Corporis temporanea foelicitas. Il corpo nel TTP

July 9, 2017 | Autor: Francesco Toto | Categoria: Political Philosophy, The Body, Baruch Spinoza, Spinoza
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TTP11, 1, TTP1, 19.
TTP1, 4, dove si legge che «la nostra mente […] contiene in sé obiettivamente la natura di Dio e ne partecipa».
TTP1, 2.
TTP6, 3-4.
TTP2, 1.
TTPpraef, 6.
TTP15, 6.
TTP4, 10 e TTP6, 19.
TTP13, 6.
TTP3, 1, TTP4, 12, TTP7, 17.
TTP4, 4. Il nostro sommo bene consiste «interamente» nella conoscenza di Dio. Esso coincide infatti con la perfezione dell'intelletto, vale a dire delle conoscenze mediante le quali conosciamo Dio e le cose della natura attraverso di esso. Da una parte, in effetti, la conoscenza intellettuale di Dio costituisce il presupposto senza intelligenza di Dio non si dà nessuna intelligenza delle cose. Dall'altra, la conoscenza di Dio è tutt'uno con quella delle cose: ampliare la nostra conoscenza delle cose, e dunque perfezionare il nostro intelletto e approssimarci al nostro sommo bene, significa ampliare la conoscenza di Dio. Il motivo per il quale Dio è oggetto di amore non è che la sua conoscenza rappresenta il nostro sommo bene, ma il fatto che questa conoscenza è il risultato dell'intelletto, vale a dire di un suo aiuto interno, di un suo dono, del modo in cui egli opera attraverso la sola natura dell'uomo: Dio stesso, insomma, è la causa del nostro sommo bene.
TTP4, 4, TTP5, 5.
TTP3, 3, TTP3, 5
TTP4, 12.
TTP3, 3.
TTP4, 6.
TTP3, 5.
TTP3, 7.
TTP7, 7.
TTP19, 3.
TTP7, 21.
TTP3, 2, TTP3, 6, TTP3, 11.
TTP3, 5-6.
TTP4, 5, TTP5, 12.
TTPpraef3, TTP5, 3, TTP17, 4.
TTP5, 7.
TTP5, 8, TTP16, 4, TTP19, 10.
TTP5, 1.
TTP5, 3, TTP5, 10.
TTP5, 11. Cfr. anche TTP17, 25.
Cfr. TTP5, 12 («continue azioni») e TTP4, 1, dove si parla delle leggi della memoria.
TTPpraef9.
TTP5, 10, TTP5, 11, TTP17, 26.
TTP17, 23, TTP17, 25.
TTP16, 10.
TTP3, 12.
TTP12, 5.
TTP14, 8. Sui miracoli vedi il Capitolo 6. Sul modo in cui il Capitolo 3 connette elezione e miracoli cfr. TTP3, 1, TTP3, 5, TTP3, 7, TTP3, 10.
TTP4, 11.
TTP2, 15, TTP3, 10, TTP4, 10, TTP4, 11.
TTP16, 10.
TTP4, 5.
TTP17, 2.
TTP20, 6.
TTP6, 4, TTP16, 2.
TTP4, 1, TTP6, 1.
TTP20, 1, TTP20, 11.
TTP20, 2-4.
TTP1, 19.
TTP17, 25, TTP17, 26, TTP18, 8.
TTP5, 8, TTP16, 9, TTP17, 1.
TTP3, 7.
TTP17, 25.
TTP18, 7.
TTP16, 22, TTP1913.
TTP19, 13.
TTP16, 22, TTP17, 24.
TTP20, 11, TTP20, 13.
TTP18, 6.
TTP1, 18, TTP1, 19, TTP4, 10, TTP5, 3.
TTP3, 6, TTP4, 2.
TTP16, 9.
TTP16, 10.
TTP20, 6.
TTP7, 7. Vedi il modo in cui il «corpo sano» compare in TTP3, 1 in opposizione a conoscenza e virtù.
TTP5, 4.
TTPpraef, 1TTPpraef9, TTPpraef7.
TTP4, 12.
Francesco Toto
"Corporis temporanea foelicitas". Aspetti del corpo nel TTP

Nel Trattato teologico-politico il corpo compare in diversi contesti e secondo modalità che alludono talvolta a sviluppi teorici ulteriori. Per quanto frequenti e spesso teoricamente consistenti, però, i riferimenti alla sfera della corporeità disseminati nel corso di quest'opera restano di fatto abbastanza marginali. Diversamente dall'Etica, il Trattato non costruisce nessuna teoria del corpo. L'assenza di ogni teorizzazione del corpo non esclude però un uso teoricamente significativo dei riferimenti alla sfera della corporeità, sintomatico al tempo stesso di dualità che strutturare obliquamente buona parte del testo e delle tensioni da cui questa dualità revocata in dubbio. Per afferrare la posizione del corpo all'interno del TTP, ad ogni modo, occorre partire dalla mente. Sia in ambito conoscitivo che in ambito pratico nel Trattato si assiste in effetti a una valorizzazione della «pura mente» e del «puro intelletto» che è tutt'uno con la svalutazione del corpo e dell'immaginazione. La «pura mente» non è definita dall'unione con un corpo, ma da quella con un Dio che le si manifesta «senza nessun mezzo corporeo», con un Dio che cioè non le parla «faccia a faccia», come succederebbe tra «due uomini che sogliono comunicarsi i loro concetti per mezzo dei loro due corpi», ma «mente a mente». Da una parte, la conoscenza della natura di Dio appartiene alla natura stessa della nostra mente, e proprio questo suo carattere "innato" ci consente di formare «nozioni che spiegano le cose della natura». «Tutto ciò che conosciamo tramite il lume naturale dipende dalla sola conoscenza di Dio e dei suoi eterni decreti», perché la potenza della natura è la potenza stessa di Dio, la potenza di Dio la sua stessa essenza, e senza una conoscenza intellettuale dell'essenza di Dio è dunque impossibile conoscere le leggi che governano l'«ordine fisso e immutabile» della natura, e alla cui eterna verità tutte le cose della natura devono essere conformi. D'altra parte, la purezza della mente e dell'intelletto esige una radicale esclusione del corpo e dell'immaginazione. L'unico rapporto che unisce immaginazione e intelletto è quello di una proporzionalità inversa, in forza del quale «chi eccelle principalmente per l'intelletto […] ha una potenza immaginativa più moderata», mentre «coloro che abbondano di immaginazione sono meno atti a una pura intellezione delle cose». Questa proporzionalità è sintomatica di un conflitto strutturale, di un conflitto nel corso del quale, con una metafora di chiara ascendenza militare, l'immaginazione può giungere a «occupare» la mente solo a patto di non lasciare più spazio alla «sana ragione» e di estinguere quella «luce della mente senza la quale la mente null'altro vede che sogni e menzogne». Mente e intelletto possono comprendere «veramente» le cose solo a condizione di prendere criticamente le distanze dal modo in cui «l'immaginazione è affetta dai sensi esterni» ed emanciparsi perciò dal giogo delle parole e delle immagini. Non intendere «veramente» le cose non significa peraltro intenderle in maniera inadeguata, ma non intendere affatto. Una immaginazione senza freni, una immaginazione liberata dai limiti che l'intelletto è in grado di imporle dall'esterno, rappresenta un'invasione della mente da parte da parte di ciechi automatismi corporei che riduce l'uomo a «un pappagallo o un automa che parlano senza una mente e senza senso».
La separazione tra mente e corpo operata sul piano ontologico ed epistemologico si ripercuote sul piano pratico in una netta separazione tra il dominio della «vera etica», che riguarda l'uomo come «pura mente» e «puro intelletto», e il dominio della politica, che investe invece l'uomo innanzitutto come corpo, e dunque come immaginazione e passione. L'etica abbozzata nel Trattato parte dalla constatazione che l'intelletto è la nostra «parte migliore» e la sua perfezione il nostro «sommo bene». La «vera felicità», la «vera beatitudine», la «vera acquiescenza», la «vera tranquillità» risiedono quindi nell'intelletto, nella conoscenza intellettuale, nella sapienza. D'altro canto, la perfezione dell'intelletto si risolve «interamente» nella conoscenza e nell'amore di Dio. Il nostro «fine ultimo» coincide dunque con la conoscenza e con l'amore di Dio, o con la felicità che essi portano con sé. I «mezzi» utili al conseguimento di quel fine sono indicati invece dalla «legge naturale», che circoscrive il campo dell'«etica universale» e della virtù che tutti gli uomini sono indifferentemente chiamati a praticare. Questa concezione utilitaristica non implica alcuna eteronomia. I «mezzi» necessari e sufficienti al conseguimento di conoscenza e virtù dipendono infatti «dalla nostra sola potenza o dalle sole leggi della natura umana», e rappresentano una forma dell'«aiuto interno di Dio»: «la felicità e la tranquillità di colui che coltiva l'intelletto naturale […] non dipendono dal potere della fortuna», che costituisce per l'uomo un «aiuto esterno di Dio», il modo in cui «qualcosa si converte in suo utile pur traendo origine dalla potenza delle cause esterne». Poiché la legge che indica i mezzi per la conquista della felicità può allora essere «dedotta dall'universale natura umana», la virtù e l'obbedienza a questa legge non rappresentano il sacrificio sull'altare di un'istanza esterna, ma un'espressione di autonomia e un percorso di liberazione. L'etica che si rivolge alla pura mente e al puro intelletto è caratterizzata da universalità e uguaglianza, perché la conoscenza su cui essa si fonda appartiene alla mente umana in quanto tale, gli strumenti richiesti alla sua estensione rappresentano un «patrimonio comune a tutto il genere umano», e la felicità che essa promette costituisce una vocazione indirizzata «in eguale misura verso tutti». È caratterizzata poi da interiorità e libertà, perché la vera virtù non riguarda l'«azione esterna» di un corpo, ma l'«azione interna» della mente, e non ha dunque bisogno di alcuna «occasione» o circostanza esterna per esercitarsi: nulla può privare l'uomo dell'«aiuto interno» col quale Dio corrisponde al «culto interno» rivoltogli da una «mente […] internamente disposta» a venerarlo, e dall'altra «nessuno può essere costretto» a divenire sapiente, virtuoso, libero o beato. Come testimoniato dai passi in cui compare la «corporis temporanea foelicitas», questa universalità e questa interiorità passano però attraverso una radicale rimozione del corpo.
Il terzo capitolo del Trattato è dedicato a una discussione critica del concetto teologico di vocazione. La tesi fondamentale è che l'elezione del popolo ebraico non debba essere confusa con l'«eterna alleanza» che Dio stringe con tutti gli uomini chiamandoli indifferentemente alla conquista della vera vita, ma riguardi qualcosa di «completamente diverso»: la «felicità temporale del corpo», nella sua unità con la «felicita temporale dello Stato». Questa felicità temporale del corpo si riferisce innanzitutto alla «conservazione del corpo», ma si estende ovviamente anche alla «salute», ai commoda, alla sicurezza, e a tutti gli «altri beni di questa vita»: ai «beni corporei», come le cose che si possono toccare, mangiare o blandiscono la carne, ma anche a tutte le altre «cose vane» che possono essere oggetto di un desiderio anche smodato, come il lusso, gli onori e la gloria. Essa consiste in una liberazione dalla malattia e dalla sofferenza, dalla povertà e dalla miseria, dal pericolo e dall'ansia, dall'insicurezza e dall'umiliazione. La ragione per la quale questa felicità temporale del corpo è indistricabilmente connessa con la conservazione, la felicità e la pace dello Stato risiede nel fatto che la società è «necessaria» per vivere al sicuro, per risparmiarsi «numerose attività necessarie a mantenersi in vita», per evitare quindi una vita «misera e pressoché bestiale», ma «nessuna società può sussistere senza uno Stato» che tenga a freno le passioni da cui gli uomini sono necessariamente trascinati in direzioni inevitabilmente diverse e conflittuali: in assenza di un potere statuale «tutto viene messo in crisi», e «col più grande terrore di tutti» regnano solo «le contese, gli odii, l'ira e gli inganni». La vocazione con la quale il popolo ebraico pretende di essere stato eletto alla vera vita rappresenta dunque la forma immaginaria attraverso la quale esso prende coscienza della propria fortuna, del concorso di circostanze che hanno consentito a un popolo rozzo e ostinato, privo di prudenza e vigilanza, di istituire e di conservare uno Stato capace di sopravvivere a «grandi pericoli», di garantire durevolmente il loro benessere, di proteggerli dai nemici esterni ed interni, dalla tirannia e dalla degenerazione del conflitto.
Il nesso tra corpo e politica diventa ancora più chiaro nel secondo contesto in cui compare la «felicità temporale del corpo». Buona parte del Capitolo 5 è dedicato a criticare la confusione tra il «culto esteriore» (TTP5, 2), con le sue cerimonie e i suoi riti, e la «vera regola di vita» che definisce il «culto interiore», nella conformità alla quale consistono la vera vita e la vera beatitudine. Spinoza sostiene che il premio del culto esteriore è la felicità temporanea del corpo e la conservazione o la pace dello Stato, e che la sua funzione più propria è quella di «costringere» a obbedire «spontaneamente» al comando, rendendo superflua la violenza. Questa correlazione tra spontaneità, felicità e coercizione gioca con una duplice accezione del concetto di spontaneità. Le cerimonie sono forme rituali che pervadono tutti gli aspetti fondamentali della vita, e in particolare quelli legati alla conservazione della vita e più in generale della corporeità: «arare, seminare, mietere, o anche mangiare, vestire, tagliarsi i capelli e la barba». Attraverso la ripetizione e gli automatismi corporei della memoria le pratiche cerimoniali determinano una vera e propria incorporazione dell'obbedienza, un «habitus» del corpo in forza del quale un popolo altrimenti «ostinato» e propenso alla ribellione come quello ebraico finisce per pendere dalle labbra di chi detiene il potere. Le pratiche rituali trasformano tutta la vita in una «rigorosissima disciplina di obbedienza», in un «ininterrotto esercizio di obbedienza», e l'obbedienza stessa in una specie di seconda natura. La gioia rappresenta del resto una dimensione fondamentale della ritualità (le feste, il riposo, i banchetti), e nulla soggioga gli uomini quanto la gioia. Da un lato, l'obbedienza sembrerebbe spontanea nel senso in cui lo è un'azione derivante dalla natura stessa o dalla volontà dell'agente: uomini «assuefatti» all'obbedienza non desiderano mai ciò che è vietato, ma sempre e solo ciò che è comandato. D'altro canto, Spinoza afferma che grazie all'assuefazione l'obbedienza «dovette sembrare non più servitù, ma libertà», e in questo modo denuncia con chiarezza il carattere illusorio della riduzione della spontaneità alla sua prima accezione, e la necessità di intenderla nel senso dell'automaton aristotelico: uomini presi nella macchina della ritualità agiscono liberamente nel senso immaginario secondo il quale la libertà consisterebbe nel poter seguire le proprie passioni, ma nella realtà questa autodeterminazione apparente è il risultato di cause esterne latenti e di un invisibile disciplinamento dei corpi. Corpo e politica si coappartengono allora per una duplice ragione. In primo luogo, la politica è costruzione e conservazione di una comunità umana, comunità che è però in primo luogo una comunità di corpi: di corpi al lavoro, di corpi plasmati dal rito (la circoncisione degli ebrei, il codino dei cinesi), e di corpi in festa. Allo stesso modo in cui per Spinoza il senso delle parole o dei testi sembra risiedere meno nell'interiorità di un'intenzione che nell'esteriorità del loro uso, nel Trattato il corpo sembra in secondo luogo non avere alcuna esistenza indipendente dagli usi ai quali viene assoggettato, dal tessuto di pratiche in cui si trova incluso, dalle discipline che lo plasmano, dai poteri che si esercitano in esso e attraverso di esso.
La discussione sulla vocazione e sulle sue cerimonie lascia intravedere una politica opposta e speculare rispetto all'etica, con la quale pretende ideologicamente di identificarsi ma della quale rappresenta il puntuale capovolgimento. La vocazione e le cerimonie chiamano in causa Dio. Non si tratta però del Dio che agisce a favore dell'uomo attraverso il proprio «aiuto interno», rivelandosi a un intelletto in grado di cogliere l'ordine della natura nella sua eterna necessità e verità, ma di un Dio corporeo, che si rivela attraverso i mezzi corporei dell'immaginazione profetica, opera a favore dell'uomo tramite l'«aiuto esterno» del miracolo ed è oggetto di una fede i cui dogmi «non hanno nemmeno l'ombra della verità». Le leggi prescritte da questo Dio non sono le leggi universali che possono essere dedotte dalla comune natura degli uomini, e nella libera obbedienza alle quali risiede quel «culto interiore» di Dio che esige di «fare il bene per amore del bene» ed è tutt'uno con la vera virtù e la vera felicità, ma le leggi che un sovrano immaginario impartisce a una nazione che lo riconosce come proprio re: leggi il cui rispetto è determinato dalla speranza di un premio corporeo e dal timore di un castigo ugualmente corporeo, e la soggezione alle quali rappresenta dunque, oggettivamente se non soggettivamente, una forma di servitù. La critica spinoziana al presunto valore etico dell'elezione e delle cerimonie rende evidente così la reciproca autonomia di etica e politica. L'etica è la sfera di una mente pura. Essa costruisce lo spazio di interiorità che le è proprio attraverso una rottura con la sfera corporea dell'immaginazione e degli affetti: rispetta la legge naturale «solo colui che vive […] sotto la sola guida della ragione», «solo colui che cerca di amare Dio non per il timore del castigo o per amore d'altro […], ma per questo soltanto, perché conosce Dio, ovvero perché sa che la conoscenza e l'amore di Dio sono il sommo bene». La politica, invece, è la sfera del corpo, e della mente solo in ragione dalla sua unione con il corpo. Essa si costituisce attorno alla stessa corporeità che era stata esclusa dalla sfera etica, e che rappresenta il luogo, se non della pura esteriorità, almeno dell'incontro tra esteriorità e interiorità. Spinoza afferma chiaramente che il potere sovrano consiste nel comando degli animi, ma è chiaro che esso si esercita innanzitutto sui corpi e attraverso mezzi corporei (i premi e le pene, le parole e le immagini), e che solo orientando la materialità delle condotte esso può riuscire a innestarsi sulle menti e a produrre forme di coscienza o di affettività coerenti con sé stesso. Indipendentemente dunque da ogni razionalità, da ogni virtù, o da ogni libertà presupposta, gli uomini che non comprendono intellettualmente Dio e le cose della natura sono catturati nella sfera della politica innanzitutto come «bestie ed automi»: come corpi.
Questa separazione tra mente e corpo, tra intelletto e immaginazione, tra etica e politica, rappresenta un aspetto fondamentale della teoria esposta nel Trattato, del quale non si può non tenere conto, ma esistono comunque molteplici indizi che alludono a una via alternativa, alla necessità di superare la riduzione del corpo a semplice supporto del potere delle cause esterne, la sua opposizione rispetto alla mente, la separazione della sfera politica da quella etica. Questa diversa posizione della corporeità diviene particolarmente chiara nella discussione sul diritto naturale. Secondo il Trattato l'esistenza e l'attività di ogni individuo sono espressione dell'essenza e della potenza divine, e ogni individuo della natura ha dunque pieno diritto a esistere e operare secondo la propria naturale determinazione. Il corpo è senza dubbio uno di questi individui, espressione certa e determinata dell'essenza e la potenza divina, e portatore perciò di una autonomia che ne limita la plasticità e ne impedisce la riduzione al sostrato di per sé indifferente su cui si incidono gli effetti delle cause esterne: il corpo è un automa è retto da leggi proprie. Il diritto naturale, in realtà, non viene mai tematizzato in quanto diritto dei corpi, ma esistono comunque diversi luoghi in cui la connessione tra corporeità e diritto viene operata in maniera esplicita. Nel contesto della discussione sul diritto di pensiero e di parola, sul loro complesso legame, e sull'utilità del loro riconoscimento al fine di un più adeguato contenimento dei conflitti, Spinoza sostiene che «comandare agli animi» non è «tanto facile quanto comandare alle lingue». È «impossibile che un animo sia assolutamente soggetto al diritto altrui», ma è possibile sottomettere le lingue a un dominio assoluto: nulla impedisce di immaginare una libertà di parola completamente repressa, uomini a tal punto soggiogati da non osare neppure mormorare senza l'autorizzazione del potere. Altri passi denunciano però il carattere meramente ipotetico di questa docilità delle lingue. Le somme potestà, infatti, non possono fare in modo che gli uomini rinuncino a manifestare il loro giudizio e non dicano nulla che non sia conforme alle loro prescrizioni. Neppure Mosè è riuscito a sfuggire ai mormorii del popolo. I «mormorii» sono oggetto di costante timore da parte dei poteri perché attraverso di essi gli uomini comunicano con mezzi corporei faccia a faccia come «soci», costruiscono vincoli sociali eterogenei rispetto a quelli prescritti dal potere, generalizzano un malcontento e un'insofferenza che possono sfociare nella rivolta. La lingua assolve qui una funzione metonimica, simbolo della resistenza opposta dall'intero corpo ai poteri violenti, ai poteri che pretendono di esercitarsi in una forma meramente repressiva, incuranti di quella «libertà temporale del corpo» che è tutt'uno con la «felicità […] temporale del corpo» stesso. A conferma di questo valore metonimico basta ricordare l'insufficienza degli apparati ideologici di Stato di fronte ai rischi di rivolta legati alla «disprezzata povertà». Il conforto della fede, i suoi sogni e le sue menzogne, la morale del "porgi l'altra guancia" sono insufficienti a rendere «tollerabile» la povertà e tenere a freno un volgo oppresso dal bisogno. A questo fine è necessaria una divisione egualitaria delle terre, la remissione dei debiti, la pratica pubblicamente incentivata della carità. Come testimonia ad esempio l'odio di classe dei Farisei verso i Sadducei, quando gli istituti deputati alla protezione della libertà e della felicità del corpo vengono meno resta l'impeto sfrenato e «l'ira della feroce moltitudine», e il corpo asservito rivendica la propria autonomia come corpo ribelle.
Il caso del corpo in rivolta lascia intravedere una modalità di rapporto, tra mente e corpo da una parte e tra etica e politica dall'altra, profondamente eterogenea rispetto a quella della separazione. Spinoza afferma che tutti sono tenuti a obbedire anche a un tiranno, salvo coloro ai quali «Dio abbia promesso con rivelazione certa un aiuto singolare». Si tratta del profeta, che non a caso incarna il principale contropotere previsto dalla teocrazia ebraica. Questa eccezione tende però a trasformarsi in un'eccezione diversa, che esenta dall'obbedienza chi è pronto a sopportare sofferenze estreme e non teme coloro che uccidono i corpi. Questa disponibilità alla sofferenza e alla morte può manifestarsi nella riottosità di fronte all'occupazione straniera: si pensi al caso di Eleazaro e della resistenza del popolo ebraico di fronte all'invasione greca. Essa ricompare però secondo una logica profondamente diversa nella ribellione contro la limitazione della libertas philosophandi. Questa rivolta vede come protagonista, nella parte ruolo dell'agitatore e ribelle, un uomo onesto, reso libero dalla buona educazione, dall'integrità dei costumi e dall'amore per la virtù, esente dal pentimento e dal timore della morte, e per il quale il patibolo rappresenta il teatro di una morte gloriosa, capace di suscitare ammirazione o imitazione: lo stesso homo liber che nell'Etica sarà pronto ad andare incontro alla morte per onestà e buona fede. È impossibile non vedere l'homo liber come una figura Christi. Proprio come Cristo, l'homo liber è colui che con la forza dell'esempio esorta a non temere la morte dei corpi e a non retrocedere di fronte a un potere tirannico. Cristo compare nel Trattato come il campione della «pura mente», al quale Dio si rivela mente a mente senza bisogno di mezzi corporei, che percepisce la legge universalità come una verità eterna, e che per l'obbedienza di questa legge non promette alcun premio materiale, ma solo la vera virtù e la vera beatitudine. L'analogia con Cristo sotto il segno della virtù, della libertà, e della serenità invita a interpretare il martire della libertas philosophandi come l'incarnazione della potenza dell'intelletto. Il suo coraggio di fronte al dolore e alla morte sembra allora suggerire che questa potenza possa manifestarsi nella sfera della prassi umana unicamente nella forma della sospensione della tendenza conservativa e dell'attaccamento ai piaceri, attraverso cioè la sottomissione del corpo, dell'immaginazione e dell'affettività a una potenza e a una legalità esterne ed estranee. La riconciliazione tra mente e corpo avverrebbe nella forma gerarchica dell'assoggettamento del secondo da parte della prima. Etica e politica potrebbero entrare in contatto solo nella forma di un disastro, di una crisi che revoca in causa la possibilità stessa di un vincolo sociale istituzionalizzato, e anzi di ogni vincolo sociale tout court: dove non c'è paura della morte non c'è più obbedienza. Ma è davvero così?
Il Trattato assegna alle leggi umane una molteplicità di funzioni apparentemente eterogenee. Spinoza sostiene che l'unico scopo delle leggi sia la tutela della vita e dello Stato. Sostiene anche, però, che il loro «vero fine» il fine cioè che segue necessariamente dalla loro stessa natura, e che può essere colto soltanto dai pochi che giudicano secondo ragione è di gran lunga diverso rispetto alla vita comoda e sicura che il volgo si aspetta dal loro rispetto, e consiste nell'evitare le assurdità dell'appetizione e nel contenere gli uomini entro i limiti della ragione. La tesi secondo la quale è libero unicamente colui che vive secondo la guida della ragione, e in uno Stato le cui leggi siano fondate sulla sola ragione chiunque ha dunque la possibilità di vivere liberamente, pone infine le premesse di un'ultima finalità. Il fine ultimo dello Stato

non consiste nell'esercitare il dominio o nel controllare gli uomini per mezzo della paura […], ma, al contrario, nel liberare ciascuno dalla paura affinché viva per quanto possibile in sicurezza […]. Lo scopo dello Stato non consiste nel trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie e in automi, ma nel far sì che le loro menti e i loro corpi adempiano in sicurezza alle loro funzioni, e che essi stessi facciano libero uso della ragione […]. Scopo dello Stato è dunque, in realtà, la libertà.

L'unificazione tra le finalità apparentemente eterogenee di volta in volta attribuite al potere statuale dipende dunque da una radicale riarticolazione del nesso mente/corpo. In altri contesti l'uomo che ricerca la salute della mens, della ratio o del judicium sembra addirittura disprezzare i beni necessari alla salute del corpo come appartenenti alla sfera della fortuna e irrilevanti ai fini della vera felicità. Al contrario, nel passo che appena citato diviene evidente che un adeguato esercizio delle funzioni della mente è inseparabile da un esercizio altrettanto adeguato delle funzioni del corpo, e una mente sana da un corpo sano. La sicurezza si afferma allora come un mezzo necessario alla libertà perché il godimento dell'intelletto, della conoscenza, della virtù, della beatitudine, che sono tutt'un con la vera libertà, è inseparabile dalle condizioni politiche che presiedono al godimento della felicità temporale del corpo, e dalla liberazione dalla sofferenza e dalla malattia e dalla, dalla miseria e dal pericolo. La paura è fonte di superstizione, la superstizione occupa la mente al punto di non lasciare più spazio alla sana ragione, e contribuisce così a trasformare gli uomini da esseri razionali in bruti. La pura mente non è dunque quella che risulta dalla cesura con la corporeità o dal suo assoggettamento a una potenza esterna, ma proprio al contrario quella che si accompagna a una corporeità felice. «Vera etica» e «vera […] politica» sono indissolubilmente intrecciate. Il corpo in rivolta, il corpo disposto a sopportare la sofferenza e la morte, non è il corpo che deve essere sacrificato affinché l'etica possa comparire nella propria purezza nel territorio impervio dei rapporti di potere, ma il corpo attraverso il quale l'etica vigila prudentemente alla concretezza delle condizioni politiche della propria realizzazione, traccia la soglia tra ciò che può essere tollerato e ciò che non può essere tollerato, e quando questa soglia viene varcata non si sottrae alla necessità del conflitto, di rischiare il tutto per tutto per ricondurre la politica alla propria verità, al proprio fondamento e al proprio fine.




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