Chiesa e modernità. L\'autonomia dell\'umano tra fede e cultura

May 31, 2017 | Autor: Marco Bernardoni | Categoria: Modern History, Theology, Modernity, History of Canon Law, History of Catholic Church
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a modernità, o le modernità (un plurale opportunamente rilevato) come: questione ancora aperta per la Chiesa. Questo ha inteso mostrare, tra il 16 e il 19 novembre scorsi, il Congresso internazionale organizzato dalla Facoltà di filosofia della Pontificia università gregoriana su L’uomo dell’età moderna e la Chiesa.1 Frutto di un «ampio percorso di riflessione e condivisione intellettuale» che ha impegnato per quattro anni (dal 2007) un gruppo di ricerca formato da filosofi, teologi e storici della Gregoriana e di altre università italiane, il congresso – concentrandosi sulla modernità quale «momento irrinunciabile» per la comprensione del presente – ha inteso «far udire la voce innovativa della ricerca filosofica, teologica e storica» su temi fondamentali in ordine alle sfide della cultura contemporanea alla vita della Chiesa. All’inizio non fu così Un dato è apparso chiaro. Il concilio Vaticano II, preparato dalla stagione precedente, è stato il momento di «un’impressionante rilettura» della modernità, in seguito alla quale è maturato un atteggiamento ecclesiale più «sereno e ospitale» verso lo spirito moderno dopo le «tensioni profondamente dolorose» che – tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX – furono simbolicamente rappresentate dal Sillabo di Pio IX (1864, contro gli «errori moderni», compresa l’idea di separazione tra Chiesa e stato), e dall’enciclica Pascendi di Pio X (1907, contro il modernismo).

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Congresso internazionale

a Chiesa e la modernità L’ a u t o n o m i a d e l l ’ u m a n o t r a f e d e e c u l t u r a

Le due grandi crisi sono state presentate da p. Michael Paul Gallagher (Gregoriana) come i passaggi chiave di quel «divorzio tra fede e cultura dominante» che generò ostilità e sospetto reciproco. «La modernità scoprì e riscoprì l’autonomia dell’uomo, ma di fronte a tale pretesa la Chiesa non poteva che temere il disordine e, alla fine, l’ateismo». Così, invece che «produrre una correzione equilibrata agli eccessi della modernità», essa si ritirò «in un ghetto monologico, dove è rimasta al sicuro, ma insofferente, per generazioni, assente dalle frontiere della storia, scegliendo di giudicare negativamente la modernità dall’alto piuttosto che sforzarsi di capire il nuovo mondo che stava emergendo». Ma all’inizio non fu così. Concentrandosi sulla prima modernità (secoli XVI e XVII), e sul periodo pre-moderno, diversi interventi hanno ben evidenziato le «radici ecclesiali» della modernità. Mons. Peter Henrici, che ha considerato la modernità sotto l’aspetto filosofico, ha sottolineato come essa derivi «nelle sue strutture ideali dalla “via moderna” occamista» di cui tra gli «autori cattolici benpensanti si soleva e si suole dire ancora ogni male» (riconoscendovi le radici della Riforma). Ma a un tale giudizio negativo «sfuggono le premesse teologiche specificamente cristiane della “via moderna”, la quale partiva dall’idea che Dio crea per liberissima volontà amorosa ogni singolo essere finito e continua ad amarlo nella sua singolarità». La centralità data al singolo esistente, in una tradizione

fino ad allora universalista, fa in realtà della «via moderna» la prima filosofia «di origine specificamente cristiana» l’amore e la volontà, infatti, «si rivolgono sempre al singolo esistente e non a un universale lontano e astratto» (Henrici). L’evoluzione del dirit to Le radici della modernità sono state indagate nella tradizione cristiana per riferimento all’ambito giuridico dai proff. Carlo Fantappiè (Urbino) e p. Ottavio De Bertolis (Gregoriana).2 Fantappiè ha approfondito, nel contesto culturale e giuridico medievale, l’indicazione di M. Weber secondo la quale il diritto canonico – a motivo del suo carattere giuridico-formale e dell’introduzione del dualismo tra potere politico e religioso – «fu per il diritto secolare una delle guide sulla via della razionalità». Nell’organizzazione universitaria medievale teologia, diritto civile e diritto canonico entrarono già come discipline distinte. L’evoluzione metodologica delle stesse e i loro rapporti furono determinati «dall’istanza razionale e umanistica di Anselmo d’Aosta» che portò l’Occidente a concentrarsi «sul mondo umano» (primato dell’incarnazione) e a razionalizzare la conoscenza attraverso il «metodo scolastico». In quel contesto, il nascente diritto canonico si separò dalla teologia e divenne «un sistema giuridico autonomo fondato sulla divisione tra i suoi fondamenti biblici e le pratiche affidate al giurista-scienziato». Inoltre, «dalla confluenza delle teorie della giustizia di Anselmo, dell’etica di

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René Descartes.

Abelardo, e della legge di Graziano prese le mosse un diritto penale razionale fondato sulla distinzione tra peccato e reato, tra foro interno e foro esterno, tra coscienza e tribunale» che determinò la separazione propriamente occidentale della giurisdizione ecclesiastica da quella secolare. Fantappiè ha poi sottolineato come la «razionalità giuridica della Chiesa» pose le premesse affinché si potesse passare «da un diritto che regolava i casi singoli a un sistema rigoroso di legislazione positiva». Si può così sostenere che il diritto canonico, oltre a contribuire in modo significativo all’elaborazione del «moderno concetto di legge», ha svolto «per la formazione dello stato di diritto, la funzione di un vero e proprio modello ispiratore». A partire da queste premesse, la svolta alla modernità giuridica è stata disegnata da De Bertolis come il cammino verso la «piena identificazione del diritto (ius) con la legge (lex)» e la «torsione della lex alla voluntas». L’instaurarsi del primato della volontà, la progressiva migrazione dell’idea di ordo da ordine naturale a comando, precetto,

volontà efficace del soggetto, segnarono il passaggio da un ordinamento giuridico centrato «sulle cose», all’idea di un «diritto soggettivo» inteso quale «potere attribuito al singolo dallo stato e da questo garantito». La matrice teoretica della svolta fu la stessa che guidò la nascita della scienza moderna: al centro del sistema giuridico passava, «signore e dominatore», l’individuo libero e cosciente. «Il sapere giuridico cessò di essere un sapere prudenziale» per divenire anch’esso un «sapere teoretico, il cui modello era la geometria» (giusnaturalismo moderno). Di tale sistema giuridico la forma del Codice – che Napoleone diffonderà in tutta Europa – è espressione compiuta: un ordinamento esaustivo, ma autoreferenziale, i cui principi fondamentali sono garantiti dal potere dello stato, e in cui la vita della comunità («usi e consuetudini») viene del tutto marginalizzata tra le fonti del diritto. Tra rivoluzione e continuità L’insufficienza di una lettura della modernità come «semplice rottura» ri-

spetto alla tradizione scolastica medievale appare chiara in alcuni autori chiave della prima modernità. La scolastica, per la grande diffusione della manualistica gesuita nel XVII secolo, rimase infatti «una struttura di pensiero largamente condivisa», grazie alla quale – paradossalmente – i cosiddetti «moderni» poterono essere «anti-scolastici» (si pensi, come caso emblematico, alla formazione ricevuta da Descartes al collegio gesuita di La Flèche). Al Collegio romano ci si applicò, dopo il concilio di Trento, a una rilettura critica dei grandi scolastici (Tommaso per primo), arricchita da una rinnovata attenzione alle fonti patristiche. All’impresa offrì un contributo notevole Francisco Suárez. Del pensiero metafisico, teologico e giuridico del gesuita spagnolo, considerato «una fonte di primaria importanza per la nascita e lo sviluppo della filosofia moderna», si sono occupati gli interventi dei proff. Costantino Esposito (Bari) e p. Sergio Bonanni (Gregoriana). Esposito ha mostrato che con Suárez ci si trova al contempo di fronte a un acutissimo innovatore e a una chiara «eterogenesi dei fini». Egli, teologo impegnato nella Riforma cattolica, intendeva «conciliare la frattura tra la natura e la sovranatura, tra il mondo e la grazia, cercando un tessuto connettivo del mondo, in cui fosse traducibile già a livello naturale la grazia». La «pura pensabilità» del mondo così recuperata doveva aiutare la teologia a riconoscere lo stesso come creato e salvabile ragionevolmente da Dio. Ma i principi della «metafisica neutra» elaborata da Suárez poterono essere assunti nella modernità per produrre l’esito opposto, ovvero la radicale separazione tra i «due ordini» (natura e sovranatura) e il progressivo disincanto del mondo. Il prof. Franco Motta (Torino) si è invece occupato della figura di Roberto Bellarmino, che «definì la struttura e la natura della Chiesa uscita dal concilio di Trento» e la dotò – nella sua rilettura del pensiero di Tommaso – di uno strumento concettuale che sarà fondamentale per il confronto con la modernità politica: la teoria della potestas indirecta del pontefice sugli affari temporali. Motta ha anche sottolineato come

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la teologia controversista del Collegio romano, alla quale contribuì il Bellarmino, fu molto di più che una reazione apologetica alla Riforma. Essa costituì il quadro metodologico «entro il quale la Chiesa configurò in termini nuovi il proprio rapporto con la complessità del mondo dopo la rottura dell’unità confessionale europea: da un lato facendo appello alla coscienza dell’individuo; dall’altro istituendo concettualmente la tesi dell’infallibilità del pontefice come istanza ultima di risoluzione delle dispute di fede e, quindi, di determinazione positiva della verità». La stessa tesi è stata sostenuta da p. Giancarlo Pani (La Sapienza) che ha illustrato gli «elementi di modernità del concilio di Trento». Il Tridentino, che operò di fronte alla minaccia della Riforma, non si limitò a una strategia difensiva di pura conservazione, ma si confrontò seriamente con la transizione epocale dal Medioevo all’età moderna apportando nella vita ecclesiale veri elementi di modernità. Ne sono testimonianza, tra gli altri, i decreti sulla giustificazione e la cura animarum, l’attenzione alla formazione del clero,

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la maggiore libertà e l’obbligo di residenza per i vescovi, la rinnovata disciplina dei sacramenti. Rivoluzione scientifica e sogget tività inquieta Le due crisi convergenti che generarono l’uomo della modernità furono la nascita della nuova scienza, «che metteva in discussione le antiche vie verso la verità», e lo sviluppo di «una nuova auto-percezione dell’individuo», che gradualmente perdeva «la convergenza tra immagini di Dio, immagini dello spazio, e immagini del sé». Tale svolta cruciale nella storia dell’Occidente determinò reazioni non solo di lamento per la «morte di un mondo», ma di vero smarrimento e «panico per l’impatto del cambiamento repentino» (Gallagher). «L’ambiente di vita dell’uomo moderno andava man mano frantumandosi» (Henrici). La fine dell’Impero romano-tedesco; la nascita degli stati e delle culture nazionali; la rottura dell’unità confessionale; la scoperta di nuovi continenti e culture, che «distruggeva definitivamente l’illusione di un mondo chiuso e mediterraneo»; la

rivoluzione astronomica, che faceva esplodere «i limiti dell’universo» e spostava la terra dal centro immobile. Tutti cambiamenti radicali che, sopravvenendo l’uno dopo l’altro, giustificano per la nascente «soggettività moderna» la definizione di «soggettività inquieta». Tale «insicurezza esistenziale», che ha trovato la sua espressione più famosa nella domanda di Lutero, è tipicamente moderna. In questo, come è stato più volte sottolineato durante i lavori, l’uomo della modernità, solo davanti a un Dio che nella sua liberissima volontà e onnipotenza «ispirava più apprensione che fiducia», in cerca della sua salvezza nell’interiorità della fede piuttosto che nel moltiplicarsi di sforzi rituali, è erede di Agostino. In un simile contesto, segnato dai gravi disordini prodotti dalle guerre civili e di religione, emerse con forza la «questione del metodo», via attraverso la quale si cercava di recuperare la certezza del sapere, che non fosse più soltanto teoretico e speculativo, bensì anche «utile a fini pratici» (una scientia propter potentiam). Si mescolavano in questa tendenza le due correnti più rappresentative della filosofia moderna: il razionalismo, che si preoccupò di rivalutare le capacità della ragione umana facendo della matematica il modello del sapere certo, e l’empirismo, dalla cui «preminenza per la conoscenza sensibile» dipende buona parte del pensiero moderno che sfocerà nell’Illuminismo. Su questi presupposti, l’uomo della modernità «sarà sempre più un homo industrialis, (…) borghese e intraprendente, sicuro di sé e critico di ogni autorità (…) fino a diventare, nei nostri giorni, homo finanziarius, la cui vita sono cifre di affari, astrazione estrema ed estremamente manipolabile del mondo materiale» (Henrici). Il congresso si è ampiamente occupato di tale questione: dall’evoluzione del lemma «scienza certa» nel pensiero di Descartes (prof.ssa Belgioioso, Lecce), all’applicazione «coerente e rigorosa dell’ideale moderno della scienza alla politica e alla società» in Hobbes (prof. Vila-Chã, Gregoriana); dall’idea di «tolleranza» in Locke (prof. Merlo, Padova), all’adozione di un metodo quasi cartesiano nella «mistica

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moderna» in Fénelon (prof.ssa Devillairs, Parigi). Interessante il confronto proposto dal prof. D’Agostino (Gregoriana) fra tre autori (Bacon, Descartes e Spinoza) che in periodi diversi si occuparono della ricerca di un «metodo» senza riuscire a perfezionarla. Da cui il «metodo» visto nella prospettiva di un’inquieta ricerca che – nella prima modernità – riflette ancora l’intima struttura di una realtà non pienamente disponibile. Non altrettanto spazio, purtroppo, è stato concesso alla «scienza moderna» e alla crisi generata dalla convergenza tra la svolta verso la soggettività e la nascente visione «scientifica» del mondo. Un mondo divenuto «matematizzabile», puramente «ideale», trasparente al pensiero e meccanicamente manipolabile, apriva la strada all’uomo come «maestro e dominatore» di una natura senza mistero. Se Galilei, infatti, «aveva considerato la struttura matematica del mondo fisico ancora in modo oggettivo», dopo Descartes «anche la struttura matematica del mondo materiale sarebbe divenuta un puro contenuto di coscienza». Sarà la «svolta copernicana» di Kant a perfezionare il potenziamento del soggetto moderno, attribuendo all’uomo «il ruolo di garante della scienza, che era prima spettato a Dio» (Henrici). Il confronto inevitabile con le scienze naturali, e specificamente col «caso Galilei», è stato affidato a p. José Funes (Specola vaticana), che ha ripercorso la vicenda con un taglio divulgativo e «pastorale», scelta che riflette la delicatezza di un passaggio storico tuttora complicato. Tra i fattori che continuano a rimanere critici Funes ha giustamente ricordato l’ignoranza reciproca di scienziati e teologi (aggravata non di rado da contrapposizioni ideologiche), la difficoltà di dialogo per la carenza di persone competenti sui due versanti, e la scarsa presenza, ancora oggi, di studi interdisciplinari nella formazione ecclesiale. Su questo versante, occupandosi dell’attività del Collegio romano, istituzione pensata «fin dalla fondazione come scuola attenta a recepire gli stimoli emergenti nel panorama culturale del suo tempo», al congresso è mancato uno spazio per l’opera di alcuni importanti gesuiti (Clavius, Schei-

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ner, Boscovich) che si distinsero, pur essendo religiosi, tra i «pionieri delle scienze moderne». La modernità ritrovata? L’apertura e la chiusura del congresso erano dedicate alle «riletture» e al «recupero» della modernità da parte della Chiesa. Aprendo i lavori, p. Gallagher ha indicato nel Vaticano II il tornante nel quale, innestandosi sulla riscoperta delle radici più antiche (aggiornamento e ressourcement furono le parole chiave), fu possibile «confrontarsi con gli interrogativi moderni con nuova serenità». Tra le altre questioni, egli si è occupato anche dell’ateismo, fenomeno fino ad allora denunciato dal magistero come «errore filosofico o male politico», nel quale si vedeva quasi la somma o il vertice degli errori moderni. Col Vaticano II tale posizione lasciò spazio, in prospettiva «pastorale», a «una lettura spirituale ed esistenziale del dramma personale dell’ateo», cui anche forme «inadeguate» di religiosità potevano contribuire. Significativo, a tale proposito, che a chiudere il congresso sia stato poi il card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura cui fa capo la recente iniziativa di dialogo coi non credenti denominata Cortile dei gentili.3 Mons. Henrici, nella sessione conclusiva, ha indicato alcune piste per parlare di «modernità ritrovata dalla Chiesa», precisando che a tale scopo il termine Chiesa va considerato nella sua totalità di «popolo di Dio in cammino». Queste le sue conclusioni: «La filosofia moderna, da cui derivano alcune delle idee direttrici della modernità, era largamente ispirata, anzi resa possibile da idee cristiane. Si tratterà di riscoprire e di rimettere in auge queste idee. Di fatto però, la maggior parte dei precursori emblematici della modernità furono o precursori della Riforma protestante o evangelici riformati (…). Ritrovare la modernità da parte di noi cattolici sarà pertanto anche e forse in primo luogo un problema ecumenico». E infine, il percorso tracciato «sembra aver dimostrato che la modernità fu ritrovata non tanto dalla Chiesa come tale, ossia dal magistero, ma soprattutto da singole persone, siano questi

santi o sante, artisti o pensatori. Ne segue che non si può devolvere (…) alla sola gerarchia il compito di ritrovare la modernità, ma che questa missione incombe a ogni singolo cattolico, al suo posto e con la sua specifica competenza». «Le vecchie guerre possono considerarsi finite. Molte incomprensioni sono state chiarificate (…). Tuttavia, questa non è tutta la storia. Molte ambiguità rimangono nell’eredità della modernità per riuscire a chiudere questo capitolo». Così Gallagher ha fatto entrare i lavori del congresso nel cuore della contemporaneità occidentale, spazio di una cultura che per definirsi non può fare a meno di riferirsi – in quanto postmodernità – all’età moderna. Oggi la «crisi» tra la Chiesa e la cultura è meno intensa, ma non assente. «Meno riconoscibile, perché è una crisi culturale generalizzata. Coinvolge la cultura nelle sue espressioni quotidiane in termini di stile di vita o di assunzioni implicite. (…) Siamo al cospetto di un oceano di opzioni che confondono, e di un’eclissi della questione di Dio più che di una esplicita mancanza di fede». Così sembra delinearsi, ha concluso Gallegher, «una questione di antropologia più che di teologia, ma se teologia significa mediazione nei confronti della sensibilità umana di oggi, allora questo contesto culturale disceso dalla modernità ha intenso interesse teologico». Marco Bernardoni 1 Il congresso era strutturato su quattro giornate di lavoro (16-19.11.2011) durante le quali studiosi di diverse nazioni e istituzioni accademiche hanno indagato la modernità secondo molteplici prospettive: storica, giuridica, sociopolitica, scientifica, filosofica. Il complesso rapporto della Chiesa con l’età moderna è stato presentato con una scansione che ha definito i titoli delle sessioni di lavoro: «La modernità come questione per la Chiesa» (16.11); «La Chiesa alle radici della modernità» (17.11); «La Chiesa allontanata dalla modernità» (18.11) e «La modernità ritrovata dalla Chiesa» (19.11). L’apertura del congresso e la sua conclusione erano sessioni aperte al pubblico. 2 Cf. sullo stesso tema il contributo di P. PRODI, «Teologia morale e risposta alla modernità: ripartire da Trento», in Regno-ann. 2010,103-148. 3 Cf. Regno-doc. 5,2011,314ss. Non va dimenticato che al dicastero per la cultura è stato unito, nel 1993, quel Segretariato – poi Pontificio consiglio – per i non credenti istituito nel 1965 sotto l’influsso del clima conciliare.

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