Corpo tempo città

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Laura Gioeni

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CORPO TEMPO CITTÀ Riflessi della crisi della corporeità e della temporalità nello specchio dell’architettura1

Tout se tient. Corpo, tempo, città: nodi strettamente interconnessi. Crisi della corporeità e crisi della temporalità costituiscono lo sfondo della crisi della città e dell’abitare urbano, ovvero dell’architettura nel suo più ampio significato. 1. Un passo indietro: Victor Hugo, architettura e oralità. Questo ucciderà quello era il titolo premonitore del capitolo più intensamente teoretico di Notre Dame de Paris, in cui Victor Hugo chiarisce le ragioni della crisi dell’architettura del suo – e del nostro – tempo: il libro a stampa ha ucciso il libro di pietra. La stampa di Gutenberg, evento culminante dello sviluppo della scrittura alfabetica – con la sua predominante visive e la sua sequenziale linearità – ha annientato la polifonia delle tradizioni orali stratificate nelle pietre dell’architettura. In ciò risiede il significato più profondo del pensiero formulato dall’arcidiacono e alchimista Claudio Frollo nel pore termine ad una controversia con Jacques Coictier, “l’onnipotente medico” del re Luigi XI. Nell’aspra disputa si confrontano due forme di cultura contrapposte – la tradizione ermetica da un lato e la scienza dall’altro – con i loro corrispondenti medium di trasmissione della conoscenza – il libro di marmo dell’architettura da una parte e il libro a stampa dall’altra. Così, quando il medico sbotta: “per la Pasqua di Dio! Che razza di libri sono i vostri?, l’arcidiacono pazientemente gli risponde: eccone uno (…). E, aperta la finestra della cella, accennò col dito l’immensa chiesa di Nostra Signora che, profilando sul cielo stellato la sagoma nera delle sue due torri, dei suoi fianchi di pietra e della sua schiena mostruosa, pareva un’enorme sfinge a due teste, seduta in mezzo alla città. L’arcidiacono considerò per qualche tempo in silenzio il gigantesco edificio; poi, stendendo con un sospiro la mano destra verso il libro stampato che era aperto e la mano sinistra verso Nostra Signora, disse, volgendo alternativamente lo sguardo dal libro alla chiesa: - Ahimè! Questo ucciderà quello!” (Hugo, 1933: p.172). Hugo abbandona dunque la narrazione delle vicende del romanzo per dedicarsi a descrivere, con intento genealogico, la formazione genetica dell’architettura attraverso il confront tra arte del costruire e scrittura. La parola che ricorre più frequentemente in queste pagine è “geroglifico”. L’architettura è geroglifico, è forma “eterna, visibile, palpabile”, sotto la quale si cela tutto “fluttuante simbolismo”. Frollo invita dunque i suoi interlocutori a seguirlo per le strade di Parigi per imparare a leggere e decifrare i geroglifici dell’architettura urbana: “Dedalo è il basamento e Orfeo il muro; ma Ermete è l’edifizio, è il tutto. Venite, quando vi piacerà! (…) prima di tutto vi farò leggere una dopo l’altra le lettere marmoree dell’alfabeto, le pagine granitiche del libro. Andremo dal portale del vescovo Guglielmo e di San Giovanni Rotondo alla Santa Cappella, poi alla casa di Nicola Flamel, via Marilvault e alla sua tomba, nel cimitero dei Santi Innocenti, e infine, ai suoi due ospedali in via Montmorency. Vi faro leggere i geroglifici che coprono i quattro alari del portale dell’ospedale San Gervaso e della via dei Fabbri; sillaberemo insieme le facciate di San Cosimo, di Santa Genoveffa degli Ardenti, di San Martino, di San Giacomo al Macello…” (Hugo, 1933: p.171). 1 Versione italiana della relazione presentata al 52° Congreso de Filosofía Joven Filosofía y presente. Pensar la crisis, Zaragoza, 14-17 aprile 2015, sessione: Crisis de la ciudad: habitar el espacio urbano hoy. Pubblicata in ANANKE n.78, maggio 2016.

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Per Hugo, questo ruolo dell’architettura come scrittura principale e universale si è esaurito parallelamente alla diffusione della pratica tipografica: “di quel libro granitico, incominciato dall’Oriente e continuato dall’antichità greco-romana, il medio evo ha scritto l’ultima pagina” (Hugo,1933: p.179). Dopo Gutenberg “la forma architettonica dell’edificio si cancella ognor più e lascia apparire la forma geometrica come l’impalcatura ossea di un malato dimagrito. Le belle linee dell’arte fan luogo alle fredde e inesorabililinee del geometra: l’edificio non è più tale, è un poliedro” (Hugo, 1933: p.183). Il molteplice significato, simbolico ed emblematico, dell’architettura apparteneva esclusivamente al mondo della sinestesia della cultura orale. In quel mondo l’esperienza dell’architettura era aperta ad una molteplicità di interpretazioni possibili che l’uomo dell’era di Gutenberg, lettore silenzioso di una scrittura trasparente e senza corpo, non è più in grado di interpretare. L’arte cede il passo alla geometria. Il racconto orale cede il passo alla pagina a stampa, l’udito all’occhio. L’oggettività del significato, veicolato dalla parola scritta, si forma insieme al soggetto metafisico corrispondente: il lettore disincarnato e distanziato. L’occhio dell’anima non sa più interpretare la “scrittura di mondo" dell’architettura, della forma della città e delle sinestetiche pratiche viventi che la strutturano. Il capitolo di Hugo su Parigi a volo d’uccello è un omaggio alla città del XV secolo, idealmente ricostruita dall’occhio alato dell’autore. Hugo chiude queste pagine, dove disegna la storia urbana di Parigi attraverso il ricordo e la descrizione dei suoi monumenti, con un’accorata esortazione e un assai valido suggerimento: “se volete ricavare dalla vecchia città un’impressione che la moderna non saprebbe più darvi, salite, in un mattino di festa solenne, al levar del sole di Pasqua o delle Pentecoste, su qualche punto elevato, dal quale possiate dominare tutta la capitale e assistete alla sveglia dei concerti di campane (…). Ecco, senza dubbio, un’opera che vale la pena di ascoltare. Di solito, il rumore che sfugge da Parigi, di giorno, è quello della città che parla; di notte, è quello della città che respira; qui è quello della città che canta. Prestate orecchio, dunque, a quell’insieme dei campanili” (Hugo, 1933: pp.136-138). 2. Critiche contemporanee: Juhani Pallasmaa, il corpo a corpo dell’architettura È proprio nella predominanza e nell’onnipresenza del senso della vista che l’architetto e teorico finlandese Juhani Pallasmaa identifica la radice della crisi dell’architettura e della città contemporanea. La città è popolata da un’architettura retinica, fatta per un soggetto occhio disincarnato; la sua pianificazione è dominata, ancora una volta, dall’egemonia del senso della vista. Come antidoto, Pallasmaa esorta a riabilitare una corporeità aptica e sinestetica quale fondamento di un’autentica relazione con il nostro intorno. Scrive Pallasmaa: “Altrettanto chiaramente il paradigma visual è la condizione imperante nella pianificazione delle città, a partire dalle piante della città ideali del Rinascimento, sino ai principi funzionalisti della zonizzazione e della pianificazione che riflettono ‘l’igiene dell’occhio’. In particolare, la città contemporanea è sempre di più la città dell’occhio, separato dal corpo (…). I processi di pianificazione hanno favorito l’occhio idealizzato e cartesianamente disincarnato del controllo e del distanziamento; le piante delle città sono visioni altamente idealizzate e schematizzate viste attraverso le regard surplombant (lo sguardo dall’alto) (…) o attraverso ‘l’occhio della mente’ di Platone” (Pallasmaa, 2005: p.27). Contro una comprensione meramente visuale dell’architettura, contro ‘l’oculocentrismo’ architettonico, la ricerca di Pallasmaa è diretta a recuperare il ruolo della visione periferica, della corporeità e dell’insieme di tutti i sensi, nella nostra esperienza del mondo e dell’architettura. L’architettura infatti, secondo Pallasmaa, struttura e articola la nostra esperienza dell’essere nel mondo, configurandosi come un ‘incontro situazionale e corporeo’ in connessione con il linguaggio e la sapienza del corpo. Con riferimento agli studi dell’antropologo Ashley Montagu, Pallasmaa ricorda che il nostro primo contatto con il mondo passa attraverso il senso del tattoo e che, pertanto, dobbiamo riconoscere una primazia del mondo aptico su quello visivo. L’architettura è la proiezione del movimento del corpo umano nello spazio e l’esperienza dell’architettura è un’esperienza vivente che, trascendendo la geometria e la misura, consiste essenzialmente di azioni: l’avvicinamento all’edificio, l’ingresso attraverso la porta, il guardare dalla finestra, e così via. Parlando di ‘mimesi del corpo’, Pallasmaa interpreta il processo progettuale come un processo di interiorizzazione e incorporazione da parte dell’architetto dell’edificio immaginato: movimento,

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equilibrio e scala sono percepiti inconsciamente attraverso il corpo come tensioni del sistema muscolare e attraverso la posizione dello scheletro e degli organi interni. Man mano che l’opera interagisce con il corpo dell’osservatore, l’esperienza riflette le sensazioni corporee del creatore. Di conseguenza, l’architettura è comunicazione dal corpo dell’architetto direttamente al corpo della persona che incontra l’opera” (Pallasmaa, 2005, p.67). Anche la comprensione della scala dell’architettura avviene attraverso la sua misurazione con il nostro corpo, attraverso la proiezione nello spazio architettonico della scala del nostro corpo. Ricostruendo una vera e propria fenomenologia della percezione urbana, Pallasmaa osserva poi che, come nel caso dell’architettura, ci confrontiamo con la città con tutto il nostro corpo: “le mie gambe misurano la lunghezza dei portici e la larghezza della piazza; il mio sguardo proietta inconsciamente il mio corpo sulla facciata della cattedrale, dove vaga sopra le modanature e i profili e percepisce le dimensioni di aggetti e rientranze; il peso del mio corpo incontra la massa del portale della cattedrale e la mia mano afferra la maniglia della porta mentre entro nell’oscuro vuoto che c’è dietro. Sento me stesso nella città e la città esiste attraverso la mia esperienza incarnata. Il mio corpo e la città sono complementari e si definiscono l’un l’altra. Abito nella città e la città abita in me” (Pallasmaa, 2005: p.40). 3. Il corpo nella fenomenologia di Merleau-Ponty. È d’altro canto il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty a sottolineare il ruolo della corporeità quale fondamento del nostro accesso al mondo, agli altri e alla nostra stessa soggettività. Sempre secondo una prospettiva fenomenologica, dobbiamo poi rilevare la natura pragmatica e non meramente contemplativa della nostra relazione con il mondo. Come afferma Heidegger, gli oggetti del mondo – tra i quali possiamo includere l’architettura – si costituiscono a noi nel loro essere-alla-mano, nel loro essere degli utilizzabili, come pure possiedono un significato emozionale e una tonalità emotiva, e inducono condotte e gesti del nostro corpo. Nella fenomenologia della corporeità trovano così le loro comuni radici la dimensione etica e quella sociale. Il nostro corpo rappresenta infatti il doppio fondamento della relazione intersoggettiva e della nostra soggettività, la quale si costituisce proprio a partire dalla nostra relazione incarnata con gli altri e con il mondo, e in tale maniera che la coscienza di noi stessi si modella sul riflesso e rimbalzo del nostro esserecon-gli-altri e del nostro essere-nel-mondo, ovvero nell’ambiente architettonico e urbano in cui ci troviamo a vivere. Dunque abbiamo bisogno di un’architettura che sorga dalla ‘mano pensante’ (Pallasmaa, 2009), che si ponga come fine e collabori alla costituzione di un rinnovato soggetto incarnato, centro della dinamica etica e sociale. Pallasmaa, appoggiandosi anche sulla lettura di Heidegger e Merleau-Ponty, sottolinea la stretta relazione sussistente tra corpo, tempo, memoria e città. Il corpo, osserva Pallasmaa, “non è una mera entità fisica, ma è arricchito sia dalla memoria che dal sogno, sia dal passato che dal futuro, in maniera tale che il mondo è riflesso nel corpo e il corpo è proiettato nel mondo”, e noi siamo in grado di ricordare “attraverso il nostro corpo altrettanto quanto attraverso il nostro sistema nervoso e il nostro cervello” (Pallasmaa, 2005: p.45). E aggiunge: “il nostro domicilio è il rifugio del nostro corpo, della nostra memoria e della nostra identità. Noi ci troviamo in costante dialogo e interazione con il nostro intorno, fino al punto che è impossibile separare l’immagine di noi stessi dalla sua esistenza spaziale e situazionale” (Pallasmaa, 2005, p.64). Pallasmaa attribuisce all’architettura il compito di “creare metafore esistenziali, incarnate e vissute, che concretizzano e strutturano il nostro essere-nel-mondo” (Pallasmaa, 2005: p.71) e il nostro essere collocati nel flusso temporale. Pertanto, “gli edifici e la città”, nota Pallasmaa, “ci permettono di strutturare, comprendere e ricordare il flusso informe della realtà e, in ultima istanza, riconoscere e capire chi siamo. L’architettura ci mette in grado di percepire e comprendere la dialettica della permanenza e del cambiamento, per stabilirci nel mondo e collocarci nel continuum della cultura e del tempo” (Pallasmaa, 2005: p.71). 4. Lo spazio e il corpo della fenomenologia.

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Victor Hugo aveva intuito che i caratteri mobili di Gutenberg avevano modificato l’essenza e il significato dell’architettura. In altre parole, il dispositivo visivo, contenuto nella scrittura alfabetica e veicolato dal libro a stampa, aveva trasformato l’arte del costruire in mera applicazione di geometria descrittiva: l’architettura cedeva il passo alla scienza architettonica, fondata su un concetto di spazio organizzato in coordinate tridimensionali uniformi e omogenee. All’occhio dell’anima del lettore alfabetico viene a corrispondere una spazialità fatta di punti atomici indipendenti nello spazio cartesiano: questa nozione geometrica, che condiziona anche il significato comunemente inteso per il termine ‘spazio’, sta alla base della nostra rappresentazione dell’architettura e della stessa pratica progettuale dell’architetto. Nel reclamare con forza la centralità della corporeità, Mérleau-Ponty ci invita, al contrario, al necessario superamento di questo concetto cartesiano, intellettualistico e incorporeo, di spazio, inteso come “ambito omogeneo dove le cose sono distribuite secondo le tre dimensioni” (Merleau-Ponty, 2002: p.23). Secondo il filosofo francese la nostra relazione con il mondo non è la relazione tra un soggetto puro e distanziato, una intelligenza senza corpo, e un oggetto distante, il fatto fisico, contenuto in uno spazio omogeneo. Piuttosto, con riferimento al pensiero di Leon Brunschvicg, Merleau–Ponty parla di ‘spazio abitato’, di ‘spazio popolato’ (Merleau-Ponty, 1996: p.39) dato sempre in correlazione con il corpo e organicamente connesso con esso. Lo spazio non esiste in modo indipendente dalla nostra esperienza dinamica e deriva dai processi fisiologici della percezione e dagli schemi sensoriali e del movimento del nostro corpo. L’osservazione fenomenologica della nostra esperienza percettiva ci mostra “l’idea di uno spazio eterogeneo, con sue direzioni privilegiate, in rapporto con le nostre particolarità corporee e con la nostra situazione di esseri gettati nel mondo” (Merleau-Ponty, 2002: p.29). La perdita della centralità della corporeità implica la perdita della memoria del corpo e anche la perdita del significato memoriale dell’architettura e della città. Il progetto moderno è caratterizzato da una istanza astorica di universalizzazione dei principi di una costruzione logico tecnologica dell’architettura e della pianificazione urbana. Per sua stessa definizione, la modernità dichiara il suo taglio netto con il passato e la tradizione; reclama come suo tempo il tempo presente della forma logica e un futuro senza radici; come suo spazio, uno spazio senza corpi e senza memoria storica. Il corpo, mera res extensa e accidente fisico dell’occhio cerebrale, separato dalla sua stessa temporalità e memoria, perde il suo posto nella città contemporanea, alienato in un tempo che non è più un tempo della vita, ma il tempo assoluto della scienza e dell’orologio. 5. Una temporalità inautentica. Anche il concetto di tempo, inteso come successione lineare e irreversibile di istanti presenti, è un prodotto della linearità della scrittura alfabetica. A questa struttura temporale corrisponde una visione della Storia come scrittura della verità del passato, distanziato, oggettivato e cristallizzato nella sua ricostruzione storiografica. Dopo gli avvertimenti di Nietzsche contro la ipertrofia della virtù storica (si veda Nietzsche, 1978), e la sua intuizione della circolarità del tempo, è Heidegger a contrapporre all’idea di tempo come uniformità omogenea e misurabile di punti-adesso, un’autentica dimensione della temporalità insita nella costitutiva storicizzazione del Dasein: un tempo della vita, in cui passato, presente e futuro, memoria e progetto, si costituiscono in un circolo. Il tempo del fisico, chiarisce Heidegger ne Il concetto di tempo, è il tempo dell’orologio, che ci mostra “l’‘ora’, ma nessun orologio indica mai il futuro, né ha mai indicato il passato. Ogni misurazione del tempo significa ricondurre il tempo alla quantità” (Heidegger, 2002: p.44). Tale interpretazione assimila e rende omogeneo il tempo allo spazio cartesiano, alla pura e semplice presenza: lo matematizza in una sequenza di punti-adesso, che mai potrà arrivare a spiegare la nostra esperienza e il significato originario e autentico della temporalità. Più ancora, la trama della vita tra nascita e morte sembra autenticamente reale solo nell’adesso, nell’esperienza vissuta in ciascun istante così che il Dasein “abbraccia l’intervallo di tempo concesso (...) in un modo del tutto singolare: sempre ‘reale’ solo nell’istante, percorre per così dire saltellando la successione di istanti che costituisce il suo tempo” (Heidegger, 1976: p.448).

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Il progetto e la vita della città contemporanea sono dominati da questa temporalità inautentica, coniugata al solo tempo presente, prodotta, una volta di più, dalla predominanza del visivo e del quantitativo nelle pratiche di pianificazione come negli abiti di vita. In tal modo l’essere umano, forzato a vivere inseguendo l’istante presente, è privato della sua temporalità esistenziale, della sua memoria corporea e, alla fine, della sua stessa identità. Così l’architettura e la città perdono la loro identità e i loro legami con la memoria storica, relegata, al massimo, alla citazione o al morto recinto dei cosiddetti ‘centri storici’. Heidegger riflette sulla sfida lanciata dalla Seconda considerazione inattuale nicciana. Per recuperare l’utilità della storia per la vita abbiamo bisogno di comprendere il legame strutturale tra tempo ed essere: “l’analisi della storicità del Dasein vuole mostrare che questo ente non è ‘temporale’ perché ‘sta nella storia’, ma che, al contrario, esiste e può esistere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere” (Heidegger, 1976: p.452). Dunque dobbiamo riconoscere il fondamento temporale del Dasein nella dinamica della relazione della correlativa metamorfosi tra fatticità e divenire, passato e futuro, provenienza e destino, memoria e visione anticipatrice, storia e vita, conservazione e progetto: “ciò che ‘ha una storia’ in questo senso può ugualmente ‘fare della storia’(…). Storia significa qui un ‘tessuto di eventi e di effetti’ che si snoda attraverso lungo il ‘passato’, ‘presente’ e ‘futuro’”. (Heidegger, 1976: p.454). 6. Jacques Lecoq: il metodo mimodinamico nella pedagogia dell’architettura. Infine, tornare a pensare lo spazio dell’architettura e della città a partire dal corpo e dalla sua gestualità, era stato l’obbiettivo perseguito dal mimo, attore e pedagogo teatrale Jacques Lecoq nel corso dei venti anni del suo insegnamento presso l’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parigi, la scuola che diventerà la Scuola Nazionale Superiore di Belle Arti di Parigi La Villette (ENSALPV). Direttamente e profondamente influenzato dalle teorie dell’antropologo Marcel Jousse, Lecoq considera l’abito mimico come lo sfondo universale della nostra relazione con il mondo. Per entrambi l’analisi del movimento del corpo e lo studio della gestualità umana rappresentano uno strumento vivente per la comprensione dell’essere umano e, nello stesso tempo, un mezzo di conoscenza del mondo. Lecoq pensa che la pedagogia mimodinamica e il “mimo di azione” costituiscano non solo la base della formazione dell’attore, ma anche uno strumento educativo utile allo sviluppo del pensiero progettuale e creativo in tutti i campi della conoscenza, architettura inclusa. Da un punto di vista architettonico – e anche filosofico – credo che uno degli aspetti più rilevanti della pedagogia di Lecoq stia nella considerazione del corpo in movimento come generatore dello spazio. Per Lecoq lo spazio – del teatro, della scenografia, dell’architettura e della città – non è una mera questione geometrica, una pura identità dimensionale, un dato a priori prima del corpo e del suo movimento. Al contrario, è il corpo in movimento a costituire il centro di una interrelazione spazio-temporale che proietta un campo di forze e crea lo spazio. In tal modo la pedagogia teatrale di Lecoq si trasforma in un prezioso strumento educativo per la formazione degli architetti. Indirizzato a comprendere, attraverso un esercizio di trasposizione mimica, l’originaria struttura della relazione pragmatica con il nostro intorno, il suo metodo ci conduce a riscoprire la connessione originaria e precategoriale tra spazio e tempo, tra corporeità e memoria, tra memoria e processo immaginativo. L’esercizio mimico rappresenta infatti un processo conoscitivo che permette di accedere al significato dinamico delle relazioni tra l’essere umano, in quanto soggetto incarnato, e lo spazio architettonico: relazioni, queste, che modellano la nostra stessa identità e disegnano l’architettura e la città non come mero campo di applicazione di astrazioni formali, ma come autentico e concreto teatro della vita.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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HEIDEGGER, M. (1976), Essere e tempo. Milano: Longanesi. HEIDEGGER, M. (2002), Il concetto di tempo. Milano: Adelphi. HUGO, V. (1933), Nostra Signora di Parigi. Sesto San Giovanni: Casa per Edizioni Popolari. JOUSSE, M. (1969), L'Anthropologie du Geste. Paris: les Éditions Resma. LECOQ, J., CARASSO J.G., LALLIAS J.C. (2002), The Moving Body: Teaching Creative Theatre. 2nd Ed. London & New York: Bloomsbury. LECOQ, J. (2006), Theatre of Movement and Gesture. London & New York: Routledge. MERLEAU-PONTY, M. (1996), La natura. Lezioni al Collège de France 1956-1960. Milano: Raffaello Cortina Editore. MERLEAU-PONTY, M. (2002), Conversazioni. Milano: SE. NIETZSCHE, F., (1978), Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Roma: Newton Compton editori. PALLASMAA, J. (2005), The Eyes of the Skin: Architecture and the Senses. Hoboken: Wiley. SINI, C. (1994), Filosofia e scrittura. Bari:Laterza.

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