Consumo

July 6, 2017 | Autor: Pierluigi Musarò | Categoria: Capitalism, Consumer Research, Consumption and Material Culture, Consumo, Prosumerism
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Consumo di Pierluigi Musarò

pubblicato in Cipolla C. (a cura di ), I concetti fondamentali del sapere sociologico, FrancoAngeli, Milano, 2011

Introduzione Se ai tempi di Feuerbach l’uomo era ciò che mangiava, ai tempi di Bauman siamo quello che consumiamo. Ovvero, ciò che acquistiamo, usiamo e buttiamo via. Il consumo è divenuto l’elemento trainante e unificante che permea di sé luoghi e culture, socialità e bisogni individuali. Sotto la sua pressione la libertà individuale viene anteposta alla felicità pubblica, la città diventa una merce, la politica viene asservita all’economia. La modernità diventa «liquida», come scrive Bauman, secondo il quale «la società attuale forma i propri membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori» (Bauman 2002, p. 90). Ma cosa significa oggi essere consumatori? Dietro le merci che vengono vendute sul mercato e che riempiono la nostra esistenza quotidiana si celano valori e significati in grado di influire sul nostro immaginario, sulle relazioni sociali, sulla formazione dell’identità individuale e collettiva, sulla stessa organizzazione del territorio, che si struttura come luogo di consumo e di produzione. Per quanto vi sia ancora una tendenza generale a ridurre il consumo a «gratificazione di natura autoriferita» o «consunzione che si accompagna a sfruttamento» (Cipolla 1997, p. 526), e a stigmatizzare i consumatori come soggetti passivi e facilmente manipolabili dai potenti strumenti del marketing, è necessario individuare nel consumo un fenomeno diffuso della società globale, «un’area esperienziale centrale» in cui convergono interessi diversi, prendono forma i conflitti, si agitano le passioni sociali (Di Nallo, Paltrinieri 2006, p. 19). Riconoscere in esso una realtà autonoma che ha pervaso tutti gli altri sistemi, costringendoci a rivedere i confini che hanno storicamente distinto il consumatore dal cittadino, l’acquirente dall’utente, il cliente dall’elettore.

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Per ragionare in termini sociologici sul consumo, il punto di partenza non può che essere il superamento dell’idea, per troppo tempo coltivata, che la produzione sia un valore assoluto perché rappresenta il lavoro, mentre il consumo sia necessità di secondo ordine e opaca, perché rappresenta il finish della produzione (Marx 1978), o l’agiatezza tipica dell’aristocrazia (Veblen 1971) e al peggio la rendita con i suoi alti livelli di spreco. É infatti vero che «da qualche tempo si è cominciato a prendere coscienza che questi due ambiti non sono poi così distanti e che tra loro esistono forti connessioni» (Codeluppi, Paltrinieri 2010, p. 7). Come dimostra l’analisi delle diverse fasi che vengono attraversate dalla merce durante il suo ciclo di vita, produzione e consumo hanno sempre agito congiuntamente. Per cui non ha molto senso contrapporre i due ambiti, anche perché l’evoluzione del sistema verso una «economia dell’immateriale» (Gorz, 2003) o «economia della conoscenza» (Rullani, 2004), vede oggi i consumatori sempre più impegnati a produrre ciò che consumano o a consumare esperienze che sono possibili solo in virtù del ruolo di co-protagonisti da essi svolto (Pine, Gilmore, 2000; Ferraresi, Schmitt 2006). Nel nuovo capitalismo, dove le imprese prendono a riferimento soprattutto il modello dell’industria culturale (Boltanski, Chiapello 1999; Rifkin 2000), il lavoro svolto dal consumatore è tutt’altro che marginale, in quanto riveste un ruolo crescente all’interno dei processi produttivi che fanno funzionare la catena economica del valore. Non a caso si parla oggi di «consumo produttivo» e di «prosumer», ovvero di una nuova figura che nasce dall’unione di producer e consumer (Toffler 1987). La stessa antica tendenza a ridurre il consumo ad una dimensione, quella dell’homo oeconomicus che tutto misura in termini di utilità (Pareto 1965), oppure a condannarlo come spreco, fonte di alienazione e falsa coscienza, secondo la prospettiva della «razionalità del dominio» (Adorno, Horkheimer 1966), con l’entrata nella società postindustriale sembra destinata a convivere con altre descrizioni che, al contrario, ne enfatizzano aspetti diversi, prevalentemente di tipo culturale e simbolico. Ciò è potuto avvenire perché le griglie concettuali imposte dai paradigmi moderni hanno allargato le loro maglie. Se, infatti, la società moderna aveva relegato il consumo ad «una nota della sinfonia suonata secondo lo spartito proposto dalla logica della produzione capitalista» (Di Nallo 1997, p. 14), con il passaggio al postmoderno, avviene non solo una «graduale conversione da una società orientata alla produzione ad una società rivolta al consumo» (Fabris 1970, p. 16) che porta ad una progressiva neutralizzazione del consumo sotto il profilo ideologico, ma allo stesso viene riconosciuta una diversa legittimazione sociale, tanto da assumerlo come nuovo paradigma interpretativo dei cambiamenti sociali. Lo stesso Ritzer (2000, p. 197) sottolinea come «nelle epoche precedenti erano i mezzi di produzione a predominare, ma al giorno d’oggi la supremazia è passata ai mezzi di

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consumo, così che il centro commerciale ha rimpiazzato la fabbrica come struttura caratteristica dell’epoca». Il consumo verrà dunque analizzato non solo nella sua dimensione materiale, per cui è spesso e sovente condannato, ma, attraverso l’analisi della sua dimensione simbolica e intersoggettiva, verrà ad esso riconosciuto un ruolo fondamentale nel più generale processo intersoggettivo di costruzione della realtà sociale. Ciò non toglie che il consumo rimane, in primis, funzionale alla produzione che, almeno in parte dirige e sostiene. Motivo per cui lo adotteremo come lente per un’osservazione delle interdipendenze planetarie a livello sociale, culturale, politico ed economico. La sociologia dei consumi Sebbene il consumo possa essere considerato un fenomeno antico come l’umanità, la maggior parte degli studiosi – almeno sino agli anni Sessanta ha iniziato a riflettere sul consumo identificando nella nascita della rivoluzione industriale il momento d’inizio (Codeluppi 2002). L’interpretazione che ne hanno tradizionalmente dato economisti e sociologi, a causa del fatto che le loro analisi erano rivolte per lo più all’economia e alla società contemporanee, ha portato ad attribuire al consumo in generale caratteristiche tipiche del consumo in uno specifico contesto. Contesto di cui questi studi sono figli, ma che hanno contribuito anche in buona parte a modellare. Per quanto riguarda l’economia bisogna distinguere la scuola classica da quella marginalista. Per Smith, Ricardo, per lo stesso Marx, il consumo è il fine della produzione. Fine inteso tanto come obiettivo quanto come finish, conclusione del ciclo economico. Il consumo è considerato positivamente quando è consumo produttivo, e negativamente quando è improduttivo, testimoniando il fatto che, secondo i classici, è la produzione e non il consumo il vero fulcro dell’economia e della ricchezza nazionale (Parmiggiani-Bartoletti 1997). La legge di Say, secondo la quale «l’offerta crea la propria domanda», è un chiaro esempio di come al consumo venga ritagliato un ruolo derivato. In altre parole, per gli economisti classici il consumo è un momento del processo economico, momento che consiste nell’uso di ciò che viene prodotto. Le motivazioni del consumatore non vengono prese in considerazione, ciò che conta sono gli interessi del sistema economico, la sua ricchezza dipendendo dalla produzione di sovrappiù. Il consumo è dunque funzionale a questa dinamica, tanto più funzionale quanto più produttivo. Se i classici vedono il consumo come momento del ciclo economico centrato sulla produzione e funzionale alla ricchezza del sistema,

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l’economia neoclassica, frutto della rivoluzione marginalista, sposta il centro di interesse sull’individuo. Il consumo diventa principalmente il mezzo per la soddisfazione dei bisogni, e diviene rilevante (e misurabile) per l’utilità che il consumatore ne deriva. Secondo la scuola neoclassica, il sistema è florido quanto più i soggetti consumano, sospinti dall’utilità che i beni procurano e dalla razionalità che li spinge ad usare nel miglior modo i mezzi scarsi a disposizione per raggiungere i loro fini. La teoria della domanda diventa più importante di quella dell’offerta, e il comportamento del consumatore diventa il perno della teoria economica. Il consumo diventa, quindi, essenzialmente una questione di necessità e di soddisfazione individuale, e solo secondariamente mantiene il suo ruolo funzionale al sistema complessivo. Non sono più i vizi privati a diventare pubblica virtù, come avveniva per le api di Mandeville o per la mano invisibile del libero mercato di Adam Smith, ma il perseguimento razionale dei propri fini tramite i beni di consumo, cioè la soddisfazione individuale. Certo è che la sociologia non può essere soddisfatta di una teoria che vede le motivazioni del consumatore esclusivamente in chiave individuale. Per i sociologi, naturalmente, il consumo ha anche una fondamentale valenza sociale, che si esplicita principalmente nel rapporto con la differenziazione sociale. Sin dai tempi di Veblen, passando per Duesenberry, Baudrillard e Bourdieu, la maggior parte dei sociologi che si sono occupati di consumi lo hanno fatto nell’ottica di un rapporto stretto con la struttura sociale delle differenze. Tra i fattori che hanno contribuito a questo fenomeno, Di Nallo (1997) sottolinea la difficoltà di inserire il consumo nei quadri interpretativi della razionalità strumentale, nonché le motivazioni di tipo etico e culturale, di cui l’etica protestante analizzata da Max Weber è il modello più emblematico. Per quanto i sociologi classici che hanno dedicato attenzione al consumo abbiano preso distanza dal paradigma riduzionistico incentrato sull’homo oeconomicus, riconoscendolo come settore dell’agire sociale dotato di senso, il peso della visione marxiana ha forgiato non poco le prime analisi. Basti pensare alla ridefinizione in chiave socio-economica del rapporto capitalista-operaio in sfruttatore-sfruttato, che conduce Marx a sviluppare il concetto di alienazione, da cui scaturisce il «feticismo delle merci»: uno dei pilastri su cui si basa la critica moderna nei confronti del consumo (Marx 1978). Il concetto di feticismo, infatti, secondo l’uso che ne ha fatto Marx (e che verrà ripresa nelle successive teorie critiche del consumo, in particolare da Baudrillard), indica l’incapacità di considerare l’oggetto come prodotto del lavoro umano, di riconoscerlo per quello che è. Questo viene posto in una sfera diversa da quella della produzione umana, e come tale considerato

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essenzialmente frutto di forze estranee all’uomo stesso1. L’oggetto viene considerato nella sua apparenza, esterno ed estraneo, e non nella sua essenza, come prodotto del lavoro. In questo senso, il feticismo delle merci si configura come la conseguenza dell’alienazione del prodotto del lavoro, e quindi del lavoro stesso e dell’operaio. Alienazione che comporta la considerazione della merce come esistente di per sé, dotata di proprie peculiari caratteristiche che vengono scollegate dal dominio del lavoro umano, a cui invece propriamente sarebbero da ricondurre. Il consumo, dunque, nelle successive analisi verrà letto attraverso le categorie dell’alienazione, che rende l’individuo un mero supporto materiale del lavoro stesso (si parla, infatti, di forza-lavoro), della falsa coscienza, determinata dalla duplice anima della forma merce (fondata sulla contrapposizione tra valore d’uso e valore di scambio), e della manipolazione dei bisogni, anch’essi creati dalla stessa produzione. In questo senso si muovono tanto la critica al «consumo ostentativo» della società opulenta descritta da Veblen, quanto la critica radicale della società di massa sviluppata dagli autori facenti capo all’Istituto per le Ricerche Sociali di Francoforte. Tra questi è da segnalare Marcuse che, oltre ad operare una prima distinzione tra bisogni “veri” e bisogni “falsi” (poi ripresa da molti autori), amplia il concetto di «industria culturale», già teorizzato da Horkheimer e Adorno. Ciò che questi autori criticano è il carattere riduttivo ed alienante della razionalità strumentale, quale principio generale di una società che riduce l’uomo alla sola dimensione dell’efficienza produttiva e del consumismo, sovrastrutturalmente inteso come ideologia del sistema capitalistico. É infatti L’uomo ad una dimensione (1964) il titolo dell’opera marcusiana in cui viene denunciata la condizione di totale manipolazione del consumatore. Sulla stessa scia Riesman, ne La folla solitaria (1956), denuncia la spinta all’emulazione che, con l’affermarsi della società di massa, rende l’individuo eterodiretto e succube di un facsimile di cultura mercificata, anch’essa, a sua volta, asservita alla logica della produzione e del mercato. Senza soluzione di continuità con il marxismo e la Scuola di Francoforte è anche la ricca analisi di Baudrillard, il quale critica in modo radicale la genesi ideologica dei bisogni, indotti dal sistema dominante che in tal modo esercita il potere. Baudrillard segna comunque uno spartiacque tra la teoria sociologica incentrata sul consumatore e una vera e propria teoria del consumo. Ne Il sistema degli oggetti (1972), infatti, l’intellettuale francese riconosce nel consumo un sistema comunicativo unitario e strutturato, un 1

Il primato marxiano della prassi conduce a spiegare anche le dimensioni sociali, simboliche, culturali - in una parola tutto ciò che il marxismo identifica come sovrastruttura - solo a partire dalla struttura dei rapporti di produzione, è la produzione che produce l’oggetto del consumo, il modo di consumo e l’impulso al consumo.

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sistema di segni veicolati dalle singole merci, paragonabile ad una lingua. Pur condannando il consumo come attività di manipolazione di segni distintivi, dunque strumento di mistificazione ideologica delle masse (orde di «schiavi sublimati» e ciechi dinanzi alla strumentalizzazione dei propri bisogni), Baudrillard ha «il merito di aver spostato l’analisi del consumo dall’area dell’utilità individuale all’area della comunicazione e del segno, di averla trasferita dall’analisi della struttura a quella della sovrastruttura» (Di Nallo 1997, p. 38). Occorre però attendere la svolta antropologica affinché la differenza rispetto alle visioni di economisti e sociologi diventi radicale. È nelle indagini antropologiche che il consumo viene descritto sì come la mediazione necessaria al nostro rapporto con i beni materiali, ma attraverso una lente diversa, capace di render conto della dimensione culturale e relazionale ad esso intimamente connessa. Non più mera soddisfazione individuale di bisogni, bensì mezzo di informazione che comunica le categorie sociali condivise, dà un senso al mondo e struttura la società. Consumando, gli individui dicono a se stessi e agli altri ciò che pensano del mondo, degli altri e di sé. È un percorso che trova le sue origini nelle prime analisi di Marcel Mauss e Lèvi-Strauss sugli aspetti sociali dello scambio di beni, definito da entrambi come «prestazione totale» per la rilevanza che assume in tutti gli ambiti della vita sociale. Evidenziando il principio di reciprocità che è alla base del potlàc – banchetto o festa offerta al capo, in cui «si giunge fino alla distruzione puramente suntuaria delle ricchezze accumulate, per oscurare il capo rivale e, allo stesso tempo, associato» (Mauss 1965, p. 162) - il consumo viene osservato come un vero e proprio sistema di comunicazione attraverso il quale si definiscono i rapporti sociali. In particolare Lèvi-Strauss, nell’ambito della sua spiegazione strutturale de Il pensiero selvaggio (1964), indica quello dei beni come uno dei tre sistemi di comunicazione che, insieme a quello delle donne e al linguaggio, sottostanno alla struttura sociale in cui è inserito l’individuo. La stessa equivalenza tra consumo (come sistema di scambio) e comunicazione (come sistema di informazione) viene teorizzata da Mary Douglas e Baron Isherwood nella prospettiva di una teoria del consumo universale. Il mondo delle cose (1984) descritto dagli autori sottolinea come la funzione sociale del consumo sia la sua capacità di dare significato: «invece di supporre che i beni siano necessari essenzialmente per la sussistenza e per l’esibizione competitiva, ipotizziamo che siano necessari per rendere visibili e stabili le categorie della cultura» (ibidem, p. 66). I beni servono per pensare e devono, dunque, esser trattati come strumenti di comunicazione non verbale per la facoltà creativa dell’uomo. In questo modo gli oggetti, oltre ad essere degli strumenti concettuali che rendono intelligibile la realtà, divengono la parte percepibile e materiale della

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cultura, in grado di creare e conservare le relazioni interpersonali, grazie alla loro capacità di veicolare significato. Così le letture di Grant Mc Cracken e Colin Campbell si pongono in sostanziale continuità con quella dei due autori inglesi. Mc Cracken (1988) rivolgendo un’attenzione particolare ai significati simbolici insiti nei beni di consumo e al ruolo fondamentale svolto dai rituali: forme comunicative volte a consolidare i significati condivisi che agiscono al livello delle regole costitutive del vivere sociale. Campbell (1992) sottolineando il ruolo dell’etica romantica nell’incentivare lo spirito del consumismo moderno, dove il desiderio, il sogno e più in generale il sentire si associano alla ragione nel conoscere il mondo. Interpretato come rituale comunicativo, il consumo si rivela come un linguaggio nelle sue diverse dimensioni: cognitiva, normativa e produttiva (Paltrinieri 1998). Riuscendo in questo modo a manifestare la sua capacità poietica, creativa, di elemento indispensabile nel processo di oggettivazione e risoggettivizzazione della cultura, dell’orizzonte simbolico di un individuo, in quanto inserito all’interno di una realtà intersoggettiva. Muovendo da qui, altri autori hanno tematizzato il processo di riappropriazione simbolica (De Certau 2001; Miller 1995), evidenziando come le pratiche di consumo divengano luoghi fondamentali del processo di costruzione intersoggettiva non solo della realtà, ma, in quanto tale, anche del soggetto, della sua identità sociale (Parmiggiani 2001). Letto alla luce delle diverse dimensioni che lo caratterizzano, il consumo, nelle sue pratiche di rituale, da un lato apre la possibilità per il soggetto di utilizzare le merci per la costruzione del proprio sé; dall’altro, grazie alla sua capacità di definire e ridefinire simboli e significati, contribuisce alla costruzione di una base consensuale minima della società. Per dirla con Mary Douglas (1984, p. 74): «il consumo è un’attività di produzione congiunta, con gli altri consumatori, di un universo di valori». Merci, cose, beni comuni Anche grazie al contributo degli antropologi, la sociologia è giunta a distinguere il consumo dal consumismo, osservando questo «fenomeno sociale totale» oltre il velo del moralismo, come risultato dell’abolizione dei limiti tradizionalmente imposti dalla penuria alla piena soddisfazione di bisogni e desideri a lungo repressi. Oggi, viene da più parti riconosciuto che agire da consumatori rappresenta «una pratica sociale e culturale complessa, interconnessa a tutti i fenomeni più importanti che hanno contribuito a definire le società occidentali contemporanee: la diffusione dell’economia di mercato, la progressiva globalizzazione, la creazione e

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ricreazione delle tradizioni nazionali, lo sviluppo dei media, ecc.» (Sassatelli 2004, p. 16). Se è vero dunque che nella odierna società dei consumi siamo nati per consumare, è anche vero che consumare significa sostanziare la cultura materiale, dare vita a pratiche significative attraverso cui gli attori sociali si orientano nel mondo. Pratiche che inevitabilmente producono un eccedenza di senso, un “surplus” di valore: sociale e culturale, oltre che economico. Valore che le aziende, attraverso il brand management, tentano di sfruttare e capitalizzare (Arvidsson 2006), ma che al contempo non è possibile irretire del tutto. Può infatti essere definita «free labour» questa attività quotidiana dei consumatori-produttori: free in quanto unpaid (per cui si denuncia lo sfruttamento del prosumer) e al contempo free in quanto impossibile da controllare e predeterminare (Terranova 2005). Investigare La vita delle cose (Bodei, 2009) ci aiuta a scoprire come gli innumerevoli prodotti di cui siamo circondati incorporano ricordi, aspettative, sentimenti, desideri. Invitandoci alla libertà gli oggetti ci imprigionano, ci seducono stimolando la nostra immaginazione, danno consistenza alla nostra identità. Ci costituiamo per tramite delle cose, ci situiamo nello stesso orizzonte in cui esse ci situano. D’altro canto già Cartesio e ancor più Kant sostenevano «che l’io dipende dall’oggetto più di quanto l’oggetto dipenda dall’io» (Roche 1999, p. 234). Da un punto di vista epistemologico, il consumo è «comunicazione inter che fa esistere socialmente le cose e con esse le persone» (Cipolla 1997, p. 527). Le cose passano in noi e noi nelle cose, perché la loro connaisance, conoscenza, è una con-naissance, un nascere insieme di soggetto e oggetto. Come scrive Merleau-Ponty (1989, p. 19), «Il mio corpo fa parte del mondo, ma in quanto vede e si muove, tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono il suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate della sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo». Se è vero che le merci possono estraniare l’uomo dalla sua essenza, è al contempo innegabile che le cose ci spingono a dare ascolto alla realtà, a farla entrare in noi aprendo le finestre della psiche, così da areare una interiorità altrimenti asfittica. Distinguendo tra oggetto (objectum, quello che mi sta davanti o contro, sfida, contrapposizione, ostacolo) e cosa (contrazione del latino causa, ossia di ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa) Bodei sostiene che «le cose ci inducono agnosticamente, ad innalzarci al di sopra dell’inconsistenza e della mediocrità in cui cadremmo se non investissimo in loro – tacitamente ricambiati – pensieri, fantasie e affetti» (2009, p. 116). Ma per riuscire in ciò, sottolinea, dovremmo amare di più le cose. Coscienti del fatto che nell’aldilà non potremo portarci dietro niente, perché come dice un proverbio tedesco «l’ultimo vestito non ha tasche», dovremmo fare

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dell’amore un antidoto al consumo rapido e momentaneo. Solo in questo modo, conoscendo di più le cose e riconoscendo in ogni cosa un nodo di infiniti rapporti con l’intera natura sarà possibile apprezzare ed amare di più il mondo. Nelle merci che ci invitano all’acquisto è racchiuso il pianeta intero: provenienza delle materie prime, diritti dei lavoratori che le hanno estratte o lavorate, politiche messe in atto dall’azienda produttrice, l’insostenibilità dello smaltimento. Attraverso la biografia delle merci potremmo analizzare il processo di globalizzazione, al di là del vetro trasparente che le rende protagoniste scoprire ciò che l’uomo è capace di fare all’uomo stesso e alla terra che lo ospita. Già Heidegger descriveva La cosa (1976) esaltando la convergenza di relazioni all’interno della natura: «Nell’acqua che viene offerta permane la sorgente. Nella sorgente permane la roccia, e in questa il pesante sonnecchiare della terra, che riceve la pioggia e la rugiada dal cielo. Nell’acqua della sorgente permangono le nozze di cielo e terra. Questo sposalizio rimane nel vino, che ci è dato dal frutto della vite, nel quale la forza nutritiva della terra e il sole del cielo si alleano e si congiungono» (ibidem, p. 64). Ma quanti di noi sono consapevoli di questa fitta trama di relazioni, di azioni e retroazioni? Quanti di noi identificano nelle cose intorno lo strumento per conoscere meglio se stessi e per prendersi cura del pianeta che ci ospita? Nel suo Viaggio all’origine delle cose che compriamo, Pearce si interroga sulla fonte e la destinazione degli oggetti più comuni e significativi della nostra vita quotidiana. Come bussola del suo viaggio volto ad indagare su cosa accade al secchio della spazzatura, o su dove vanno a finire le nostre fognature, il giornalista britannico sceglie l’oro. Materia prima di quella fede nuziale che accompagna la nuova vita di tante persone inconsapevoli che per fabbricare quell’anello da 10 grammi, ci sono volute 2 tonnellate di roccia, ricavate con la dinamite attraverso tunnel a 5 chilometri sotto la crosta terrestre, 5 tonnellate d’acqua, 30 di aria pompata sotto terra per raffreddare la miniera, l’elettricità per far funzionare un grande edificio per diversi giorni e circa 10 ore-uomo di lavoro in condizioni disumane. Senza calcolare l’impatto della trasformazione, del trasporto fino alla gioielleria dove per meno di 100 euro è stato comprato. Come sottolinea l’insolito esploratore, ci risulta impossibile anche solo immaginare quanto lavoro e spreco di risorse ci sia dietro a questo semplice anello: oggetto tanto sfuggente quanto desiderato, venale eppure sacro, maledetto e adorato. Se è vero che dal primo faraone egiziano all’ultimo dei contadini africani lo riconoscono come simbolo ed essenza stessa della ricchezza, è altrettanto vero che «la ricerca dell’oro rappresenta, in un certo senso, lo sforzo umano più assurdo. Dal punto di vista ambientale e umanitario, non ha nessun senso. Si potrebbe dire che racchiude la follia degli esseri umani e gli abusi

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compiuti dagli uomini a danno di altri uomini del pianeta» (Pearce 2009, p. 32). Come re Mida, siamo stati maledetti dall’oro. Avere il cuore d’oro, fare sogni d’oro, essere un ragazzo d’oro, rimpiangere gli anni d’oro: lo stesso nostro linguaggio è permeato da questa sostanza capace di accendere passioni. Seguendo il pensiero di Bauman (2002), potremmo affermare che oggi il consumismo tutto è come re Mida. Tratto peculiare dell’attuale «modernità liquida» è la tendenza ad affidare il controllo sociale al mercato dei beni di consumo, sostituendo la repressione tipica della prima modernità con la nuova strategia della seduzione, ovvero di un controllo basato sul perenne stato di eccitazione che il mercato offre al consumatore. Un essere intrappolato nella spirale del capriccio che prende il posto del desiderio, che aveva a sua volta sostituito il bisogno. Sempre alla ricerca di una soddisfazione istantanea, il gioco del consumo accelera i ritmi della partecipazione, spingendo le attenzioni dei consumatori verso nuovi oggetti in arrivo. Lo stesso Lipovetsky (2007) sottolinea che il consumo, e con esso la felicità, assume sempre più una natura «paradossale», dove la seduzione dei beni non è più legata alla loro funzionalità, e dove l’avvolgente «formamoda» che tende ad inglobare tutti gli ambiti del sociale, ineluttabilmente comporta una crescente indifferenza verso il bene comune. Siamo parte della civiltà usa-e-getta, la cui fuga in avanti avvicina sempre più l’impianto di produzione a quello di smaltimento, senza però preoccuparsi mai di metterli in contatto. L’uno non parla, l’altro non sente: noi tutti non vediamo. Al punto che il cosiddetto «secolo dei consumi» potrebbe benissimo essere rinominato «secolo dei rifiuti» (Musarò 2010). Con l’aggravante che la civiltà moderna ha un vero e proprio rifiuto del rifiuto, giacchè tendiamo a rimuovere i rifiuti, fisicamente come mentalmente (Viale 2008). La mercificazione e l’eccesso appaiono le dimensioni che più caratterizzano l’attuale società. La comunicazione pubblicitaria pervade lo spazio fisico e prende sempre più tempo nell’esistenza delle persone, mentre molti luoghi pubblici sono diventati luoghi di consumo con lo scopo di amplificare la modalità comunicativa della merce. Al vuoto lasciato dalla crisi delle ideologie e dei valori si sostituiscono modelli sociali legati al consumo. Anzi, seguendo questo ragionamento, i principi del marketing e del consumo diventano le norme della società lasciando che settori tradizionalmente estranei a questa logica – scuola, sanità e politica - ne siano progressivamente coinvolti. Con l’avanzata della logica del consumo, il tema degli spazi pubblici e dei beni comuni diviene centrale, anche in vista del fatto che vengono oggi a ridefinirsi nel consumo le stesse categorie borghesi di pubblico e privato. Basti pensare a come l’espandersi del mercato provochi «una crescente

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sostituzione della cultura pubblica da parte della cultura commerciale», con la conseguenza che «il linguaggio delle merci sostituisce il linguaggio della democrazia e il consumismo sembra essere il solo tipo di cittadinanza offerto» (Codeluppi 2003, p. 28). Si pensi a come il centro commerciale “si appropria”, in silenzio, della città come capitale pubblico. Di certo esso assorbe e promuove (a modo suo) molte delle sue funzioni primarie: è luogo di lavoro, di consumo, del tempo libero, delle relazioni sociali (Musarò 2007). Ma è anche una macrostruttura artificiale che ha un impatto notevolissimo sul mondo fisico. Pensato dal punto di vista del “carico urbanistico”, esso è un mostro che divora spazio con le sue volumetrie imponenti e i suoi sterminati parcheggi, ha una fame insaziabile di infrastrutture per la viabilità, di reti fognarie e impianti per la depurazione, genera inquinamento (luminoso, acustico, elettromagnetico) sia in modo diretto, (con frigoriferi, impianti di condizionamento e/o riscaldamento, insegne luminose), che indiretto (basti pensare al traffico veicolare che genera). Si pensi inoltre all’insostenibile modello di alimentazione propostoci dagli ipermercati, che privilegia la filiera lunga e mette in ginocchio le produzioni locali. Oppure a quanta spazzatura viene prodotta, a quante confezioni e imballaggi superflui, che spesso valgono più del bene stesso e non sono consumabili, nutrono il flusso quotidiano dei nostri rifiuti. D’altro canto, posto che nel «biocapitalismo» è la nostra intera vita che viene messa a valore, le nostre componenti biologiche, mentali, relazionali e affettive (Codeluppi 2008), mi chiedo se piuttosto che contrapporre la figura del consumatore a quella del cittadino, non sia più utile valutare la persona nella sua totalità, in quanto consumatore e al contempo produttore di valore, da non ridurre alla sola accezione economica. In altre parole: nel momento in cui il biocapitalismo ci trasforma tutti in “consumatori produttivi” o “lavoratori immateriali”, non permettendoci più di distinguere in modo netto il dentro dal fuori, il pubblico dal privato, l’interesse particolare da quello generale, non è proprio in questo momento che occorre coltivare la consapevolezza di quanto la funzione economica del consumatore coincida con la funzione etico-politica del cittadino? Consumatore e cittadino: due facce che difficilmente tendiamo a collocare sulla stessa medaglia. Probabilmente perché fatichiamo a capire il valore sociale e politico dei nostri atti di consumo. Non ci rendiamo conto che ciò che è possibile al singolo individuo non è più possibile per la collettività, poiché «quando il livello del consumo medio aumenta, una porzione crescente del consumo stesso assume un aspetto sociale oltre che individuale» (Hirsch 2001, p.11). Come sottolinea Hirsch, i limiti allo sviluppo sono sociali prima che fisici. Molti beni comuni sono infatti «beni posizionali», caratterizzati da un’offerta sostanzialmente rigida, che non può essere aumentata più di tanto nel tempo, perchè o essi scarseggiano in

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senso assoluto oppure in senso sociale, o ancora perchè il loro godimento è deteriorato dall’eccessivo affollamento nella loro fruizione (si pensi ad una spiaggia incontaminata o ad un bel paesaggio). Si tratta di beni e servizi a cui non tutti possono accedere, o almeno non tutti assieme, senza cioè contenderseli e privarsene a vicenda. Sarebbe dunque più opportuno esprimersi in termini di «valenza ambientale» o di «impronta ecologica» (Wackernagel M., Rees W. 2004), oltre che di PIL o valore economico, per comprendere il valore di una merce, la sua capacità di reintegrarsi nella comunità e nella biosfera, dopo la fase meramente antropica della sua produzione e del suo consumo. Incapaci di trasformare i beni di consumo in opportunità di vita sembriamo destinati ad esser vittime di quel «paradosso dell’opulenza» (Hirsch 2001) secondo cui più cose consumiamo e meno siamo felici. Paradosso che vede un aumento dei beni posizionali allocati secondo la logica della commercializzazione e del privatismo, ed una crescente diminuzione di beni relazionali, cioè di quei beni che possono essere prodotti soltanto insieme, che non sono frazionabili e neppure concepibili come somma di beni individuali (Donati 2007). Sono questi i beni che più vengono intaccati dal neoliberismo attuale e dal consumismo individualizzante. Eppure sono proprio questi ad aumentare il nostro benessere. Se infatti distinguiamo tra utilità (proprietà della relazione tra le persone e le cose) e felicità (frutto del complesso di relazioni che intercorrono tra gli esseri umani), ci rendiamo conto di come quest’ultima non dipenda esclusivamente dalle merci e dai servizi che il denaro è capace di comprare, ma comprende altri beni (fiducia, amicizia, cultura, solidarietà, giustizia) che non sono in vendita, non transitano attraverso il mercato. Vi è dunque la necessità di rimettere in discussione il tipo di sviluppo che caratterizza la nostra economia. Uno sviluppo orientato esclusivamente alla crescita e al profitto: quanto di più lontano ci sia dall’idea di bene comune. Se è vero che Respublica non indica una semplice proprietà comune, bensì l’essenziale di ciò che riguarda tutti, che merita di essere discusso in pubblico e, di conseguenza, fonda il senso di appartenenza dei cittadini alla propria comunità (Guess 2005), occorre prendere atto che l’attuale società dei consumi implica il passaggio dalla prima cittadinanza (basata su diritti e doveri nei confronti dello stato) alla seconda cittadinanza (più incentrata su poteri e responsabilità all’interno di un mercato pervasivo). Passaggio che vorrebbe la tutela dei beni comuni alla base di una società più giusta e democratica, e soprattutto la necessità di un nuovo paradigma, con una visione planetaria dei problemi e una attenzione lungimirante al futuro, privilegiando la biosfera anziché la geopolitica come terreno di analisi e come spazio reale entro cui contenere i consumi. Un paradigma capace di riconoscere come le nostre pratiche di consumo rappresentino più un atto politico che una scelta privata: uno strumento attraverso cui rispettare il

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