Carta geografica e propaganda ************ Maps and propaganda

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GEOPOLITICA DELLE PROSSIME SFIDE A cura di Gianfranco Lizza

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www.utetuniversita.it

Proprietà letteraria riservata © 2010 De Agostini Scuola SpA – Novara 1ª edizione: ...... 2011 Printed in Italy

I diritti di autore sono stati ceduti a ......

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte del materiale protetto da questo copyright potrà essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO – corso di Porta Romana, 108 – 20122 Milano – e-mail: [email protected]; www.aidro.org

Stampa: Tipografia Gravinese-Torino

Ristampe: 0 1 Anno: 2011

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XIII Introduzione PARTE PRIMA – I protagonisti 5

CAPITOLO 1 – Espressioni dell’esercizio del potere di Gianfranco Lizza

5

1.1

La caratteristiche dello Stato

1.1.1 Sovranità e protezione del territorio, p. 6 – 1.1.2 Polizia internazionale e nuovo approccio ai trattati, p. 10

16

1.2

Democrazia e globalizzazione: confronto difficile

1.2.1 Informazione e consumo, p. 17 – 1.2.2 Federalismo e dinamismo economico, p. 20 – 1.2.3 Cammino irto di ostacoli, p. 23

26

1.3

L’alternativa autoritaria

1.3.1 Il modello asiatico, p. 30

33

1.4

Confini interfaccia della diversità

1.4.1 Una immobilità solo apparente, p. 37 – 1.4.2 Disordine internazionale, p. 40

43

1.5

Dove porta la crescita economica

1.5.1 Quale ruolo per il popolo, p. 46

50

CAPITOLO 2 – L’antistato: tribù e clan di Stefano Valente

50

2.1

54 61 69 75

2.2 2.3 2.4 2.5

Il sistema tribale e quello parentale: una forma diversa di appartenenza Tribù e clan negli «equilibri» mediorientali Il caos somalo Il tribalismo afghano Verso un tribalismo globale?

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78

CAPITOLO 3 – Nel groviglio delle etnie

78 84 87 93 96

3.1 3.2 3.3 3.4 3.5

di Matteo Marconi

Discutendo di etnia Reagire alla globalizzazione e allo Stato-nazione Quando le etnie diventano minoranze Integrazione o assimilazione? Le ragioni del conflitto

3.5.1 Il Kosovo, p. 98 – 3.5.2 La Bosnia-Erzegovina, p. 100 – 3.5.3 Il Libano, p. 102 – 3.5.4 Israele e Palestina, p. 104 – 3.5.5 Tibet e Xinjiang, p. 106

110

CAPITOLO 4 – Religione e Stato di Gianfranco Lizza

110 114 114 118 121 126 129 132 134 136 138 141 146 148

4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4.7 4.8 4.9 4.10 4.11 4.12 4.13 4.14

Il mondo diventato confine Il nesso tra cultura, laicità e demografia Tra società sacrali e società secolari: il gap demografico Stato versus religione Religione e società Teorie a confronto Il ruolo della donna L’Islam e l’Europa Un nemico senza territorio Il Medioriente tra passato e futuro Immigrazione, sfida alla laicità Dalla coscienza dell’io alla coscienza del noi Religione e democrazia Il potere frutto di una caduta o benedetto da Dio?

PARTE SECONDA – I contesti 153

CAPITOLO 5 – Urbanizzazione ed economia globalizzata di Paolo Sellari

153 162

5.1 5.2

Un mondo sempre più urbanizzato Le risorse per le città

5.2.1 I bisogni alimentari, p. 162 – 5.2.2 Il problema idrico mondiale, p. 167

171

5.3

178

5.4

Le città della globalizzazione

5.3.1 Megalopoli e globalopoli, p. 174

I trasporti per la rete urbana mondiale

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VII 5.4.1 Container e città globali, p. 183 – 5.4.2 Il trasporto aereo: vettore della globalizzazione, p. 187 – 5.4.3 I traffici regionali, p. 190

193 196

5.5

Globalizzazione e gerarchie di città

CAPITOLO 6 – Politiche e risorse energetiche: fra geopolitica e mercato di Alessandro Voglino

197 205 210

6.1 6.2 6.3

Lo scenario di riferimento: i combustibili fossili I grandi consumatori, i grandi esportatori Stati Uniti e Russia dopo la caduta del Muro: guerra fredda a bassa intensità Unione Europea: tra sicurezza energetica comune e il dedalo delle pipelines Il futuro remoto, tra cambiamento climatico e crescita verde

217

6.4

222

6.5

227

CAPITOLO 7 – Questioni ambientali globali e dinamiche Nord-Sud di Marco Grasso

227 229

7.1 7.2

236

7.3

241

7.4

Nord, Sud e ambiente globale: conflitto e cooperazione Il conflitto Nord-Sud nei cambiamenti climatici: cause, forme, interessi e preoccupazioni La cooperazione Nord-Sud nella protezione dello strato di ozono e nell’accesso alla biodiversità: riconoscimento dei reciproci interessi e aspettative Chiavi di lettura delle dinamiche Nord-Sud: responsabilità, vulnerabilità e capacità

PARTE TERZA – Gli strumenti 245

CAPITOLO 8 – Media e geopolitica di Elena dell’Agnese

245 250

8.1 8.2

253

8.3

255 258 261

8.4 8.5 8.6

Media e geopolitica: una relazione complessa Comunicazione e controllo politico dello spazio: Mahan, Mackinder, Gilpin Comunicazioni e «comunità immaginate»: la stampa come «architetto del nazionalismo» Media, nazione, trans-nazionalismo: cinema e televisione Media e relazioni inter-nazionali: la guerra ispano-americana Media e relazioni inter-nazionali: il Comitato di informazione pubblica e la prima guerra mondiale

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VIII

263 265 268 270 272 275

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8.7

Media, multinazionali e relazioni inter-nazionali: relazioni pubbliche in Guatemala 8.8 Media e relazioni inter-nazionali: framing delle notizie e geopolitica popolare nel caso della guerra in Iraq 8.9 Verso una geopolitica dei media? Fra «imperialismo culturale» e negoziazione dei significati 8.10 Quadranti mediatici e culture condivise 8.11 Internet e la frantumazione dello spazio mediatico 8.12 Media e geopolitica: nuove relazioni di potere o nuovi mezzi e vecchie relazioni?

276

CAPITOLO 9 – Carta geografica e propaganda

276 279 280 283

9.1 9.2 9.3 9.4

di Edoardo Boria

Soggettività della carta geografica Capacità persuasive Condizionamenti culturali e ideologici Il Caucaso meridionale

9.4.1 Repubbliche autonome della Georgia, p. 284 – 9.4.2 Il Nagorno-Karabakh, p. 287

290

9.5

La penisola balcanica

9.5.1 Il Kosovo, p. 290 – 9.5.2 La Macedonia, p. 295

295 300

9.6 9.7

Israele/Palestina Cartografia di oggi, carte di domani

303

CAPITOLO 10 – Il contributo americano al pensiero geopolitico contemporaneo di Maria Paola Pagnini

305 309 313 322 325

10.1 Il pensiero geografico-politico contemporaneo 10.2 L’approccio «globalista»: Nicholas J. Spykman 10.3 L’approccio «regionalista»: George F. Kennan, Saul B. Cohen e Zbigniew K. Brzezinski, Henry A. Kissinger 10.4 I progressi tecnologici e le teorie del potere aereo: George Renner ed Alexander de Seversky 10.5 Il Mondo post-bipolare e la teoria del clash of civilizations di Samuel P. Huntington

329

APPENDICE – Esperienze di un peacekeeper

329

Gli strumenti operativi

di Massimo Coltrinari

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331

IX

Un’esperienza sul campo: Sarajevo Il tunnel Dobninja-Butmir, p. 332 – I cecchini, p. 333 – Il ruolo degli artisti, p. 334 – Le mine e le moschee, p. 335 – Le lapidi nei giardini e nei viali di Sarajevo, p. 335 – Due esempi di intervento: il ristorante «calcio club...» e il ripristino di una scuola, p. 337

329

Conclusioni

341 363 000 000

Bibliografia Indice analitico Indice dei nomi Indice dei luoghi

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CAPITOLO 9

Carta geografica e propaganda Edoardo Boria

9.1 Soggettività della carta geografica 9.2 Capacità persuasive 9.3 Condizionamenti culturali e ideologici 9.4 Il Caucaso meridionale 9.5 I Balcani 9.6 Israele/Palestina 9.7 Carte di oggi, carte di domani

9.1 Soggettività della carta geografica Con un aforisma divenuto poi celebre, il filosofo polacco Alfred Korzybski spiegava la rappresentazione metaforica di un concetto: «Una carta non è il territorio» (Korzybski, 1933). L’ovvietà solo apparente dell’affermazione introduce il tema iniziale di questo capitolo, che propone una riflessione critica circa il ruolo, la natura e le capacità di «produrre discorsi» della carta geografica. Affronteremo poi alcuni casi specifici, utili a mostrare concretamente i meccanismi retorici della carta geografica e il potenziale di strumentalizzazione che ne deriva. Secondo un punto di vista ancora oggi largamente diffuso, la storia della cartografia andrebbe letta come un progressivo e inarrestabile avvicinamento alla «carta perfetta», cioè quella che, all’apice della perfezione tecnica, offrirebbe un grado elevatissimo di corrispondenza analogica con l’originale. In questa visione lineare della disciplina, sarebbe in corso un processo di continuo e inarrestabile miglioramento verso una carta che sia uno specchio fedele del territorio. L’esaltazione tecnologica dei nostri anni tende a rafforzare ulteriormente questa illusione: produrre carte che siano una «fotocopia ridotta del mondo». Ma quello della precisione nella restituzione dell’immagine è un falso problema. Da secoli ormai, cioè da quando nel XVI secolo apparvero i primi microscopi, l’uomo è in grado di effettuare osservazioni ben oltre la scala 1 a 1 (ad esempio, le mappe del genoma consentono di studiarlo a fini scientifici); tutta-

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via la scala più appropriata non è necessariamente la più ravvicinata possibile, soprattutto nello studio dei fenomeni sociali, anche perché man mano che si va nel dettaglio si perde la visione complessiva e dunque le interazioni tra gli elementi del sistema. È noto il racconto di Borges in cui si narra della carta in scala 1 a 1, una carta suggestiva ma priva di qualsiasi utilità, come riconosce il racconto stesso che, non a caso, ironizza sull’esattezza della scienza1. Quello della scala è un aspetto fondamentale. Il padre della geometria frattale Benoît Mandelbrot utilizza un esempio cartografico per prendersela con tutti i conservatori della scienza (tra i quali i cartografi di professione) e certificare il superamento della geometria euclidea nella descrizione della realtà naturale; un’idea che mette a nudo tutti i limiti della cartografia euclidea, modello cartografico attualmente dominante. Lo studioso ci ricorda che la forma di un oggetto varia con la scala che abbiamo scelto per rappresentarlo e che tale deformazione comporta conseguenze importanti per la sua comprensione da parte dell’osservatore2. La cartografia computerizzata ha anche illuso di poter risolvere le operazioni di generalizzazione attraverso algoritmi automatizzati. «Ci pensa il computer – si diceva – a decidere cosa e come può, nel modo graficamente più chiaro, essere riportato sulla carta». Ovviamente, non si è fatta molta strada in tal senso, sia per le lampanti intuizioni di Mandelbrot, sia perché il processo di riduzione della realtà non è meccanico ma di natura intrinsecamente culturale; la carta, 1

«in quell’impero l’arte della cartografia giunse a una tal perfezione che la mappa di una sola provincia occupava tutta una città, e la mappa dell’impero tutta una provincia. Col tempo queste mappe smisurate non bastarono più. I collegi dei cartografi fecero una mappa dell’impero che aveva l’immensità dell’impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le generazioni seguenti, meno portate allo studio della cartografia, pensarono che questa mappa enorme era inutile e, non senza empietà, la abbandonarono alle inclemenze del sole e degli inverni» (Borges, 1961, p. 106). L’intuizione di Borges era già stata anticipata da Carroll (1894, p. 169) che in un dialogo fa dire ai due protagonisti del racconto: «What do you consider the largest map that would be really useful?» «About six inches to the mile» «Only six inches!» exclaimed Mein Herr «We very soon got to six yards to the mile. And then came the grandest idea of all! We actually made a map of the country, on the scale of a mile to the mile!» «Have you used it much?» I enquired. «It has never been spread out, yet» said Mein Herr: «the farmers objected: they said it would cover the whole country, and shut out the sunlight. So welow use the country itself, as its own map, and I assure you it does nearly as well». 2 «Se si prende, per esempio, la costa della Bretagna su una grande carta d’Europa, la costa si arrotonda, è una specie di grande penisola che va verso ovest; in questo caso si può definire una tangente alla curva liscia che è tracciata sulla carta. Ma se ci si avvicina, se si prende una carta più precisa ci si accorge che quella che era una curva regolare sulla prima carta diviene ora una curva con molti zigzag. Se si guarda da vicino uno di questi zigzag con una carta ancora più dettagliata ci si accorge che diventano ancora più fitti. Se si cerca dunque di rappresentare con una curva matematica una cosa del tutto naturale, come la costa della Bretagna, si ha bisogno di una curva via via più irregolare, una curva che sempre meno si può ridurre a una curva semplice, liscia come lo è una linea retta. Quest’esperienza è a livello quasi infantile: anche un bambino vi dirà che, se guarda un oggetto sempre più da vicino, come una pietra frantumata, vedrà i dettagli sempre meglio e vedrà particolari nuovi man mano che si avvicina... Quando si rappresenta un fenomeno reale si fa un modello, poi lo si corregge ancora, lo si migliora costantemente, ma il modello in se stesso non va mai confuso con la cosa reale, la realtà è sempre più complicata del modello» (Mandelbrot, 1989, p. 16).

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cioè, non riporta tutti gli oggetti della realtà riducendoli tutti dello stesso rapporto, ma compie preventivamente la scelta decisiva: seleziona quelli da riportare e solo in seconda battuta individua, per ognuno di essi, la scala alla quale riprodurli. Basta dunque riflettere sul fatto che la carta seleziona gli elementi da raffigurare per comprendere quanto essa sia soggettiva. Per fare un esempio, i simboli riguardanti le sedi religiose adottati dal Cassini nel Settecento nella sua carta topografica di Francia, l’archetipo di tutte le rappresentazioni cartografiche a base geometrico-euclidea, sono molti di più di quanti se ne trovino oggi su qualsiasi carta, a dimostrazione del peso che aveva l’autorità ecclesiastica a quel tempo. È evidente dunque che l’apparato di simboli presente su una carta rispecchi il momento storico in cui essa è stata prodotta. Axelsen e Jones ci spiegano come anche le carte fisiche (podologiche, climatiche, geologiche, della vegetazione ecc.) risentano inevitabilmente dei condizionamenti culturali del cartografo. Ad esempio, la cieca fiducia riposta nel modello topografico ha impedito alle carte coloniali di territori africani di riprodurre adeguatamente le colture locali semplicemente perché ci si ostinava a rifiutare l’idea di dover procedere a un arricchimento della simbologia che prevedesse simboli specifici per quelle colture (Axelsen e Jones, 1978). Dunque, la carta è costellata di simboli che rimandano alle norme della tradizione sociale e ai valori del potere politico. Louis Marin lo spiega così: «È rappresentabile ciò che è dichiarato degno di rappresentazione, ciò che è considerevole. La rappresentazione si lega così alla norma» (Marin, 2001, p.88). Questa sarebbe la ragione per la quale la pianta di una città raffigura chiese ed edifici del governo, non dimore popolari o covi di dissidenti. Tuttavia, ciò che caratterizza la cartografia è proprio l’apparente eliminazione di questi elementi soggettivi, in quanto la carta rispetterebbe l’ordine del territorio e la sua regolarità. Ma l’ordine geometrico che sottostà alla carta geografica non deve ingannare. Esso è un compromesso. Il potere regolatore e omologante del sapere scientifico ispirato dalla ragione convive con un altro potere, in questo caso individualizzante, cioè quello della forza della tradizione (Marin, 1980). Questa convivenza è stata facilitata dalla convinzione che le cose importanti della società dovessero possedere anche una loro imponenza, visibilità: chiese, palazzi del governo, dimore aristocratiche hanno per secoli ostentato maestosità e rivaleggiato tra loro in dimensioni. Oggi questa corrispondenza è caduta. Singoli elementi geografici di estensione ridotta sulla carta possono detenere poteri rilevanti (la sede di una borsa finanziaria o di una multinazionale); al contrario, elementi di grandi dimensioni a volte non sono altro che le vestigia di un’importanza del passato (una reggia, una tenuta nobiliare). Non dobbiamo dunque stupirci della soggettività della carta, che d’altra parte non è stata scoperta ora. Si era ancora nell’Ottocento quando il celebre cartografo tedesco August Petermann (1866, p. 581) scriveva nel primo volume di «Geographisches Jahrbuch»: «Le informazioni che tutte le nostre carte comunicano sono puramente relative». Occorre fissare in mente che la proiezione, la scala, il reticolo di meridiani e paralleli, il Nord e il Sud sono artifici culturali

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frutto di uno specifico pensiero scientifico, non dati naturali, cioè – secondo l’etimo originario – presenti in natura. Essi non esistono se non nel basilare modello occidentale di rappresentazione del mondo. Sono cioè espedienti che rendono la rappresentazione del mondo coerente con le modalità cognitive (di comprensione intellettuale) vigenti da qualche secolo nella società occidentale. Dopo Petermann anche Max Eckert ha rilevato i limiti della carta geografica (Eckert, 1908) e poi altri cartografi dopo di lui (ad esempio, Wright, 1942). Altri studiosi di varia estrazione si sono occupati della questione, tra i quali è particolarmente significativo il contributo dei filosofi3. Ma la convinzione sull’oggettività della carta è ancora radicata e diffusa. In questa visione le carte fornirebbero garanzie di integrità rispetto a contaminazioni ideologiche e di valore. Al contrario, a nessuna carta appartengono attributi quali la neutralità, l’obiettività, l’imparzialità, l’universalità, l’onnicomprensività, che vengono invece comunemente attribuiti alle carte.

9.2 Capacità persuasive L’analisi delle potenzialità persuasive delle carte geografiche deve cominciare richiamando l’attenzione sui concetti di analogia e metafora. Infatti, «nella rappresentazione cartografica la funzione persuasiva aumenta perché si assume come tela di fondo una struttura analogica con la realtà. Ciò permette che certi presupposti siano accettati acriticamente dal fruitore del documento che, tra l’altro, si predispone ad accogliere allo stesso modo qualunque altra informazione proposta» (Casti, 1998, p. 55). Vale la pena dunque precisare la differenza che intercorre tra un’analogia e una metafora, come la carta innegabilmente è, in quanto queste due figure retoriche possiedono proprietà diverse e osservare una carta confondendola per un’analogia porta fuori strada nella comprensione della sua natura profonda. Senza dunque addentrarci nel rapporto tra analogia e metafora, su cui la semiotica ha prodotto una vastissima letteratura, precisiamo solo che per la metafora l’oggetto (o concetto) A evoca l’oggetto B, mentre per l’analogia A è uguale a B. Dunque, la metafora richiede un grado di partecipazione attiva del ricevente (utente, lettore) nell’atto di comprensione maggiore rispetto all’analogia, la quale finisce per identificare un oggetto con l’altro. Tale partecipazione si concretizza nella creazione di interpretazioni, associazioni e attribuzioni di caratteri all’oggetto da parte del ricevente; in breve, un apporto personale attivo. Dunque, come nell’aforisma di Korzybski riportato all’inizio («Una carta non è il territorio»), la carta geografica è evidentemente una metafora e non un’analogia. Tuttavia, considerata da molti uno specchio fedele del territorio, essa tende a passare per un’analogia, e questo inganno le conferisce un alto 3 «Mi posi un problema cruciale: che cosa passa dal territorio alla mappa?», si chiese l’eclettico filosofo Gregory Bateson (1997, p. 298), «La risposta a questa domanda era ovvia: ciò che passa sono notizie di differenze e nient’altro».

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grado di veridicità, nel senso che l’opinione pubblica tende a darle credito, non la guarda con spirito dubitativo, non la sottopone a un vaglio critico. È importante sottolineare che non vi è alcuna relazione «naturale» tra l’immagine presente in una carta geografica e l’osservatore. Nel senso che l’osservatore, nessun osservatore, ha mai potuto sperimentare personalmente con i propri sensi quell’immagine: occorre sempre uno sforzo interpretativo per riconoscere un territorio dai pochi e spesso sommari segni tracciati sulla carta. Anche nel caso più estremo di immagine fortemente analogica di un elemento noto, come la foto satellitare della nostra abitazione che, incuriositi, andiamo a cercare con Google Maps, nessun osservatore ha esperienza di una sua visione da un punto perfettamente perpendicolare al tetto. Pertanto, non dovendo fare i conti con l’esperienza diretta, la riconoscibilità di una carta, decisiva per stabilire il suo grado di affidabilità, si baserà esclusivamente su precedenti conoscenze codificate, cioè soprattutto su quanto si è appreso a scuola. Anche per questo nutriamo così tanta fiducia nella cartografia scientifica e, all’opposto, rimaniamo scettici nei confronti di altre modalità di rappresentazione del territorio. Della prima abbiamo acquisito il codice e compreso il meccanismo di comunicazione, delle seconde no. In aggiunta alla rispondenza ai canoni sostanziali ufficiali, c’è un secondo aspetto capace di esaltare le capacità persuasive della carta geografica: la rispondenza a canoni formali ufficiali. Lo ricorda esplicitamente Denis Wood (1993): l’autorità di ogni carta dipende dall’autorità del suo autore, e lo stesso attributo di «carta», cioè la legittimità di assumere tale qualifica, dipende non tanto dall’oggetto in sé quanto dal riconoscimento dell’autore come soggetto legittimato a disegnare carte geografiche. Per quanto riguarda gli espedienti retorici che consentono al linguaggio cartografico di veicolare agevolmente messaggi faziosi, la loro analisi e discussione non è nei nostri obiettivi4. Qui ci limiteremo ad affrontare i nodi teorici più rilevanti e offrire alcuni esempi specifici sul tema.

9.3 Condizionamenti culturali e ideologici Le carte sono oggi onnipresenti nel nostro quotidiano: sui mezzi pubblici, nei centri commerciali, alle fermate degli autobus, sui giornali e in televisione. Quale automobile non ha qualche carta turistica o stradari cittadini nelle tasche dei sedili e delle portiere? Quali centri urbani non hanno dei pannelli con la carta dell’area centrale della città per fornire informazioni sui siti turistici e sui mezzi di comunicazione? Un oggetto per secoli di esclusivo utilizzo di poche élite (amministratori per governare il territorio, militari per fare la guerra, aristocratici per abbellire le proprie dimore) è oggi popolarissimo. 4

Sull’argomento ricordiamo: Monmonier (1991), Pickles (1992), Burnett (1985), Black (1997), Boria (2007).

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Ma come funziona il rapporto tra cartografia e opinione pubblica? Come un reciproco condizionamento: la società, con la sua incessante generazione di nuove esigenze, spinge per la diffusione e la differenziazione delle carte, mentre nuove carte danno vita a loro volta a nuove percezioni e interpretazioni della realtà. Da quanto detto finora dovrebbe infatti risultare chiaro che ogni ragionamento sulla carta geografica avrebbe modesto valore se la si ritenesse null’altro che una riproduzione del mondo in scala ridotta. La carta è, invece, molto di più; il suo ruolo nella nostra percezione degli spazi non è puramente passivo, cioè di semplice calco della realtà, bensì attivo: essa struttura e definisce il nostro modo di acquisire la conoscenza del territorio e di intervenirvi. Per dimostrarlo, si pensi al cyberspazio, quella dimensione virtuale creata dalla connessione in rete di milioni di computer. Quale struttura spaziale esso assume? Essendo un’entità immateriale, cioè priva di fisicità, le nostre rappresentazioni del cyberspazio non sono – non possono essere – un calco. Si tratta dunque di pura immaginazione, come la carta fantastica dell’isola misteriosa di Verne o i mondi immaginari di Tolkien. Nonostante questa natura astratta, le rappresentazioni cartografiche del cyberspazio hanno definito le visioni che ne abbiamo. Non è il cyberspazio che ha dato vita alla propria carta, ma la carta che ha prodotto il nostro modo di pensarlo, di afferrarlo. Ma perché le carte del cyberspazio assumono un aspetto somigliante a quello dei territori reali? Perché sono il risultato dell’applicazione delle regole attraverso cui la cultura occidentale rappresenta – da qualche secolo ormai – gli spazi terrestri: stessi concetti di distanza, ubicazione, relazioni topologiche ecc. È legittimo applicare agli spazi virtuali le stesse logiche di rappresentazione degli spazi reali? Il dubbio è lecito. Nell’impossibilità di scioglierlo ci limitiamo a sottolineare quanto potente sia la regola cartografica in vigore, tanto da essere estesa alle realtà invisibili e intangibili. Come ricorda Emanuela Casti (1998, pp. 18-19) «le rappresentazioni hanno l’obiettivo primario non tanto e non solo di descrivere il mondo oggettivamente o soggettivamente, ma piuttosto di modificare il mondo attraverso le immagini che forniscono di esso». Pertanto, la lettura di una carta rappresenta un momento di estrema importanza non solo perché consente l’appropriazione intellettuale del territorio, cioè la comprensione dei suoi caratteri e delle sue dinamiche, ma anche perché proprio dalla lettura della carta scaturiscono i processi di territorializzazione che lo modellano. Troppo a lungo gli studi di storia della cartografia si sono concentrati sui suoi accadimenti interni (i protagonisti, i prodotti). Scarsa attenzione è stata data finora agli aspetti più significativi del rapporto tra la cartografia e la società: il peso delle convinzioni ideologiche e dei pregiudizi, degli assetti istituzionali e delle pressioni politiche; aspetti decisivi sia nel plasmare gli schemi mentali dei cartografi sia nel condizionare l’atto ricettivo da parte dei lettori. Il tema dei condizionamenti ideologici sulla produzione e lettura delle carte riveste invece notevole importanza e solleva molte questioni, a cominciare dal rapporto tra potere politico e ambienti della produzione cartografica: se, cioè, e fino a che punto, la cartografia risponda a bisogni degli ambienti politici, ne re-

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cepisca le logiche, ne subisca le pressioni, ne sposi i progetti. Questa linea di indagine porta a riflettere sulla natura intrinseca della cartografia, il suo uso propagandistico e pedagogico, la sua diversa funzione in contesti democratici e autoritari. Risulta infatti chiaro che per sua natura la carta geografica ha potenzialmente le capacità per presentare una specifica visione dei rapporti di forza tra i poteri. Ma come la storia insegna e gli esempi più avanti dimostreranno, a volte è andata anche oltre, spingendosi a sostenere progetti espansionistici o di sovvertimento dell’ordine costituito. In quelle circostanze la carta è funzionale a perseguire il risultato dichiarato in un progetto politico, di cui rappresenta l’espressione cartografica. Ciò avvenne, ad esempio, negli anni Venti e Trenta in Germania e in Italia, dove si sperimentarono alcune novità di metodo, quali quelle riconducibili alla cosiddetta cartografia geopolitica, che affiancarono i meccanismi già noti di propaganda cartografica. Ad esempio, noto era lo stratagemma di insistere su uno specifico tema, come l’appartenenza etnica: rimarcando la presenza di milioni di tedeschi che vivevano al di fuori del Reich si legittimava ogni intervento, anche militare, che riparasse a questa «ingiustizia». La scelta dei temi sugli atlanti tedeschi del periodo nazista diverrà sempre più una scelta politica: basti l’esempio di uno dei più diffusi atlanti nelle scuole tedesche del tempo (Putzger, 1940) che, dedicando una sezione alla «rivoluzione nazionalsocialista» (Putzger, 1940, pp. 136-137) fa ovviamente propaganda. Ma le cartine di queste tavole, di per sé, sono scientificamente accettabili, corrette: ci sono le legende, ci sono le indicazioni delle scale utilizzate, i confini del Reich sono riportati correttamente, gli eventi illustrati (i viaggi del Führer, i risultati elettorali, gli attentati politici, le diaspore degli ebrei) sono realmente avvenuti. Il fatto è che sono faziosi i temi scelti da rappresentare, non le cartine in sé. La costruzione di una narrazione faziosa attraverso un atlante è ovviamente indipendente dall’appartenenza politica. Per rimanere a quegli anni, si prenda l’atlante di Alex Radó, geografo marxista ungherese (Radó, 1930). Le carte non sono suggestive in sé, ma è la scelta dei temi (la degenerazione capitalistica della lotta per il possesso delle materie prime, l’universalità della fratellanza comunista ecc.) a rendere l’atlante uno strumento marcato ideologicamente. I casi che verranno presentati più avanti fanno riferimento soprattutto a Paesi non pienamente democratici, se non addirittura totalitari, che fanno di una pervasiva e asfissiante campagna di propaganda lo strumento primario del loro potere. Riferendo al passato concetti tuttora validi in alcune parti del mondo, Marossi ricorda che «i regimi totalitari fondavano il loro essere, la loro legittimazione e il loro progetto futuro (il loro “destino”) sul discorso che essi riuscivano a costruire... Nell’immaginario dei dittatori totalitari, delle loro sfere di prossimità e degli intellettuali che impostavano la propaganda, essa aveva la funzione di edificare una seconda realtà, capace di sovrapporsi a quella quotidiana, e di spiegare quest’ultima con i termini della prima» (Marossi, 2003, p. 7). Da questa considerazione emerge tutta la portata e la delicatezza del ruolo della cartografia in contesti di comunicazione non libera ma controllata quali quelli che andremo ad analizzare relativi all’area del Caucaso e dei Balcani, dove vedre-

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mo contrapposte dapprima le rappresentazioni georgiana, abkaza e russa relativamente alle repubbliche autonome della Georgia, successivamente quelle azera e armena per la regione del Nagorno-Karabakh e infine quelle albanese e serba per il Kosovo. Quanto detto non deve però ingannare: innanzitutto, non si deve ritenere che l’uso strumentale della cartografia sia una prerogativa dei Paesi totalitari, ma lo ritroviamo anche in contesti almeno apparentemente democratici, come dimostrano i casi descritti più avanti delle opposte rappresentazioni greca e macedone e, seppur con caratteri del tutto peculiari, quelle israeliane e palestinesi; in secondo luogo, non è detto che sia proprio il potere politico a fare uso diretto di questo potente strumento persuasivo. Anzi, vi sono esempi di produzione cartografica strumentale a un progetto politico di sovvertimento del potere costituito, frutto dell’attivismo di gruppi ristretti di simpatizzanti dotati di una spiccata sensibilità spaziale e fortemente motivati nel loro intendimento politico. Ad esempio, la produzione di cartografia propagandistica in Europa negli anni Venti sorgeva e si sviluppava in ambienti prossimi alla composita ed eterogenea area delle destre europee intenzionata ad attaccare alle basi il sistema vigente. Vediamo adesso alcuni casi evidenti di uso strumentale della carta geografica a fini politici.

9.4 Il Caucaso meridionale Il dissolvimento dell’Unione Sovietica ha innescato nel Caucaso una serie di violenti conflitti a sfondo etnico-religioso. Rivalità interetniche sopite per decenni grazie alla funzione regolatrice di Mosca e alla pace sociale garantita dall’economia socialista sono improvvisamente esplose e la regione ha conosciuto un lungo periodo di instabilità, pagato dalle popolazioni civili al prezzo di vessazioni ed esodi forzati. Gli scontri nel Caucaso meridionale hanno visto contrapporsi truppe degli Stati indipendenti a gruppi di ribelli finanziati e fomentati da Stati vicini (come ossezi, abkhazi e agiari sostenuti da Mosca contro la Georgia o armeni attivi in territorio azero). Sul versante opposto invece, quello settentrionale, la situazione assume valenze diverse, trattandosi della recrudescenza di antichi odi antirussi coltivati per secoli in questa regione di cui Mosca, seppur a fatica, pare ormai aver ripreso definitivamente il controllo. Le regioni più turbolente del Caucaso meridionale sono il Nagorno-Karabakh, dove si scontrano armeni e azeri, e le tre repubbliche autonome della Georgia, cioè l’Abkazia, l’Ossezia del Sud e l’Adjaria. Dopo aver brevemente presentato la situazione politica di questi territori analizzeremo alcune carte prodotte dai contendenti in campo, che ne riflettono emblematicamente le opposte visioni e rappresentazioni.

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9.4.1 Repubbliche autonome della Georgia In Georgia la situazione appare particolarmente delicata già all’indomani dell’indipendenza, raggiunta il 9 aprile 1991 ma non riconosciuta subito dall’Unione Sovietica. Primo presidente della nuova repubblica diviene Zviad Gamsakhurdia, già leader del movimento per l’indipendenza, ma forme violente di opposizione si manifestano immediatamente; non cesseranno neanche con il colpo di stato (dicembre 1991) che porta alla sostituzione di Gamsakhurdia con il ben più noto ed esperto Eduard Schevarnadze, gradito da Mosca per via del suo passato come ministro degli Esteri nell’Unione Sovietica di Gorbaciov. Ben presto i fedelissimi del presidente deposto alimenteranno una guerriglia a sfondo etnico nelle regioni occidentali del Paese, soffocata a fatica dalle truppe governative con l’aiuto di rinforzi russi5. L’illusione di una tranquilla convivenza in un nuovo Stato multietnico (i georgiani non superano il 70%) si sgretola di fronte all’amara realtà di un violento scontro militare tra popoli divisi non solo per etnia, lingua6 e religione7, ma anche per usi e costumi8. L’ipotesi di un futuro pacifico è ormai irrimediabilmente compromessa e la situazione precipita assumendo i connotati della guerra civile. Le regioni autonome dell’Abkazia e dell’Ossezia del Sud, già dotate di uno statuto autonomo ai tempi dell’Unione Sovietica, rifiutano categoricamente di sottoporsi al nuovo Stato che, dal canto suo, non è disposto a considerare menomazioni alla propria integrità territoriale. L’Ossezia del Sud è la porzione meridionale di una regione in prevalenza russofona a cavallo dello spartiacque del Caucaso, che la divide dall’Ossezia del Nord, rimasta invece sotto sovranità russa dopo lo smembramento dell’Unione Sovietica. Già autonoma de facto subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la regione alimenterà ininterrottamente fino a oggi un violento conflitto per la secessione che raggiungerà il suo apice nell’agosto 2008 quando l’avanzata dei separatisti, apertamente appoggiati dalla Russia, giungerà addirittura in prossimità della capitale georgiana Tbilisi, rendendo necessario l’intervento mediatore della comunità internazionale. L’Abkazia, una regione sulla costa orientale del Mar Nero, ha vissuto in questi anni vicende simili a quella dell’Ossezia del Sud: anche qui alla proclamazione del nuovo stato georgiano, si è risposto con una dichiarazione unilaterale di autonomia cui hanno fatto seguito scontri armati. L’elemento etnico rimane sempre sullo sfondo del conflitto, con pratiche costanti di pulizia etnica da ambo le parti finalizzate ad alterare a proprio favore la composizione della regione9. Analogamente al caso osseto, inoltre, rimane fondamentale, in appoggio al 5 Lo stesso ex presidente Gamsakhurdia era originario della Mingrelia, una regione storica nell’ovest del Paese che negli ultimi anni è stata ripetutamente teatro di violenti scontri. 6 I georgiani parlano una propria lingua e utilizzano un proprio alfabeto mentre le altre comunità etniche del Paese usano la lingua russa e l’alfabeto cirillico. 7 La Georgia è un antico stato cristiano a ridosso di territori musulmani. 8 Basti dire che nell’Ossezia del Sud, anche prima della guerra aperta dell’estate 2008, circolava il rublo e vigeva un fuso orario diverso da quello ufficiale georgiano. 9 Gli scontri di questi ultimi anni hanno portato alla quasi completa espulsione dall’Abkazia di tutti i residenti di etnia georgiana; poche migliaia ne sono ancora rimasti nel distretto meridionale di

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movimento separatista, il ruolo della Russia, uno dei soli quattro Paesi al mondo a riconoscere l’indipendenza dell’Abkazia10. L’avvenimento che sembra riportare l’ordine e la stabilità nel quadro politico georgiano segna invece un aggravamento della situazione: nel novembre 2003 una contestata tornata elettorale dà avvio a spontanee manifestazioni di piazza che costringono alla dimissioni il presidente Schevarnadze. L’avvento al potere di un governo filoccidentale risolutamente intenzionato a riprendere il mano il controllo dei territori ribelli e respingere le ingerenze di Mosca accentua lo scontro con i poteri locali, in particolare in Adjaria, il cui dispotico leader Abashidze sarà deposto e dovrà riparare a Mosca. La normalizzazione dell’Adjaria spinge il neopresidente Mikhail Saakashvili a forzare la situazione anche con l’Ossezia del Sud; il braccio di ferro culminerà con i già citati eventi bellici del 2008, dai quali il governo centrale uscirà gravemente indebolito e maggiormente esposto alle pressioni russe. La collocazione strategica della regione lungo le rotte del petrolio del Mar Caspio, l’avvicinamento alla NATO e all’Unione Europea, proiettano il Paese al centro di un confronto internazionale che lo vede come posta in gioco, riflettendosi all’interno nella contrapposizione tra filorussi e filoccidentali. Un’instabilità politica spesso sfociata in scontri militari cui fanno da contorno l’elevato tasso di corruzione della burocrazia e la presenza di potenti organizzazioni mafiose. In questo quadro conflittuale la diversità etnica diviene una facile arma di mobilitazione popolare e tutti gli strumenti della comunicazione diventano utili ai fini della propaganda politica, comprese le carte geografiche. Già nella solenne ufficialità del titolo (“Georgia. Carta del territorio dello Stato”, in caratteri dell’alfabeto georgiano) e dello stemma nazionale che lo affianca, la figura I.5 richiama il concetto di sovranità dello Stato e l’imprescindibile presenza di una propria ed esclusiva base territoriale. Incurante della realtà che vede vaste aree del paese sfuggite al controllo del governo centrale, l’autoproclamata indipendenza di Adjaria e Abkhazia è taciuta, al pari delle rivendicazioni secessioniste dell’Ossezia del sud. Nel complesso, la carta offre una sensazione di integrità territoriale nella quale tutte le regioni che compongono la Georgia, comprese le tre suddette, sono equiparate sullo stesso livello amministrativo. Gali, costretti per lavorare ad attraversare quotidianamente la linea di tregua oppure emigrare stagionalmente come addetti in agricoltura. Si tenga conto che ai tempi dell’Unione Sovietica la popolazione di etnia georgiana costituiva quasi la metà dell’intera popolazione di questa regione (45,7% al censimento del 1989). Nel complesso, negli ultimi 20 anni la regione ha perso più della metà dei suoi abitanti, emigrati o vittime della guerra. 10 Basti dire che i cittadini abkazi si muovono all’estero con passaporti concessi dalle autorità russe e percepiscono pensioni dallo Stato russo, pur non dovendo pagare imposte al fisco russo né sottostare agli obblighi di leva; in pratica gli abkazi sono considerati alla stregua di cittadini russi residenti all’estero. La Russia, poi, mantiene permanentemente sue truppe nella regione, pattuglia le coste, controlla le frontiere terrestri e prevede di costruire una propria base militare. Inoltre, l’economia abkaza è fortemente integrata in quella russa; la moneta corrente è il rublo russo; il flusso turistico, principale voce dell’economia abkaza, è alimentato in gran parte da vacanzieri russi; i capitali stranieri investiti nella regione sono quasi esclusivamente russi. In tale contesto è inevitabile che le intromissioni della Russia nelle questioni politiche interne dell’Abkazia siano pesantissime.

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Nella fig. I.6 l’Abkazia viene presentata come un territorio sovrano pienamente autonomo, come ricorda già lo stesso titolo della carta (riquadro in alto a destra): «The Republic of Abkhaziya» riportato anche nella versione in cirillico. Un’impressione favorita anche dal contrasto cromatico tra questa regione (in verde), i territori confinanti (in giallo pallido) e il Mar Nero (in tonalità degradanti di azzurro), che lascia risaltare l’Abkazia all’occhio dell’osservatore come entità a sé. L’inclinazione antigeorgiana è svelata dal gruppo di toponimi usati per indicare le aree esterne all’Abkazia: mentre normalmente nelle carte geografiche i diversi livelli amministrativi (Stati, regioni, province ecc.) sono riportati con caratteri tipografici via via più piccoli, in questo caso, invece, la scritta «Repubblica di Georgia» presenta una spaziatura inferiore rispetto a «Federazione Russa» e pare avere il medesimo carattere delle scritte delle regioni russe limitrofe (Stavropol e Krasnodar). In una carta russa della Georgia (fig. I.7) ci si potrebbe aspettare l’intenzione di marcare il distacco delle regioni autoproclamatesi indipendendenti (Ossezia del Sud, Abkazia, Adjaria), ma così non è. Al contrario, non è presente alcun segno di distinzione per queste regioni. La ragione è semplice: come ovviamente la Georgia, neanche la Russia gradisce insistere sull’autonomia delle regioni ribelli, in previsione di un futuro loro ricongiungimento alla «casa-madre» russa; Mosca continua a percepire queste regioni come proprie e rimane in attesa di poter un giorno ripristinare anche formalmente la propria sovranità su di esse; una prospettiva che la leadership russa percepisce come un destino naturale, solo momentaneamente eluso dal corso della storia di questi anni.

9.4.2 Il Nagorno-Karabakh Armeni (cristiani, di lingua indoeuropea e alfabeto proprio) e azeri (musulmani, di etnia e lingua turca) si contendono con ferocia questo piccolo territorio, scarsamente popolato, praticamente privo di risorse e dall’orografia accidentata, come rileva lo stesso vocabolo russo nagorno che significa «territorio montagnoso». Da sempre popolato da armeni e saldamente intrecciato alla storia armena, il Nagorno-Karabakh venne assegnato all’Azerbaigian nel 1923 nell’operazione di suddivisione amministrativa della Transcaucasia da poco annessa dai bolscevichi. Questioni di politica interna avevano indotto Stalin a questa scelta, che non comportò alcuna difficoltà finché fu in vita l’Unione Sovietica anche grazie allo statuto di autonomia di cui la regione godeva. In quegli anni armeni (il 76% della popolazione) e azeri (22%) convivevano pacificamente. Tuttavia, con l’allentarsi della forza centralizzatrice di Mosca progressivamente montarono le rivalità interetniche. L’escalation di atti ostili prese avvio nel 1989 con una clamorosa dichiarazione di riunificazione della regione con l’Armenia mai riconosciuta dalla comunità internazionale; proseguì poi nel 1991 quando le autorità armene del Nagorno-Karabakh proclamarono uno Stato indipendente. A quel punto la guerra divenne inevitabile e andò avanti per tre anni provocando migliaia di vittime e centinaia di migliaia di profughi. Ogni azione del governo azero tesa a riacquisire il pieno controllo della regione su-

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scitava la violenta risposta della popolazione locale sostenuta materialmente dall’Armenia, anch’essa divenuta nel frattempo indipendente e animata da irruenti pulsioni nazionalistiche. Il conflitto coinvolse anche vasti territori limitrofi, che si andavano spopolando per l’esodo inarrestabile dei profughi di ambo le etnie minacciate dai violentissimi pogrom etnici11. Finalmente nel maggio 1994, quando ormai le truppe armene avevano il controllo di un quota cospicua dell’intero territorio azero (il 15% circa dell’intera superficie nazionale), il governo azero accettò una tregua. La situazione rimane però ancora oggi instabile e gli accordi raggiunti estremamente precari. Come in tanti altri casi in ogni angolo del pianeta, la disputa non fa passi avanti poiché in contesti fortemente imbevuti di spirito nazionalistico le rispettive élite politiche metterebbero in serio pericolo la loro leadership interna in caso di concessioni alla controparte, come accadde nel 1998 al presidente armeno Ter-Petrossian, costretto alle dimissioni per essersi dimostrato disponibile a un compromesso sulla questione del Nagorno-Karabakh. Nella carta turistica della fig. I.8 il territorio dell’Azerbaigian non presenta alcuna significativa soluzione di continuità all’interno: un Paese pienamente unificato, a cui si aggiunge l’appendice territoriale del Nakhicevan a sudovest. Non c’è alcuna traccia della regione separatista del Nagorno-Karabakh, i cui toponimi sono riportati nella versione in lingua azera, molto diversa da quella usata localmente; ad esempio, il capoluogo di regione che per gli armeni prende il nome di Stepanakert su questa carta ha il nome azero di Khankendi (indicata dalla freccia nella cartina qui riprodotta). Gli stessi territori che circondano il Nagorno-Karabakh sono molto pericolosi da attraversare, soprattutto per uno straniero, ma in questa carta turistica destinata al pubblico occidentale (infatti è in lingua inglese) nulla di ciò viene riferito all’ignaro turista. Già il titolo nella carta amministrativa della fig. I.9 («Republic of Armenia and Republic of Mountainous Karabagh») evidenzia il duplice status del Nagorno-Karabakh: entità autonoma rispetto all’Azerbaigian, che formalmente ne conserva la sovranità, e stretta associazione con l’Armenia, che esercita una propria tutela politica su questo territorio. Rafforza questo punto di vista la scelta di riportare il maggiore centro abitato del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, in lingua armena (in azero è, come detto, Khankendi); questo stesso toponimo è inoltre indicato con un carattere in rilievo che in tutta la carta viene attribuito solo a Erevan, capitale dell’Armenia; in pratica, Stepanakert è equiparata a una capitale di Stato. In generale, tutti i toponimi della carta sono riportati in lingua armena senza alcun caso di indicazione bilingue, neanche per quei centri azeri estranei all’area del conflitto. La carta dà la sensazione che lo scontro (e ogni potenziale rivendicazione ar11

Si pensi che la città di Aghdam, al di fuori del Nagorno-Karabakh ma in posizione strategica per l’accesso alla regione, era fino al 1993 una delle maggiori città dell’Azerbaigian con 163.000 abitanti mentre oggi è completamente deserta per la fuga in massa della popolazione e la devastazione prodotta dalla guerra.

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mena), non si limiti al territorio del Nagorno-Karabakh ma coinvolga anche le aree limitrofe; ciò si desume da una serie di indizi: 1. le vistose scritte sulla carta «Republic of Armenia» e «Republic of Mountainous Karabagh» (rosse) si estendono anche in territorio azero; 2. il colore dell’area circostante il Nagorno-Karabakh (giallo) è usato anche per la regione armena attorno al Lago Sevan; per effetto di questo espediente, che contraddice l’uso convenzionale di netta distinzione cromatica tra differenti entità amministrative, si ha l’impressione che l’Armenia abbia un’estensione molto maggiore di quella che ha in realtà. Oltretutto, i territori esterni all’area interessata sono di colore bianco, come, a rigore, avrebbe dovuto essere anche il territorio circostante il Nagorno-Karabakh; 3. il brillante bordo (color viola) che segna i confini dell’Armenia include, oltre al Nagorno-Karabakh, anche distretti sotto formale sovranità azera (Kashatag district, Shushi district, Shahumian district); la stessa soluzione grafica che ingloba territori azeri è riportata nella piccola cartina in alto a destra; 4. a ovest del Lago Sevan viene riportata un’exclave armena in territorio azero non riconosciuta nella carta azera precedentemente presentata, nella quale, al contrario, figura a nord-ovest un’exclave azera in territorio armeno. Una propensione antiazera è rinvenibile anche nel modo in cui viene riportata l’indicazione della regione sud-occidentale del Nakhicevan, un’exclave azera la cui sovranità non viene però per nulla indicata; anzi: il carattere della scritta (tipo e dimensione) è lo stesso usato per gli altri Stati (lo si confronti, ad esempio, con quello adottato per la vicina scritta «Iran»). Inoltre, con meno di quattro milioni di abitanti, di cui quasi la metà a Erevan, l’Armenia è un Paese dalla rete urbana molto fragile; i centri che contano qualche decina di migliaia di abitanti sono pochissimi, a conferma di una intelaiatura urbana pressoché assente, con le relative conseguenze negative sul controllo e la gestione del territorio. Nonostante questa realtà di debolezza territoriale, però, la carta si sforza di esaltare il dato sul popolamento attraverso la proliferazione dei simboli indicanti i centri urbani; l’obiettivo è perseguito grazie all’espediente di riportare addirittura i villaggi con meno di 1.000 abitanti. Infine, gli ultimi due simboli della legenda (medesimo segno ma colore diverso nell’originale) identificano lo stesso concetto ma lo spiegano in modo fazioso: si fa riferimento al confine più orientale, dove gli scontri armati sono stati molto cruenti e permane tuttora una situazione di incertezza. Vi si contrappongono, stando alla legenda, un’«area occupata dall’Azerbaigian» a una «liberata dalla Repubblica del Nagorno-Karabakh». La disparità di trattamento lessicale è evidente e tende a persuadere il lettore del fatto che, dei due fronti in armi per il possesso del Nagorno-Karabakh, una rappresenti l’aggressore e l’altro il liberatore.

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9.5 La penisola balcanica Come spiegava impietosamente István Bibó nel suo Miseria dei piccoli Stati dell’Europa orientale, la storia dei Balcani è una serie ininterrotta di tensioni tra gruppi etnici rivali spesso sfociata in scontri armati violentissimi (Bibó, 1986). Tanto è radicata questa condizione esistenziale fatta di contrapposizioni insanabili e atti di reciproca crudeltà che anche la cultura popolare ne ha preso atto; così, ad esempio, per descrivere una situazione di estrema instabilità e precarietà è d’uso comune l’espressione «caos balcanico», mentre un classico della letteratura per ragazzi così spiega i Balcani ai suoi piccoli lettori: «Ci rendiamo noi conto di qual cumulo ereditario di istinti sanguinari, scatenati da rapine, arsioni, stupri, eccidi, saccheggi secolari gravi sulle spalle del ragazzetto balcanico, serbo o bulgaro che sia?» (Van Loon, 1939). Le vicende conflittuali più recenti della regione rimandano alla dissoluzione della Jugoslavia, Paese sempre esposto alle spinte centrifughe delle tensioni etniche scongiurate fino al 1980 dal prestigio del maresciallo Tito, al potere dal 1945. Le rivendicazioni autonomiste di carattere nazionale culminarono nelle prime dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia (25 giugno 1991), presto seguite da quelle di Macedonia e Bosnia-Erzegovina. Questi atti formali avvieranno il processo di dissoluzione dello Stato unitario della Jugoslavia, che segnerà un decennio di scontri violentissimi all’insegna di strategie pianificate di pulizia etnica.

9.5.1 Il Kosovo L’ultimo atto della crisi dell’ex Jugoslavia è l’indipendenza del Kosovo, dichiarata unilateralmente il 17 febbraio 2008. Un’indipendenza però non riconosciuta dalla Serbia, che aveva avuto questa regione sotto la propria amministrazione durante il precedente periodo jugoslavo e la percepisce tuttora come culla storica della propria identità nazionale. La maggioranza albanofona del Kosovo, che già aveva ottenuto un riconoscimento formale della propria particolarità etnica sotto la Jugoslavia quando godeva dello status di provincia autonoma, basa le proprie rivendicazioni sulla schiacciante superiorità numerica rispetto alla minoranza serba e sul sostegno di parte della comunità internazionale12. 12 Al 10 aprile 2010 sono 65 gli Stati che riconoscono l’indipendenza del Kosovo, tra i quali gli Stati Uniti e la maggioranza dei Paesi europei, compresa l’Italia. Importanti defezioni pesano però su questo atto: la Russia, storica protettrice della causa serba; la Spagna, preoccupata che l’esito del Kosovo possa fornire un precedente ai separatisti baschi e catalani, così come la Georgia di cui abbiamo appena ricordato i problemi. L’indipendenza kosovara imbarazza comprensibilmente anche Israele, per l’annosa vicenda palestinese, e Cipro, che ha vissuto una situazione analoga a quella del Kosovo ben prima, con la proclamazione d’indipendenza unilaterale da parte della comunità turca sull’isola. Anche altri importanti Paesi come Cina e India hanno assunto posizioni critiche nei confronti di questa indipendenza dichiarata unilateralmente e hanno deciso di non riconoscere il nuovo Stato.

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La vicenda kosovara rappresenta un interessante caso di studio per l’analisi geopolitica: territorio percepito come elemento inalienabile dell’identità collettiva da parte non di una sola ma di due comunità etniche. Per comprendere come questo sia possibile occorre ripercorrere la storia di questa regione, partendo da molto lontano. Occorre infatti risalire ai suoi primi abitanti conosciuti, gli Illiri, che popolavano i Balcani orientali già nel 1000 a.C. Con questo antico popolo dalla storia ancora molto incerta gli albanesi rivendicano una discendenza diretta che darebbe loro un diritto primigenio sul possesso del Kosovo. Tale riferimento epico dell’autocoscienza nazionale riveste un ruolo decisivo nell’alimentare il moderno nazionalismo albanese. Nel VII secolo a.C. avvengono le prime migrazioni nella regione di popoli slavi, che vi si stanziano amalgamandosi con la popolazione autoctona. Nei secoli successivi una serie di dinastie serbe esercitano il dominio sul Kosovo imprimendo alla regione un carattere culturale specificamente slavo, ma questo periodo viene bruscamente interrotto dalla penetrazione ottomana che sconvolge nuovamente l’identità della regione imponendo la religione musulmana e forzando all’emigrazione un elevato numero di serbi. Le sporadiche insurrezioni serbe sotto l’impero ottomano suscitano sempre risposte durissime da parte dei governanti, che nel 1766 giungono ad abolire il Patriarcato della Chiesa ortodossa serba ubicato proprio nel Kosovo, a Pec´. A differenza dell’ostinata resistenza serba, la popolazione albanofona stanziata nella regione si mostra più remissiva nei confronti degli occupanti turchi, convertendosi in massa alla religione musulmana e accettando incarichi nell’ambito della burocrazia dell’Impero. Rispetto a una situazione tradizionalmente subordinata all’elemento serbo, questo atteggiamento frutta agli albanesi un complessivo miglioramento della posizione sociale e delle condizioni economiche. Gli equilibri etnici regionali dunque mutano. Quando, alla fine del XIX secolo, i Balcani vengono scossi da un’ondata di rabbioso nazionalismo, le aspirazioni di albanesi e serbi, che ormai sentono la possibilità di raggiungere l’indipendenza dall’infiacchito impero ottomano, finiscono per collidere apertamente: il Kosovo diviene per entrambi i movimenti nazionali un riferimento territoriale irrinunciabile. Come conseguenza delle guerre balcaniche, nel 1913 il Kosovo viene assegnato alla Serbia, che avvia una sistematica politica di colonizzazione proseguita ininterrottamente anche sotto il Regno di Jugoslavia e poi la Federazione di Tito. L’insediamento di migliaia di serbi nella regione e il contestuale esodo di albanesi, vittime di misure discriminatorie, ristabilisce un momentaneo equilibrio etno-demografico nella regione13, destinato però a ribaltarsi nuovamente a favore della componente albanese dopo la seconda guerra mondiale quando l’afflusso di serbi diminuirà e gli albanesi faranno valere i loro maggiori tassi di natalità14. Nel frattempo, la seconda guerra mondiale con i continui cambi 13

Tra il 1935 e il 1938 una serie di accordi diplomatici tra Jugoslavia e Turchia stabilirono l’espatrio di 240.000 albanesi del Kosovo. Il piano non poté però essere portato a termine per via dello scoppio della seconda guerra mondiale. Analoghi progetti furono intrapresi anche da Tito negli anni Cinquanta. 14 Si stima che il tasso di natalità della popolazione albanese del Kosovo sia oggi il più alto d’Europa. Un indice però in rapido calo negli ultimi anni per effetto dei mutati comportanti demografici

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di potere nella regione aveva inasprito l’odio etnico e avviato una lunga spirale di violenze e ritorsioni. Al momento della dissoluzione della Jugoslavia la composizione etnica del Kosovo vedeva l’etnia albanese prevalere largamente con il 90% della popolazione totale e quella serba ridotta all’8%. Il delirio nazionalistico del presidente serbo Slobodan Milosˇevic´, dopo essersi manifestato in Bosnia, si rivolse nel 1996 verso il Kosovo, dove iniziò una brutale guerra interrotta solo dall’intervento della NATO nel 1999, che costrinse al ritiro le forze serbe e all’esodo migliaia di cittadini serbi15. La successiva amministrazione transitoria delle Nazioni Unite è terminata nel 2008 con la già citata e contestata indipendenza del Kosovo. Con una storia tanto travagliata e un continuo rovesciamento della leadership regionale, diventava inevitabile che le comunità serba e albanese sviluppassero, oltre a sentimenti di odio reciproco, anche opposte letture della storia della regione. Da qui, conseguentemente, anche l’avvento di rappresentazioni cartografiche in antitesi tra loro, di cui alcuni esempi sono presentati e commentati nelle carte della figg. I.10, I.11, I.12. Pur essendo pubblicato a Skopje (dove vive una consistente comunità albanofona), l’atlante da cui è tratta questa carta (fig. I.10) trascura la Macedonia concentrandosi invece su Albania e Kosovo, cui dedica le carte della sezione iniziale che precede i planisferi. Nell’organizzazione dell’atlante questi due Paesi sono trattati insieme, come fossero unificati nell’immaginario mentale dell’autore a formare la «Grande Albania». L’importanza attribuita al Kosovo è dimostrata dalla circostanza che l’elenco degli Stati europei riportato nell’atlante (a pagina 21) comincia con l’Albania e termina con il Kosovo, mentre quest’ultimo era, al momento della pubblicazione (2003), ancora lontano dall’indipendenza. La Serbia, sotto la cui sovranità ricadeva in quel momento il Kosovo, è sempre ritratta evidenziando con confini netti le entità autonome della Vojvodina, del Montenegro e, appunto, del Kosovo. L’indicazione della città di Mitrovica (qui a volte nella forma albanese Mitrovicë a volte semplicemente Mitrovica) non è preceduta dall’aggettivo Kosovska (cioè kosovara), come per decenni si è ufficialmente chiamata nella versione ufficiale serba. Infine va rilevato che la scritta «Serbia», in quelle rare volte in cui è riportata, occupa sempre la porzione più settentrionale del suo territorio e non si estende mai sul Kosovo. In questa carta (fig. I.11) tratta da un atlante edito a Belgrado, la Serbia viene presentata nella sua piena integrità territoriale, senza riconoscimento dello status di provincia autonoma formalmente attribuito al Kosovo. Nel complesso, viene dunque trascurata ogni velleità indipendentista di questa regione, così codelle giovani generazioni. Un fenomeno che si accompagna a crescenti flussi emigratori diretti soprattutto verso la Germania, l’Inghilterra e gli Stati Uniti. 15 Il censimento del 2005 voluto dalle Nazioni Unite stimò, su 2 milioni circa di abitanti del Kosovo, 92% di albanesi e 4% di serbi prevalentemente concentrati nei distretti settentrionali della regione.

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me del Montenegro, che diverrà formalmente uno Stato sovrano (3 giugno 2006) solo poco tempo dopo la pubblicazione di questa carta. Nelle carte serbe specificamente dedicate al Kosovo, che talvolta presentano un segno di confine appena accennato, la regione è indicata attraverso la dizione ufficiale in uso durante il periodo jugoslavo, cioè «Kosovo e Methoja»; l’espressione, oltre a evocare il ricordo dell’autorità di Belgrado sulla regione, rimarca quella porzione occidentale della regione, la Methoja appunto, ricca di richiami spirituali per i serbi in quanto sede di importanti monasteri ortodossi. È significativa la circostanza che la prima carta ufficiale del Kosovo indipendente non sia opera di un’istituzione di quel Paese, bensì dell’ONU (fig. I.12), cioè dell’organizzazione che, nei fatti, ha creato le condizioni per la realizzazione di questo nuovo Stato. In effetti, si può dire che la nascita del Kosovo deve tutto all’ONU, che vi ha riportato l’ordine, ha favorito la stabilizzazione, ha accompagnato il percorso diplomatico verso l’indipendenza, ha definito l’assetto istituzionale e, inoltre, ha dato il suo contributo alla formazione di un’iconografia nazionale producendone la prima rappresentazione cartografica ufficiale nel marzo 2008, pochi giorni dopo l’indipendenza (avvenuta a febbraio) tramite la sua agenzia UNMIK (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo).

9.5.2 La Macedonia Indipendente dal 1991, la Macedonia compare spesso sugli atlanti con il criptico appellativo «Fyrom», che sta per «Former Yugoslav Republic of Macedonia» espressione inglese traducibile come «già repubblica jugoslava di Macedonia» (fig. I.13). Non si tratta di una versione locale del nome del Paese, né di una forma di rispetto verso la cultura macedone. La ragione di tale stravaganza, cioè un Paese chiamato nel resto del mondo con un nome che nessuno nella stessa patria usa o ha mai usato, risiede nell’opposizione della Grecia, che rivendica il nome in esclusiva alla regione storica della Macedonia, corrispondente alla porzione più settentrionale del proprio territorio. In altre parole, la Grecia accusa la Macedonia di usurpare questo nome, e ha finora impedito in sede internazionale l’attribuzione ufficiale dell’appellativo al neonato Stato (indipendente dal 1991), che per alcuni ha un nome e per altri invece un semplice acronimo: FYROM, appunto (figg. I.14, I.15 e I.16). L’opposizione greca al riconoscimento del nome ha finora bloccato l’accesso della Macedonia alla NATO e all’Unione Europea. La Grecia si è detta disposta, eventualmente, ad accettare come nome ufficiale quello di «Macedonia del Nord».

9.6 Israele/Palestina Senza ricostruire qui gli avvenimenti storici che hanno condotto allo stato di contrapposizione tra comunità israeliana e comunità palestinese, ben noti ai lettori già introdotti alla politica internazionale, è invece importante sottolineare

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subito che le rappresentazioni cartografiche che israeliani e palestinesi offrono del territorio schiacciato tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano danno luogo ad antinomie assolutamente incompatibili, in cui ogni segno e ogni nome traducono una visione mentale irriducibilmente refrattaria al riconoscimento dell’altro. Carte nelle quali la situazione prospettata non è il frutto di un accordo tra le parti bensì un’interpretazione arbitraria o, peggio, solo una semplice proposta di parte spacciata per soluzione condivisa. Non a caso, il confronto tra manuali geografici israeliani e palestinesi ha già attratto l’interesse di diversi studiosi fornendo loro materiale prezioso per lo studio della costruzione dell’identità nazionale attraverso pubblicazioni geografiche e cartografiche (Collins-Kreiner, Mansfeld, Kliot, 2006; Bar-Gal, 1996). La manipolazione del dato territoriale attraverso le carte geografiche si è andata sviluppando con il passare del tempo parallelamente al progressivo aggravarsi e radicalizzarsi della situazione. Fino agli anni Sessanta, ad esempio, gli atlanti israeliani usavano riportare i confini del Paese in modo netto e chiaro, come mostra la carta (fig. I.17). In seguito la simbologia confinaria si è arricchita di nuove categorie (linee tratteggiate o di vario spessore) malamente o per nulla spiegate in legende insufficienti che inducono incertezza nel lettore e si prestano a rappresentare interpretazioni soggettive. In questo modo, la sovranità sulla Cisgiordania diventa del tutto arbitraria: ora attribuita a Israele fig. I.20, ora invece all’autorità palestinese (ma quale?) o alla Giordania (carta della fig. I.18). Analogamente le alture del Golan, occupate da Israele con un’operazione militare nel dicembre 1981 e da allora reclamate dalla Siria, sono attribuite differentemente a seconda che si tratti di una carta israeliana (si faccia ancora riferimento alla carta della fig. I.20) o palestinese (carta della fig. I.19). L’annullamento dell’altro arriva al punto di cancellarne l’esistenza: in una carta palestinese (carta della fig. I.21) Israele non viene neanche menzionato, pur se non mancano i nomi di tutti i suoi confinanti (Libano, Siria, Giordania ed Egitto). Il contrario avviene per la carta israeliana della fig. I.21 nei confronti dei territori palestinesi, riportati come «Samaria» e «Giudea». Infine, un ruolo importante sull’interpretazione della carta giocano le diverse definizioni dei territori abitati dai palestinesi, nei loro atlanti denominati «occupati» o «violati» ma privi di aggettivazione negli atlanti israeliani.

9.7 Carte di oggi, carte di domani Seppure ogni carta geografica sia solo una delle tante rappresentazioni possibili di un territorio, abbiamo visto che a volte essa si riduce a una deliberata espressione di propaganda. La carta geografica si presta dunque alla strumentalizzazione. Ciò è insito nella sua stessa natura di rappresentazione che, come tale, vive alcune condizioni generali proprie di tutte le rappresentazioni, quale ad esempio il principio di riduzione: «Rappresentare è prima di tutto ridurre e su-

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bito poi schematizzare e cioè trarre partito dalla ineluttabilità della riduzione. In altre parole decidere cosa perdere, quale forma o livello di riduzione accettare» (Anceschi, 1992, p. 25). C’è poi da considerare il peso delle convenzioni, apparentemente neutrali ma in realtà destinate a condizionare potentemente la lettura della carta. Ad esempio, la convenzione che vuole l’Europa al centro dei nostri planisferi; collocata nel bel mezzo della carta, l’Europa acquisisce importanza agli occhi dell’osservatore, sia perché si tende istintivamente a disporre al centro gli elementi più significativi di un insieme, sia per una ragione fisica connessa alla vista umana: la regione della retina che si chiama fovea assicura la massima definizione visiva all’area centrale dell’immagine che stiamo osservando. Ma, a dire il vero, l’Europa non è esattamente al centro del planisfero. È poco più in alto, a nord dell’Africa. Meglio ancora, perché al livello della percezione dell’immagine ciò che si trova in alto non è equivalente a ciò che si trova in basso: le immagini, e quindi anche le carte, sono spazi tendenzialmente anisotropici in cui l’area superiore acquista un peso visivo maggiore di quella inferiore, sia a causa della nostra esperienza fondamentale della gravità terrestre, sia per il condizionamento culturale di schemi percettivi sviluppati nel corso del tempo con l’attività di lettura, che procede dall’alto verso il basso. Non è un caso che, nella pittura occidentale, i soggetti sacri siano solitamente collocati nella parte superiore del quadro mentre quelli profani nella parte inferiore. Tuttavia, l’attuale fase di evoluzione della cartografia sta vivendo novità importanti, che è lecito chiedersi se comporteranno variazioni rispetto a quanto affermato finora: ci riferiamo al progresso tecnico-strumentale e all’avvento di internet. Si tratta forse di fenomeni – lo sviluppo delle tecnologie satellitari e la penetrazione dei nuovi media nella società – destinati a produrre conseguenze decisive sulle capacità persuasive della carta? Circa lo sviluppo tecnologico, il discorso appare evidente: misurare con straordinaria accuratezza e rapidità la superficie terrestre non risolve alcuno dei problemi toccati finora che, vale la pena ripeterlo, non riguardano difetti di misurazione, ma limiti intrinseci della rappresentazione cartografica. In ogni caso, ai fanatici della tecnologia andrebbe ricordato che solo pochi Paesi vantano a oggi avanzati sistemi di rilevamento satellitare e non sono certamente disposti a diffondere le informazioni in loro possesso in modo generalizzato e disinteressato16. Più delicata è la questione relativa al rapporto tra internet e la cartografia. Come noto, scienza e società vivono in un’osmosi costante; le forme di strutturazione e trasmissione del sapere sono sempre funzionalmente connesse ai 16

È significativo l’incidente diplomatico occorso qualche anno fa tra Stati Uniti e Francia: «Nel 1990-91 le forze armate americane fornirono alla Francia foto satellitari abilmente ritoccate, al fine di spingere l’alleato francese a seguire la condotta delle operazioni suggerite dagli americani. Questa disinformazione “amichevole” da parte degli Stati Uniti condusse le autorità francesi, una volta che i dirigenti ne ebbero piena consapevolezza, a varare un proprio programma di copertura satellitare al fine di garantirsi una piena indipendenza in questo settore strategico» (Bautzmann, Clairet, 2010, pp. 28-29). Come si vede, la cartografia satellitare presenta le medesime possibilità di alterazione già note per la cartografia tradizionale.

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tempi; dunque, anche la cartografia non può fare a meno di registrare i profondi cambiamenti in atto nella nostra società. Nell’attuale fase della storia della cartografia, l’elemento più dirompente rispetto al passato è l’avvento di internet, che ha prospettato una nuova rilevante dimensione sociale e individuale. La diffusione di internet ha cambiato la cartografia? La risposta è certamente affermativa perché l’aspetto più caratteristico della cartografia di questi ultimi anni è la diffusione e proliferazione di carte, vale a dire l’incessante aumento quantitativo nella loro circolazione. La rete è innegabilmente l’artefice principale di tale fenomeno. La possibilità di personalizzare facilmente le carte (disponili, spesso gratuitamente, in rete) e la flessibilità dei nuovi software cartografici (anch’essi comodamente accessibili in rete) hanno aumentato la varietà delle rappresentazioni, che, come in una catena di Sant’Antonio, danno vita a loro volta a una quantità enorme di nuove e differenti versioni. Ovviamente, gli effetti di questo fenomeno non si limitano all’aspetto quantitativo dell’incremento di circolazione della carta, ma sono anche straordinariamente importanti sul piano qualitativo; migrando su internet la carta non è più la stessa di prima: è più accessibile e più interattiva, dunque più vicina alle disponibilità (tecniche ed economiche) e alle esigenze (pratiche, ludiche o intellettuali) del pubblico. L’effetto più rivoluzionario di tale fenomeno è il cambiamento della natura stessa della carta: in passato la presenza di un preciso centro titolare dell’ufficialità della carta (lo Stato) conduceva a un’unica interpretazione legittima del territorio, che pretendeva di essere l’unica immagine «vera»; in quella logica monocentrica vigeva una visione «riduzionista» della complessità territoriale, che limitava l’interpretazione a quella considerata ufficiale. Oggi, invece, saltato il controllo sulla produzione da parte di un unico centro autoritativo, unica fonte abilitata all’atto di interpretazione e riproduzione, ogni «agente cartografico» (dall’istituto privato all’individuo) può dar luogo a una varietà di riproduzioni. Inoltre, la possibilità di elaborare carte attraverso le nuove tecnologie e diffonderle via internet alimenta la «globalizzazione della cartografia». Se per secoli la sola cartografia ufficiale era quella prodotta a partire da un unico contesto culturale di riferimento, quello occidentale, oggi anche altre culture hanno la possibilità di produrre e far circolare le loro visioni del mondo. Va poi aggiunto che la nuova cartografia in rete si contraddistingue, rispetto a quella tradizionale, anche per l’utilizzo diretto da parte di chi in precedenza era solo l’utente finale, cioè un soggetto che non partecipava alla fase di redazione della carta ma si limitava ad analizzarne il contenuto. Come si comprende facilmente, questi cambiamenti stanno producendo una metamorfosi decisiva che non potrà non riflettersi sulle nostre rappresentazioni e sul nostro modo di vivere lo spazio. Un’analisi generale dello stato attuale della cartografia fa emergere alcuni interrogativi affascinanti ma irrimediabilmente ancora senza risposte, quali ad esempio: nella cartografia del domani prevarranno le finalità pratiche oppure quelle speculative? La differenziazione nei tipi di carte produrrà parallelamente differenti specializzazioni nel mestiere del cartografo, ognuna dotata di compe-

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tenze professionali distinte (il cartografo del turismo, quello dell’ambiente, della geopolitica ecc.)? Quali che siano le risposte, non c’è dubbio che la cartografia sia entrata in una nuova era, una vera e propria «rivoluzione cartografica». Probabilmente, mai nella lunga storia della cartografia era accaduto in tempi così rapidi un cambiamento altrettanto sconvolgente. Un’ultima riflessione è infine dedicata a un aspetto per così dire romantico dell’uso di carte geografiche. Come ci si interroga attorno alla presunta «fine del libro stampato», cioè l’ipotesi che il libro tradizionale venga sostituito dal computer, così si può discutere sulla possibile morte della carta geografica stampata: andiamo verso l’uso di carte su prodotti tecnologicamente più avanzati? In effetti la carta geografica non è mai stata uno strumento pratico da utilizzare, come potrebbe testimoniare ogni escursionista che ha tentato in una giornata ventosa di aprire una carta pieghevole oppure ogni automobilista che ha tentato durante la guida di individuare sullo stradario il tragitto migliore. Come per il libro stampato, è azzardato lanciarsi in ipotesi circa il futuro della carta «cartacea». Ma rimane forte la sensazione che si sia ormai entrati in una nuova epoca.

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