, probabilmente del tutto fuorviati dalla smaccata pubblicità di Prospero Orsi35. Dal racconto del Baglione una questione sembra dunque emergere con chiarezza ed appare, in realtà, sommamente interessante: già all’epoca della cappella Contarelli un côté di collezionisti privati era dispostissimo ad accaparrarsi le opere del Merisi, nonostante il giudizio negativo, se non dei destinatari, per lo meno di Federico Zuccari, primo Principe dell’Accademia di San Luca, che, come tale, rappresentava una delle massime autorità in tema di pittura36. Va tenuto infatti presente che tra i compiti specifici dell’Accademia c’era quello di rilasciare licenza ai pittori di valutare e stimare le opere di altri artisti, una sorta di commissione an ti-trust che metteva il committente al riparo da ciarlatani e permetteva, al tempo stesso, agli accademici di esercitare il controllo dei prezzi e della qualità di quanto veniva prodotto a Roma. Proprio Federico Zuccari, nel 1593 lanciò l’idea di tassare del due per cento chi si rivolgeva ai deputati dell’Accademia per ottenere la stima di un oggetto d’arte. I proventi di tale imposta andavano per un terzo al perito, mentre i due terzi venivano versati nelle casse dell’Accademia. Tale richiesta venne accolta soltanto due anni più tardi sotto il principato di Tommaso Laureti, con decreto del cardinale Gerolamo Rusticucci che “ap-

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provò e concesse che, occorrendo ad alcuna persona far stimare qualsivoglia pittura, miniatura, stuccatura, indoratura e altra cosa spettante all’esercizio del Pittore, tanto fatto in muro, quanto in tela etc: non possa niuno fare tale stima né a parole, né in iscritto senza licenza de nostri Deputati, né li Stimatori possano dare tale stima, se prima da chi la vorrà non sia fatto il deposito di scudi due per centinaio nelle stime che passano venticinque di moneta, delle quali due per cento, li Periti abbiamo ad avere (volendolo) il terzo e gli altri due terzi devono consegnarsi al Camerlengo per mantenimento della Chiesa”37. Per attuare il decreto fu istituita una commissione di dodici “stimatori”, sei dei quali erano pittori, chiunque avesse osato emettere una perizia al di fuori di tale commissione rischiava una multa di dieci scudi38. Quando Caravaggio licenziò le tele per la cappella Contarelli, le cose stavano dunque in questo modo. In un simile contesto non è difficile intuire che Giovanni Baglione, riportando l’opinione di Federico Zuccari sull’opera di Caravaggio, intendeva mettere a parte il lettore non tanto e non solo del giudizio personale del pittore, bensì del parere del garante della qualità della produzione artistica nella capitale, che, come tale, aveva un altissimo grado di ufficialità. Il nesso tra le Vite e la pratica accademica di questi anni è stato individuato nel carattere farraginoso della compilazione del Baglione39. In mancanza di un preciso giudizio critico, di un univoco criterio di stima, il biografo raccontava i fatti mettendoli in fila, uno dopo l’altro, esattamente come negli anni venti del Seicento, sopite le istanze del dibattito teorico della fine del secolo XVI, gli accademici si incontravano soprattutto per scambiarsi opinioni a livello meramente pragmatico, senza un ideale pittorico ed estetico da mettere in comune, e per il quale eventualmente lottare40. Vorrei aggiungere qualcosa in proposito. Non mi pare infatti da sottovalutare il fatto che, lungi dall’essere un teorico, Giovanni Baglione fu innanzitutto pittore e che, soprattutto nel raccontare le vicende che lo riguardavano da vicino, egli dovette giocoforza adottare un punto di vista squisitamente personale, non tanto e non solo in quanto detrattore di chi non sposava un linguaggio artistico affine al suo, ma, soprattutto, in qualità di uomo del mestiere. Le ragioni del successo di un pittore che, neanche troppo banalmente, si quantificava in termini

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di elogi, onori e “vil pecunia”, sembrano insomma al centro degli interessi del pittore-biografo. Da questo punto di vista, le opere di Caravaggio dovettero costituire una sorta di scheggia impazzita nell’ambito del mercato artistico del periodo. Il caso del Merisi risulta infatti una delle rare occasioni in cui un pittore era valutato e stimato ben al di là del giudizio dell’accademia, essendosi guadagnata una fetta di mercato, costituita da collezionisti e amatori almeno apparentemente scevri da giudizi istituzionali, che gli consentiva una certa libertà dai binari consueti sui quali era incanalata l’attività di un artista41. A riprova di quanto si diceva, mi pare altamente significativo il fatto che nel 1607 Baglione fu tra i firmatari dei nuovi statuti dell’Accademia di San Luca, che ricevettero l’imprimatur in quello stesso anno, ma che furono stampati soltanto due anni più tardi nel 1609, quando il principe dell’istituzione era Gaspare Celio42. L’importanza di queste norme nel contesto del mercato artistico romano è stata recentemente indagata e non mette dunque conto stare sulle generali43, quel che mi preme invece sottolineare in questa sede è la straordinaria coincidenza spazio temporale per cui Caravaggio lasciò Roma nel maggio del 1606, e, a pochi mesi di distanza, l’Accademia approvò nuove norme, decisamente restrittive nei confronti del mercato dell’arte, dell’esercizio della professione dei giovani pittori e soprattutto della scalata dei prezzi. In proposito non mi sembra azzardato suggerire che i nuovi statuti dell’Accademia di San Luca, promossi tra gli altri da Giovanni Baglione, vadano letti anche come una sorta di reazione degli artisti dell’epoca alla fronda caravaggesca in espansione44. E in quest’ottica val la pena tornare al problema dei quadri Contarelli. Il nodo della vicenda pare infatti, secondo il resoconto del Baglione, il seguente: Vincenzo Giustiniani acquistò il ‘San Matteo’ non per una particolare qualità artistica del dipinto, sulla quale i “professori del disegno”, nella persona di Federico Zuccari, avevano in realtà molte riserve, ma “per esser opera di Michelagnolo”, cioè per la gran fama di Caravaggio, invalsa in tutta Roma a motivo dell’accorta operazione di marketing condotta da Prospero Orsi. Gli statuti del 1607 rappresentano un palese tentativo di ridurre il ruolo del mercante all’interno del commercio delle

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opere d’arte. Essi prevedevano che il numero delle botteghe autorizzate a vendere quadri venisse limitato ad un massimo di sei in tutta Roma. Un accademico poteva vendere i propri dipinti esclusivamente tramite queste botteghe, a patto che il prezzo fosse imposto prima della vendita, e la percentuale di guadagno del mercante fosse ridottissima. Se invece l’artista decideva di percorrere canali meno ufficiali, doveva chiedere il permesso all’Accademia45. L’istituzione si arrogava inoltre il diritto di soprintendere, a titolo puramente gratuito, a tutte le commissioni pubbliche, papali o municipali che fossero. Insomma, l’ingerenza degli accademici divenne tentacolare, in ordine ad uno smaccato ostruzionismo nei confronti di tutti quelli che esercitavano la professione al di fuori dell’istituzione. E Caravaggio ne era sempre stato al di fuori. Non solo, a quanto racconta lo stesso Giovanni Baglione, egli era stato lanciato sulla piazza romana e sponsorizzato da un gruppo di mercanti e mecenati che ben poco avevano a che fare con l’ufficialità imposta dall’Accademia46. È evidente che il fenomeno Merisi aveva destabilizzato il mercato e si voleva a tutti costi evitare che capitasse in futuro qualcosa di analogo47. Prospero Orsi imprenditore Rileggendo gli studi di Spezzaferro, ci si rende conto che, riguardo a Prospero Orsi, forse il più “pericoloso” dei mercanti in questione, lo studioso ha potuto chiaramente dimostrare che il pittore svolse realmente un ruolo di capitale importanza nei confronti della pittura del Merisi, ponendosi a capo di un fiorente mercato di copie, e dunque gli “schiamazzi” citati dal Baglione, erano tutt’altro che un’iperbole48. Sappiamo che l’Orsi fu intrinseco di Caravaggio fin dal suo arrivo a Roma. Il primo documento noto in proposito (1594, o 1595?) li registra entrambi presenti al turno delle Quarantore celebrate dai Virtuosi al Pantheon, in occasione della festa di San Luca, pochi dati che delineano in modo sommario, ma non troppo impreciso, le coordinate del primo tempo romano del pittore lombardo, che appare così ben inserito nei circuiti artistici capitolini49. Sorprendere Caravaggio tra le fila dei Virtuosi, che organizzavano esposizioni di dipinti sotto il portico del Pantheon, fa tutt’uno col rammentarsi il celebre passo

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del Malvasia, secondo il quale, al suo arrivo a Roma, le opere del giovane lombardo: “Per non esser mirate d’alto, anzi avvilite dal bisogno, mendicavano con poca riputazione ogni dispaccio sulle pubbliche mostre”50. Ora, non mi pare inutile sottolineare che, giusto tra il 1594 e il 1595, Prosperino risulta un protegé del cardinale Alessandro Peretti Montalto, che gli passava uno stipendio semestrale51. La notizia non è priva di risvolti interessanti per gli esordi capitolini del Merisi. Innanzitutto contribuisce a collocare nella giusta prospettiva il racconto di Giulio Mancini sul primo protettore di Caravaggio: Pandolfo Pucci, guadagnatosi il soprannome di “Monsignor Insalata” per la frugalità del vitto che passava al suo protetto52, maestro di casa di Camilla Peretti, sorella di Sisto V, e nonna materna del cardinale Alessandro Peretti Montalto53, tra gli ecclesiastici più fedeli alla politica del pontefice. Se si tien conto che Prospero Orsi, intrinseco di Caravaggio, era al tempo stesso il pittore di casa Montalto, non mi sembra ci sia motivo di dubitare del fatto che il Pucci sia stato tra i primi ad offrire la propria protezione all’artista, e probabilmente anche grazie all’interessamento del cardinale di Prosperino54. Ma l’Orsi risulta anche una vecchia conoscenza di un altro tra i primi committenti di Caravaggio: Ottavio Costa. I due dovevano essere entrati personalmente in rapporto innanzitutto per motivi strettamente finanziari: il pittore riscuoteva infatti il compenso corrispostogli dal cardinale presso il banco Herrera & Costa, e per tale operazione doveva obbligatoriamente recarsi di persona presso la sede del banco: ne conosceva dunque certamente i titolari55. In secondo luogo, Ottavio Costa era legato da intima e profonda amicizia con il segretario personale del cardinal Montalto, Ruggero Tritonio abate di Pinerolo, che fu un vero e proprio estimatore del Merisi56. Lo documenta la celebre vicenda della copia del ‘San Francesco in estasi’ ora ad Hartford (Conn.), eseguito da Caravaggio per Ottavio Costa /tavola 44/, il quale lo fece riprodurre per soddisfare l’amico a cui aveva destinato il quadro, dettando il suo primo testamento in seguito a una grave malattia. Siamo nell’estate del 1606: ripresosi dal malore, il Costa non donò l’originale del dipinto, bensì una copia all’amico fraterno, il quale la descrisse nel proprio testamento destinandola a sua volta al nipote, tra i cui beni passò dopo la morte dello zio, e rimase presso gli eredi fino a

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quando essi lo donarono al Museo di Udine, dove ancora si trova /tavola 45/57. Come ho dimostrato altrove, la copia va datata tra il 6 agosto 1606, epoca del testamento del banchiere, dove viene stabilita la donazione della tela del Merisi all’abate, e il 25 ottobre 1607, quando Ruggero Tritonio fa a sua volta testamento in favore del nipote, destinandogli espressamente il quadro di Caravaggio, raffigurante ‘San Francesco in estasi’, ricevuto in dono dall’amico Ottavio Costa58. I molteplici legami che stringono Prospero Orsi al cardinal Montalto e alla sua cerchia, in particolare Ottavio Costa e Ruggero Tritonio, tra i primi acquirenti di opere di Caravaggio, e, soprattutto, tra i primi committenti di copie, sembrano così potersi inquadrare perfettamente nella cornice della vivace attività mercantile di Prosperino consegnataci dai documenti Altemps di cui si diceva59. D’altro canto facilmente i pittori di grottesche e gli indoratori, come l’Orsi, portavano avanti una parallela attività di compra vendita di dipinti60. La figura di Prosperino trova dunque una giusta collocazione nel contesto del mercato dell’arte a Roma tra la fine del Cinque e l’inizio del Seicento. Evidentemente il suo fiuto gli aveva fatto subodorare che quello di Caravaggio era un affare d’oro61. In questa direzione mi pare occorra lavorare per chiarire i meccanismi che condussero al fenomeno del “caravaggismo”, un movimento di portata internazionale, inspiegabile senza ipotizzare anche un’accorta operazione di mercato. Il “giovine” Bartolomeo Manfredi Un ruolo di prim’ordine in tal senso dovette giocare Bartolomeo Manfredi. La riflessione su un’altra opera di proprietà Costa e sulla copia, anch’essa commissionata dal banchiere, mi pare possa essere utile per chiarire questa prospettiva. Abbiamo visto che il ‘San Francesco in estasi’ dei Musei Civici di Udine si data tra l’estate del 1606 e l’autunno del 1607. Poco tempo avanti, sempre nel 1606, Ottavio aveva comunque già ottenuto una copia di un altro dei suoi Caravaggio62, il ‘San Giovanni Battista’ di Kansas City /tavola 46/, copia che oggi si trova presso il Museo Diocesano di Arte Sacra di Albenga

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/tavola 47/, qui pervenuta dall’oratorio di San Giovanni Battista di Conscente. Ottavio Costa deteneva il giuspatronato della fondazione, insieme ai fratelli Pier Francesco e Alessandro, egli aveva dunque provveduto ad ornare l’altare maggiore dell’edificio consacrato nel 1606 con un dipinto raffigurante il santo patrono, Giovanni Battista. Ora, come documentano il testamento del banchiere e tutta una serie di altri dati, nel palazzo romano del Costa alla sua morte, avvenuta nel 1639, si trovava il ‘San Giovanni Battista’ di Caravaggio ora a Kansas City, la cui copia giunse a Conscente, spedita da Roma certamente entro il 1616, e più precisamente, con ogni probabilità, all’epoca della consacrazione dell’edificio nel 1606, tanto più che per l’originale il Merisi ricevette da Ottavio un acconto il 22 maggio 160263. Il Costa dunque commissionò un ‘San Giovanni Battista’ a Caravaggio, probabilmente con l’intento di ornare l’altare dell’oratorio di Conscente, ma, al momento buono, anziché inviare l’originale nello sperduto borgo ligure, trattenne il dipinto di Caravaggio presso di sé e ne fece trarre una copia identica in tutto, in modo da soddisfare le esigenze della chiesetta di provincia. Tale copia venne peraltro descritta di lì a pochi anni dal figlio di Ottavio, Pier Francesco, divenuto vescovo di Albenga, come opera del Caravaggio, lui che non poteva non essere al corrente del fatto che l’originale si trovava a Roma nel palazzo paterno64. Seguendo il caso Costa, emerge, dunque, come la produzione di copie da originali del Merisi avvenne inizialmente a stretto uso e consumo del proprietario, che se ne serviva per scopi personali: doni o arredo. In quest’ottica va probabilmente letta anche l’altra copia del ‘San Giovanni Battista’ Costa, oggi conservata a Capodimonte /tavola 48/. Anche questa volta, come per la tela di Albenga, l’opera risulta pressoché identica all’originale, con cui concorda precisamente anche nelle dimensioni65. Il dipinto fu acquistato a Roma nel 1802 da Domenico Venuti per implementare le collezioni di Capodimonte. Nell’elenco stilato in quell’occasione il ‘San Giovanni’ figura come di “Bartolomeo Manfredi, scolare del suddetto Caravaggio”66. La tela oggi a Napoli si trovava dunque originariamente nell’Urbe, dove fu con tutta probabilità eseguita, stando a quanto abbiamo visto finora, non senza il beneplacito di Ottavio Costa. Osservando il notevole dipinto va innanzitutto rilevata la

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tenuta stilistica che differenzia la copia napoletana da quella di Albenga, dai toni più convenzionali e molto meno caratterizzata, soprattutto nella resa della testa67. Per quanto riguarda l’ipotesi di un’esecuzione di Bartolomeo Manfredi, nome sotto il quale passava il dipinto nel documento ottocentesco di cui sopra, va rilevato che il pittore era molto probabilmente a conoscenza dell’originale, e dunque della collezione di Ottavio, come risulta dallo splendido ‘San Giovanni Battista’ /tavola 49/ già sul mercato antiquario milanese con il corretto riferimento all’artista di Ostiano e ora in collezione Koelliker68. Nel dipinto infatti è palese il riferimento al ‘San Giovanni’ Costa per la posa diagonale del santo che regge la canna, appoggiandosi allo straordinario drappo rosso. Il ‘San Giovanni’ manfrediano è tuttavia caratterizzato da un formato inferiore alla tela di Kansas City, e soprattutto dall’elemento della ciotola, presente nel ‘San Giovanni Battista’ Corsini di Caravaggio, ma non in quello già Costa. Pur nell’incerta scansione cronologica delle opere del Manfredi, la tela di provenienza antiquariale sembra dialogare con la ‘Riunione di bevitori’ già al County Museum of Art di Los Angeles, — e si ha la sensazione che il ragazzo col berretto piumato sulla sinistra sia lo stesso modello utilizzato da Manfredi per il ‘San Giovanni’ — e con il ‘Ritratto di Bartolomeo Chenna’ del Museo di Kharkov, che reca la data 160969. A queste opere il dipinto si apparenta per l’intenso partito chiaroscurale, con l’ombra che inghiotte parte del fianco destro del santo, mentre il nudo delle spalle e del busto, così come una parte del volto, appaiono immersi nella luce, l’intonazione cromatica giocata sui bruni e sui rossi (diversa in questo caso dall’originale, e semmai debitrice nei confronti delle opere dell’ultimo Caravaggio), la materia pittorica mossa e vaporosa nella resa degli incarnati e dei capelli. Confrontando ora questo ‘San Giovanni Battista’ con la copia di Capodimonte, risulta piuttosto difficile riconoscere una simile condotta pittorica nella restituzione pacata e più accademica del santo partenopeo70. Non sembrandomi per ora possibile sciogliere il quesito attributivo, preferisco lasciare in sospeso la spinosa questione della paternità della tela napoletana. Tuttavia la sequenza di opere gravitanti in uno strettissimo giro di anni attorno al ‘San Giovanni Battista’ Costa mi pare piuttosto significativa per

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comprendere il possibile itinerario dal dipinto originale alla libera ripresa del modello, passando attraverso la produzione di copie sempre più personalizzate, che evidentemente divulgavano l’invenzione71. Che Manfredi fosse uso a queste libere riprese di dipinti caravaggeschi emerge chiaramente dalla vicenda dello “Sdegnio di Marte”, che Caravaggio avrebbe realizzato per il cardinal Del Monte e che questi non voleva lasciar copiare al Mancini, incaricato da Agostino Chigi. Siamo nel 1613, il medico senese pensò bene di ripiegare commissionando un dipinto di analogo soggetto a Bartolomeo Manfredi, che realizzò il quadro senza l’ausilio dell’originale, ma, almeno in parte, di sua invenzione, dal momento che il Mancini scrive al fratello Deifebo di avere pagato la tela 35 scudi, compreso il prezzo per i modelli72. Fa riflettere l’intercambiabilità tra opere di Caravaggio e opere di Manfredi. “Questo giovine”, come lo chiama sempre il Mancini, assicurando che vale come, se non più di Caravaggio, era evidentemente sentito come un novello Merisi, attivo nel solco di quella tradizione e tuttavia ben distante dall’essere un mero copista del maestro73. La faccenda della giovinezza appare in realtà un po’ sospetta. L’atto di battesimo di Bartolomeo Manfredi lo vuole infatti nato nel 1582 ad Ostiano, nei pressi di Cremona. Nel 1613, egli doveva dunque avere 31 anni, un’età che, per i parametri del tempo, non sembra troppo giovanile. Nel novembre del 1596 egli si trovava ancora a Mantova, mentre il 28 marzo 1607 è documentato a Roma74. Anche ipotizzando che non vi fosse giunto molto tempo prima, nel 1613, quando dipinse il quadro per il Mancini, egli si trovava in città ormai da sei anni. Il fatto che Mancini lo nomini costantemente come “giovine” sembra corroborare l’ipotesi che il “Bartolomeo” che nel 1603 Caravaggio cita come suo servitore, e che la critica tende oggi a non identificare con il Manfredi poiché questi avrebbe avuto all’epoca 21 anni, troppi per un garzone, sia lo stesso Manfredi75. Dieci anni dopo Mancini ne parla ancora come “un giovine”, con evidente riferimento alla professione, non tanto all’età. A questo proposito, rileggendo i documenti che riguardano il pittore di Ostiano, ci si avvede che nella sua abitazione in Santa Maria del Popolo nel 1614 è registrato un tal “Francesco Galdori Mantovano Garzone di anni 22”76. È dunque evidente che

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anche a quell’età si poteva svolgere tranquillamente l’attività di “ragazzo” di bottega77. L’identificazione comunque non è cosa certa: gli elementi per ricostruire la vicenda sono ancora troppo pochi, e, d’altro canto, anche qualora il Manfredi sia passato per la bottega di Caravaggio, egli non vi rimase a lungo. Lo stesso maestro afferma infatti che nel 1603 Bartolomeo non abitava più con lui, e nei documenti che riguardano il Merisi se ne perde ogni traccia dopo quella data. A complicare la questione, giunge la notizia che, il 30 dicembre 1606, lo stesso Giulio Mancini spedì a Siena al fratello Deifebo una “Zinghara” che risulta opera dello “Scholaro di Michelangelo”78, un artista che il medico senese lascia nell’anonimato, e con il quale ebbe rapporto per diverso tempo. Dalla corrispondenza dei fratelli Mancini si apprende peraltro che questa “Zinghara” dello “Scholaro” era in realtà copia della ‘Buona ventura’ di Caravaggio che si trovava nella collezione Vittrice e oggi è al Louvre /tavola 50/79. Lo stesso Mancini era intrinseco di Alessandro Vittrice, il quale era peraltro legato a Prospero Orsi da stretti vincoli di parentela: la madre di Alessandro, Orinzia Orsi, era infatti sorella di Prosperino, che risulta dunque zio di Alessandro e cognato di Gerolamo Vittrice, marito di Orinzia80. Ora, oltre ad essere il proprietario della ‘Buona ventura’ di Parigi81, Gerolamo Vi t t r ice fu anche il probabile committente della ‘Deposizione’ della Vallicella82. Ecco che il nodo si stringe ulteriormente intorno a Prospero Orsi, e ai primissimi sostenitori del Merisi. Stante tutti i dati in nostro possesso è infatti impensabile che Prosperino fosse estraneo alla compravendita della ‘Buona Ventura’ da parte del cognato83. Inoltre quell’opera fu tra le prime (in contemporanea o subito dopo i quadri Costa) a venire copiata dal misterioso “Scholaro di Michelangelo”. Se davvero Prosperino fu a capo dell’operazione di marketing dei quadri di Caravaggio, come sembra emergere a lettere sempre più chiare dagli studi recenti, non può stupire che una delle primi tele del Merisi ad essere copiata fosse proprio un’opera di proprietà della famiglia di Prospero Orsi84. Mi pare che sia di un certo interesse notare come, sempre nel 1613, lo stesso Prospero Orsi si trovasse a vendere quadri di un certo Bartolomeo: “ottimo scholaro del Caravaggio”. Questi aveva realizzato un “David che ha in mano la testa

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di Golia del naturale con cornice dorata”, che l’Orsi vendeva all’Altemps il 15 febbraio 1613 per settanta scudi, compreso il prezzo di “Uno S. Tomaso che mette il detto nella costa di Cristo con altri discepoli largo palmi 6 con cornice intagliata e indorata”85. Si tratta ovviamente di copie, o libere interpretazioni, di temi caravaggeschi. Quel che però importa qui sottolineare è la straordinaria coincidenza che vede nello stesso anno e nello stesso luogo due “Bartolomeo” produrre copie o varianti di opere di Caravaggio, e ricorrere in documenti relativi a persone che peraltro si conoscevano benissimo. Tutto sembrerebbe, insomma, suggerire che si tratti dello stesso copista e, dal momento che quello di cui parla Mancini è certamente il Manfredi, è forte il sospetto che si tratti della stessa persona per la quale si faceva intermediario Prospero Orsi86. A questo proposito mi pare importante sottolineare che nell’inventario dei beni del duca Giovan Angelo Altemps, risalente al 1620, un non meglio specificato “Bartolomeo” risulta autore di “Un quadro di N.ro Sig.re che appare alli doi discepoli”87 e che una seconda citazione, sempre relativa al dipinto, ma questa volta contenuta in un più dettagliato inventario dei beni del duca, conservato alla Newbury Library di Chicago e più o meno contemporaneo al precedente88, specifica come “Un Cristo in Emmaus con doi discepoli e un Hoste di palmi 10 longo con cornice nera rabescata d’oro”; tale descrizione sembrerebbe corrispondere a una derivazione dalla ‘Cena in Emmaus’ di Caravaggio oggi a Londra, che Gianni Papi ha recentemente proposto di identificare con la tela di analogo soggetto di Bartolomeo Cavarozzi conservata al Paul Getty Museum di Los Angeles89. Un Bartolomeo risulta inoltre autore di un “quadro di frutti” che il 2 marzo 1612 Prospero Orsi vende, insieme ad un altro dipinto di analogo soggetto, questa volta attribuito a Caravaggio, al duca Altemps, per il quale sia Spezzaferro che Gianni Papi pensano ad una identificazione con lo stesso Cavarozzi90. Essendo queste le uniche informazioni per ora in nostro possesso, l’identità dell’artista che ricorre nelle carte Altemps quale copista di Caravaggio e suo scolaro è per ora destinata a restare in sospeso, tuttavia va tenuto presente che in quegli stessi documenti compare anche a più riprese un “Bartolomeo pittore”, il cui cognome è letto talora come “Dansetto”91, talora

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come “Cervetto”92. Questo personaggio, oltre che pittore, risulta una sorta di intermediario negli acquisti Altemps, e non può certamente essere identificato né col Cavarozzi, né con il Manfredi. Le opere del Bartolomeo “ottimo scholaro del Caravaggio”, infatti, venivano acquistate da Giovan Angelo Altemps tramite Prospero Orsi, mentre Bartolomeo Cervetto risulta invariabilmente mandatario degli esborsi in prima persona, sia che si tratti di dipinti da lui eseguiti, sia che si tratti di vendita di opere di altri pittori93. I “Bartolomeo” presenti nelle carte Altemps sono dunque due, e ben distinti tra loro. Da quanto si è sinora esposto, possiamo affermare con una certa tranquillità che nel 1613 il mercato delle copie da Caravaggio era fiorente, che probabilmente lo era già da alcuni anni, in particolare dallo stesso momento in cui l’artista aveva lasciato Roma (è bene ricordare che non si ha notizia di nessuna copia precedente il 1606), che Prospero Orsi si trovava al centro di tale produzione, per lo meno dal punto di vista mercantile, già dal tempo in cui aveva promosso l’acquisto del primo ‘San Matteo’ Contarelli da parte del marchese Vincenzo Giustiniani, e che Bartolomeo Manfredi era con tutta probabilità uno dei copisti che rientravano in questo giro. Un copista peraltro sui generis, dal momento che sappiamo che Giulio Mancini, nell’impossibilità di fargli copiare un dipinto di Caravaggio custodito nella collezione Del Monte, gli pagò i modelli perché lo facesse di sua invenzione94. Per una cronologia delle primissime copie da Caravaggio tra Roma e Napoli Mi pare importante sottolineare a questo proposito, come l’atteggiamento di Ottavio Costa, di Giulio Mancini, e di Giovan Angelo Altemps nei confronti dei dipinti di Caravaggio non sia affatto un episodio isolato, e non sarà inutile in proposito tentare un censimento delle copie di cui si ha certa notizia. Nel dicembre del 1606, infatti, il Mancini spediva al fratello Deifebo, la replica della “Zingara” (la ‘Buona ventura’ oggi al Louvre) realizzata dallo “Scholaro di Michelangelo”, di cui si diceva95. Nel gennaio dell’anno successivo apprendiamo quindi che il senese Savini desiderava far copiare il quadro con l’‘Incredulità di San Tommaso’96, di proprietà Giustiniani, di cui

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peraltro il 4 agosto 1606 lo stesso Vincenzo Giustiniani vide una copia a Genova in casa di Orazio Dal Negro, e che dunque si guadagna per ora la palma di più antica copia. Nel 1610, poi, l’ambasciatore di Francia ottiene da Maffeo Barberini il permesso di far copiare il ‘Sacrificio di Isacco’ in suo possesso e ora agli Uffizi, un’opera di cui conosciamo diverse derivazioni, in particolare uscite dalla bottega del lombardo Giuseppe Ve r m iglio, che sembrava detenere una sorta di specializzazione nel soggetto e che, guarda caso, troviamo citato nelle carte Altemps come autore di “diversi quadri di uomini illustri”97. Nel 1613, inoltre, Giulio Mancini da Roma scriveva al fratello Deifebo di nutrire forti dubbi sull’eventualità di poter avere una copia dello “Sdegnio che si è messo sotto i piedi amore con tutte le sue armi” di Caravaggio, opera oggi perduta, che stava in casa del cardinal Del Monte e che, come si accennava, di fatto non ottenne98. L’anno dopo, tuttavia, il Mancini trovò modo di entrare in possesso della replica di un “gioco” e una “musica”, i cui originali di Caravaggio si trovavano nella collezione Del Monte, acciuffando al volo l’occasione della copia in esclusiva che il cardinale concedeva a un “principe tramontano”, sicché, allungati 15 scudi per dipinto al “copiatore”, che risulta una vecchia conoscenza del senese, e una lauta mancia al guardarobiere, il medico riuscì ad assicurarsi i quadri desiderati99. In tutti questi casi emerge l’estrema difficoltà di ottenere copie da originali del Merisi, così come attesta il celebre episodio della ‘Morte della Vergine’ che l’ambasciatore del duca di Mantova, l’acquirente del dipinto rifiutato dai padri della Scala, espose nel 1607 nel suo palazzo al Corso a beneficio dell’“università dei pittori”, ma che vietò categoricamente di riprodurre100. A fronte della rarità delle copie, che venivano richieste fin da importanti collezionisti d’oltralpe, non mi pare dunque che ci sia troppo da stupirsi del fatto che queste opere passassero sotto il nome di Caravaggio stesso101. Ma c’è di più: i fatti non andavano in questo modo nella sola Roma. Analoghe considerazioni si possono avanzare, ad esempio, per la collezione napoletana di Lanfranco Massa. La figura del Massa appare tutt’altro che marginale nell’ambito della fortuna di Caravaggio a Napoli, nonché della storia delle copie caravaggesche e della loro diffusione102. Nella città partenopea egli fu a lungo la longa manus di Marcantonio Doria, per

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il quale trattava ogni genere di affari, e in particolare il commercio di opere d’arte. A questo proposito è di estremo interesse notare come nella collezione di Lanfranco figurino in modo massiccio e quasi esclusivo opere di artisti ruotanti nell’entourage caravaggesco che sappiamo prediletti da Marcantonio: Caravaggio stesso (presente con una ‘Sant’Orsola’, un ‘Ecce Homo’, e un “Nostro Signore quando fu tradito da Giuda”), Caracciolo (di cui possedeva sei opere), Azzolino (se ne contano otto dipinti), Ribera e, cosa sinora sfuggita alla critica, lo stesso Tanzio da Varallo, presente con un ‘San Giovanni Battista’ e una ‘Natività’, purtroppo per ora perduti103. I dipinti dei primi tre pittori presentano i medesimi soggetti a essi attribuiti nella collezione Doria104. Difficile che si tratti in tutti i casi di una coincidenza: evidentemente il Massa, al momento dell’acquisto dei quadri per conto di Marcantonio, era solito fare eseguire una copia anche per la propria collezione. Per quanto riguarda la ‘Sant’Orsola’ caravaggesca, l’originale restò in casa dell’agente del Doria per un periodo di tempo assai limitato: una quindicina di giorni, dall’11 maggio al 27 dello stesso mese, e in quel frangente, tra l’altro, l’opera dovette essere restaurata105. È dunque giocoforza che la tela venisse copiata in quel breve lasso di tempo, con il Caravaggio che probabilmente, dati i rapporti col Massa, era pure al corrente del fatto. Questo episodio mi sembra indicare da un lato la pratica diffusa di trarre derivazioni da tele del Merisi a stretto uso e consumo dei committenti, dall’altra il fatto che, una volta uscite dallo studio del maestro ed entrate nei palazzi dei proprietari, le tele spesso sfuggivano al controllo del pittore. A detenere il copyright, insomma, sembrano essere stati committenti e collezionisti, non l’artista. Per Roberto Longhi, Caravaggio difficilmente avrebbe copiato se stesso, anzi, il pittore mal tollerava che altri si appropriassero delle sue invenzioni. Nell’ambito dei contributi più recenti, mentre alcuni studiosi hanno operato una revisione di queste posizioni longhiane106, altri mi pare che abbiano ripercorso la via tracciata dallo studioso, mostrando come il Merisi fosse circondato da un entourage di amici che ne divulgavano le invenzioni sul mercato attraverso le copie, come documenta a Roma la vicenda di Prospero Orsi107, e a Napoli la bottega di

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Louis Finson, che metteva in vendita già nel 1607 la ‘Madonna del Rosario’ e una ‘Giuditta e Oloferne’, forse replicata dallo stesso artista fiammingo, verosimilmente da identificare nel quadro della collezione San Paolo Banco di Napoli, ora al Museo Pignatelli, da annoverare tra le precocissime copie da Caravaggio108. Finson risulta tra l’altro socio di Abraham Vinck, con il quale lavorava ancora a Napoli nel 1608, e che fonti di prima mano ricordano “amicissimo del Caravaggio”109. Ma la stessa cosa può dirsi dell’allievo di Annibale Carracci Baldassarre Aloisi detto Galanino che, giunto a Napoli da Roma nel 1609 per accompagnare il maestro ormai prossimo alla fine, pensò bene di fermarsi nella città partenopea, dove fu impiegato per eseguire due copie dal Caravaggio per conto del viceré110. Tra mercanti spregiudicati e amici desiderosi di far soldi non stupisce che, a poco più di dieci anni dalla scomparsa dell’artista, a Roma vigesse una discreta confusione su quali fossero gli originali e quali le copie, nonché una radicata coscienza del fatto che c’era copia e copia, come ben documenta la vicenda del pittore pisano Alessandro Bazzicaluva, narrata da alcuni documenti per la prima volta pubblicati da Antonino Bertolotti. Si tratta di un processo per il furto di una copia dei ‘Bari’ di Caravaggio, a sua volta tratta da un dipinto di proprietà del marchese Sannesio, che il Bazzicaluva avrebbe dovuto eseguire al riparo da occhi indiscreti, ma che venne poi trafugata insieme al quadro Sannesio per essere rivenduta. Il principale imputato, Pietro Ancina, per scagionarsi, chiamava a giudice dei due dipinti nientemeno che Giulio Mancini. Dall’esemplare Sannesio veniva ricordato che erano state tratte molte copie111. Tutta la vicenda, oltre ad essere altamente significativa del fiorente mercato delle copie da Caravaggio presente a Roma ancora nel 1621, sembra suggerire che, già a date così alte, era viva la coscienza che solo alcuni intenditori potevano distinguere l’originale dalla copia, e che chi possedeva una copia “ben fatta”, secondo una consuetudine invalsa all’epoca, la trattava come fosse un originale, ribadendo la straordinaria valutazione della novità dell’inventio dei dipinti caravaggeschi, e proponendo anche, mi pare, qualche utile indicazione metodologica a noi moderni storici dell’arte: ridimensiona gli sforzi di quanti praticano la “ginnastica delle copie”112, e suggerisce la giusta cautela a chi invece si diletta della caccia al documento.

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NOTE Il primo nucleo di questo contributo è costituito dal lavoro sulle copie precoci da Caravaggio, presentato al convegno Caravaggio e l’Europa, curato da Luigi Spezzaferro nel gennaio 2005. Giunto in seconde bozze, in vista della pubblicazione degli Atti del convegno, quel testo non ha però ancora visto la luce. Esso è parzialmente confluito nel volume Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa, Roma, 2007. Nel frattempo le ricerche sul tema si sono approfondite ed estese al problema scottante delle opere pubbliche di Caravaggio, di cui esistono due versioni indiscutibilmente autografe, avendole il Merisi dipinte e in un secondo momento rifatte per i medesimi committenti, mentre la redazione più antica fu acquistata da ben disposti mecenati. Sono molto grata a Mina Gregori ed Elena Fumagalli per avermi dato l’opportunità di presentare questo lavoro alla giornata di studi in ricordo di Gigi Spezzaferro. Ringrazio Elena anche per l’infinita pazienza con cui ha seguito l’iter redazionale di questo testo e per i preziosi consigli in materia. A Mina Gregori va inoltre il mio più sentito grazie per le osservazioni rivoltemi su temi a lei tanto noti: la sua straordinaria competenza si è rivelata uno strumento prezioso e insostituibile per rileggere e approfondire la vicenda delle copie dei primi quadri di Caravaggio. Già all’epoca della prima stesura del testo pareva evidente quanto le ricerche effettuate dialogassero con gli studi di Gigi Spezzaferro. Mi avvedo ora a posteriori che il presente contributo può essere letto a tutti gli effetti come una sorta di estesa recensione ai suoi studi in materia. Alla sua vivacissima e inesausta curiosità di uomo e di ricercatore sono dunque dedicate queste pagine. 1 Una vera e propria passione che lo accompagnò nel corso degli anni, a partire dalle prime pionieristiche indagini sui committenti di Caravaggio, il cardinal Del Monte e Ottavio Costa: L. Spezzaferro, La cultura del cardinal Del Monte e il primo tempo del Caravaggio, in ‘Storia dell’arte’, 9-10, 1971, pp. 57-91 e Detroit’s Conversion of the Magdalen (the Alzaga Caravaggio), 4. The documentary findings: Ottavio Costa as a patron of Caravaggio, in ‘The Burlington Magazine’, CXVI, 859, 1974, pp. 579-586; sul ‘San Matteo’ della cappella Contarelli: Caravaggio ri fiutato? Il problema della prima versione del ‘San Matteo’, in ‘Ricerche di Storia dell’arte’, 10, 1980, pp. 90-99; fino all’individuazione degli “aderenti” al Merisi: Una testimonianza per le origini del Caravaggismo, in ‘Storia dell’arte’, 23, 1975, pp. 5360; e più avanti agli interventi sulla ‘Madonna dei Palafrenieri’: Nuove riflessioni sul la Pala dei Palafre n i e r i, in La Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio nella collezio ne di Scipione Borghese, a cura di A. Coliva, Venezia, 1998, pp. 51-60; sui laterali della cappella Cerasi: La Cappella Cerasi e il Caravaggio, in Caravaggio Carracci Ma derno. La Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo a Roma, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 9-34: sulla ‘Medusa’ degli Uffizi: La Medusa del Caravaggio, in Caravaggio: la Medusa. Lo splendore degli scudi da parata nel Cinquecento, catalogo della mostra, Milano, 2004, pp. 10-20; e al saggio intorno al ruolo di Prospero Orsi nella produzione delle copie da originali del maestro: Caravaggio accettato. Dal rifiuto al mer c a t o, in Caravaggio nel IV centenario della cappella Contare l l i, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Roma, 24-26 maggio 2001, a cura di M. Calvesi e C. Volpi) a cura di C. Volpi, Città di Castello, 2002, pp. 23-50. Un interesse, quello del mercato, che aveva però preso il via dalle indagini su Giovan Battista Crescenzi: Un im -

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p re n d i t o redel primo Seicento: Giovan Battista Crescenzi, in ‘Ricerche di Storia dell’arte’, 26, 1985, pp. 50-74. Non è questa la sede per ripercorre l’intera produzione dello studioso, ma, in ordine ai problemi caravaggeschi, vanno senza dubbio citati altri fondamentali contributi: Il Caravaggio, i collezionisti romani, le nature morte, in La natura morta al tempo di Caravaggio, catalogo della mostra a cura di A. Cottino (Roma-Milano), Napoli, 1995, pp. 49-58; All’alba del Seicento. Caravaggio e Anni bale Carracci, in La storia dei giubilei, a cura di A. Zuccari, Firenze, 1999, III, pp. 180-195; Caravaggio, in L’idea del bello. Viaggio per Roma nel seicento con Giovan Pietro Bellori, catalogo della mostra a cura di E. Borea, C. Gasparri, Roma, 2000, II, pp. 271-274; e soprattutto Caravaggio in una prospettiva storica: proposte e problemi, in Caravaggio e l’Europa. Il movimento internazionale da Caravaggio a Mattia Pre t i, catalogo della mostra, Milano, 2005, pp. 33-44. 2 Ho pubblicato i primi risultati di questi studi in M.C. Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa, Roma, 2007, pp. 295-312 3 L. Spezzaferro, op. cit., 2002, p. 23. 4 E mi riferisco, ad esempio, all’importante saggio Sulla data del primo San Matteo già a Berlino, che Ferdinando Bologna ha incluso nella nuova edizione di L’incredulità di Caravaggio e l’esperienza delle cose naturali. Nuova edizione accre s c i u t a, Torino, 2006, pp. 457-463. Lo studioso concorda infatti sulla retrodatazione del ‘San Matteo’ di Berlino, e su molti dei punti sottolineati da Spezzaferro, ma rimane dell’idea che la prima versione dell’opera caravaggesca sia stata rifiutata. 5 Il problema percorre tutta la produzione di Spezzaferro, a partire da L. Spezzaferro, op. cit., 1980, p. 50, fino a L. Spezzaferro, op. cit., 2005, pp. 36-39. 6 L. Spezzaferro, op. cit., 1980, p. 50. 7 G. Mancini, Considerazioni sulla pittura e Viaggio per Roma, ca. 1621, ed. a cura di A. Marucchi e L. Salerno, Roma, 1956-1957, I, 1956, p. 224. 8 È stato Michele Maccherini, Caravaggio nel carteggio familiare di Giulio Mancini, in ‘Prospettiva’, 86, 1997, pp. 76-78, ad illuminare su questa fondamentale vicenda. 9 Ivi, p. 82. 10 La bibliografia sulla ‘Morte della Vergine’ è davvero sterminata, e non è questa la sede per elencarla in modo completo. Mi limito a citare l’accurata scheda di Mia Cinotti, in M. Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, in I Pittori Bergamaschi. Il Seicento. I, Bergamo, 1983, pp. 482-484, con completa bibliografia precedente. Il testo di P. Askew, Caravaggio’s Death of the Vi r g i n,Princeton (N.J.), 1990 e M. Maccherini, op. cit., pp. 76-78. I documenti relativi al dipinto e al rifiuto sono stati ripubblicati da B. Furlotti, Le collezioni Gonzaga. Il carteggio tra Roma e Mantova (1587-1612), Cinisello Balsamo, 2003, pp. 480 e segg., docc. 714 e segg. e da S. Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Fonti e documenti 1532-1724, Roma, 2003, pp. 219-221, doc. 332. 11 Sulla tela si veda in particolare La Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio nella collezione di Scipione Borghese, a cura di A. Coliva, Venezia, 1998; M. Beltramme, La pala dei Palafrenieri: precisazioni storiche e ipotesi iconografiche su uno degli ultimi “rifiuti” romani di Caravaggio, in ‘Studi romani’, 49, 2001, pp. 72-100. 12 Oggi perduto in seguito ai bombardamenti che nel 1945 distrussero gran parte del patrimonio artistico del Kaiser Friedrich Museum, ma noto grazie ad una fotografia più volte pubblicata, si veda più avanti, nota 14. 13 L. Spezzaferro, op. cit., 1980, in particolare pp. 56-58.

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14 La tela giunse nel museo tedesco (Berlino, Kaiser Friedrich Museum, Gemäldegalerie, inv. 365) in seguito alla dispersione della collezione del marchese Vincenzo Giustiniani, nel cui elenco è puntualmente descritta (sulla presenza del dipinto nell’inventario della raccolta del banchiere si veda ora S. Danesi Squarzina, La collezione Giustiniani. Inventari I, Torino, 2003, pp. 388-389, per la vicenda della dispersione della collezione e dell’ingresso dei dipinti al museo di Berlino, si veda in particolare C.M. Voghter, Le acquisizioni di Federico Guglielmo III per i musei di Berlino e per le collezioni reali, in Caravaggio e i Giustiniani. Toccar con mano una collezione del Seicento, catalogo della mostra a cura di S. Danesi Squarzina (Roma), Milano, 2001, pp. 139-144). Come si diceva, l’opera andò distrutta insieme a molti altri capolavori in seguito agli eventi bellici che colpirono il museo nel 1945 (C. Norris, The Disaster at Flakturm Friedrichsbain, a Chronicle and list of Paintings, in ‘The Burlington Magazine’, XCIV, 597, 1952, p. 339). 15 I contratti per la decorazione della cappella Contarelli sono stati scoperti e pubblicati a più riprese a partire dalle indagini ottocentesche di A. Bertolotti, Ar tisti lombardi a Roma nei secoli XV, XVI, XVII. Studi e ricerche negli archivi romani, Milano, 1881, II, pp. 119-120. H. Röttgen, Die Stellung der Contarelli Kapelle in Ca ravaggios Werk, in ‘Zeitschrift für Kunstgeschichte’, XXVIII, 1965, 1-2, pp. 47-68, ha quindi reperito i contratti stipulati dai Crescenzi con Caravaggio. Tutta la messe documentaria è stata integralmente ripubblicata in tempi recenti da S. Macioce, op. cit., pp. 11-12, 28-32, 33-34, 43-44, 49, 52-53, 58, 60-65, 69, 72, 76-79, 84, 8586, 89, 100, 106-111, 114, 116 docc. 3, 31, 33, 48, 53-54, 56, 61, 64-66, 70, 74, 7678, 84, 86-88, 90, 103, 118, 120-122, 128-129, 133 e ora F. Simonelli, Le fonti ar chivistiche per la cappella Contarelli: edizione dei documenti, in La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, a cura di N. Gozzano e P. Tosini, con introduzione di S. Danesi Squarzina, Roma, 2005, pp. 117-153. Si aggiunga inoltre N. Gozzano, Alcuni documenti inediti di epoca mo derna sulla cappella Contarelli, ivi, pp. 109-115. 16 G. Baglione, Le vite de’ pittori scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, 1642, p. 137. 17 G.P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, Roma, 1672, ed. a cura di E. Borea, con introduzione di G. Previtali, Torino, 1976, pp. 219-220. 18 F. Simonelli, op. cit., p. 117. 19 La si veda ripubblicata ivi pp. 130-131. Il documento fu scoperto da Denis Mahon, Addenda to Caravaggio, in ‘The Burlington Magazine’, XCIV, 586, 1952, p. 20. 20 Per il contratto si veda ora F. Simonelli, op. cit., pp. 127-129 (con bibliografia del documento). 21 Si veda nota 19. 22 Ora in F. Simonelli, op. cit., p. 150. 23 Per il documento si veda ora ivi, p. 150. Sui Crescenzi e la cappella Contarelli, si veda in particolare M. Pupillo, “Da’ maligni sommamente lodata”: Caravag gio, i Crescenzi e la decorazione della cappella Contarelli, in La cappella Contarelli, cit., pp. 35-47. 24 M. Cinotti, op. cit., p. 414. 25 F. Bologna, Sulla data del primo San Matteo già a Berlino, in F. Bologna, o p . cit., pp. 460-461. 26 I documenti furono scoperti e pubblicati da J. Bousquet, Documents inédits sur Caravage. La date des tableaux de la Chapelle Saint-Matthieu à Saint-Louis-desFrançais, in ‘Revue des Arts’, III, 1953, 2, pp. 103-105.

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27 Un problema su cui peraltro si interrogava già H. Röttgen, op. cit., pp. 4768 nell’importante saggio in cui pubblicava i documenti per le tele della cappella. 28 Il palmo romano corrisponde a circa cm 22, 34, dunque il vano doveva essere di circa cm 380 x 313. 29 La tela è registrata nell’inventario post mortem del marchese Giustiniani del 1638: “Un quadro grande di S. Mattheo con l’Angelo che gli insegna, figure intiegre depinto in tela alta palmi dieci e mezzo larga 8 e mezzo incirca”, cfr. ora S. Danesi Squarzina, op. cit., p. 388. 30 La fonte che li ricorda tutti destinati a un medesimo ciclo, insieme alla tela di Caravaggio, è G.P. Bellori, op. cit., p. 220. Sui quattro dipinti registrati nell’inventario post mortem di Vincenzo Giustiniani, cfr. S. Danesi Squarzina, op. cit., p. 343. 31 L. Spezzaferro, op. cit., 1980, p. 55. 32 S. Danesi Squarzina, op. cit., p. 388. 33 La vicenda mi pare vada tenuta in grande considerazione anche in relazione al giudizio sulla versione della ‘Conversione di San Paolo’ Odescalchi a confronto con quella ora in Santa Maria del Popolo. È davvero possibile che, anche in quel caso, nel giro di pochi mesi Caravaggio abbia cambiato in modo così profondo non solo lo stile ma anche la concezione dello spazio e dello stesso accadere dell’evento, in una parola della narrazione? Su questo problema si vedano recentemente il già ricordato saggio di L. Spezzaferro, op. cit., 2001, pp. 9-34, e R. Vodret, L’enigma del Caravaggio Odescalchi. Le due versioni della Conversione di san Paolo a confronto, in Il Caravaggio Odescalchi. Le due versioni della Conversione di san Paolo a confronto, catalogo della mostra a cura di R. Vodret (Roma), Milano, 2006, pp. 19-21. 34 Per l’‘Incredulità di San Tommaso’ si vedano in sintesi M. Cinotti, op. cit. , p. 489; M. Gregori, in Michelangelo Merisi da Caravaggio. Come nascono i Capola v o r i, catalogo della mostra a cura di M. Gregori (Firenze-Roma), Milano, 1991, p. 376; S. Danesi Squarzina, in Caravaggio e i Giustiniani, cit., pp. 278-281. 35 G. Baglione, op. cit., p. 137. Come si diceva, è Bellori a parlare esplicitamente del rifiuto “dei preti”, attribuendolo al fatto che “la figura non aveva né decoro né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe incavallate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo” (G.P. Bellori, op. cit., pp. 219-220). Ora, mi pare che, dopo il magistrale contributo di Irving Lavin (Divine Inspiration in Caravaggio’s two ‘St. Matthew’, in ‘The Art Bulletin’, LVI, 1974, 1, pp. 59-81 e Addenda to ‘Divine Inspiration’, in ‘The Art Bulletin’, LVI, 1974, 4, pp. 590-591, tradotto e ripubblicato in I. Lavin, Passato e presente nella storia dell’arte, Torino, 1994, pp. 125-169) sia impossibile pensare che sia questo sic et simpliciter il motivo di mancato “decoro” del ‘San Matteo’ caravaggesco. La raffigurazione corrisponde infatti perfettamente alla tradizionale tipologia del ‘San Matteo e l’angelo’che popola la storia dell’arte dal Medio Evo al tardo Rinascimento, e sulla cui ortodossia non vi è ombra di dubbio. Semmai Caravaggio ha spinto, da par suo, il pedale dell’acceleratore sul naturale, senza tuttavia eliminare il riferimento erudito. Il tipo del San Matteo caravaggesco corrisponde infatti perfettamente a quello di Socrate, e vanta un prototipo illustre, quasi una citazione letterale, nella ‘Scuola di Atene’ di Raffaello (il primo a notarlo è stato H. Wagner, Michelangelo da Caravaggio, Bern, 1958, p. 58, nota 258). Un personaggio del calibro del Bellori non poteva certo essere all’oscuro della vicenda. Anzi, impresso nella memoria il ben più aggraziato prototipo raffaellesco, il ‘San Matteo’ di Caravaggio doveva sembrare totalmente privo di “decoro” agli occhi dell’erudito. Se teniamo conto del fatto che Bellori utilizzava Ba-

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glione come fonte privilegiata, la vicenda del rifiuto assomiglia dunque molto al tentativo di dare una spiegazione della notizia del mancato apprezzamento dell’opera, formulando un’ipotesi che, al pensiero dell’erudito, doveva sembrare assolutamente ragionevole. 36 Questo passo del Baglione è stato, come ben si può immaginare, più volte commentato. Si veda da ultimo R. de Mambro Santos, L’Honorata fatica. I para digmi della maniera nelle Vite di Giovanni Baglione, in Giovanni Baglione (15661644). Pittore e biografo di artisti, a cura di S. Macioce, Roma, 2002, pp. 63-64. Qui si vuole porre l’accento sul problema del rapporto con l’Accademia di San Luca 37 M. Missirini, Memorie per servire alla storia della romana Accademia di S. Luca fino alla morte di Antonio Canova, Roma, 1823, p. 68. Sulla vicenda si veda ora I. Salvagni, Gli “aderenti al Caravaggio” e la fondazione dell’Accademia di San Luca. Conflitti e potere (1593-1627), in Intorno a Caravaggio dalla formazione alla fortuna, a cura di M. Fratarcangeli, Roma, 2008, p. 45. 38 Ibidem. Per quanto riguarda la funzione di “stimatori”, si veda M. Lafranconi, L’Accademia di San Luca nel primo Seicento. Presenze artistiche e strategie cul turali dai Borghese ai Barberini, in Bernini dai Borghese ai Barberini. La cultura a Ro ma intorno agli anni Venti, atti del convegno (Roma, 17-19 febbraio 1999) a cura di O. Bonfait e A. Coliva, Roma, 2004, p. 40, che, tra l’altro, dà notizia di diversi atti relativi alla stima dei dipinti conservati nel fondo notarile dell’Archivio di Stato di Roma. 39 M. Lafranconi, op. cit., pp. 42-43. 40 Ibidem. 41 A mio avviso, anche la vicenda dell’amarezza e dei dissapori di Annibale Carracci nei confronti del proprio patrono, il cardinale Odoardo Farnese, non può non essere letta alla luce della straordinaria fortuna commerciale che, da un certo punto in poi, arrise al Merisi. La difficoltà del rapporto tra Annibale Carracci e Odoardo Farnese durante e subito dopo i lavori per la Galleria, su cui la letteratura critica si è a lungo interrogata, è rilevata innanzitutto da G.P. Bellori, op. cit. , pp. 78, 82-84. 42 Sull’iter che condusse alla redazione di queste norme e in particolare sul ruolo di Giovanni Baglione, si veda ora l’importante saggio di I. Salvagni, op. cit., pp. 47-52. La notizia per cui Baglione sarebbe stato principe dell’Accademia nel 1607, quando gli statuti ricevettero l’imprimatur, generalmente accolta dalla critica, è corretta dalla studiosa che ha rinvenuto documenti che attestano il principato di Paolo Guidotti dall’autunno del 1606 eccezionalmente all’autunno del 1608. Va ricordato che dal 1606 Baglione era a capo della Compagnia di San Giuseppe di Te rrasanta (V. Tiberia, Attività ed “eredità” di Giovanni Baglione per la Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta, in Studi sul Barocco romano. Scritti in onore di Maurizio Fagiolo dell’Arco, Milano, 2004, p. 35). La Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta, altrimenti detta dei Virtuosi al Pantheon, radunando buona parte degli artisti, letterati e musicisti della città, rappresentava un’importantissima istituzione culturale, con intenti tuttavia in gran parte diversi dall’Accademia di San Luca: l’istituzione mantenne infatti il carattere squisitamente religioso che ne vide la nascita, mentre non prevedeva l’insegnamento per i giovani artisti e nemmeno le dispute di carattere teorico (sulla storia dei Virtuosi al Pantheon si veda: V. Tiberia, La Com pagnia di San Giuseppe di Terrasanta nel XVI secolo, Martina Franca, 2000; idem, La Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta nei pontificati di Clemente VIII, Leone XI e Paolo V (1595-1621), con contributo di A. Catalano, Martina Franca, 2002;

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idem, La Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta da Gregorio XV a Innocenzo XII, con contributo di A. Catalano, Martina Franca, 2005). 43 P. Cavazzini, Painting as Business in Early Seventeenth-Century Rome, University Park (Penn.), 2008, pp. 43-48 (sono grata a Patrizia, oltre che per le numerose discussioni su temi cari ai nostri studi, per aver messo il volume a mia disposizione prima della distribuzione). Per quanto riguarda il testo degli statuti, il materiale è stato parzialmente pubblicato da M. Missirini, op. cit., pp. 82-83. Una completa trascrizione si trova in Z. Waz´bin´ski, L’Accademia Medicea del disegno a Fi renze nel Cinquecento. Idea e Istituzione, Firenze, 1987, pp. 511-524. Una copia è conservata nell’Archivio Storico dell’Accademia di San Luca ed è stata recentemente analizzata e commentata da P. Cavazzini, op. cit., pp. 45-46 e I. Salvagni, o p . c i t., pp. 44-54. Una copia a stampa, conservata presso la Biblioteca del Senato, è segnalata in L’Accademia Nazionale di San Luca, Roma, 1974, p. 13, fig. 5. 44 In quest’ottica prende tra l’altro senso il documento del 1606 (L. Spezzaferro, op. cit., 1975), che vedeva il pittore contrapporsi al gruppo degli “aderenti” al Merisi che avevano aggredito il Baglione, giusto in concomitanza della seduta che doveva eleggere il nuovo Principe dell’Accademia di San Luca. Esistevano dunque a Roma due partiti distinti e contrapposti. Anche I. Salvagni, op. cit., p. 49, cita l’importante documento e la deposizione di Baglione che accusa gli “aderenti” al Merisi, cioè Orazio Borgianni e Carlo Saraceni, di “fare un capo a modo loro” in relazione alle diverse correnti esistenti nell’Accademia di San Luca. Qui ho inteso indicare un motivo a mio avviso centrale nella questione delle due fazioni: il libero mercato. 45 D’altro canto ai mercanti non era concesso commissionare dipinti direttamente ai pittori, per timore che si svalutasse la produzione artistica: i compensi offerti erano infatti talmente bassi che gli artisti producevano opere di una qualità decisamente scadente (sul problema P. Cavazzini, op. cit., pp. 43-48). 46 Vorrei ricordare, in proposito, un fatto generalmente poco evidenziato. Fu proprio Vincenzo Giustiniani a fare da tramite tra Caravaggio e Laerte Cherubini, che nel 1601 commissionò al pittore la ‘Morte della Vergine’ per Santa Maria della Scala, un quadro consegnato alcuni anni dopo. Nel contratto si dice esplicitamente che fu il Giustiniani, “eorum communem dominum”, a concordare il prezzo (si veda il documento ora riprodotto in S. Macioce, op. cit., p. 105, doc. 114). Il fatto documenta in modo palese il ruolo di intermediario svolto dal marchese nei confronti di Caravaggio. 47 Le norme furono peraltro decisamente criticate e nel 1617 si ricorse a più miti consigli promulgando nuovi statuti, si veda M. Missirini, op. cit., pp. 84-87. Sulla redazione dei successivi Statuti, si veda I. Salvagni, op. cit., pp. 54-62. 48 Sui dati pubblicati in quell’occasione, mi pare che occorrerà tornare a riflettere, non foss’altro perché mi sono avveduta che, in qualità di estimatore dei dipinti, compare nientedimeno che Baldassarre Aloisi, meglio noto come Galanino, allievo di Annibale Carracci, e con lui a Napoli nel 1609, che nella città partenopea eseguì due copie di un ‘David e Golia’ di Caravaggio, probabilmente quello oggi alla Galleria Borghese: per la vicenda si veda ora M.C. Terzaghi, op. cit., 2007, pp. 309-310, ed eadem, Galanino a Napoli tra Annibale e Caravaggio, in Napoli e l’E milia: relazioni sociali e artistiche, atti del convegno (Santa Maria Capua Vetere, 2829 maggio 2008) a cura di A. Zezza, in corso di pubblicazione. L’inventario risale al 1620 (L. Spezzaferro, op. cit., 2002, p. 37). 49 Si veda H. Waga, Vita nota ed ignota dei Virtuosi al Pantheon, Roma, 1992,

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pp. 220-221. A p. 225 è pubblicata la fotografia del documento. La datazione della carta d’archivio è tuttavia assai controversa, dal momento che vi si può giungere solo per induzione. La Waga (ivi, p. 226) ritiene che la citazione vada riferita al settembre-ottobre 1595. Per S. Rossi, Peccato e redenzione negli autoritratti di Cara vaggio, in Michelangelo Merisi da Caravaggio. La vita e le opere attraverso i docu m e n t i, Atti del convegno internazionale di studi (Roma, 1995) a cura di S. Macioce, Roma, 1996, p. 318, seguito da S. Corradini, in S. Corradini, M. Marini, The earliest account of Caravaggio in Rome, in ‘The Burlington Magazine’, CXL, 1138, 1998, p. 25, nota 2 e M. Bona Castellotti, Il paradosso di Caravaggio, Milano, 1998, p. 32, nota 4, la menzione è dell’autunno del 1594. Un secondo intervento di S. Corradini, Caravaggio negli archivi romani: novità e rettifiche (testo rielaborato da Maurizio Marini), in Michelangelo Merisi da Caravaggio: un problema aperto, atti del convegno (2000), Caravaggio, 2002, p. 58, tuttavia, fa risalire il documento al 18 ottobre 1595; lo segue M. Marini, Caravaggio ‘pictor praestantissimus’. L’iter artistico com pleto di uno dei massimi rivoluzionari di tutti i tempi, Roma, 2001, p. 41. Riassume queste e simili vicende (ad esempio l’inattendibilità della notizia della presenza di Caravaggio in un documento romano dell’11 agosto 1593, per la quale si veda R. Bassani, F. Bellini, Caravaggio assassino. La carriera di un ‘valenthuomo’ fazioso nella Roma della Controriforma, Roma, 1994, p. 8, già smentita da S. Corradini, Nuove e false notizie sulla presenza del Caravaggio in Roma, in Michelangelo Merisi, cit., 1996, pp. 71-76) il minuzioso studio di Giacomo Berra (Il giovane Caravaggio in Lombardia. Ricerche documentarie sui Merisi, gli Aratori e i Marchesi di Cara vaggio, Firenze, 2005, in particolare p. 246, nota 800). Nei tre volumi relativi alla storia della Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta, altrimenti detta dei Virtuosi al Pantheon, che prevedono la pubblicazione dell’archivio della confraternita, curati da Vitaliano Tiberia (op. cit., 2000; idem, op. cit., 2002 e op. cit., 2005) è peraltro chiaramente attestato che qualsiasi documentazione relativa alla Compagnia negli anni che vanno dal 13 dicembre 1587, data dell’ultimo documento esistente, fino all’11 giugno 1595, è scomparsa dall’archivio. Nel 1595 non risulta peraltro nessun documento relativo al 18 ottobre (A. Catalano, Diario, in V. Tiberia, op. cit., 2002, pp. 93-94). Al libro delle Congregazioni è annesso un elenco dei confratelli, anch’esso pubblicato, ma non vi compaiono né Caravaggio né Prospero Orsi. Non resta che ipotizzare che il documento ritrovato dalla Waga sia relativo al 1594. 50 C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi divise in due tomi, Bologna, 1678, ed. a cura di G. Zanotti, Bologna, 1841, II, p. 9. Se si tiene presente, che alla mostra indetta per la festa di San Giovanni Decollato, Giovanni Baglione espose l’‘Amore vittorioso’ (oggi noto in due versioni, quella del museo di Berlino e quella della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma), in concorrenza con un ‘San Michele’ di Orazio Gentileschi, dedicando l’opera al cardinale Benedetto Giustiniani (la letteratura sulla faccenda, nota grazie alla deposizione resa dal Gentileschi al processo indetto da Giovanni Baglione ai danni di Caravaggio nel 1603, è molto ampia, per un recente consuntivo si vedano le schede di Silvia Danesi Squarzina e Rossella Vodret, in Caravaggio e i Giustiniani, cit., pp. 298-301), è evidente come, tutt’altro che di terz’ordine, queste occasioni fossero invece tra le più ghiotte per farsi strada nel mercato dell’arte romano. 51 Gli esborsi sono stati pubblicati da B. Granata, Appunti e ricerche d’archivio per il cardinal Alessandro Montalto, in Decorazione e collezionismo a Roma nel Sei cento.Vicende di artisti, committenti e mercanti, a cura di F. Cappelletti, Roma, 2003, pp. 46-47. Aggiungo che i pagamenti avvenivano tramite il banco Herrera &

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Costa. Il rapporto tra Prospero Orsi e il cardinal Montalto e, di conseguenza, il banco Herrera & Costa, risaliva già al 1591. Tra il 1594 e il 1595 si ha notizia di pagamenti semestrali che continuano nello stesso modo fino a tutto il 1597. La documentazione del banco in questi anni è lacunosa, dunque non è possibile sapere di più sulla faccenda (si veda M.C. Terzaghi, op. cit., 2007, pp. 273-282). Per il rapporto tra l’Orsi e Caravaggio si veda in particolare M. Calvesi, Prospero Orsi ‘turcimanno’ del Caravaggio, in ‘Storia dell’arte’, 85, 1995, pp. 355-358, e più recentemente M. Marini, op. cit., 2001, p. 107; L. Sickel, Caravaggios Rom. Annäherungen an ein dis sonantes Milieu, Emsdetten, 2003, pp. 53-64. Il pittore Prospero Orsi era coetaneo del Merisi e residente nella parrocchia di San Salvatore al Campo in via dei Giubbonari, dove gli Stati delle Anime lo menzionano fino al 1633, anno della morte (ivi, nota 48). L’amicizia tra Prosperino e Caravaggio pare di quelle che durano una vita, se nel 1603 il primo compare tra i sodali del secondo al processo indetto dal Baglione contro il Merisi, e nel 1605 lo ritroviamo garante per lo scapestrato Michelangelo in carcere a Tor di Nona a causa delle ingiurie rivolte ad una certa Laura e alla figlia Isabella (A. Bertolotti, op. cit., II, p. 71 e quindi M. Marini, Un’estrema re sidenza e un ignoto aiuto del Caravaggio in Roma, in ‘Antologia di Belle Arti’, 19-20, 1981, pp. 182-183, nota 11 e idem, op. cit., 2001, p. 107, nota 50). Per la pratica di grottesche e nature morte da parte dell’artista, si veda F. Cappelletti, Paul Bril in torno al 1600: la carriera di un pittore del Nord e la nascita a Roma del paesaggio to pografico, in ‘Annali dell’Università di Ferrara’, Sezione Lettere, 2, 2001, pp. 233256. Per la partecipazione del pittore accanto al Cavalier d’Arpino nella loggia degli Orsini, si veda H. Röttgen, Il Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino. Un grande pittore nello splendore della fama e nell’incostanza della fortuna, Roma, 2002, pp. 276-281. Sui problemi connessi al riuso di una tela di Prosperino da parte di Caravaggio per l’esecuzione della ‘Canestra’ alla Pinacoteca Ambrosiana, si veda recentemente M.C. Terzaghi, Per la Canestra e Federico Borromeo a Roma, in ‘Studia Borromaica. Saggi e documenti di storia religiosa e civile della prima età moderna’, 18, 2004, pp. 263-293. Su Prospero Orsi si veda anche oltre, in particolare note 54 e 84. 52 M. Mancini, op. cit., I, p. 224, secondo il quale il Merisi, appena approdato nell’Urbe: “stette con Pandolfo Pucci da Recanati benefitiato di S. Pietro dove le conveniva andar per la parte, et altri servitii non convenienti all’esser suo e quel ch’è peggio se la passava la sera con un insalata quale li serviva per antipasto pasto e postpasto e come dice il Caporale per companatico e per stecco d’onde dopo alcuni mesi partitosi con poca soddisfatione, chiamò poi questo benifatio suo padron monsignor Insalata”. 53 Egli era infatti figlio di Fabio Damasceni e di Maria Felice Mignucci, a sua volta figlia di Camilla Peretti. Per l’albero genealogico dei Montalto, si veda J. Chater, Musical patronage in Rome at the turn of the seventeenth century: the case of Cardinal Montalto, in ‘Studi Musicali’, XVI, 1987, p. 182. 54 Come è stato evidenziato, Prosperino dal 1595 (ma forse anche prima, i documenti tacciono della questione) abitava con la madre nella piazza di San Salvatore in Campo, l’abitazione si trovava porta a porta con il palazzo dove risiedeva monsignor Fantino Petrignani, un altro dei primi patroni di Caravaggio (F. Bassani, R. Bellini, op. cit., p. 40, nota 23; L. Sickel, op. cit., pp. 53-54), “che gli diede comodità di una stanza”, secondo G. Mancini, op. cit., I, p. 224. 55 Per il banco Herrera & Costa, la sua storia, la sede, i clienti, tra cui il cardinale Alessandro Peretti Montalto occupava un posto d’onore, si veda M.C. Te rzaghi, op. cit., 2007, pp. 32-66.

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56 Per il rapporto tra il Costa e il Tritonio si veda ora ivi, pp. 39-41, 301-302, 317-319. 57 La vicenda è nota da tempo ed è già stata più volte riletta e commentata, per un consuntivo del problema e una completa analisi storico documentaria si veda ora ivi, pp. 295-312. Il dipinto di Udine è stato recentemente esposto alla mostra Caravaggio. L’immagine del divino, catalogo a cura di D. Mahon (Trapani), Roma, 2008, pp. 198-201, la scheda è stata curata da Maurizio Marini e Federica Gasparrini. 58 Per tutta la vicenda si veda ora M.C. Terzaghi, op. cit., 2007, pp. 300-306. Non è questo il solo dipinto di Caravaggio di proprietà Costa ad essere stato precocemente replicato ad uso del proprietario: la stessa cosa accadde anche per il ‘San Giovanni Battista’ oggi a Kansas City, la cui copia che, documenti alla mano, possiamo ritenere redatta nel 1606, si trova oggi conservata nel Museo Diocesano di Arte Sacra di Albenga (per tutta la questione e in particolare la datazione della tela, si veda ivi, pp. 295-300). 59 Essi si riferiscono tuttavia al 1611-1613 circa, anni successivi alla scomparsa del maestro, quando ormai i prezzi dei suoi dipinti e di quelli dei suoi seguaci erano alle stelle. Ma la cosa dovette verificarsi anche prima, come avremo modo di chiarire. 60 Si veda, a titolo di mero esempio, il caso contemporaneo di Pietro Contini (M.C. Terzaghi, op. cit., 2007, in particolare pp. 60-61). 61 A questo proposito mi pare di grande interesse notare come la più antica registrazione dell’Orsi tra coloro che, aderendo all’Accademia di San Luca, versavano il tributo della candela alla festa del santo patrono, risalga al 22 ottobre 1606, per terminare due anni più tardi nel 1608. Il clima rovente, all’indomani della fuga del Merisi, sembra aver suggerito a Prosperino di rientrare nei ranghi del partito vincente, aspettando che le acque si calmassero. Per il pagamento dei tributi di Prospero Orsi all’Accademia di San Luca, si veda I. Salvagni, op. cit., p. 53. Recenti studi propongono l’identificazione di Prospero Orsi con il cosiddetto Maestro della Natura morta di Hartford. Su questi problemi si veda più avanti, nota 84. 62 Per i Caravaggio di proprietà di Ottavio Costa, si veda ora M.C. Terzaghi, op. cit., 2007, pp. 144-147, 273-312. 63 Sulla vicenda e il pagamento al Merisi si veda ivi, pp. 295-300. 64 Ho narrato dettagliatamente la vicenda ivi, pp. 295-306. 65 La tela di Capodimonte misura cm 172 x 131. Le dimensioni del dipinto di Kansas City sono cm 172,7 x 132,1. 66 F. Strazzullo, Domenico Venuti e il recupero delle opere d’arte trafugate dai francesi a Napoli nel 1799, in ‘Rendiconti della Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti’, LXIII, 1991-1992, p. 52. Sulla tela è inoltre presente un antico cartellino che documenta l’acquisto: “Quadro in tela denotante S. Gio Batta, di Bartolomeo (…) comprato dal Cav. Venuti per S.M. il Re di Napoli, dal Sig. Pietro V(…)li in Roma l’anno 1802 / Marchese Dom(…)”. 67 Assai difficile è stabilire con precisione la paternità della tela napoletana, che, dopo l’acquisto come opera del Manfredi, fu tradizionalmente riferita a Orazio Riminaldi (per il problema si veda qui avanti, nota 70), finché Longhi la espose alla mostra del 1951, rigettandola nell’anonimato (Mostra del Caravaggio e dei caravag geschi, catalogo (Milano), Firenze, 1951, p. 41, n. 56; rist. in Studi caravaggeschi. To mo I, 1943-1968, Firenze (Opere complete, XI/1), 1999, p. 90. Longhi conosceva il dipinto da molti anni. Nel 1927 (Precisioni nelle gallerie italiane. I. Galleria Borghe -

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se. Michelangelo da Caravaggio, in ‘Vita artistica’, II, 2, 1927, p. 31, rist. in R. Longhi, Saggi e ricerche 1925-1928, Firenze, Opere complete, II, 1967, I, pp. 300-306) aveva sostenuto addirittura l’autografia dell’opera, opinione abbandonata tuttavia nel 1943 (idem, Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia, in ‘Proporzioni’, I, 1943, pp. 14-15; rist. in Studi caravaggeschi, cit., p. 10). Il dipinto ha recentemente partecipato all’esposizione di Düsseldorf come opera di anonimo caravaggesco (cfr. N. Hartje, in Caravaggio. Originale und Kopien im Spiegel der Forschung, catalogo della mostra a cura di J. Harten e J.-H. Martin, Düsseldorf, 2006, p. 233). 68 Olio su tela, cm 135 x 96. Dipinti italiani 1620-1840, catalogo della mostra a cura di E. Testori e M. Voena, Milano, Compagnia di Belle Arti, 1996, pp. 12-13, 49-50. Il dipinto è stato attribuito per primo al Manfredi da Carlo Del Bravo (Le ri sposte di storia dell’arte, Firenze, 1985, p. 195, tav. 22). Sull’opera si veda recentemente N. Hartje, Bartolomeo Manfredi (1582-1622). Ein Nachfolger Caravaggios und seine europäische Wi r k u n g,Weimar, 2004, pp. 347-349 (con bibliografia); La “scho la” del Caravaggio. Dipinti dalla Collezione Koelliker, catalogo della mostra a cura di G. Papi (Ariccia), Milano, 2006, pp. 46-49. 69 V. Markova, Quadri di maestri italiani dal XIV al XVIII secolo nei musei del l’URSS, Mosca, 1986, pp. 78-79, n. 25. 70 In questo senso anche il riferimento a Orazio Riminaldi, un pittore peraltro spesso molto vicino al Manfredi, non appare del tutto in sintonia. L’attribuzione al pittore pisano si trova in alcuni cataloghi di Capodimonte che risalgono alla fine dell’Ottocento: G. Fiorelli, Del Museo Nazionale di Napoli, Napoli, 1873, p. 28, n. 5; A. Migliozzi, D. Monaco, Nuova guida generale del Museo Nazionale di Napoli, Napoli, 1895, p. 88, n. 5. Come Riminaldi compare ancora in A. De Rinaldis, Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli. Catalogo della Pinacoteca, Napoli, 1911, p. 347, n. 292. Ma A.O. Quintavalle, Pinacoteca del Museo Nazionale di Na poli. Catalogo generale dei dipinti, Napoli, 1930, n. 370, considerava il dipinto di un “alunno del Caravaggio”. 71 Mi chiedo, a questo punto, se nello stesso circuito rientri anche un’altra copia antica, conservata nella chiesa di Santo Stefano degli Agostiniani di Empoli, che conosco grazie alla cortese segnalazione di Anna Bisceglia, che ringrazio vivamente. La tela, di dimensioni pressoché identiche all’originale, si trova sull’altare in capo alla navata destra della chiesa, a fianco dell’altare maggiore. Non è tuttavia questa la collocazione originaria del dipinto. L’altare della Purificazione, è questa l’intitolazione della cappella, venne infatti acquistato nel 1599 da Tommaso Zeffi, che nel 1604 lo ornò con il dipinto di Jacopo Chimenti raffigurante la ‘Presentazione al tempio’, distrutto durante i bombardamenti nella seconda guerra mondiale ma in loco fino al 1909. La tela di ‘San Giovanni Battista’ non è mai descritta nelle guide locali. L’opera è certamente seicentesca, per quanto sembri di qualità inferiore al dipinto di Capodimonte e certamente realizzata da una mano diversa rispetto alle altre due repliche sinora note. 72 M. Maccherini, Novità su Bartolomeo Manfredi nel carteggio familiare di Giulio Mancini: lo “Sdegno di Marte” e i quadri di Cosimo II granduca di Toscana, in ‘Prospettiva’, 93-94, 1999, pp. 131-133. 73 Mi riferisco alle lettere del Mancini al fratello pubblicate da M. Maccherini, op. cit. 1997, p. 82 e idem, op. cit., 1999, pp. 131-133. 74 Su questi problemi si veda ora E. Parlato, Manfredi, Bartolomeo, voce in D i zionario biografico degli italiani, Roma, LXVIII, 2007, pp. 661-665, che riassume tutta la bibliografia precedente.

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75 I documenti a cui si fa riferimento riguardano la deposizione del Merisi al processo intentatogli da Giovanni Baglione nel 1603. Credevano all’identificazione del “Bartolomeo” citato da Caravaggio con Manfredi: A. Moir, The Italian followers of Caravaggio, Cambridge (Mass.), 1967, I, pp. 40-41; J.P. Cuzin, Manfredi Fortune Teller and Some Problems of “Manfrediana Methodus”, in ‘Bulletin of the Detroit Institute of Arts’, LVIII, 1980, 1, p. 16. Resta in forse M. Gregori, Dal Caravaggio al M a n f re d i, in Dopo Caravaggio. Bartolomeo Manfredi e la “Manfrediana Methodus”, catalogo della mostra a cura di M. Gregori (Cremona), Milano, 1987, pp. 15-16, così come la monografia di Nicole Hartje, op. cit., passim. A favore dell’ipotesi si è invece recentemente espresso Gianni Papi (Manfredi. La cattura di Cristo. Collezione Koelliker, Milano, 2004, p. 24). 76 Per la trascrizione del documento si veda da ultima N. Hartje, op. cit., p. 393, doc. 4. 77 Si veda il documento pubblicato da J. Bousquet, Recherches sur le séjour des peintres français à Rome au XVIIième siècle, Montpellier, 1980, p. 202, quindi N. Hartje, op. cit., p. 50, nota 155. 78 M. Maccherini, op. cit., 1997, pp. 75 e 82, appendice nn. 4 e 5. 79 Ivi, pp. 75-76. 80 Su questa importante vicenda, si veda L. Sickel, Remarks on the patronage of Caravaggio’s ‘Entombment of Christ’, in ‘The Burlington Magazine’, CXLIII, 1180, 2001, pp. 426-429 e idem, op. cit., 2003, pp. 55-64, che pubblica l’albero genealogico della famiglia Vittrice. Del sodalizio tra Giulio Mancini e Alessandro Vittrice parlano chiaro le lettere di Mancini al fratello (M. Maccherini, op. cit., 1997, p. 86, lettere 37 e 39). 81 Negli inventari dei beni di Gerolamo, redatti nel 1609 e nel 1612, in favore del figlio Alessandro, il quadro compare una prima volta con la denominazione di “Zinghara” (L. Sickel, op. cit., 2003, p. 223), ed è quindi descritto come: “un quadro grande con una zingara che dà la ventura con cornice nera e il suo tafeta rosso” (ivi, p. 228). Per gli inventari dei beni della famiglia Vittrice a metà del Seicento, si vedano L. Sickel, op. cit., 2001, p. 429 e ora M. Fratarcangeli, La diffusione “cara vaggesca” negli inventari romani del Seicento, in Intorno a Caravaggio, cit., p. 29. 82 Lo ha dimostrato L. Sickel, op. cit., 2001, pp. 426-429. 83 Dello stesso parere è L. Sickel (ivi, p. 429). G. Mancini, op. cit., I, p. 140 afferma tra l’altro che Caravaggio vendette il dipinto per otto scudi. 84 M. Calvesi, op. cit., p. 355 ha giustamente richiamato l’attenzione sul fatto che i Mattei commissionarono a Prospero Orsi un’‘Incredulità di San Tommaso’, la cui descrizione coincide perfettamente con il dipinto di Caravaggio di proprietà di Vincenzo Giustiniani, e dunque potrebbe essere una copia della celebre tela del Merisi. Maurizio Marini ha recentemente suggerito che l’Orsi possa essere l’autore di alcune copie antiche da dipinti di Caravaggio in collaborazione con il maestro, in particolare dell’‘Incredulità di San Tommaso’, in collezione privata per la quale si veda M. Marini, Caravaggios “Doppelgänger”. Unbekannte Originale, Zweitversionen und Mehrfachnennungen im Werk Michelangelo Merisi, in Caravaggio. Originale und Kopien, cit., p. 47 e la relativa scheda n. 43. È molto difficile, a quanto ne sappiamo, dare un nome ai diversi copisti. In particolare, per quanto riguarda i quadri Costa, non ho rinvenuto nessuna indicazione nelle carte d’archivio. Tuttavia, senza alcun dubbio, l’autore della copia del ‘San Francesco in estasi’ ora a Udine non può essere lo stesso che redasse il dipinto raffigurante ‘San Giovanni Battista’ oggi ad Albenga. Copie come si diceva entrambe commissionate nello stesso giro di mesi e dal

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medesimo mecenate. Il dubbio che Prospero Orsi fosse l’autore di qualcuna delle copie antiche oggi in circolazione mi pare, comunque, del tutto legittimo, per quanto per ora i dati certi siano troppo pochi. A proposito di attribuzioni all’artista, ricordo il recente intervento di C. Whitfield, Prospero Orsi interprète du Caravage, in ‘Revue de l’Art’, 155, 2007, pp. 9-19 che propone l’identificazione del pittore con il Maestro della Natura morta di Hartford. 85 Questi dati si recuperano collazionando le citazioni inventariali tratte dagli inventari Altemps con i libri di conti della stessa famiglia, pubblicati da L. Spezzaferro, op. cit., 2002. In particolare si veda p. 29, dove lo studioso riportava anche i dati che emergono da un inventario dei beni di Giovan Angelo Altemps del 1620, conservato presso la Newbury Library di Chicago. 86 D’altronde, a conti fatti, Bartolomeo Manfredi è citato nelle C o n s i d e r a z i o ni (G. Mancini, op. cit., I, p. 108) come il primo degli appartenenti alla “schola” del Merisi, e dunque l’appellativo di “scholaro del Caravaggio” sembra funzionare perfettamente. Essendo il Mancini ad esprimersi in questi termini, e cioè a definire “Scholaro di Michelangelo” il copista, ed essendo ben noto il concetto di “schola” nel pensiero critico del medico senese, non sono peraltro così sicura che possiamo dare al termine l’esatta accezione che gli verrebbe conferita nel linguaggio moderno: mi pare infatti più probabile che il medico senese volesse definire il copista come un pittore appartenente alla “schola” di Caravaggio, il che non significa necessariamente che fosse un diretto allievo nel senso di ragazzo di bottega. 87 L. Spezzaferro, op. cit., 2002, p. 30. 88 Sono questi i dati relativi all’inventario forniti ivi, p. 28. 89 G. Papi, Il primo ‘Lamento di Aminta’ e altri approfondimenti su Bartolomeo Cavarozzi, in ‘Paragone’, 77 (695), 2008, pp. 45-47. Il dipinto di Caravaggio conservato a Londra (la versione della Pinacoteca di Brera ha infatti una figura in più rispetto alla descrizione dell’inventario) misura cm 141 x 196,2, la tela di Cavarozzi è di misure pressoché identiche (cm 139 x 194). Le dimensioni di entrambe le tele dunque potrebbero adattarsi con i dieci palmi di larghezza del quadro Altemps (cm 220 circa), se si tiene conto che essi erano molto probabilmente comprensivi della cornice. Mi pare comunque importante ricordare che il quadro di Cavarozzi, anche tenuto conto dell’identità delle misure, si colloca nella scia delle variazioni sul tema iconografico proposto da Caravaggio, da cui dipende strettamente. 90 L. Spezzaferro, op. cit., 2002, p. 30 e G. Papi, op. cit., 2008, pp. 45-47. In realtà Gianni Papi ritiene che Bartolomeo Cavarozzi sia anche l’autore del ‘Davide e Golia’ citato dalle carte Altemps di cui si discuteva qui sopra. 91 L. Spezzaferro, op. cit., 2002, p. 48. 92 Ivi, p. 47. Il cognome è stato correttamente riportato a quest’ultima lectio da F. Nicolai, Collezionismo, committenza pittorica e mercato dell’arte nella Roma del primo Seicento. Quattro famiglie a confronto: Massimo, Altemps, Naro e Colonna, tesi di dottorato di ricerca, XX ciclo, Università della Tuscia, 2008. 93 In particolare, un “Bartolomeo pittore” compare per la prima volta nei libri mastri del duca Giovan Angelo Altemps l’11 agosto 1612, quando gli viene saldato “uno quadro della Madonna con N. S. grande con le cornice indorate” per il non irrilevante prezzo di 70 scudi (L. Spezzaferro, op. cit., 2002, p. 46).Alcuni mesi dopo, il 15 febbraio 1613 lo stesso prezzo viene sborsato a Prospero Orsi per la vendita della copia dell’‘Incredulità di San Tommaso’ di Caravaggio e per il ‘Davide e Golia’ di “Bartolomeo ottimo scholaro del Caravaggio” (una copia anche questa di una delle tante versioni del soggetto caravaggesco o un quadro autonomo di uno

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dei suoi stretti seguaci?). Alla successiva indicazione di esborso, circa un mese dopo, il 2 marzo 1613, anche questa volta a favore dell’Orsi, vengono registrati un “quadro di frutti” di Caravaggio e un altro analogo del misterioso Bartolomeo acquistati per il prezzo totale di 40 scudi. Il 25 luglio dello stesso anno, invece, il duca Giovan Angelo Altemps acquista da “Bartolomeo pittore” due quadretti piccoli per il prezzo totale di 25 scudi. Il giorni dopo l’artista vende al duca anche un ‘Ritratto del Bembo’ attribuito a Tiziano e un “Ritratto d’Ellena” sempre per il prezzo complessivo di 25 scudi. Il successivo 15 agosto Bartolomeo, il cui cognome è correttamente letto come “Cervetto”, vende al duca sessanta teste di ‘Uomini Illustri’ per 54 scudi. Nel 1615 lo stesso personaggio, questa volta indicato però come “Dansetto”, risulta affittuario del duca per due botteghe “nella piazza della Pulinara”. Da questo momento in poi si perdono le tracce dell’artista nei documenti Altemps. Per tutte queste indicazioni documentarie, si veda L. Spezzaferro, op. cit., 2002, p. 47. 94 Del resto, a giudicare dalle misure del ‘David e Golia’ di proprietà Altemps “alto palmi dieci”, esso non può essere considerato propriamente copia di nessuna delle tele di Caravaggio con questo soggetto, giacché le dimensioni non sembrano corrispondere. 95 M. Maccherini, op. cit., 1997, pp. 75-76. Per inciso vorrei osservare che la copia della “Zingara” ottenuta da Mancini era ritenuta la più precoce copia sul mercato romano, mentre, stando alle datazioni qui proposte, troviamo i quadri Costa in pole position. 96 Ivi, p. 82, appendice 5. 97 L. Spezzaferro, op. cit., 2002, p. 29; M.C. Terzaghi, Giuseppe Ve r m i g l i o,in I Caravaggeschi, a cura di A. Zuccari, Milano, 2008, in corso di stampa. Sul problema di Vermiglio specialista nel tema del ‘Sacrificio di Isacco’, fu portato molto acutamente alla ribalta degli studi da M. Gregori, Il Sacrificio di Isacco: un inedito e considerazioni su una fase savoldesca del Caravaggio, in ‘Artibus et Historiae’, 20, 1989, pp. 99-142, pp. 140-141, nota 16. Per la completa disamina degli Isacchi vermiglieschi, cfr. da ultimi A. Morandotti, Gli anni romani di Giuseppe Vermiglio, in Giuseppe Vermiglio. Un pittore caravaggesco tra Roma e la Lombard i a, catalogo della mostra a cura di D. Pescarmona (Campione d’Italia), Milano, 2000, pp. 45-46, 51 e figg. 21-23, 31-32, pp. 92-95; e F. Frangi, Giuseppe Vermiglio in Lombardia: in dicazioni per un percorso, ivi, p. 61, fig. 35. Ma tornando alle copie del ‘Sacrificio di Isacco’, mi pare di grandissimo interesse, ai fini del nostro discorso, rilevare come la famiglia di Prospero Orsi, nella persona del pittore e del letterato Aurelio, fosse in rapporti strettissimi con Maffeo Barberini, tanto che è stato suggerito che il tramite del ‘Ritratto di Maffeo Barberini’ attribuito a Caravaggio sia stato proprio Prosperino (L. Sickel, op. cit., 2001, p. 429). Non mi sembra che ci sia ulteriormente bisogno di specificare che l’artista possa essere stato implicato anche nella produzione e nella compravendita della copia per l’ambasciatore francese. 98 La copia era destinata al banchiere senese Agostino Chigi, cfr. M. Maccherini, op. cit., 1997, p. 71. 99 Ivi, pp. 79-80. Va rilevato che Mancini propone di vendere il dipinto sul mercato senese per 10 scudi. 100 La missiva in cui l’ambasciatore espone la questione è stata resa nota da A. Bachet, P i e r re Paul Rubens, deuxième article. Rubens revient d’Espagne à Mant o u e , son sejour et ses travaux à la cour de Vincent Ier, jusqu’à l’époque de son second voya ge a Rome (1604-1606), in ‘Gazette des Beaux Arts’, XXI, 1867, 1, p. 317, e ora cfr.

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B. Furlotti, Le collezioni Gonzaga. Il carteggio tra Roma e Mantova (1587-1612), Cinisello Balsamo, 2003, p. 484, doc. 721. 101 Per la documentazione di tale scambio di attribuzioni nella vicenda dei Caravaggio Costa si veda ora M.C. Terzaghi, op. cit., 2007, pp. 302-303 102 Originario di Ventimiglia, egli morì a Napoli l’8 maggio 1630, cfr. A. Delfino, Documenti inediti per alcuni pittori napoletani del ’600 e l’inventario dei beni lasciati da Lanfranco Massa con una sua breve biografia (tratti dall’Archivio Storico del Banco di Napoli e dall’Archivio di Stato di Napoli), in ‘Ricerche sul ’600 napoletano’, 1985, p. 90. È ben nota la vicenda della commissione al Merisi del ‘Martirio di Sant’Orsola’ (Napoli, collezione Sanpaolo Banco di Napoli) per Marcantonio Doria di cui fu tramite lo stesso Massa (F. Bologna, V. Pacelli, Caravaggio 1610: “La Sant’Orsola confitta dal tiranno”, in ‘Prospettiva’, 23, 1980, pp. 24-44). 103 Così mi sembra infatti che vada identificato quell’“Antonio tedesco” di cui il Massa possiede un ‘San Giovanni Battista’ e una ‘Natività’: data la spiccata preferenza del genovese per artisti caravaggeschi, e la mancanza di altri pittori partenopei che abbiano simili nomi (non ne compare, ad esempio, nessuno in B. De Dominici, Vite de pittori scultori e architetti napoletani, Napoli, 1742-1745). Antonio D’Enrico, detto Tanzio da Varallo, infatti, provenendo dalla Valsesia, è detto “Tedesco” nei documenti noti in Italia Centrale (così è ad esempio ricordato da un manoscritto abruzzese del XVII secolo, per il quale cfr. G. Sabatini, Ottavio Colecchi, in ‘Rassegna di Storia e d’Arte d’Abruzzo e Molise’, IV, 1928, p. 87, nota 199 e, per la trascrizione integrale del documento, la datazione delle chiose al testo, eccetera, cfr. M.C. Terzaghi, R e g e s t o, in Tanzio da Varallo. Realismo, fervore e contemplazio ne in un pittore del Seicento, catalogo della mostra a cura di M. Bona Castellotti, Milano, 2000, pp. 233 e 237, nota 10). Il pittore è attestato a Napoli da opere (sulla presenza napoletana di Tanzio fa il punto F. Bologna, Tanzio a Roma, sugli Alto piani Maggiori d’Abruzzo e a Napoli, ivi, pp. 33-40; cfr. inoltre M.I. Catalano, Tan zio da Varallo. Pentecoste, ivi, pp. 76-77 e S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli, 2000, in particolare pp. 67-72), ma non da documenti, e il suo passaggio in una collezione decisamente orientata in senso caravaggesco, come quella di Lanfranco Massa, mi sembra altamente significativo per stabilire che attorno al principio del secondo decennio, quando la raccolta del genovese si andava verosimilmente formando, Tanzio era presente sulla piazza napoletana, molto probabilmente con dipinti che risentivano da vicino del linguaggio naturalistico di Caravaggio. 104 “Un quadro di S. Ursula con cornice, del Caravaggio”, che va certamente identificato con un’altra versione (a mio avviso una copia) dell’originale che nel 1610 raggiungeva il palazzo di Marcantonio a Genova; “Un quadro di s. Lorenzo con cornice, di Gio. Bernardino siciliano” a fronte del “Martirio di San Lorenzo di Gio. Bernardino” inventariato nella raccolta Doria: l’inventario è da ultimo pubblicato da P. Boccardo, Un committente, un quadro, una collezione: vicende fra Napoli e Genova (e ritorno) della Sant’Orsola dipinta per Marcantonio Doria, in L’ul timo Caravaggio. Il Martirio di Sant’Orsola restaurato, catalogo della mostra (RomaMilano-Vicenza), Milano, 2004, p. 264; “Un quadro della Pietà con detta cornice (cornice negra et oro) di Gioseppe Rivieras”, che appare assai significativo al cospetto della ‘Pietà’ del Ribera che Marcantonio ottenne nel 1623 (E. Nappi, Un re gesto di documenti editi ed inediti, in ‘Ricerche sul ’600 napoletano’, 1990, p. 181) e che figurava nella sua raccolta; “Un quadro di Nostro Signore con la croce in collo” di Battistello, che potrebbe forse essere una copia del ‘Qui vult venire post me’,

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oggi a Torino, Rettorato dell’Università, inventariato nella collezione del Doria, dove Gesù porta una grande croce (ma non è escluso che abbia ragione Stefano Causa, op. cit., p. 347, per il quale il dipinto va invece annoverato tra le opere perdute del pittore: effettivamente si conoscono altri quadri attribuiti all’artista con il medesimo soggetto, come la tela conservata presso la Quadreria dei Girolamini di Napoli). 105 Le vicende sono narrate da V. Pacelli, in F. Bologna, V. Pacelli, op. cit., pp. 24-44. 106 Vale la pena qui riproporre un celebre passo che il Longhi scrisse in relazione a una copia dei ‘Bari’ (l’originale, oggi al Kimbell Art Museum di Fort Worth, fu ritrovato solo molti anni dopo, cfr. D. Mahon, Fresh light on Caravaggio’s earliest period: his “Cardsharps” recovered, in ‘The Burlington Magazine’, CXXX, 1018, 1988, pp. 10-25): “Fra le opere giovanili del Caravaggio è anche da porre, sebbene taciuto dal Mancini e dal Baglione, ricordato soltanto dal malfido Bellori, e messo in dubbio da qualche moderno, il celebre quadro dei ‘Bari’ che fu prima dei Barberini, poi degli Sciarra fino agli ultimi anni del secolo scorso. Sia o no il medesimo dipinto trafugato al marchese Sannesio nel 1621, certo è che l’opera descritta dal Bellori risponde perfettamente al dipinto Sciarra. Il Dott. F. Baumgart ha però avuto torto provandosi, recentemente, a identificarlo con una cattiva tela di una collezione privata tedesca. Questa è copia evidente dall’originale smarrito il cui più antico ricordo grafico (incisioni a parte) non è già la vecchia fotografia del Moscioni, palesemente tratta da una copia anche peggiore di quella illustrata dallo studioso tedesco, ma l’accurata tavola della pubblicazione del Vicchi su Dieci quadri della Galleria Sciarra. Ed è vero che il Dott. Baumgart ha cercato di aggirare le possibili obbiezioni parlando, con qualche ambiguità, di ‘ripetizioni’ del Caravaggio; sta di fatto che se v’è un autore a non potersi immaginare nell’atto di replicare le proprie opere questi è il Caravaggio, per il quale la ‘realtà’ di un dipinto non poteva verificarsi che una volta sola. In effetto i casi di presunte repliche, citati dal Dott. Baumgart, sono casi da decidersi fra originale e copia” (R. Longhi, op. cit., 1943, ed. 1999, pp. 4-5). Il dissenso tra Roberto Longhi e Denis Mahon su questo tema, polarizzatosi intorno alla riscoperta della ‘Flagellazione’ di Rouen (R. Longhi, Sui mar gini caravaggeschi, in ‘Paragone’, 21, 1951, pp. 28-29; D. Mahon, A Late Caravaggio Rediscovered, in ‘The Burlington Magazine’, XCVIII, 640, 1956, pp. 225-226, rist. in ‘Paragone’, 77, 1956, pp. 25-34; R. Longhi, Un originale del Caravaggio a Rouen e il problema delle copie caravaggesche, in ‘Paragone’, 121, 1960, pp. 23-28) è lucidamente stigmatizzato da D. Mahon, The singing ‘Lute player’ by Caravaggio from the Barberini collection, painted for Cardinal Del Monte, in ‘The Burlington Magazine’, CXXXII, 1042, 1990, p. 5. Dello stesso parere è K. Christiansen, Some ob servations on the relation ship, between Caravaggio’s two treatments of the ‘Lutep l a y e r ’,in ‘The Burlington Magazine’, CXXXII, 1042, 1990, pp. 21-26. L’ipotesi di un Caravaggio copista di se stesso è oggi accolta da M. Marini, op. cit., 2006, pp. 44-63 e idem, “Contrasts in Art-historical Methods”: Sir Denis Mahon Approaches to Caravaggio. Questioni di metodo o di “Feeling”?, in Caravaggio. L’immagine del di v i n o, cit., pp. 19-25. Anche gli studi più recenti di Mina Gregori (Un altro autografo dei B a r i di Caravaggio, in Caravaggio. L’immagine del divino, cit., pp. 47-83 e Un al tro autografo dei Bari di Caravaggio, in Caravaggio. I Bari della collezione Mahon, catalogo della mostra a cura di D. Benati e A. Paolucci, Forlì, 2008, pp. 20-30, nonché, in senso più generale, M. Gregori, Come dipingeva Caravaggio, in Caravaggio. L’immagine del divino, cit., pp. 27-34) si collocano nell’ottica di una revisione di al-

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cune posizioni longhiane, per dare spazio a una diversa lettura in particolare della produzione giovanile del Merisi. 107 L. Spezzaferro, op. cit., 2002, pp. 28-33. 108 P. Leone de Castris, in Il patrimonio artistico del Banco di Napoli. Catalogo delle opere, Napoli, 1984, pp. 36-38 per primo avanzava l’ipotesi che la tela potesse essere la copia del perduto originale caravaggesco, attribuendola, a mio avviso con buona ragione, a Louis Finson. Sul dipinto si veda in particolare la scheda di F. Bologna, in Caravaggio. L’ultimo tempo. 1606-1610, catalogo della mostra, Napoli, 2005, pp. 166-167, che, d’accordo con Leone de Castris sull’identificazione del dipinto con il perduto quadro caravaggesco, appare invece di altra opinione in merito all’attribuzione. 109 Apprendiamo la vicenda della vendita dei quadri dall’epistolario del pittore Frans Pourbous al duca di Mantova, cfr. da ultima S. Macioce, op. cit., pp. 230231, docc. 354-355, con completa bibliografia dei documenti. Per il Vinck, cfr. invece la lettera di Giacomo di Castro, allievo di Battistello Caracciolo, al principe Antonio Ruffo di Messina, del 1673: V. Ruffo, La Galleria Ruffo in Messina nel se colo XVII (con lettere di pittori ed altri documenti inediti), in ‘Bollettino d’arte’, X, 1916, pp. 148-149. 110 Sulla questione si veda qui sopra alla nota 48, ricordo che il Galanino risulta stimatore dei quadri dello stesso duca Giovan Angelo Altemps di cui si è a lungo parlato. 111 A. Bertolotti, op. cit., II, pp. 76-77; G. Dell’Acqua, M. Cinotti, Il Cara vaggio e le sue grandi opere da San Luigi dei Francesi, Milano, 1971, pp. 162-163; D. Mahon, op. cit., 1988, p. 13 e nota 16; M. Gregori, in Michelangelo Merisi da Ca ravaggio. Come nascono i capolavori, cit., p. 96; M. Marini, op. cit., 2001, pp. 403404; S. Macioce, op. cit., pp. 286-287, doc. 460. Val la pena rileggere il documento con attenzione. “Dovete sapere come il signor Antonio Ursino un mese fa me fece consignare un quadro d’un gioco di mano di Michelangelo da Caravaggio dal Signor Marchese Sannesio acciò io ne facese copiare per il detto signor Antonio che lo voleva per un gentilhuomo suo amico; et acciò che il d(etto) quadro non fusse strapazato, o per qualch’altro respetto, me fece consegnare il d(etto) s(igno)re Marchese una stantia nel detto Monte di santo Spirito per fare d(ett)a copia et me ne diede la chiave”. Comincia così la deposizione del malcapitato pittore pisano Alessandro Frigoni detto Bazzicaluva, di professione copista, il 5 novembre 1621 al processo contro il calzolaio Pietro Ancina, accusato del furto di entrambi i dipinti nelle mani del Bazzicaluva (sul pittore e l’entourage pisano, cfr. P. Carofano, F. Paliaga, Pittura e collezionismo a Pisa nel Seicento, Pisa, 2001, pp. 48-49). Per paura che la tela si sciupasse, egli consegna addirittura al pittore le chiavi di una stanza dove avrebbe dovuto eseguire la copia. Pietro Ancina, detenuto nelle carceri in Borgo, per scagionarsi traccia un quadro della vicenda a mio avviso ancora più interessante: “Io me trovo prigione da venerdì a sera in qua, che fui preso in casa mia ad un hora di notte in circa et credo sia per causa d’un quadro che ho compro e fatto comprare da un Milanese”, informandosi il giudice sulla sorte di quel dipinto, da chi lo aveva ricevuto, a che prezzo e a chi fosse destinato, Pietro risponde che lo aveva avuto da un giovane, figlio di Michelangelo Torsiano, che glielo aveva lasciato con un accordo che oggi definiremmo conto vendita: “Me lo feci lasciare et che tornasse la mattina seguente che l’haverei fatto vedere a un gentilhuomo che l’averia comprato”. Secondo la deposizione, Pietro Ancina sborsò 3 scudi e pochi giuli per la tela e la rivendette a un gentiluomo che se la portò a Milano. Il quadro risulta

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“vecchio assai di telaro et dietro ci era scritto ‘del Caravaggio’ con non so che numero et altro segno non c’era”. Il calzolaio tace tuttavia sul prezzo della vendita all’acquirente milanese, ma i precedenti testi affermano che: “ho inteso dire da più pittori che vaglino duecento scudi”. Il marchese Sannesio era dunque in possesso di una copia dei ‘Bari’ “ben copiata”, che prestava solo agli amici e con grandissima cautela perché fosse a sua volta replicata, tale e quale a un originale, e così la ritiene il copista. Dietro il telaio, per di più, la copia recava la scritta “del Caravaggio” e un numero, forse, chissà, in riferimento all’inventario della collezione, dati che sembrano ribadire l’originalità del dipinto. Se il Bazzicaluva non esprime dubbi sulla bontà dell’opera di provenienza Sannesio, il presunto ladro del quadro si sente invece in dovere di chiamare a giudizio alcuni intenditori, dapprima un indoratore, Francesco Modello, che subito afferma che il dipinto è copia e che “di quelle se ne erano fatte tante”, per quanto questa fosse “una bella copia et ben copiata” e poi un’autorità nel campo, Giulio Mancini, che afferma senza ombra di dubbio che il dipinto è copia: “La mattina chiamai Francesco Modello indoratore che sta nella piazza S. Giacomo Scassacavallo et glie lo mostrai. Lui me disse che era copia et che si erano fatte molte copie di quelle. Io gli replicai che cosa se ce poteva spendere et che ne dimandava quello che lo voleva vendere cinque scudi. Modello me disse che quella era una bella copia et ben copiata, ma che se lo volevo copiare io per rivenderla non era cosa da me. La mostrai al signor Giulio Mancino: me disse che era una copia”. Per una diversa lettura del documento si veda ora M. Gregori, op. cit., 2007, pp. 47-83 ed eadem, op. cit., 2008, pp. 20-30. La studiosa sostiene che il giudizio espresso dal Mancini fosse di circostanza, e che in realtà il quadro Sannesio poteva essere un originale del Caravaggio. Sempre sull’interpretazione di questo materiale documentario si veda anche P. Cavazzini, op. cit., pp. 132-133. A questo proposito ricordo che, come testimoniato da Giulio Mancini (si veda supra p. 52 e nota 99), l’originale del dipinto si trovava nella collezione del cardinal Del Monte. In collezione Sannesio è altresì registrato: “un quadro con tre figure che giocano à carte”, senza alcuna indicazione attributiva (L. Spezzaferro, op. cit., 2001, p. 118. L’inventario del duca Francesco Sannesio risale al 1644), probabilmente da identificare con il quadro oggetto di furto e poi recuperato. Recenti acquisizioni documentarie circa la dispersione della raccolta Del Monte (L. Lorizzo, La collezione del car dinale Ascanio Filomarino. Pittura, scultura e mercato dell’arte tra Roma e Napoli nel Seicento, con una nota sulla vendita dei beni del cardinal Del Monte, Napoli, 2006, pp. 61 e 106-107) attestano che un membro della famiglia Sannesio, Giovan Paolo, acquistò nel 1628 diciannove quadri appartenenti al Del Monte, tutti chiaramente indicati, tra di essi non figuravano i ‘Bari’. Il quadro del Caravaggio acquistato da Antonio Barberini restò invece in casa Barberini ed è registrato ancora nel 1818 presso don Maffeo Barberini Colonna di Sciarra, nella cui collezione viene descritto come opera del Caravaggio (Archivio di Stato di Roma, Ufficio delle Ipoteche, vol. 2, n. 13, f. 62, cfr. I. Mariotti, La legislazione delle belle arti, Roma, 1892, pp. 132137). Per l’acquisizione della ‘Santa Caterina’ Thyssen, del ‘Suonatore di liuto’ e dei ‘Bari’ da parte del cardinale Antonio Barberini si veda innanzitutto M. Aronberg Lavin, Seventeenth Century Barberini Documents and Inventories of Art, New York, 1975, pp. 167, 296. 112 Decontestualizzo qui un’espressione di S. Causa, Di strade e di stanze. Una lettura di Balthus, Napoli, 2003, p. 73.

TAVOLE

I saggi contenuti in questo numero di Paragone sono stati presentati alla Giornata di studio in ricordo di Luigi Spezzaferro tenutasi presso la Fondazione di Studi di Storia dell'Arte Roberto Longhi il 26 ottobre 2007 e curata da Elena Fumagalli

42 - Caravaggio: ‘San Matteo e l’angelo’

già Berlino, Kaiser Friedrich Museum

43 - Caravaggio: ‘San Matteo e l’angelo’ Roma, San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli

46 - Caravaggio: ‘San Giovanni Battista’

Kansas City (Missouri), Nelson Atkins Museum

47 - da Caravaggio: ‘San Giovanni Battista’

Albenga, Museo Diocesano di Arte Sacra

48 - da Caravaggio: ‘San Giovanni Battista’

Napoli, Capodimonte

49 - Bartolomeo Manfredi: ‘San Giovanni Battista’

Milano, collezione Koelliker

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