Cultura visuale. Paradigmi a confronto (ed.)

June 8, 2017 | Autor: Roberta Coglitore | Categoria: Visual Culture
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argo | collana di cultura visuale diretta da Michele Cometa

:duepunti edizioni via Siracusa 35 90141 Palermo [email protected] www.duepuntiedizioni.it Progetto grafico e impaginazione .:terzopunto.it © 2008 :duepunti edizioni – Palermo Tutti i diritti riservati ISBN

978-88-89987-14-8

Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Arti e Comunicazioni – fondi P R I N 2005 (R1D020P6DGC2005)

Cultura visuale Paradigmi a confronto Hans Belting, Andreas Beyer, Michele Cometa, Philippe Hamon, W.J.T. Mitchell, Ulrich Stadler a cura di Roberta Coglitore

:duepunti edizioni Palermo

Traduzione dal tedesco di Michele Cometa.

Hans Belting

Per una iconologia dello sguardo

1. Gli sguardi sono complici delle immagini. Questa complicità travalica la distinzione categoriale che sustanzia i rispettivi discorsi 1. È difficile individuare dove finisce lo sguardo e inizia l’immagine. Certo le immagini sono sempre destinate a uno spettatore, ma spesso invitano lo sguardo a un gioco (o a una competizione) in cui lo attraggono, lo respingono o lo confondono. Meglio, i nostri sguardi producono autonomamente immagini del mondo, immagini che noi conserviamo per classificarle poi ad un secondo sguardo. Eppure su schermi, fotografie e dipinti – dunque su dispositivi mediali – troviamo concorrenti in forma di immagini che noi non abbiamo prodotto e di cui ci dobbiamo appropriare affinché anche per noi si trasformino in immagini. Qui il nostro sguardo si ritrova – da ogni punto di vista – in “società”, cioè impegnato come sguardo del singolo in un’esperienza collettiva. Se accettiamo queste immagini, esse ci appaiono come se vedessimo con i nostri occhi ciò che ci mostrano. Se le respingiamo, ci appaiono invece come quinte che alterano il nostro mondo. È pure possibile che immagini di questo tipo si lascino catturare dal nostro sguardo e ciò facendo – come nel caso precedente – esibiscano il fatto stesso di lasciarsi catturare dal nostro sguardo che se ne appropria dispoticamente. La tesi che le immagini rappresentino il nostro sguardo viene contraddetta dal fatto che gli sguardi sono irrappresentabili e indecidibili. Naturalmente esse possono rappresentare lo sguardo solo indirettamente o implicitamente lanciandogli un’esca o approntandogli

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una trappola. Così però ne fanno un oggetto del proprio desiderio visivo. Certo, ci sono nelle immagini anche sguardi rappresentati, che però appartengono sempre a soggetti altri con cui scambiamo sguardi o che evitiamo. Per converso le immagini attraggono i nostri sguardi quando li stimolano col desiderio. Stimoli che sono polisemici. Si può trattare di cose che esercitano su di noi un fascino particolare, ma che possono anche apparire come lacune in un’immagine, cose nelle quali il nostro sguardo vuole vedere molto di più di quello che effettivamente può vedere e così facendo finisce per scorgere se stesso. Queste varianti ripetono specularmente un’esperienza dello sguardo che normalmente non si rende visibile. Possiamo parlare di una prassi secondaria dello sguardo in cui si rappresentano modalità dello sguardo che noi, vivendo, utilizziamo costantemente. Essa è secondaria solo nella misura in cui proietta sugli artefatti un primario dominio dello sguardo che è legato al corpo. Una nuova iconologia consisterebbe nello spostare l’accento dalle immagini allo sguardo che queste immagini servono o rispecchiano. Un’iconologia dello sguardo non è una contraddizione in sé, giacché lo sguardo è esso stesso “immaginale” e nelle immagini trova un territorio ad esso familiare. La prassi dello sguardo corporeo autonoma o primaria, quella che si instaura tra soggetti che guardano, e la prassi dello sguardo eteronoma o secondaria, che ha luogo nella visione di un’immagine, necessitano di un collegamento che deve essere considerato una traduzione. Essa viene prodotta tramite l’immaginazione, cioè quando noi trasformiamo gli artefatti in immagini vere e proprie o addirittura in partner dello sguardo. Lo scambio di sguardi con le immagini che non hanno vita è una facoltà dell’immaginazione; certo noi possiamo scambiare sguardi solo con esseri viventi, tuttavia noi replichiamo agli sguardi rappresentati nelle immagini come se esseri viventi li puntassero su di noi. L’ esperienza dell’attivazione del nostro sguardo quando incontra lo sguardo di un altro nelle immagini si può solo simulare, anche se i limiti di tale simulazione stanno proprio nel sorriso, giacché noi non possiamo sorridere ad un’immagine. Nello scambio di sguardi con un artefatto (variante uno) e nell’appropriarci di essi con lo sguardo (variante due) dimentichiamo il

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mezzo in cui essi sono prodotti e lo animiamo con la nostra stessa vita. Proiettiamo su di essi il nostro stesso sguardo o altri sguardi che sembrano reagire in nostra presenza all’immagine, come se fossero soggetti viventi. Questi due modi di rapportarsi alle immagini li pratichiamo anche nella vita quotidiana, ad esempio davanti allo specchio e dietro una finestra. Intendo con finestra una soglia architettonica o simbolica che si pone tra il mondo e lo sguardo. Specchio e finestra sono luoghi simbolici nei quali diveniamo coscienti del nostro sguardo. Lo specchio ci restituisce lo sguardo. Attraverso la finestra invece gettiamo il nostro sguardo sul mondo. In tal modo la cornice crea una sorta di libertà dello sguardo e un luogo, un “punto di vista”. Il monitor si avvantaggia dei nostri sguardi dalla finestra, il video dei nostri sguardi allo specchio. Le immagini corporee e tecniche si rafforzano a vicenda esattamente come avviene davanti allo specchio e alla finestra. L’ uomo ha cominciato a produrre storicamente i media visuali solo quando ha imparato a conoscere e a usare il proprio corpo come un mezzo. Attraverso il corpo e l’esperienza dei sensi noi comunichiamo con il mondo e ci appropriamo di noi stessi nell’immagine. Non sono le immagini ad essere pròtesi del corpo, quanto semmai tutte le tecniche mediali con cui produciamo immagini. Perché le immagini si creano già nel corpo, ma si rendono visibili solo nei media a loro destinati. Il mezzo è il milieu delle immagini che si rendono visibili. La disponibilità ad accogliere uno sguardo altro che ci viene indirizzato da un’immagine (variante uno), ovvero l’aspettativa di ritrovare il nostro sguardo in un’immagine (variante due) è condizionata da presupposti culturali che hanno determinato nel corso della storia anche il nostro scambio con specchi e finestre. In tal modo anche la relazione tra sguardo e immagine deve essere sempre rinnovata in modo che lo scambio continui. Nella prima modernità – ovvero nel tardo medioevo – lo sguardo individuale pretendeva di esercitare un controllo sulle immagini che non poteva più essere affidato allo Stato e alla Chiesa. Il Barocco invece si sottomise a nuove illusioni con cui immagini diventate “virtuose” confondevano lo sguardo. Quando lo spettacolo dell’illusione dei sensi giunse al

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suo apice, crebbe anche il bisogno di immagini tecniche in cui i dispositivi mediali sostituivano l’azione umana. Desiderio di illusione e stimolo alla conoscenza, rivali, produssero una tensione tra immagine e sguardo che non consentiva più facili analogie. Le immagini corteggiavano o umiliavano lo sguardo, mentre quest’ultimo a sua volta voleva sottomettersi. Un ritmo sincopato vedeva immagini e sguardo alternarsi al comando. Per questo il conflitto metodologico tra storia dei media e storia della percezione non si potrà mai risolvere, così come non si potrà mai districare la relazione tra sguardo e immagine. Scopofilia e scopofobia posseggono nelle culture dello sguardo e nelle varie epoche confini costantemente incerti, non segnano mai un discrimine puro tra le varie fasi, perché esse non sono riconducibili ad un unico sguardo. La “rappresentazione dello sguardo” non si può ridurre ad un unico denominatore comune, poiché percezione e sguardo non sono sinonimi ma stanno in una relazione molteplice e spesso contraddittoria, sulle cui modalità le posizioni divergono notevolmente. Il problema si complica con le differenze di concettualizzazione delle diverse lingue, che offrono opzioni del tutto differenti nei rispettivi spettri semantici. La parola tedesca Blick si è separata molto tardi da Blitz (lampo, baleno). E così parlando ci ricordiamo costantemente del fatto che qualcosa ci coglie come un baleno, così come diciamo che uno sguardo ci coglie. Il concetto francese di regard si associa a quello di prendre garde, che significa qualcosa come “prendersi cura di”, “cautelarsi”. In inglese significati simili sono contenuti in regard e regardful che a loro volta si avvicinano a watch e watch out. Katja Silverman ha sviluppato su basi lacaniane la sua analisi con concetti come gaze e look senza fare alcun riferimento a Martin Jay 2. Non si confronta neppure con Norman Bryson che distingue tra gaze e glance intendendo per gaze lo sguardo concentrato e prolungato e con glance invece uno sguardo erratico e arbitrario 3: «il regard trae una forma stabile dalle sensazioni visive fugaci» mentre il glance, ovvero il coup d ’œil incontrollabile opera subdolamente o impercettibilmente. In tedesco non abbiamo queste possibilità concettuali e dobbiamo contentarci di “vedere” (sehen) e “sguardo” (Blick) o sforzarci con gli aggettivi.

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Mieke Bal interpreta la distinzione di Bryson nel senso che il gaze sarebbe lo sguardo senza corpo, oggettivante, e glance invece lo sguardo partecipe, cosciente di se stesso e della specificità della rappresentazione. Bal tenta, da un lato, di dislocare le modalità dello sguardo nelle immagini e, dall’altro, di descriverle come modalità di osservazione delle immagini, di modo che la prassi secondaria dello sguardo, così come noi la intendiamo, ceda il passo ad un’analisi dello sguardo incorporato nell’immagine orientata alla testualità4. In questo contesto Mieke Bal descrive il gaze nel senso datogli da Lacan come un comportamento che “fonde” insieme realtà e immagine, mentre glance viene considerato a volte uno sguardo riflessivo che si rende consapevole della consistenza ontologica dell’immagine, a volte come un «incidental act of looking» nel senso di Bryson. Queste opzioni mostrano che vi è scarso consenso sul rapporto tra la prassi dello sguardo in quanto tale e la sua rappresentazione in immagine. Tanto più vale la pena – come tenteremo qui di seguito – di mettere a confronto questi due temi e spianare la strada nella storia delle immagini ad una iconologia dello sguardo che, al di là dei vigenti distinguo, apra la strada ad un’interpretazione storico-culturale della prassi dello sguardo, sia dal punto di vista storico sia da quello antropologico. Ecco alcuni esempi concreti. 2. Man Ray ha colto in un’opera del 1922 il ritmo sensomotorio della nostra percezione5. Ecco la fotografia di un occhio umano montato sull’asta di un metronomo (cfr. infra, p. 26, fig. 10). Questo è il glance nel senso di Bryson. L’ occhio così disposto oscilla velocemente al ritmo del metronomo in modo che i nostri occhi sono costretti a seguire l’oscillazione come gli spettatori di una partita a tennis. Nel flusso delle impressioni visive solo uno sguardo consapevole può interrompere il ritmo meccanico degli occhi. Man Ray ha apposto un’ironica istruzione per l’uso: «ritaglia da una foto l’occhio, regola il tempo e prova a distruggere questo oggetto con un solo colpo di martello», cioè si tratta di afferrare prima e di arrestare in un secondo tempo il movimento veloce e costante del metronomo che imita il ritmo dell’occhio. Per questo il titolo Object to be destroyed può essere inteso come: oggetto di cui lo sguardo vuole appropriarsi.

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L’ occhio senza posa incontra qui non un oggetto immobile, ma anzi un ritratto del proprio stesso movimento che può solo distruggere se vuole dominarlo. L’ opera di Man Ray fu effettivamente distrutta, ma l’artista ne creò repliche e multipli che giocavano con l’idea che gli oggetti dominano il nostro sguardo poiché sono “indistruttibili” sotto i nostri occhi veloci. Allo sguardo appartiene l’ineliminabile condizione della temporalità che gli impedisce di fissarsi in un punto o in uno sguardo duraturo. Nello stesso anno Man Ray trovò in un ritratto di Jean Cocteau una metafora per lo sguardo fisso (gaze) 6. Il poeta tiene con entrambe le mani una cornice vuota in modo che il suo volto diventa un’immagine (fig. 2). Si pone così la questione della cornice. Il nostro sguardo ha bisogno di una cornice se deve concentrarsi su un oggetto. Anche la cornice interiore, mentale, nella nostra testa, delimita l’oggetto della nostra attenzione rispetto al mondo circostante. Nella foto di Cocteau il poeta evita d’incrociare lo sguardo con un altro sguardo guardando fisso in camera. Egli si sottomette ad un occhio meccanico con il quale non può scambiare sguardi e offre così la propria immagine (e anche la sua vita in uno sguardo attivo) al nostro sguardo. Lo scambio di sguardi con le immagini si distingue dallo scambio di sguardi con le persone reali per il fatto che noi reggiamo più facilmente il confronto con le immagini e non sorridiamo alle immagini. Un’immagine dello sguardo si caratterizza perciò per il fatto che il nostro stesso sguardo diviene un’immagine. Nel suo autoritratto viennese il giovane Parmigianino non punta ad un ritratto classico ma tasta con l’occhio l’immagine che si compone sulla superficie curva dello specchio7 (fig. 3). Qui non c’è un dialogo tra due sguardi, ma si tratta del tentativo di catturare la pura impressione visiva su una superficie di vetro che deforma impietosamente l’aspetto del pittore. Già Vasari era affascinato dal fatto che il piccolo dipinto rotondo non si riusciva a distinguere dallo specchio reale di un barbiere. L’ immagine trattiene quello che la persona dipinta vide quando si guardò sulla superficie dello specchio convesso. Questa è catoptrica dipinta. La mano cresce enormemente avvicinandosi allo specchio, mentre la testa affonda minuscola nelle profondità dello spazio retrostante. L’ immagine deformata non viene

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corretta dalla retorica del Sé in cui il soggetto si esprime. Il mondo che si estende davanti, tra l’occhio e lo specchio, e quello che si trova tra le spalle e il muro, vengono entrambi distorti dallo specchio. Abbiamo a che fare con un’anamorfosi in quanto prospettiva speculare. L’ Io si smarrisce in immagini ambigue e l’occhio registra quietamente tutte le deformità che il pittore vede sulla superficie curva dello specchio. L’ immagine non delinea ciò che si vuole vedere nello specchio, ma ci restituisce lo specchio e la sua funzione meccanica. Di norma lo sguardo del pittore ha necessità di correggere una tale immagine visiva, Parmigianino invece dipinge il trompe l’œil che lo specchio effettivamente ci fornisce, producendo anche l’enigma che si instaura tra la mano che dipinge e la mano riflessa. Lo studio del pittore divenne ad un certo momento il tema chiave per il controllo dello sguardo sull’immagine (figg. 6 e 8). Esso immortalava una seduta del pittore con il suo modello. Invece di risolversi e scomparire nel prodotto finito, veniva esposto proprio il momento della produzione per dimostrare l’autenticità della rappresentazione. Il fatto che un’immagine venisse “prodotta” divenne simbolo della cultura scopica: il produttore, in quanto pittore, diveniva anche testimone oculare e come tale possedeva anche il controllo sulla verità dell’immagine. Il suo sguardo è diventato qui a sua volta immagine, così come una macchina fotografica produce un’immagine e insiste sulla sua autenticità. Mentre nell’autoritratto il pittore incontra il proprio sguardo, nell’atelier il suo sguardo domina l’immagine di un’altra persona. Se nel primo caso si poneva la domanda sulla propria identità, in questo caso egli garantiva l’identità tra lo sguardo e la sua immagine, e dunque la corrispondenza di immagine e realtà. Quale che sia il significato che le immagini ci comunicano sul mondo, esse fanno appello a testimoni oculari. Proprio in questo senso parlo di un’immagine dello sguardo. Così facendo la pittura divenne un mezzo dello sguardo, prima che la fotografia le subentrasse. Il pittore reclamava il proprio posto nell’immagine per mettersi al nostro posto e vedere l’immagine con i propri occhi. La sua opera si costituisce come uno sguardo oggettivato che viene autorizzato dal suo disegno. Essa testimonia di un mondo che esiste solo nella misura in cui è percepibile e nello stesso tempo rappresentabile.

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La seduta con un modello viene rappresentata in Dürer come un’immagine didattica laddove il tema vero è il metodo della prospettiva. Lo sguardo del pittore viene qui subordinato ad un metodo scientifico attraverso il quale questi ottiene il controllo dell’immagine. L’ immagine dell’atelier ha ormai perduto il contrassegno religioso che aveva acquisito con San Luca. L’ arte della pittura consiste adesso nel dominio dello sguardo del pittore. Nelle illustrazioni della prospettiva Dürer privilegia dapprima oggetti inanimati e statici, un liuto e un vaso, di cui si appropria con lo sguardo. Ma questo cambia nelle incisioni in cui appare un corpo femminile che lascia cadere gli ultimi veli davanti allo sguardo del pittore maschio8. La modella si offre al protocollista maschile in una posa erotica che avvince il suo sguardo e nel contempo lo tiene a debita distanza. La distanza ha il proprio simbolo nello “schermo” semitrasparente che si situa come limite tra i due, corpo e pittore. In questo caso il pittore che “fissa” il proprio sguardo con l’ausilio di uno “stiletto” osserva il profilo di un corpo femminile come su un’interfaccia, prima di tradurlo proporzionalmente sul foglio e catturarvi il corpo nella forma del disegno. Già per via delle linee, che in natura non esistono, il corpo si trasforma in uno schema astratto. Per Dürer non si tratta di catturare un simile corpo – come egli stesso scrive – in uno sguardo (cosa peraltro quasi impossibile, data la presa ravvicinata) e quindi di trasformare questo sguardo analitico in un’immagine oggettiva. Questo problema si risolve grazie al metodo rigoroso del disegno prospettico che subordina la percezione alle leggi dell’ottica. Ma nessun metodo potrebbe portare ad una completa isonometria tra l’immagine e il corpo. Non è il corpo femminile ad essere riprodotto nel disegno, ma lo sguardo che il disegnatore vi getta sopra. Nel mondo il nostro sguardo rimane costantemente legato ai corpi sui quali vuole esercitare un controllo, per lo più invano. Dürer ha mostrato il lavoro dello sguardo con particolare predilezione per corpi di entrambi i sessi, alla luce dei quali voleva rappresentare i principî costruttivi della natura. Per questo oggettivò il proprio sguardo attraverso corpi nudi che altrimenti lo avrebbero consegnato a un desiderio incontrollabile. Ma persino lo sguardo analitico dell’artista è molteplice. Lo sguardo erotico fa

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sempre capolino dietro allo sguardo estetico che a sua volta si lega allo sguardo scientifico-analitico e promuove un ideale artistico che aspira anche ad essere un ideale del corpo. Quando Dürer si lamenta di non aver trovato in nessun corpo reale un’immagine veramente “bella”, vuole a suo modo ricreare il corpo per trasformarlo in un concetto estetico. 3. Nella cultura occidentale innumerevoli dipinti hanno messo in scena lo spettacolo dello sguardo sul grande teatro del mondo o anche in ambiti privati. Essi hanno rappresentato il mondo come un territorio che viene costituito da sguardi, da sguardi che cercano il mondo o lo mancano del tutto. Costantemente ne scaturiscono soglie che vengono instaurate o scavalcate da questi sguardi. Nasce l’impressione che l’arte occidentale abbia trovato nello sguardo un tema decisivo. Nello sguardo si attribuiscono i ruoli allo spettatore che sta fuori dall’immagine e tuttavia ritrova in essa i propri sguardi. Gli artisti hanno suggerito allo spettatore che l’intero mondo dipinto sia lì solo per il suo sguardo, per uno sguardo che fa esperienza, che guarda anche quando non vede cosa gli succede e cosa ha sotto gli occhi. Las Meninas che Velázquez ha dipinto alla corte spagnola nel 1656 può fungere da paradigma (fig. 8). Già il titolo ci fa cadere in una trappola. Certo le “meninas” stanno intorno all’infanta al centro del quadro. Ma ci distraggono dagli sguardi del pittore e della coppia reale che sono i protagonisti segreti della scena. Michel Foucault, nella sua celeberrima descrizione, ha individuato in questo quadro l’essenza della “rappresentazione classica” che costituiva l’oggetto precipuo della sua opera9. Questa descrizione è una descrizione di sguardi. Ci si è opposti parzialmente alla sua interpretazione soprattutto richiamandosi al contesto storico in cui è maturato il dipinto. Ma non si può contestare che gli sguardi giochino un ruolo decisivo in Velázquez. Il gioco di reciprocità s’instaura quando «guardiamo un quadro da cui un pittore a sua volta ci contempla. Null’altro che un faccia a faccia, occhi che ci sorprendono, sguardi diritti o che incrociandosi si sovrappongono». In questo spazio lo «spettatore e il modello si scambiano», si potrebbe dire, «incessantemente gli sguardi».

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Nessuno sguardo rimane neutrale nel quadro e davanti al quadro, e «soggetto e oggetto, spettatore e modello si scambiano illimitatamente le parti» (Foucault). Si vede lo sguardo del pittore, ma anche lo sguardo dell’infanta che «si rivolge come d’un tratto allo spettatore», ovvero alla coppia dei genitori. In un piccolo specchio posto sulla parete di fondo della sala, questa coppia reale – sulla quale si concentra tutta la scena – diviene parzialmente visibile. Questo “sguardo sovrano” domina l’ordine visibile dell’immagine. Solo il pittore di corte Velázquez, sia per contratto sia per altri motivi, e la piccola principessa, che già si immedesima nel ruolo della futura sovrana, possono rispondere a questo sguardo. Nella grande tela sul cavalletto lei non può stare. Ma il dipinto che guardiamo non è il dipinto che sta nascendo sulla tela. Solo per questo Velázquez può rappresentare il modo in cui dipinge i reali in compagnia della corte in qualità di testimone e di pubblico. Sembra che ancora dipinga ciò che ai nostri occhi appare già completato, fondendo così due punti temporali in un virtuosistico trompe l’œil. Il rituale della rappresentazione diviene l’oggetto della rappresentazione in un mezzo che si fa carico della rappresentazione. Un’immagine materiale ed immateriale, un dipinto al Prado e il suo “doppio” dipinto che si rimandano l’un l’altro. La tela rappresentata nel dipinto rimane occultata per noi dato che la possiamo vedere solo dal retro. Lo sguardo erra costantemente tra la finzione dipinta e il dipinto della finzione. La finzione sta anche nel fatto che lo spettatore godeva in quel caso di uno sguardo che altrimenti era consentito solo al re. Alla geometria della stanza viene sovrapposta una geometria degli sguardi. Da entrambe le parti della cornice, qui davanti e là dietro, personaggi che guardano e che sono guardati si assegnano reciprocamente i posti in questo spettacolo. Il gioco degli sguardi coinvolge lo spazio invisibile dinnanzi al quadro, occupato da chi sta al di qua, insieme a noi. Noi vediamo gli sguardi visibili ed intuiamo quelli invisibili che reagiscono l’uno all’altro. Gli sguardi dipinti superano i limiti della cornice. I personaggi nel dipinto ci guardano come se ci potessero vedere. Lo spazio davanti al dipinto continua quasi senza soluzione di continuità nello spazio nel

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dipinto. Questa illusione ottica era ancora più compiuta quando il quadro si trovava nella sua originaria posizione nella sala dipinta in proporzione 1 : 1 , certo poggiato sul pavimento. Nella sua gigantesca dimensione il dipinto – uno specchio sui generis – superava il formato degli specchi del tempo e si opponeva a sua volta allo specchio di piccole dimensioni dipinto sullo sfondo, cosa che accresceva ulteriormente la differenza tra dipinto e specchio (fig. 5). Quel che oggi ci lega ai personaggi nel dipinto sono i loro sguardi, che però nel frattempo sono diventati una finzione, ed erano una finzione già allora, in quanto permettevano uno sguardo indiscreto sulla vita quotidiana della corte. Velázquez assume la regia degli sguardi, che nel contempo esibisce le regole dello spazio visivo della corte. Tale regia lusingava cortesemente la coppia reale offrendole la possibilità di concedersi al mondo nello sguardo dipinto ma nel contempo le permetteva di mantenere una sovrana distanza da esso. Nel caso del re la vicinanza fisica sarebbe stata senz’altro un’eccessiva confidenza. Per lo spettatore di oggi il mondo al di là della cornice si riflette in modo asimmetrico perché questi guarda un tempo altro, che gli viene incontro nella sua presenza allucinatoria. La cornice del dipinto non solo ci lega a tutti quelli che dall’altra parte ricambiano il nostro sguardo, ma ci separa nel contempo da loro, giacché come spettatori rimaniamo oggi nel nostro corpo e nel nostro tempo, esattamente come i personaggi dipinti rimangono nel passato e lì sono presenti iconicamente. Nella stanza che Velázquez ha dipinto, abbiamo accesso solo con gli occhi, ed è in questo modo che vi penetriamo, per così dire, senza corpo. L’ analogia con la nostra situazione sta nel fatto che nello sguardo prendiamo posizione rispetto al mondo come se fossimo in un luogo estremo: in ciò sta l’autosuggestione del soggetto. Il dipinto spagnolo rivela la finzionalità che giace nello sguardo e ribadisce l’antico esercizio di simulare la realtà del mondo quanto più illusionisticamente possibile. Alla corte di allora ogni sguardo era limitato da regole morali e guidato da codici sociali. Ma era altresì circondato costantemente dagli sguardi segreti degli altri cortigiani che lo minacciavano o gli tendevano delle trappole. Quale che sia la cosa rappresentata in questi quadri, e per quanto Velázquez si sia

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spinto nella sua riflessione sulla pittura nella pittura, il tutto culmina in uno spettacolo dello sguardo che offre anche allo spettatore un ruolo nella pittura e lo costringe ad interrogarsi suoi stessi presupposti. In ciò la giustapposizione di essere e apparire, di vita e pittura, diviene un amalgama in cui il pittore invita il suo pubblico a svelare il gioco e rendersi consapevole del proprio sguardo. Le meninas velarono il confine tra essere e apparire grazie ad un formato che mostrava i personaggi a grandezza naturale e aumentarono questa illusione grazie alla loro originaria collocazione, poiché sul pavimento della stanza del palazzo il passaggio tra la realtà e l’immagine in cui l’interno si prolungava senza soluzione di continuità era appena percepibile. Di norma una cornice orienta a tenere separati essere e apparire, anche quando i pittori in maniera ludica e intrigante hanno giocato con questo “confine estetico” per ingannare lo spettatore o lasciarlo partecipare al gioco. 4. Lo spettacolo dello sguardo dipinto è diventato l’immagine riflessa della cultura occidentale che si è definita grazie allo sguardo. Sguardi che scivolano oltre la cornice, come se questa non esistesse, erano le regole di base dell’illusione. Lo spettatore veniva indotto a collocarsi oltre la cornice, così come facevano anche le figure dell’immagine nell’opposta direzione, e in tal modo poteva essere altrove con l’immaginazione, cioè all’interno del quadro. È stato di fatto un principio dell’estetica moderna l’invitare lo spettatore a intrufolarsi nella scena e mescolarsi ai personaggi del quadro anche se questo nel caso della pittura è rimasto solo una finzione ben architettata. Nel teatro o nell’opera la scena era effettivamente aperta a tutti durante le feste e le visite di stato, tanto che venne a mancare la soglia della platea. In quelle occasioni, la società si presentava come se fosse essa stessa uno spettacolo che poteva essere fruito dai palchi, uno spettacolo di attori o cantanti che andavano in scena. La pittura barocca ha forzatamente creato sui palcoscenici e nelle chiese una spazialità finzionale che travolgeva lo sguardo e a volte addirittura lo accecava. Ma già durante il Manierismo incontriamo lo spettacolo dello sguardo in stanze dipinte, che oggi noi chiameremmo installazioni perché trasformano spazi reali in spazi virtuali.

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I colossali convivî e le feste nei dipinti del Veronese che nei refettori dei conventi riempivano un’intera parete, sono una forma intermedia tra pittura murale e quadro. In questo caso il pittore teneva davanti alla sua società una sorta di specchio gigante. E i veneziani vi si sarebbero improvvisamente riconosciuti se solo fossero andati alla ricerca di sé stessi tra la moltitudine dipinta. Nella Villa Barbaro di Maser, intorno al 1560, il Veronese sviluppò lo spettacolo dello sguardo affrescando un intero edificio e portando alle estreme conseguenze la confusione tra essere e apparire. Il trompe l’œil, l’“inganno dell’occhio” è qui l’unico ed esclusivo obiettivo dell’artista. Gli spazi reali per gli inquilini si trasformano senza soluzione di continuità in spazi virtuali nei quali i visitatori o la servitù entrano in scena come esche per l’occhio, mentre altri familiari s’affacciano curiosi da balconi fittizi. L’ illusione dipinta crea come dal nulla una sorta di zona cuscinetto irreale tra l’immagine e la realtà, apparentemente già davanti alla parete dipinta e dunque ancora nello spazio abitativo reale, in cui l’occhio dell’inquilino non può registrare immagini né scorgere la realtà. Così lo spettatore era costretto a perdersi nel suo proprio mondo, un mondo la cui realtà gli sfuggiva tanto da sembrargli essa stessa un palcoscenico senza vie d’uscita. Nell’ingresso di questa villa veneziana false statue s’innalzano in nicchie impossibili, mentre gli inquilini dipinti aprono porte fittizie dalle quali non potranno mai uscire10. Nella sua monografia sul Veronese, Hans Dieter Huber dedica alle relazioni tra gli sguardi un intero capitolo nel quale dà conto anche di regole generali dell’estetica moderna11. Lo “sguardo ricambiato” che lo spettatore vede puntare su di sé improvvisamente in un’immagine disorienta lo sguardo, ovvero lo costringe a sfuggire allo sguardo dipinto o ad accelerare il proprio vagando sulla superficie dipinta. Quando lo spettatore si sente osservato reagisce come se si trovasse in un ambito in cui gli sguardi tra i soggetti conquistano terreno o annientano. Per questo le figure che guardano da un’immagine fungono da shifter nel senso indicato da Umberto Eco. Sono “figure intermedie” che dettano nuove regole per lo sguardo dello spettatore. La questione sta nel comprendere che cosa questo spettacolo dipinto significhi per la società che vi si riconosce e che trova

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rispecchiata la propria prassi visiva nella finzione. Nella Venezia del Veronese la questione è palese, visto che in quel caso la società esprimeva uno spettacolo permanente in cui i singoli membri si definivano in base al ruolo svolto sulla scena. 5. Se rivolgiamo uno sguardo complessivo alla storia delle immagini nella modernità possiamo individuare diverse prassi dello sguardo il cui spettro necessita ancora di una sistematizzazione definitiva. Sia che gli sguardi rimangano nell’immagine o la trascendano per aggredire lo spettatore, la questione viene decisa dalla situazione e dal tema. E questo a partire dalle azioni mute, perché solo dipinte, che spesso occorre decifrare in base alle relazioni tra gli sguardi. Huber descrive questo metodo come “prospettiva d’azione” che il sistema dell’immagine costruisce sulla base delle relazioni tra gli sguardi12. Qui la pittura è già molto più avanti del film muto, in cui gli sguardi si muovono intradiegeticamente tra gli attori e vengono messi in scena extradiegeticamente per il pubblico. Tuttavia il film muto non riusciva a rendere del tutto trasparente l’azione e per questo c’era necessità di brevi testi esplicativi (l’epoca d’oro del film muto non durò a lungo). Nella pittura narrativa gli sguardi hanno giocato un ruolo sia comunicativo che emotivo, facendo sì che lo spettatore partecipasse del significato o fosse costretto a identificarsi con le vittime o con i carnefici. Una narratologia degli sguardi rappresentati dovrebbe distinguere attentamente tra sguardi “parlanti” e sguardi “muti” – si potrebbe dire metaforicamente – perché in tal modo possiamo distinguere tra personaggi che trascinano l’azione e personaggi che, anche nello sguardo, sono solo spettatori passivi. Nel repertorio degli sguardi dipinti si sono preferiti motivi che fecero dello spettatore “desiderante” un voyeur e che “fissavano” letteralmente il suo sguardo. Sulla soglia del dipinto le interdizioni dello sguardo non esistevano perché esse venivano infrante solo nella finzione. Ma era poi così sicuro che lo spettatore acconsentisse alla finzione e sapesse resistere alla confusione di apparire ed essere? Se nella pittura gli era concesso di ammirare quello che nella realtà non poteva mai vedere, gli si poteva anche imputare un piacere proibito

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il cui fascino stava proprio nel divieto? L’ erotizzazione dello sguardo veniva realizzata grazie ad alcuni cavalli di battaglia, tra cui certi temi biblici come i due vecchi calunniatori che spiano segretamente Susanna mentre fa il bagno in giardino, o l’adultero re David che guarda da lontano attraverso la finestra la sua Betsabea che si bagna, scene che catturavano lo spettatore nella dissoluta ambivalenza tra desiderio e soddisfacimento. Davanti all’immagine lo spettatore si trasformava impercettibilmente in un perfetto voyeur, e sapeva che quel nudo di donna era messo in scena per lui solo. Lo sguardo sessuato non poteva sospendere nel territorio dell’arte il suo subtesto sessuale. Anche quando lo sguardo lascivo diveniva un tema intradiegetico, lo spettatore esterno rimaneva il suo primo destinatario. Il corpo della donna era certo un oggetto della pittura ma rimaneva anche un oggetto di un piacere scopico che non si limitava all’arte. Artisti e pubblico sono stati concordi nel sublimare, in nome dell’arte, lo sguardo erotico con quello estetico e in tal modo hanno ufficialmente neutralizzato il primo. Per questo le immagini di Venere del Rinascimento hanno occultato in un ideale artistico il loro subtesto erotico13. Mentre Amore infiammava le sue vittime con la sua freccia, il corpo dipinto di Venere risvegliava il desiderio per il corpo reale. Fatti e finzioni abitavano nello stesso sguardo. Il fatto consisteva in un corpo femminile dipinto in base a un modello in carne ed ossa, la finzione in una dea che dava un nome immaginario alla rappresentazione del proprio corpo. Una finzione era anche l’intimità dipinta con un corpo di cui si sapeva fosse fatto solo di tela e colori. L’ attrattiva per lo sguardo ne poteva solo essere enfatizzata. L’ ambivalenza di estetica ed erotica ha retto il gioco per alcuni secoli. L’ arte trasse vantaggio dai motivi erotici, mentre l’erotismo veniva legittimato in quanto rendeva questo servizio all’arte. L’ erotismo catturò uno sguardo che l’arte non avrebbe mai potuto attrarre con tale intensità facendo ricorso ai suoi soggetti, e allo stesso tempo lo diresse verso un senso estetico offrendogli un piacere sensibile. Lo sguardo erotico è stato di volta in volta orientato dalla società in cui un’immagine veniva dipinta. Questo vale sia per la cortigiana della corte rinascimentale che Tiziano dipinge in un interno, sia per la donna

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del mondo borghese dell’Olanda che in Rembrandt possiamo seguire sin nella camera da letto per quanto anche in questo caso rimaniamo nell’ambito di un’élite sociale che si divertiva con l’arte. Rembrandt dipingeva in questo senso una Danae diversa da Tiziano nonostante avesse scelto la medesima figura mitologica e forse con maggiore soddisfazione per via del contesto fortemente bigotto che guardava con sospetto alla morale borghese. I quadri di Susanne e di Lucrezie attraggono e frustrano nella stessa misura il desiderio erotico. Il rapporto tra pornografia e arte variava a seconda del modo scelto ma era comunque implicito nel medium visuale della pittura e della grafica14. In un dipinto di età matura conservato al Louvre, all’incirca del 1654, Rembrandt sceglie drasticamente come tema il conflitto tra morale e arte, tra cultura di corte e cultura borghese (fig. 9)15. Betsabea, una parente borghese della Venere di Tiziano, si presenta nuda al bagno in una presa ravvicinata che riempie la tela nel momento in cui ha già indossato i gioielli nuziali e si sottopone al trucco. Ma noi scorgiamo anche un’intima lacerazione in questa donna. Betsabea ha appena letto la lettera di fidanzamento dell’adultero re David, che la vuole in moglie, e medita in un misto di eccitazione e rassegnazione sul suo futuro destino deciso dal reale pretendente. Qui il corpo erotico si fa individuo. Il pittore fa sì che lo sguardo erotico e quello morale si condizionino a vicenda. Con questa semantica lo sguardo del desiderio si trasforma anche, nello spettatore, in uno sguardo di vergogna. Forse il dualismo è la vera ragione d’essere di questo dipinto e lo ha protetto dalla censura. Gary Schwarz ha fatto notare che questo dipinto è stato prodotto nello stesso anno in cui Hendrickje Stoffels, che fece da modello per la Betsabea, era stata chiamata in giudizio per una liaison illecita con Rembrandt, e Mieke Bal ha tratto da ciò la convinzione che il quadro fosse stato considerato una provocazione16. Re David è rappresentato nel dipinto solo dalla lettera in cui chiede la mano della donna sposata: un’interpretazione avvalorata dalla diffusione delle lettere d’amore nella pittura olandese. Lo spettatore è nello stesso tempo voyeur, al posto del re invisibile, e censore che si distanzia dal contenuto della lettera. L’ immagine è nel contempo esibizionista e respingente. Lo sguardo peccava non solo guardando alla nudità, ma anche quando leggeva, come la donna nuda, la richiesta proibita. Solo la

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censura morale, conoscendo l’esito della vicenda biblica (Sam. 2, 11), permetteva allo sguardo erotico di accedere all’immagine purché si identificasse con la riflessione del melanconico sguardo della donna. La complessità degli sguardi si esauriva solo con lo spettatore esterno. 6. Ma lo spettro degli sguardi in pittura è ben più ampio degli ambiti fin qui discussi. La pittura attiva il nostro sguardo sempre e di nuovo, in quanto partecipi e complici di un’azione dipinta come quando in teatro seguiamo un complotto di cui è vittima l’ignaro eroe. Che lo vogliamo o no, siamo coinvolti nel complotto senza poter avvertire la vittima: in tal modo il nostro sguardo si rende colpevole. La situazione teatrale della pittura, per quanto in un ambito più intimo del grande palcoscenico, si chiarisce definitivamente. I giocatori d’azzardo e gli indovini hanno per tutto il X V I I secolo un gran successo come soggetti che tematizzano l’inganno e la credulità degli uomini attraverso la concentrazione su una società degli sguardi e sugli sguardi nella società. In due dipinti Georges de La Tour varia il motivo del “baro” (tricheur) che ci svela il trucco mostrando a noi la carta di quadri e di picche che la sua vittima ovviamente non può vedere (fig. 7) 17. Il “figliol prodigo”, come è detto nella Bibbia, che si è trasformato in giocatore d’azzardo, se il gioco andrà avanti sarà derubato di tutto il suo patrimonio al cospetto di una dama di facili costumi che partecipa alla truffa con complici ammiccamenti. La parabola biblica in costume moderno sembra offrire una facile giustificazione a questo nuovo tema in quanto non si tratta in prima istanza della morale ma della pericolosità degli sguardi nel mondo. Il giovane ignaro getta uno sguardo sulle carte disposte sul tavolo da gioco senza notare che alle sue spalle gli altri scambiano tra di loro sguardi furtivi e addirittura ci coinvolgono. È prigioniero di una rete di sguardi che rappresenta la società (malata). Il gioco d’azzardo è sia una metafora della vita umana sia un appello ad opporsi al mondo con lo sguardo. Era solo un’occasione per tematizzare lo sguardo sociale. Già Hieronymus Bosch aveva introdotto la tematica dell’indovino i cui complici tagliano le borse agli spettatori che guardano incantati.

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Il tema dello sguardo nella pittura di carattere storico non ha ancora trovato un interprete in grado di cogliere l’intero panorama. Ci sia consentito in chiusura di aggiungere un’ulteriore variante con cui giungere all’illuminato X V I I I secolo. Nel momento in cui i pittori si presentano come complici e concorrenti dei dispositivi della visione non solo ci conducono in un esteso labirinto della percezione ma si esercitano in un gioco che sovverte le regole della visione cortese e che trova un suo limite negli esperimenti naturali. Durante il suo secondo soggiorno alla corte prussiana, il francese Amédée Van Loo dipinse nel 1764 due immagini quadrate dello stesso formato che oggi si trovano alla National Gallery di Washington e furono di proprietà di Amalie, sorella di Federico il Grande18. In entrambe una cornice interna, dipinta, viene utilizzata dalle figure come fosse il telaio di una finestra dalla quale si affacciano verso di noi. Nel primo dipinto (fig. 1) il plot consiste nella temporalizzazione dell’immagine statica attraverso la rappresentazione di un momento fuggevole come un respiro. L’ azione, infatti, si concentra sul momento in cui una bolla di sapone si tende prima di scoppiare, anche se questo nel quadro non accadrà mai. Il motivo rappresentava in modo tradizionale l’illusione in una pittura che voleva far dimenticare la propria immobilità grazie all’espressione della momentaneità, ovviamente solo simulata. Questa volta però è diventato un gioco da bambini nel senso letterale del termine. Tre bambini partecipano al gioco. Il più grande si concentra sulla bolla di sapone che sta gonfiando, mentre sua sorella alza il grembiulino come se volesse afferrarla; il più piccolo s’insinua invece nel campo visivo quasi trattenendo il respiro. Gli sguardi della sorella si fissano sul momento seguente che non è ancora accaduto e estendono il glance con cui si carpirà lo scoppio della bolla in un gaze pieno di attesa. Così il quadro produce un doppio sguardo che si autocontraddice. Nel dipinto pendant vediamo una donna con due bambini i cui sguardi attraversano un’intera scala di situazioni scopiche (fig. 4). La madre (?) interloquisce con noi su ciò che sta accadendo attraverso uno sguardo che ci percepisce come spettatori esterni. Il bambino guarda affascinato una lanterna magica con la quale si sporge fuori dalla cornice. La sorella più piccola alza gli occhi pieni di lacrime al

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cielo mentre sfiora la mano del fratello ammonendolo a non lasciarsi andare al consumo delle illusioni. Il dispositivo ottico, le cui immagini artificiali o tecniche sono sottratte alla nostra vista, sembra un intruso nella scuola visiva della pittura e viene persino sottoposto a censura se vogliamo interpretare così lo sguardo e il gesto della bambina. Van Loo aveva in generale una tendenza alle allegorie nelle quali cercava un compromesso tra lo sguardo cortese e lo sguardo sperimentale della scienza. Nell’inventario delle sue opere si cita una machine pneumatique e a Berlino egli ritrasse uno scienziato al microscopio. E il ritratto di Luigi X V, terminato nel 1763, offriva con l’ausilio di una lente uno sguardo anamorfico sulle virtù del re. Un contemporaneo si entusiasmò per l’alleanza tra le «grazie della pittura e il genio della fisica», anche se il pittore Van Loo rimane legato piuttosto ad un programma di retroguardia che il suo sguardo allegorico modernizzò solamente nella messa in scena19. 7. La soggettività dello sguardo del pittore era quindi attrattiva e lacuna nel contempo perché non liberava lo sguardo dello spettatore dalla propria soggettività. Il pubblico moderno, pertanto, salutò la macchina fotografica come la liberazione da tutta la soggettività che pure lo caratterizzava e amò assoggettarsi ad un apparato meccanico che non era inficiato da un’intenzionalità, ma sembrava garantire l’imparzialità della percezione. L’ “occhio armato” divenne complice dell’occhio umano, ma era sottinteso che occorresse credere ciecamente all’immagine meccanica. I nuovi media attraggono lo sguardo insaziabile in ambiti che altrimenti sarebbero rimasti inviolati, gli suggeriscono di poter vedere qualcosa che in verità è sempre filtrato da un occhio meccanico e dunque per questo era tradotto e straniato. Le immagini a cui deleghiamo la nostra percezione ebbero un ruolo particolare nella fotografia. La loro forza probante diede allo spettatore l’illusione di essere o essere stato in prima persona un testimone oculare. Al contrario, il mondo delle immagini virtuali dell’era post-fotografica è stato creato con l’esplicita finalità di sottrarre lo spettatore ai limiti della realtà di cui per altri versi era tanto fanatico. Lo sguardo diede così il benvenuto alla finzione che in altre occasioni aveva snobbato. Il che dimostra che

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nella storia della percezione tali strategie non si contraddicono ma anzi si supportano vicendevolmente. Sia che controlli la realtà sia che la fugga, lo sguardo ne è stato per lo più vittima. Un’iconologia dello sguardo rappresenta il tentativo di ricondurre lo sguardo alle immagini che lo hanno attratto o respinto. Lo sguardo in sé è irrappresentabile e rimane storicamente incomprensibile anche se si portano a testimonianza testi che descrivono la sua prassi e che comunque lo presuppongono e lo criticano. Anche nelle immagini lo sguardo è implicito in ciò che esse stesse gli offrono e nei tabù con cui gli pongono dei limiti. Tuttavia le immagini rendono lo sguardo un oggetto del proprio desiderio mostrando ciò che esso cerca o ciò che esso fugge nell’immagine, e in questo modo rendono lo sguardo cosciente di se stesso e utilizzabile. Le immagini interagiscono direttamente con lo sguardo, mentre i testi possono farlo solo di seconda mano. La discrasia tra sguardo e motivo riconduce comunque allo sguardo. L’ iconologia è stata il metodo con cui tradizionalmente ci si è occupati delle opere d’arte, come se esistessero per sé stesse, senza lo sguardo. Se il concetto di iconologia si applicasse allo sguardo, si ricostituirebbe una relazione che questo metodo aveva dissolto. Ciò significherebbe rendere visibile e controllabile uno sguardo che ha proiettato su immagini esteriori e dipinte le proprie immagini mentali. Ma questa prassi dello sguardo, se la applichiamo alla pittura e alla fotografia, è necessariamente un dominio dell’immaginazione, giacché noi finiamo per animare questi media al fine di penetrarli con lo sguardo. E forse l’immaginazione, in quanto condizione dello sguardo, prevale su ciò che chiamiamo percezione.

NOTE

1. Il presente testo è parte integrante del mio progetto di ricerca su sguardo e immagine che ha preso le mosse dalle mie lezioni al Collège de France nel 2003. 2. M. Jay, Downcast Eyes. The Denigration of Vision in 20th Century French Tought, University of California Press, Berkeley 1993 e K. Silvermann, The Threshold of the Visible World, Routledge, New York-London 1996, pp. 125 ss. e 163 ss. 3. N. Bryson, Vision and Painting. The Logic of the Gaze, Yale University Press, New Haven 1983, pp. 87 ss.

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4. M. Bal, Reading Rembrandt, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 142 ss. 5. A. Müller, Die ikonische Differenz. Das Kunstwerk als Augenblick, Fink, München 1997, pp. 218 ss. e M. Foresta (a cura di), Perpetual Motif. The Art of Man Ray, Abbeville Press, New York 1988, pp. 252 ss. e fig. 212. Si cfr. anche S. Majetschak, Die Modernisierung des Blicks, in M. Hauskeller (a cura di), Die Kunst der Wahrnehmung, Graue Edition, Zug 2003, pp. 308 ss. 6. M. Foresta (a cura di), Perpetual Motif. The Art of Man Ray, cit., fig. 160 e Man Ray, Self Portrait, Bulfinch, London 1999, pp. 99 ss. 7. A. Beyer, Das Porträt in der Malerei, Hirmer, München 2002, pp. 168 ss. e fig. 109. 8. H. Belting, Das unsichtbare Meisterwerk, C.H. Beck, München 1998, pp. 366 ss. per M. Duchamp e cfr. A. Bonnet, Akt bei Dürer, König, Köln 2001, pp. 58 ss. 9. M. Foucault, Les Mots et le choses, Gallimard, Paris 1966, pp. 19 ss. (Le parole e le cose, trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1998). Sulla storia della ricezione del dipinto e sul dibattito dopo Foucault cfr. C. Kesser, Las Meninas von Velázquez. Eine Wirkungs- und Rezeptionsgeschichte, Reimer, Berlin 1994, in particolare pp. 143 ss. 10. H.D. Huber, Paolo Veronese. Kunst als soziales System, Fink, München 2005, pp. 283 ss., sul significato dello sguardo e pp. 286 ss. sullo sguardo ricambiato. 11. Ibidem. 12. Ibidem, p. 285. 13. B. Hinz, Aphrodite. Geschichte einer abendländischen Passion, Hanser, München 1998, e numerosi saggi dello stesso autore. 14. M. Bal, Reading Rembrandt, cit., p. 155. 15. Ibidem, pp. 141 ss. e 216 ss. 16. G. Schwartz, Rembrandt, Schwartz, Maarssen 1984, p. 292 e M. Bal, Reading Rembrandt, cit., p. 225. 17. G. Feigenbaum, Gamblers, Cheats and Fortune-Tellers, in Ph. Conisbee (a cura di), Georges de la Tour and His World, National Gallery, Washington 1996, pp. 150 ss. e catalogo nn. 18-19. Cfr. J. Thuillers, Georges de la Tour, Flammarion, Paris 1993, pp. 134 ss. 18. S. Ebert-Schifferer (a cura di), Deceptions and Illusions. Five Century of Tromp l ’Œil Painting, National Gallery, Washington 2002, p. 278. 19. Ch. Oulmont, Amédée Van Loo, in «Gazette des Beaux-Arts», 2 (1912), pp. 148 ss.

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1. Amédée van Loo, Bulles de savon, 1764, National Gallery of Art, Washington. 2. Man Ray, Portrait of Jean Cocteau, 1922. 3. Parmigianino, Autoritratto in uno specchio convesso, 1524, Kunsthistorisches Museum, Vienna. 4. Amédée van Loo, Laterna magica, 1764, National Gallery of Art, Washington. 5. Hans Belting, Allestimento de Las Meninas al museo del Prado. 6. Jan Vermeer, De Schilderkonst, 1662-1668, Kunsthistorisches Museum, Vienna. 7. Georges de la Tour, Le Tricheur, 1640, Louvre, Parigi. 8. Diego Velázquez, Las Meninas, 1656, Prado, Madrid. 9. Rembrandt, Betsabea, 1654, Louvre, Parigi. 10. Man Ray, Indestructible Object (or Object To Be Destroyed), 1923.

Andreas Beyer

Il volto: descr itto, dipinto, letto

Questo saggio è dedicato ad un oggetto che può essere considerato a pieno diritto una vera e propria ossessione della cultura visuale: il volto, il viso, la faccia. L’ astronomo, matematico e fisico Georg Christoph Lichtenberg ci ha ricordato che «la superficie più dilettevole sulla terra è quella del volto umano»1. È ormai convinzione comune che i circa cento centimetri quadrati del volto siano la parte del mondo più esposta e predisposta alla lettura e all’interpretazione (Gottfried Boehm). Questo vale per le arti visive come per la letteratura. Il volto – letto come superficie che dà adito all’invisibile, cioè al carattere – non sembra essere stato oggetto della letteratura medievale. Se prima dell’Umanesimo le figure letterarie non sembravano disporre di un volto individuale immaginabile o interpretabile ma soltanto descrivibile, ciò dipendeva dal fatto che non esistevano né una teoria né un’apertura epistemologica tali da far nascere in letteratura l’interesse per i tratti inconfondibili dei suoi protagonisti. Inoltre, anche se il termine “volto” era già in uso, non era inteso come allusione ad un fenomeno che indirizzava lo sguardo verso qualcosa di invisibile, una sorta di immagine rappresentativa, ma era considerato piuttosto come delimitazione di una visione strettamente esteriore e riferita al corpo intero, alla figura. Oggetto della fantasia letteraria preumanistica non è il viso, bensì il “bel corpo”. Pertanto i poemi di quel periodo ne descrivono la superficie: la forma, le sembianze, i vestiti ma anche gli occhi, la bocca, il colore della pelle, i

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capelli, la fronte, le guance ecc. Il volto è certamente osservato ma non viene, per così dire, interpretato. Ci sarebbero voluti altri interessi e uno specifico sistema epistemologico affinché la superficie costituita dal volto venisse scoperta come strumento primordiale per “leggere” l’apparenza fisica come “testo che significa l’anima”. Infatti, grazie ai suoi primi teorici e “praticanti”, la fisiognomica riuscì a produrre riflessioni che andavano dall’esteriore all’interiore e viceversa. Essa condizionò non l’arte del ritratto – promossa soprattutto dal nominalismo e cioè dall’insistenza su ciò che è ben visibile e che ne costituisce il fondamento – bensì la comparsa del viso come immagine letteraria. Sembra che questo cambiamento davvero paradigmatico trovi uno dei suoi momenti fondativi nelle poche righe con le quali Cervantes presenta il Don Chisciotte: «col viso asciutto, amante d’alzarsi presto al mattino e appassionato della caccia»2. Questo schizzo conciso di Cervantes mostra come egli associ l’espressione fisica del volto ai tratti del carattere, al temperamento del suo protagonista e alle sue abitudini. Tutto il Seicento sviluppò un interesse particolare per le questioni fisiognomiche. Hans Jakob Christoffel Grimmelshausen, per esempio, descrive il suo eroe Simplicissimus (1668-1669) «un buon matematico e sapeva trar bene l’oroscopo, ed era inoltre un ottimo fisionomista e chiromante»3. Ma la letteratura quando descrive i volti ricorre spesso all’arte visiva; si sa che molti protagonisti dei romanzi di Balzac, descritti in dettaglio nella loro fisionomia sono costruiti secondo i modelli dei quadri di Rubens. La fisiognomica (in greco “giudicare la natura secondo la natura”) come dottrina dell’espressione fisica dell’anima, in particolare del volto e della testa, è stata per la prima volta sviluppata in modo sistematico da Giambattista della Porta nel suo De humana physiognomia, anche se sin dall’antichità si è manifestato un interesse, mai sopito, per tali questioni. Ma è soprattutto con i Physiognomische Fragmente zur Beförderung der Menschenkenntnis und Menschenliebe, 1775-1778 (Frammenti fisiognomici per la promozione della conoscenza e dell’amore dell’uomo) di Johann Caspar Lavater che la fisiognomica trova piena diffusione. È necessario sottolineare però che anche Lavater per sviluppare la sua “scienza” si è servito di immagini. Nella sua collezione

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si trovano più di 20 000 disegni, stampe, miniature e pitture. Inoltre egli non si limitava soltanto a collezionare: commissionò anche opere ad un gran numero di artisti che collaborarono al suo progetto. Utilizzava soprattutto la silhouette, lo Schattenriss, suo strumento prediletto per praticare la Seelenkunde, che sarebbe meglio tradurre con “scienza del carattere” o “tipologia fisio-caratteriale” piuttosto che con il termine “psicologia”. Con la silhouette Lavater mirava ad una riconoscibilità maggiore, ad una uniformità che però si rivelerà pura illusione, poiché il profilo nero diviene una vera e propria Leerstelle, uno spazio vuoto che nella sua anti-iconicità potrà essere riempito dalle speculazioni infinite della poesia. Per Lavater il “contorno” – un indice dell’estetica neoclassica in generale – significava “parola di Dio”, sagoma della verità. Lavater prediligeva il profilo. Se il volto visto frontalmente permetteva solo limitatamente l’articolazione di specifici tratti, la linea, la sagoma, in quanto “copia dalla natura”, permetteva di concentrarsi sulle caratteristiche individuali: forma del cranio, della fronte, del naso, del mento. Attraverso i feste Teile, cioè i tratti fissi (tra cui anche le orecchie, il contorno delle labbra, gli occhi e le sopracciglia), Lavater tentava di dedurre la vicinanza oppure la lontananza dell’individuo da un presunto ideale. Nel suo trattato le osservazioni sulla silhouette definiscono una norma che ha come prototipo la figura di Cristo. In essa, secondo Lavater, si articola quella «armonia etica e fisica» che egli vede realizzata, per esempio, nelle figure di Cristo di Hans Holbein il Giovane. Non a caso Lavater fece ricorso alla rappresentazione frontale del volto per delineare i tratti di Cristo: il “faccia a faccia” con Dio gli permetteva teleologicamente – e teologicamente – di ritrarlo come prototipo umano. Ma il ricorso a Holbein costituisce un altro esempio di uso delle immagini che non tiene conto delle regole della loro invenzione. Ulrich Stadler e Karl Pestalozzi hanno studiato l’impianto escatologico della dottrina di Lavater. Si tratta in effetti di un recupero della figura di Cristo che, secondo questo sistema di armonia tra perfezione interiore ed esteriore, dovrebbe essere, quanto al volto e alla figura intera, l’uomo più bello. La dottrina di Lavater, di ispirazione e matrice cristiana, cercava perciò di distinguere nel volto tra

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bene e male, in base a parametri etici ed estetici e secondo un procedimento che è stato giustamente definito un “tribunale continuo”. Inoltre il metodo di Lavater è stato interpretato non solo come un’epistemologia volta a determinare le relazioni tra esteriore ed interiore, ma anche come apologia di un dono quasi divinatorio, di un “vedere divino” che sottolinea con insistenza l’evidenza dello sguardo e lo preferisce all’evidenza del linguaggio o a quella del discorso. È proprio per evitare il narrativo che Lavater si basa sui tratti fissi (feste, stehende Teile), praticando quindi la fisiognomica senza prendere in considerazione il “carattere in movimento” (tema invece della patognomica). Si tratta di qualcosa che sta al di là della retorica: è piuttosto, come è stato detto, una semiotica dei tratti fissi del corpo. Le descrizioni, i commenti di Lavater, infatti, sono brillanti ma laconici. Un’evidenza costitutiva dell’immagine, quindi, che oppone l’immediatezza dei segni del corpo all’ambiguità dei segni del linguaggio. È vero che Lavater trovò molti sostenitori già nella sua epoca (anche Goethe fu tra questi, seppur per un breve periodo). Ma più numerosi furono i suoi avversari. Fra questi, Georg Christoph Lichtenberg fu forse il critico più eloquente. Egli osservò infatti che «se la fisiognomica di Lavater venisse condotta alle sue estreme conseguenze allora verrebbero impiccati i bambini, anche prima di commettere quei peccati per i quali meriterebbero la pena di morte»4, un preludio al grande tema della “dialettica dell’Illuminismo” proposta da Adorno e Horkheimer. Anche Lichtenberg però si interessò ai volti. Come ha dimostrato Wilhelm Vosskamp, egli trasformò le condizioni dell’osservazione fisiognomica mettendo l’accento sul linguaggio. Lichtenberg non “ridipinge” le immagini ma le fa “parlare”, tanto che a volte sembra proprio di sentirne la voce. Egli non crede in una lettura oggettiva del corpo e delle sue parti (il volto, per esempio), ne osserva anzi il linguaggio nel contesto della situazione socioculturale, analizzandone la funzione performativa. Nella grande quantità dei segni del corpo risiede l’enigma fondamentale che ne determina il fascino. È una fisiognomica dello stile, sempre rivedibile. Essa cambia la relazione di corrispondenza tra immagine e testo. Lichtenberg rinuncia

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alla tecnica del commento, praticato invece da Lavater. La Lesbarkeit der Welt, la leggibilità del mondo è un’illusione; pertanto l’interpretazione delle immagini è cosa ben diversa dall’esegesi testuale. Lichtenberg insiste sul processo trascrittivo della traduzione delle immagini in lingua (testo), al quale attribuisce – grazie alle possibilità del congiuntivo e della metaforica – un’esattezza che Lavater aveva attribuito esclusivamente alle immagini. Il congiuntivo, per Lichtenberg, è il segno della critica. Si vedano le sue spiegazioni o meglio i “commenti” alle stampe di William Hogarth. Lavater e Lichtenberg trattano il problema della leggibilità del mondo all’interno della questione del rapporto immagine/testo e testo/immagine. Ma al contrario di Lavater che parte dall’evidenza dell’immagine, Lichtenberg usa le immagini come base per un processo di trascrizione che mette al centro dell’attenzione il testo, le sue potenzialità e i suoi limiti epistemologici. Lavater si è sbagliato nell’attribuire univocità all’immagine. E forse Lichtenberg, insistendo sul congiuntivo nella descrizione del volto, si è inconsapevolmente avvicinato di più all’arte della ritrattistica perché questa può essere descritta come un progetto, una forma di possibilità, una Möglichkeitsform, un’ipotesi circostanziale. I ritratti non agiscono: sono l’indicazione di un’azione avvenuta o il segnale di un agire ancora da compiersi. Non c’è museo, non ci sono gallerie dove la disposizione dei quadri non venga scandita dai ritratti. Fra tavole e tele di soggetto storico, paesaggi, nature morte o quadri di genere emergono in un ritmo continuo (anche se, temo, non criticamente ponderato) i ritratti, i quali – benché siano ovviamente legati alla loro epoca nella forma o nel decoro, nel costume o negli accessori – delineano un particolare percorso di vita attraverso le sale. Certamente ci saranno Zeitgesichter, visi legati ad un’epoca, e cioè casi in cui i modi di rappresentazione e di espressione, gli atteggiamenti determinano anche la fisionomia dei volti e permettono di collocarli nel tempo. Ma fronte ed occhi, naso e bocca sembrano esercitare attraverso i secoli e attraverso le epoche un certo fascino, una particolare seduzione del riconoscimento; nella loro immediatezza si rivolgono, senza alcuna dimensione storica, allo spettatore. Nei labirinti delle

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storie dell’arte, il ritratto assume infatti il ruolo di “alter ego” dello spettatore. In genere egli non guarda in faccia la persona sconosciuta, cerca corrispondenze. Il ritratto è una delle vere e proprie costanti dei diversi generi dell’arte visiva, anzi si colloca alle sue origini. Una delle prime fonti sulla nascita dell’arte, la Naturalis Historia di Plinio, racconta che il vasaio Butade di Sicione fu il primo a realizzare immagini fedeli alla natura. Per consolare la figlia dell’imminente partenza del suo innamorato, Butade ricavò dall’ombra proiettata sul muro il profilo del ragazzo, ottenendone una sagoma che fu poi riempita di argilla. Questo mito parla dunque di memoria e durata, del potere, proprio del ritratto, di tener presente l’assente nella materia più fuggevole, cioè l’ombra. La sua prima funzione è dunque la rappresentazione. Rappresentazione inequivocabile di un essere determinato. Il ritratto prende il posto, vuoto, della persona assente. Il ritratto trae il suo potere e il suo fascino particolare non tanto da questa funzione, ma anche e soprattutto dal fatto che offre allo spettatore la possibilità di specchiarsi, di iscriversi nel viso dell’altro, in altri termini promette, nel momento della contemplazione, una presenza dentro la cornice. Il volto dell’altro è quindi anche, e forse soprattutto, una Möglichkeitsform, un progetto di possibilità dello spettatore. Non nel senso di un’identificazione, ma nel senso di un gioco di ruoli, una proiezione. Questa è una delle ragioni per cui i ritratti, fino ad oggi, non hanno perso nulla del loro fascino, né della loro attualità. Anzi, la popolarità di questo genere sembra crescere sul mercato, anche fra gli artisti contemporanei e fra i collezionisti. Questo dovrebbe stupire visto che il ritratto, per secoli, fu considerato un genere minore proprio perché era destinato a trasferire somiglianze, fatto che poneva limiti al potere dell’immaginazione, alle capacità inventive dell’artista. Ma è altrettanto vero che, lungo tutto il percorso della storia dell’arte, sono stati gli artisti più ambiziosi a dedicarsi ininterrottamente a questo genere – e non soltanto perché è stato una sorgente inesauribile di commesse. Se Tiziano, Rembrandt o Goya si sono esercitati nel ritrarre volti, ciò è dovuto al fatto che il ritratto fu anche un pretesto per occuparsi d’altro: per esercitarsi nel

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superare i limiti del genere, per fare una cosa e dirne un’altra. E forse in nessun altro genere più di questo si è manifestato un topos della teoria artistica formulata da Leonardo secondo cui ogni «dipintore dipinge se stesso». Tra i numerosi significati di questa affermazione vi è che il pittore s’iscrive personalmente anche nel volto del modello che è chiamato a ritrarre. Infatti, spesso (o sempre?) i ritratti sono autoritratti. Basti pensare all’autoritratto di Angelica Kauffmann (conservato nella Galleria degli Uffizi) e al suo ritratto di Goethe (Goethehaus, Weimar). È noto che Goethe non si riconobbe in questo quadro («È comunque un bel giovanotto, disse, ma non vi è nessuna traccia di me»). E anche per noi è difficile riconoscerlo. Anche perché credo sia assai difficile, anzi, impossibile, sapere quale fosse il reale aspetto di Goethe, sia dal punto di vista fisico che fisiognomico. Sembra infatti – e la Kauffmann è soltanto un esempio tra tanti – che tutti gli artisti chiamati a ritrarlo si siano iscritti nei suoi tratti. Il viso di Goethe assurge a sfondo proiettivo di tutta un’epoca: occhi, naso, bocca, tutto sembra corrispondere tra i due ritratti citati. Inoltre è altrettanto dubbio che l’autoritratto della Kauffmann ci dia un’immagine fedele di se stessa: sembra piuttosto che nel suo contorno si sia iscritta la sagoma del busto di Minerva, posto sulla destra del quadro; profilo non antico ma neoclassico, secondo un modello che per un’intera epoca determinò l’aspetto degli individui in pittura. Ho fatto riferimento a questo caso perché dimostra le enormi difficoltà nel leggere sul viso dipinto (o disegnato, ma eventualmente anche ritagliato su carta nera) una realtà individuale, che spesso non sopravvive neanche nel nome del modello. Infatti, la maggior parte dei nomi dei soggetti ritratti è oggi sconosciuta. Quel che è sopravvissuto invece è l’autore, che nella sua calligrafia pittorica non lascia dubbi sulla propria identità. Ma può chiamarsi ritratto il dipinto del volto di una persona che non ha nome? Sarebbero quindi “ritratti” le rappresentazioni femminili di Vermeer? Mi limito qui a sollevare la questione, senza tentare una risposta. Nel ritratto, in maniera più sovversiva e produttiva che in altri generi, trionfa l’artista, nonostante le condizioni spesso avverse della creazione. E da quando la fotografia – strumento considerato

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molto più fedele nella traduzione della realtà – ha monopolizzato anche il ritratto, la sua libera interpretazione non conosce più limiti. Un’identica tendenza si è ultimamente riscontrata nella stessa fotografia ritrattistica. Ma questa dimensione autopoietica dell’arte del ritratto non ha impedito che il volto, indice specifico dell’espressione fisiognomica, venisse tuttavia considerato come una categoria particolare dell’humanum. Se il ritratto sembra far vedere – oltre la presenza dell’autore – quel che è effettivamente invisibile, identica sarà allora l’ambizione di chi guarda. Da ciò deriva il fascino del ritratto. Gli spettatori leggono i visi dipinti come se fossero paesaggi e vi proiettano vere e proprie corografie della psiche. Si sollevano sulle fronti, si immergono nelle pieghe delle valli, si perdono negli sguardi e si ritrovano nella mimica. Ma il ritratto non è una terra incognita. Lo stato d’animo che si riesce a catturare non è quello dell’osservato, ma quello dello spettatore. Ogni descrizione del ritratto parla inevitabilmente dello spettatore. Su questi diversi gradi di inganno i pittori hanno riflettuto soprattutto nei loro autoritratti. Quello di Johannes Gumpp (l’autoritratto del 1646, conservato nella Galleria degli Uffizi) tratta dei vari livelli di realtà del ritratto e della sua fondamentale lontananza dalla realtà. Il pittore posa con la schiena rivolta allo spettatore. Quest’ultimo si iscrive in quella sagoma e partecipa, come testimone oculare, all’atto di riportare un ritratto su una tela. Due volti quasi identici, illuminati chiaramente, ma con direzioni dello sguardo necessariamente divergenti, fiancheggiano sui due lati la figura del pittore che rimane al centro, nell’oscurità. Sulla sinistra gli risponde il volto riflesso da uno specchio ottagonale, sulla destra il volto dipinto sulla tela. Dalla tavola posta sulla sinistra del pittore un gatto soffia verso un cane che appare in basso sulla destra. L’ inconciliabilità, l’incompatibilità di gatto e cane, in quanto allegoria del contrasto, potrebbe essere ricondotta alla forma necessariamente diversa del volto riflesso nello specchio rispetto a quello dipinto sulla tela, e alludere quindi alla competizione per la rassomiglianza più fedele, più riuscita. Ma credo che nell’autoritratto di Gumpp si articoli una scepsi essenziale, poiché

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l’immagine nello specchio e quella sulla tela si assomigliano molto. Si tratta inconfondibilmente della stessa persona. Ma al vero volto, alla faccia dell’artista – che il pittore, infatti, non rappresenta perché non potrebbe essere nient’altro che un altro viso dipinto – non corrispondono né l’una, né l’altra. Lo spettatore, invece, ha assunto la posizione dell’artista tra i due animali in competizione. È a lui che Gumpp delega l’enigma della sua vera immagine, della “vera icona” dell’artista. Per quanto riguarda l’azione come parte essenziale del ritratto, rimando alla descrizione di Marcel Proust dell’autoritratto di JeanBaptiste Siméon Chardin (si tratta del pastello del 1771, conservato al Louvre, che raffigura l’artista con gli occhiali). L’ immagine presenta un’introspezione artistica: lo spettatore si ritrova fra l’artista e lo specchio, costituito dalle lenti degli occhiali, nel quale il pittore esplora il proprio viso. Chardin, noto soprattutto per i quadri di genere e per le nature morte, si è dedicato all’autoritratto soltanto verso la fine della sua carriera. In seguito ad una malattia degenerativa degli occhi – causata dalla pittura ad olio – egli fu costretto ad abbandonare questa pratica e a ricorrere alla tecnica meno nociva del pastello. E visto che proprio il ritratto era il formato più idoneo per questa tecnica si produsse subito in questo particolare genere. I tre pastelli, esposti al Salon del 1771, tra i quali anche questo con gli occhiali – indicazione inequivocabile del suo difetto fisico – sono quindi documenti di un pittore che sta per ritirarsi. Si tratta di un’introspezione e di una retrospettiva allo stesso tempo. Per un’ultima volta l’autore tiene fede a se stesso e al contempo obbedisce, come dovere, al desiderio principale dello spettatore di voler esplorare l’essenza del volto. Il giovane Marcel Proust ha lasciato una descrizione di questo pastello che non lascia dubbi sul primato della percezione visiva, sul primato del vedere: «Andate a guardare, nella sala dei pastelli, i ritratti che Chardin fece di se stesso a settant’anni. Sopra l’enorme occhialetto, sceso fino alla punta del naso, stretto dai nuovissimi dischi di vetro, in cima ai due occhi spenti, le pupille consumate sono rivolte in alto con l’aria di chi ha visto molto, scherzato molto, amato molto e di chi dice con un tono

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spavaldo e commovente: “Eh sì, sono vecchio!”. Sotto la dolcezza spenta di cui le ha cosparse l’età, le pupille sono ancora di fuoco. Ma le palpebre affaticate, come un fermaglio troppo usato, sono rosse ai margini. Come un vecchio abito che avvolge il corpo, la sua pelle si è anch’essa indurita ed è ormai passata. Come la stoffa essa ha conservato, e quasi ravvivato, i suoi toni rosei e si è ricoperta, qua e là, di una sorta di madreperla dorata. E l’usura dell’una ricorda in ogni momento i toni dell’usura dell’altra, come i toni delle cose che stanno per finire, dai tizzoni che muoiono, le foglie che imputridiscono, i soli che tramontano, gli abiti che si logorano, gli uomini che passano: toni infinitamente delicati, ricchi e dolci. Osservando quel volto, stupisce come la piega della bocca sia esattamente controllata dall’apertura dell’occhio, cui obbedisce anche l’arricciatura del naso. La minima piega della pelle, il minimo rilievo di una vena costituiscono la traduzione molto fedele e singolarissima di tre corrispondenti originali: il carattere, l’esistenza, l’emozione presente. D’ora in poi, spero che, per istrada o in casa, con rispettoso interesse rivolgerete la vostra attenzione a questi caratteri ormai frusti che, se saprete decifrarli, vi diranno molte più cose, più pregnanti e vive dei più venerandi manoscritti»5.

Proust non riconosce quindi al testo (ai “manoscritti”) la facoltà di raccontare e cioè leggere la vita (il mondo). Non dice niente sulla vita del personaggio stesso, niente del suo carattere. Dice soltanto che ha vissuto e che questo è il solo messaggio di quel ritratto. In più riconosce alla pittura, e al ritratto in particolare, ciò che secondo lui nessun manoscritto, né la lingua in generale, sono in grado di raggiungere: l’immediatezza e la totalità dell’espressione che la scrittura riesce soltanto a rendere in modo paratattico, in una successione. Il passo ricorda la discussione stimolata da Lessing nel Laocoonte sui rapporti tra arte e letteratura. Lo spettatore «sente che questi elementi disposti uno dopo l’altro non possono affatto avere lo stesso effetto di quelli disposti l’uno accanto all’altro; che lo sguardo sintetico […] non ci fornisce un’immagine unitaria; che va al di là della immaginazione umana rappresentarsi che effetto hanno mai questa bocca, e questo naso, e questi occhi insieme, se non ci sovviene una simile composizione sulla base della natura o dall’arte»6.

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Una vera e propria teoria del ritratto non esiste. Eduard Pommier lo ha dimostrato con il suo recente studio. E la fisiognomica – quella di Lavater come quella di Johann Gottfried Schadow – non ha avuto una vera e propria influenza sull’arte della ritrattistica. I pittori tutt’al più se ne sono serviti quando volevano creare l’opposto del ritratto, cioè la caricatura. «Noi giudichiamo ogni ora dal viso e sbagliamo ogni ora»7: questo aforisma di Georg Christoph Lichtenberg, formulato proprio contro Lavater, invita a cercare in un viso (anche in quello artistico) nient’altro che le forme e le condizioni del suo apparire, ovvero la matrice dell’artista. Forse nessun altro pittore ha steso la propria “calligrafia” inconfondibile sopra i volti dei suoi modelli in maniera più insistente di Amedeo Modigliani. Che si tratti di un “nudo” o di un ritratto, lo spettatore è sempre consapevole di vedere, di avere davanti a sé un quadro dell’artista italiano che fece parte dell’École de Paris. Egli trascrive il modello nelle coordinate (sempre uguali) della sua arte: corpo snello, guance alte, occhi vuoti. In Modigliani ogni quadro sembra affermare il significato latino della parola persona, cioè “maschera”. In particolare negli occhi vuoti che, nella tradizione pittorica e secondo la sua concezione, sono spalancati come “finestre aperte sull’anima”, manca ogni psicologizzazione e individualizzazione. La caratterizzazione individuale si limita, semmai, ai dettagli del volto: le sopracciglia, la pettinatura. Le figure di Modigliani s’iscrivono in un’immagine umana alquanto lirica e melanconica. Quest’ottica si sottopone ad un sistema specifico e severo di forme, con un massimo di economia formale. Tanto più stupisce dunque che tutti i ritratti di Modigliani siano allo stesso tempo testimoni inconfondibili dell’essenza individuale di questi modelli. L’ artista ha spesso dipinto un personaggio due o anche più volte, cambiando positura. Rifiutando lo sguardo sull’interiorità e lasciando partecipare lo spettatore soltanto allo spettacolo esteriore dell’uomo, il pittore afferma il primato della forma e della superficie come area profonda di riflessione. Egli riconcilia la rassomiglianza, compito centrale di ogni ritrattistica, con la bellezza della sua arte. I suoi ritratti assomigliano al modello, ma si somigliano molto più fra loro. Che il ritratto sia innanzitutto un affare dell’artista, un compito

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compositivo, è forse più che ovvio nelle tele di Imi Knoebel, artista contemporaneo tedesco. I suoi “ritratti di donne” si limitano a strutture essenziali del volto: fronte, guance, mento, naso, le aree del volto sono caratterizzate soltanto da colori. Tutti i volti sono uguali e ognuno è diverso dall’altro. Non credo che Knoebel voglia sostituire la pseudoscienza della fisiognomica con quella dei colori (la Farbenlehre). Il colore serve a distinguere, non a descrivere. Ma anche quando il ritratto ritorna in forma figurativa e monumentale, ad esempio nelle gigantesche fotografie dell’artista Thomas Ruff, non dobbiamo farci illusioni. Egli reclama il ritratto come soggetto primordiale dell’arte. Già le dimensioni che presentano un volto di gran lunga più grande del naturale sono indicazioni inequivocabili di rifiuto: rifiuto della profondità. Anche il realismo epidermico che il modello sembra esporre senza pietà sottolinea il contrario. È la superficie che ci riguarda. Nessun dettaglio che descrive l’individuo lascia guardare dentro la persona, racconta del suo carattere o del suo temperamento. Persona è maschera. Gli individui in quanto tali non ci devono interessare. E al posto di speculazioni senza conseguenze, puramente associative e traditrici di noi stessi, si accende la riflessione sulla produzione e sulla tecnica, un racconto astratto sulle possibilità ed i limiti di voler descrivere nel volto dell’altro nient’altro che sé stessi.

NOTE

1. G.Ch. Lichtenberg, Schriften und Briefe, a cura di W. Promies, Hanser, München 1968, vol. I, p. 473. 2. M. de Cervantes, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, Alfaquara, Madrid 2007, p. 28 (Don Chisciotte della Mancia, trad. it. di V. Bodini, Einaudi, Torino 1972, p. 29). 3. H.J.Ch. Grimmelshausen, Der abentheuerliche Simplicissimus, Winkler, München 1956, p. 171 (L’avventuroso Simplicissimus, a cura di E. Bonfatti, trad. it. di U. Dettore e B. Ugo, Mondadori, Milano 1982, p. 147). 4. G.Ch. Lichtenberg, Schriften und Briefe, cit., vol. I, p. 532. 5. M. Proust, Chardin et Rembrandt, 1895, ora in Id., Essais et articles, Gallimard, Paris 1994, pp. 68-78, pp. 72-73 (Chardin et Rembrandt, in Id., Pittori, trad. it. di

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P. Serini, Abscondita, Milano 2006, pp. 11-29, pp. 19-20, traduzione lievemente ritoccata). 6. G.E. Lessing, Laokoon, in Id., Werke, a cura di A. von Schirnding, Hanser, München 1974, p. 129 (Laocoonte, trad. it. e cura di M. Cometa, Æsthetica edizioni, Palermo 20002, p. 79). 7. G.Ch. Lichtenberg, Schriften und Briefe, cit., vol. III, p. 283. BIBLIOGRAFIA

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Iconocr ash. Sul disastro delle immagini

1. Iconocrash è un neologismo che rimanda evidentemente alla fortunata mostra di Bruno Latour, Iconoclash (2002) allestita presso il Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe, il cui sottotitolo era Jenseits des Bilderkrieges in Wissenschaft, Religion und Kunst (Al di là della guerra delle immagini nella scienza, nella religione e nell’arte). Iconoclash segnala per Bruno Latour «un’ambiguità, un’esitazione su come si devono interpretare rispettivamente la creazione di immagini e la loro distruzione»1, dunque è una parola che cerca di descrivere in modo nuovo (Neu-Beschreibung) i gesti di iconofobia e di iconofilia di cui è ricca la storia recente. In prima istanza sarà opportuno concentrarsi sul significato proprio della parola crash che indica effettivamente non solo il “rumore” metallico di uno scontrarsi, il clangore delle armi come il quasi sinonimo clash, ma l’effettivo fracasso rumoroso che segue all’impatto, la distruzione di quel qualcosa che entra in contatto con l’altro, insomma più da vicino il disastro, il fallimento, il crollo, la rovina di ciò che si scontra rumorosamente 2. Di quali immagini si tratta dunque? Si sarà compreso ovviamente: di immagini del disastro3, quelle che abitano costantemente la nostra vita, di immagini in cui si rappresentano le nostre apocalissi quotidiane ma che sembrano fatte apposta per rinviare la fine a data da destinarsi. Mi concentrerò nelle pagine che seguono su pochi abusati cliché della società dello spettacolo (giacché di questo si tratta). Immagini note a tutti (forse non proprio a tutti), che possiamo pensare mentre

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scorrono idealmente tra queste pagine e per le quali cercherò poche parole, non didascalie, spero, ma parole che letteralmente scorrano in sovraimpressione e – come in ogni video che si rispetti – partecipino delle immagini trasformandole in veri e propri iconotesti. E, poiché si parlerà di apocalissi, si tratterà di immagini che tendono più al modello del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, in cui assistiamo ad una concrescenza di immagine e testo, che ad una giustapposizione come in una più prosaica illustrazione dell’Apocalisse. Inutile dire quanto questa concrescenza sia essenziale ad ogni “apocalisse”. La questione che intendo affrontare è duplice. Innanzitutto cosa emerge da questo “crash”, da queste immagini del disastro, cosa dice il “rumore” che ascoltiamo durante queste demolizioni, crolli, rovine (dell’umano – si badi bene – non semplicemente delle “cose”)? Cosa vediamo emergere dal fumo, dal sangue, dalle macerie? Vi è una foto del World Trade Center in fiamme e fumo dove il delirio new age e millenaristico ha riconosciuto il volto di Satana; un’immagine volgare, effettivamente colta dal fotografo Mark Philip dalla terrazza del suo appartamento, su cui è facile fare ironie, un riconoscimento “primitivo”, frutto cioè di una mentalità primitiva. Un po’ meno primitiva, tuttavia, appare la questione che questo riconoscimento pone: la necessità cioè di “dare un volto”, un senso riconoscibile all’inimmaginabile e all’impensabile che sta accadendo sotto i nostri occhi, sia pure nella forma paradossale di un demone, com’è nella mentalità mitica. Ma ancora, ed è il secondo aspetto che intendo sviluppare, il crash di cui parliamo è certamente anche il disastro prodotto dallo scontro/incontro di testo e immagine – da sempre fratellastri e/o sorellastre – un problema solo apparentemente tipico dell’estetica o della teoria della letteratura, ma che rischia di diventare eminentemente filosofico quando in gioco è la questione finale di ciò che è dicibile e di ciò che è immaginabile. Anzi, più esattamente dell’indicibile e dell’inimmaginabile, che poi costituisce la quintessenza dell’alternativa e/o collaborazione tra testo e immagine in Occidente. Partendo da premesse molto diverse dalle mie, W.J.T. Mitchell ha insistito sul fatto che il «contrasto reale tra l’indicibile e l’inimmaginabile può essere solo visto»4, o forse più esattamente “mostrato”,

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proponendo un esempio sensibile che mette conto riportare per intero: «Vi chiedo di immaginare una faccia della medaglia con due occhi, e un bavaglio sulla bocca, l’altra che mostra una bocca e una benda sugli occhi. Una faccia può vedere ma non parlare; l’altra può parlare ma non vedere. Mutismo e cecità sono le due facce dell’indicibile e dell’inimmaginabile, intesi però non come condizioni naturali, fisiche, ma come imposte ed artificiali»5. Il rapporto tra testi ed immagine, tra le arti sorelle in Occidente ha sempre avuto questa natura, uno scontro basato sull’irrappresentabile che è stato di fatto l’arma di una reciproca delegittimazione e, insieme, la forma di una instancabile reciprocità6. La mia tesi è che le immagini del disastro, proprio perché si muovono sul sottile discrimine dell’indicibile e dell’inimmaginabile a fronte del dicibile e dell’immaginabile, attingono direttamente a quella che chiamerò provvisoriamente un’apocalittica dell’immagine, laddove però è necessario spostare l’accento, nella semantica dell’apocalisse, dalla catastrofe alla rivelazione/disvelamento. Entrambe sono forme che la letteratura e l’immaginazione apocalittica hanno costantemente alimentato7. Nel primo caso si tratta palesemente della rinascita di un’estetica del sublime. Come è noto è merito di Kant aver sollevato l’apocalittica dalle sue implicazioni teologiche secolarizzandola in un’estetica del sublime. Da quel momento le immagini del disastro non hanno più alimentato una fine, ma molte fini, quella Vervielfachung der Apocalypsen (moltiplicazione delle apocalissi) di cui ha opportunamente parlato Hartmut Böhme 8. Si tratta di anticipazioni della fine diluite nel tempo. Per quanto affascinante sia il dibattito maturato tra Baudrillard e Zˇ izˇek e una schiera di adepti 9, non riusciamo a scrollarci di dosso la sensazione che si tratti, malgrado tutto, di tentativi – spesso molto finemente argomentati – di attestarsi nel campo dell’estetica, di quell’estetica del sublime che si è rivelata il modo migliore per sopportare il “disagio della civiltà” e della “realtà”, una forma di spettacolarizzazione del male contro cui metteva in guardia già Baudelaire, in fin dei conti solo una forma di an-estesia del male10. Per questo con una certa brutalità ma sostanziale onestà Karl Heinz Stockhausen ha potuto parlare a proposito delle torri gemelle della «più

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grande opera d’arte mai realizzata», di un puntuale inveramento dell’immaginario cinematografico statunitense. Già negli anni Sessanta Susan Sontag in Against Interpretation (Contro l’interpretazione) aveva stigmatizzato nella sua straordinaria analisi della fantascienza “classica” americana, quella “fantasia del disastro” che ha il vantaggio di «liberare l’individuo dai suoi vincoli e obblighi morali»11, offrendogli una visione manichea del mondo – quello su cui ha fatto leva Bush quarant’anni dopo! – e di legittimare una risposta armata a qualunque costo. Del resto anche l’esperienza del sublime “classico” era un modo per contemplare la propria salvezza al cospetto del disastro. Dunque, come dimostrano i dibattiti contemporanei, siamo disposti a declinare il nesso catastrofe-immagine ben oltre i limiti del buon gusto. Ne è prova la messe ininterrotta di variazioni artistiche sulla catastrofe delle torri gemelle. Molto meno siamo disposti ad accettare il carattere rivelativo, apocalittico delle immagini che semmai l’iconofobia occidentale tende a stigmatizzare come false, prevaricatrici, fonte di confusione dei sensi, immorali, inadeguate, controproducenti e in ogni caso riduttive rispetto alla complessità del reale. La guerra delle immagini – così come ce la presentano le moderne scienze della comunicazione (che, detto tra parentesi, sono la malattia e non la cura!) – non fa che variare all’infinito la lamentazione iconofobica di chi sostiene che le immagini mentono, anzi sono il luogo specifico delle menzogne del nostro tempo e, ovviamente, delle manipolazioni del nostro tempo come dimostra la guerra di propaganda che caratterizza la modernità almeno dall’invenzione della fotografia di guerra. Non c’è dubbio – come ha magistralmente mostrato sempre Susan Sontag12 – che la fotografia è ormai un modo per combattere la guerra con altri mezzi13, ma la questione dell’immagine fotografica non per questo è risolta. Semmai rimane da chiedersi se nelle immagini di guerra, persino in quelle palesemente manipolate, emerga solo la malafede, gli oscuri intendimenti propagandistici, le intimidazioni di chi le confeziona e le fa circolare. Già il fatto che le fotografie circolano fuori dai circuiti per cui sono state pensate – si pensi al caso eclatante di Abu Ghraib, le cui foto sono rimbalzate nel web ben al di là delle aspettative degli “autori” – dovrebbe indurci a riflessioni più accurate sulla loro semantica.

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2. Prenderò le mosse dunque da alcune immagini del disastro per interrogarci sulla loro essenza apocalittica. Mi limito a pochi esempi a tutti noti: 2001, 11 settembre: le immagini delle torri gemelle in fiamme, i video, le pitture, le foto amatoriali e professionali, i fumetti (Art Spiegelman), le caricature, spesso davvero blasfeme 14. Immagini che fanno parte ormai della nostra iconoteca conscia ed inconscia e che ci accompagneranno per sempre, immagini simbolo proprio nella loro serialità, come vedremo. 2004, Abu Ghraib: le foto15 delle umiliazioni (diciamo pure torture!) che documentano oltre ogni ragionevole dubbio – se non altro perché sono state concepite come foto-trofeo da mostrare ai parenti – gli abusi (diciamo pure torture!) su casuali prigionieri iracheni da parte di aguzzini americani che si sono dimostrati anche dei fini intellettuali all’altezza del loro compito (altro che pervertiti di provincia! 16) se si pensa che hanno saputo privare le loro vittime dell’unica cosa che rimaneva loro, la dignità e la purezza, tortura molto più potente della stessa morte. Nelle pagine che seguono ci soffermeremo su una sola immagine, quella dell’hooded man, dell’uomo incappucciato, costretto in precario equilibrio su una scatola e con le mani e i genitali elettrificati, un’immagine del dolore che – come ci ha ricordato W.J.T. Mitchell 17 – è una controfigura dell’Ecce homo, ma non solo di questo, come vedremo, e che perciò ha fatto il giro del mondo, diventando l’insuperabile icona del nostro tempo. Ovviamente dovrò tacere su altri disastri, quelli visti – come Falluja, e prima ancora il Vietnam, il Ruanda ecc. – e quelli non visti che attendono ancora una loro Offenbarung, una restituzione, e che forse un giorno potremo vedere come le immagini che i Sonderkommando di Auschwitz ci hanno fatto giungere seppellendole nei campi. Dovrò anche rinunciare a certe immagini catastrofiche e insieme rivelatrici che riguardano le immagini stesse. Mi riferisco ai numerosi e reiterati atti di iconoclastia 18 che costellano le guerre con le immagini del nostro tempo: dai Buddha di Bamyian 19 alle statue di Lenin e Stalin o di Saddam 20. Non bisogna ovviamente fare l’errore di credere che in gioco siano solo i manufatti “artistici”, come se questi atti non fossero stati preceduti e seguiti da innumerevoli morti reali.

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Da questo punto di vista è semmai utile parafrasare il celebre detto di Heinrich Heine che lì dove si bruciano immagini (Heine diceva profeticamente “libri”) alla fine si bruciano uomini. Tra l’altro è evidente che in questi atti iconoclastici si ode in sottofondo l’odio di sé, giacché questi idoli sono parte integrante delle identità dei soggetti che li distruggono. C’è dunque qualcosa di più profondo in gioco che una “lucida” protesta politica. E semmai bisognerebbe chiedersi quanta furia iconoclasta contro il Sé guida la mano dei terroristi islamici-inglesi che cercano proprio di reprimere quella parte di sé stessi che si è ovviamente contaminata in Occidente. Intendo dunque interrogarmi su ciò che emerge dalle due immagini citate, immagini apocalittiche non tanto in quanto evocano la fine dei tempi – ogni catastrofe di città, torri, corpi è comunque prefigurata nell’Apocalisse di Giovanni – ma in quanto ci rivelano qualcosa del tempo. Né mi interessa in questa sede sottolineare il fatto che tali immagini risvegliano e custodiscono un sentimento messianico del tempo che ha accompagnato per millenni l’apocalittica letteraria e figurativa, o ribadire – eticamente – la sostanza insostituibile di ciò che in queste immagini si vede distrutto. Intendo semmai soffermarmi sul “funzionamento” delle immagini, sulla loro significatività nel senso che Blumenberg dava a questa parola riferendosi al mito; non dunque sulle immagini in quanto documento di una fantasia palingenetica, né testimonianza di una perdita, ma proprio in quanto soglia sottile, spesso trasparente, tra il dicibile e l’immaginabile, tra l’indicibile e l’inimmaginabile (i due aspetti sono inscindibili, come già insegna la “prima” Apocalisse). Una concezione apocalittica dell’immagine per altro ci mette al riparo dall’estetica/etica dell’ineffabile, anzi si candida a disarticolare, a disinnescare l’inespressività che sembra emergere da questi eventi luttuosi, catastrofici, esiziali. E questo avviene – si badi bene – non in forza di un’eccessiva fiducia nel carattere veritativo dell’immagine – un’ontologia piena della significatività delle immagini giustamente criticata dall’iconofobia occidentale – ma grazie semmai alla statuto “poroso” (Bloch), lacunoso, parziale delle immagini stesse che non solo reclamano paradossalmente la parola, ma la invadono, vi si insediano, come dimostra la lunga storia della metafora.

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Chi ha cercato nelle immagini la verità ha clamorosamente fallito sia per i pregiudizi iconofobi della filosofia occidentale, sia per il carattere fondamentalista delle sue affermazioni. Chi, per converso, ha sottratto alle immagini senso e potenza ha finito per assolutizzare il reale, consacrandolo e feticizzandolo nella sua ineffabilità. Eppure continuiamo pietosamente a riguardare le immagini delle torri gemelle in fiamme, i corpi che scivolano sui fianchi dei grattacieli, continuiamo a collezionare le poche immagini – per lo più sbiadite fotografie e schizzi macchiati di fango – che ci giungono dai campi di concentramento, continuiamo a riprodurre, ristampare, parodiare, dissacrare l’immagine dell’hooded man di Abu Ghraib. Perché? Come mai l’immagine del disastro continua a rimbalzare da coscienza a coscienza? Come mai non ci stanchiamo persino quando siamo consapevoli che si tratta di immagini manipolate (come forse persino il miliziano colpito di Capa), contraffatte da una parte e dall’altra, a volte senza alcun rispetto per il “dolore” degli altri e spesso addirittura per il proprio dolore? Né ci distoglie dal guardarle la chiara consapevolezza che le immagini del disastro possono essere tutt’al più un tassello di un affresco apocalittico molto più vasto, in alcuni casi davvero universale. Si tratta forse, come sembra insinuare la Sontag e come ha ben chiarito Baudrillard 21, di un irresistibile impulso pornografico che fa del dolore degli altri una scena a suo modo eccitante? Tanto che Goya ha dovuto aggiungere delle didascalie che facessero in qualche modo “arrestare” lo spettatore, che lo ostacolassero nel suo compiacimento morboso? O è semplicemente in gioco la convinzione tutta cristiana che il dolore possa trasfigurarsi in beatitudine, il sacrificio in glorificazione? Certo queste sono componenti importanti e sempre vigenti, come dimostra il caso dell’hooded man. Ma sono sufficienti per comprendere ciò che le immagini hanno da dirci? Il pregiudizio di una passione tutta cristiana per l’immagine – che ha fatto sì che persino Georges Didi-Huberman fosse oggetto delle invettive dei suoi correligionari ebrei22 – può applicarsi alla passione per le immagini di culture non cristiane?

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Evidentemente è in gioco qualcos’altro, quella potenzialità apocalittica delle immagini sui cui in chiusura brevemente insisterò per proporre almeno alcuni casi della virtualità filosofica, ermeneutica delle immagini. Utilizzerò qui una riformulazione di due termini che DidiHuberman ha usato in Immagini malgrado tutto (2003), un libro essenziale anche per comprendere quello che ho definito il carattere apocalittico delle immagini. Accertato che il potere rivelativo delle immagini non va attribuito alla loro presunta (e mai raggiunta) pienezza ontologica, l’immagine-tutta da contrapporre al reale-tutto, Didi-Huberman fa piazza pulita dell’immagine-velo-del-reale per insistere sul carattere di “strappo” delle immagini proprio rispetto alla compattezza, vera o presunta che sia, della realtà (una realtà che può semmai essere finzione, un “fondale” come quello che il protagonista del film The Truman Show, appunto, “strappa”). Su questa traccia proverò a definire apocalitticamente le immagini che ho scelto, non pretendendo ovviamente di esaurire le molte modalità in cui le immagini si danno apocalitticamente al nostro sentire e sapere. 3. Quelle dell’11 settembre potremmo definirle con Didi-Huberman immagini-montaggio. Banalmente si tratta di fotogrammi che appartengono ad una sequenza. Tipica è l’esposizione in una maglia regolare. Si pensi ai sistemi di impaginazione di Google-immagini o di Flickr giacché è del web che stiamo innanzitutto parlando, anche se le mostre fatte sull’11 settembre seguono gli stessi criteri di impaginazione. Le immagini del World Trade Center in fiamme o in pieno collasso riprese a diverse distanze ci vengono mostrate in sequenze piuttosto serrate e da diversi punti di vista. Altre volte si tratta di brevi clip o di più clip che mostrano le varie fasi dell’attentato. Questa parcellizazzione nasconde senz’altro intenzioni edulcoranti23, se non altro per la temporanea sospensione del flusso, della tensione, come antidoto dell’ansia o per una certa volontà di scotomizzazione. Tuttavia alla fine si ottiene il risultato opposto: lo spettatore procede ad un montaggio delle immagini. E noi sappiamo che la conoscenza delle immagini si ottiene attraverso il montaggio che

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pluralizza le prospettive, scongiura la dittatura dell’Uno, produce una logica dell’interstizio o dell’intervallo che è lo spazio precipuo dal quale può emergere una verità. Per questo da Callot a Goya, da Warburg a Richter la forma dell’atlante che i nuovi media mimano senza saperlo è quella più convincente: «ragion per cui si fanno delle serie, dei montaggi malgrado tutto; sanno infatti (gli artisti) anche che i disastri possono moltiplicarsi all’infinito, Callot, Goya o Picasso – ma pure Miró, Fautrier, Strzeminski o Gerhard Richter – hanno triturato l’irrappresentabile in tutti i sensi, affinché da esso scaturisse qualcosa di diverso dal silenzio puro»24. Nessuna singola immagine potrà dire il disastro delle torri gemelle, come nessuna immagine singola può rivelare la verità, ma, come ha scritto Didi-Huberman, la «congiunzione delle immagini, sempre lacunose e relative, apre una via per mostrare malgrado tutto ciò che non si può vedere»25. E questo è possibile proprio lasciando irrompere un altro tempo, che è quello dell’immagine nel nostro tempo di spettatori, nell’asincronia che ogni immagine mette in scena ipso facto, convertendo una lacuna in una risorsa. L’ immagine è davvero la porta stretta da cui può irrompere il Messia che viene appunto da un tempo immemoriale. Le immagini si rafforzano in questo montaggio, si risemantizzano, ma soprattutto si vivificano attraverso gli occhi e l’esperienza degli spettatori. Nessun occhio divino potrà restituirci in un’inquadratura senza soluzione di continuità quello che è accaduto l’11 settembre, per di più in posti diversi e lontani, e, nonostante ci siano rimaste centinaia di inquadrature, tutte umane, troppo umane, non siamo in una posizione diversa da quella in cui si trova chi volesse comprendere la verità di Auschwitz a partire da quattro pallide foto. Il montaggio è una forma di pensiero, non v’è dubbio – DidiHuberman ce lo dimostra commentando le Histoire(s) du cinema di Godard e appunto le quattro foto di Auschwitz – ma un pensiero inestinguibile che vive della sua precarietà e riformulabilità. Non trarremo mai la verità del World Trade Center dalle sue immagini, è vero, ma trarremo da esse la possibilità della sua verità. Dal montaggio interminabile delle sue immagini emergerà qualcosa di più del

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silenzio cui esse ci espongono. L’ Apocalisse di Giovanni è certamente il montaggio più riuscito dell’immaginazione occidentale, il genere apocalittico è esattamente questa “arte del montaggio” espressa alla massima potenza. E non a caso si tratta di una sequenza di immagini e parole, di visioni e suoni. Ma cosa si vede in fin dei conti in quel montaggio? Cosa emerge da quelle immagini sconnesse e ritessute all’infinito? Probabilmente la percezione del simile, quel tua res agitur che la logica del sublime catastrofico cerca di scongiurare ed anestetizzare (si ricordi l’immagine del naufragio, mentre lo spettatore rimane al riparo sulla costa), l’ostensione del corpo delle vittime, piccoli punti che cadono dalle finestre, lo sguardo disperato e simpatetico di chi da terra assiste a quella tremenda visione (sappiamo oramai che lo sguardo è parte integrante dell’immagine!), le dita che mostrano e invocano Dio (Oh, God è la frase che risuona e si legge in molte labbra nonostante l’audio-off). Il montaggio – anche quello dei film già in circolazione – contribuirà a riempire di “simili” l’apparente spettacolo di una rovina di cose. La spettacolarizzazione del disastro è pericolosa quando non vi riconosciamo il simile, quando cominciamo a pensare gli eventi come un rapporto tra cose o tra scenari “naturali” che non “contemplano” l’uomo. Giustamente DidiHuberman ha insistito a proposito delle immagini di Auschwitz che si tratta certamente di “immagini-lacuna”, di “immagini-traccia” ma nel senso che esse sono ciò che resta di una sparizione di corpi e di anime, ciò che rimane, sia pure in un lembo di fotografia sbiadita, di vite vissute e da salvare. L’ immagine è apocalittica perché qualcosa sopravvive dopo la fine, perché qualcosa si distacca – Erlösung – dalla realtà e conquista un’ulteriorità. Non c’è bisogno di pensare ad una redenzione confortata dalla fede per cogliere il messaggio di sopravvivenza, malgré tout, insito nell’Apocalisse giovannea. È merito di Jacques Derrida aver attirato l’attenzione sulla sostanza apocalittica di una scrittura che si presenta come montaggio di voci, una prospettiva che possiamo facilmente tradurre in quella del montaggio di immagini, così come ci invita a fare l’esposizione delle foto del World Trade Center, l’atlante warburghiano e richteriano, o il cinema di Godard.

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Mi riferisco allo straordinario saggio “kantiano” D’un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie (Su un tono apocalittico adottato di recente in filosofia)26, letto al Colloque de Cerisy del 1980 e al “mimo” apocalittico di No Apocalypse, not now (full speed ahead seven missiles, seven missives) (No Apocalypse, not now [a tutta velocità, sette missili, sette missive])27, apparso originariamente in inglese e letto alla Cornell University nel 1984. Si tratta di due intensissimi saggi di Derrida cui non posso che rimandare e la cui analisi per l’apocalittica contemporanea meriterebbe uno studio monografico. Mi limito in questa sede a segnalare, consegnandole ad una futura riflessione, solo alcune tesi presenti nei due scritti. Merito di Derrida è quello di aver individuato nell’Apocalisse prima di tutto uno stile della scrittura filosofica tout court che per noi è particolarmente familiare. L’ apocalissi è una forma, uno stile del discorso, in cui finiamo per non scorgere più «tanto bene chi parla o chi scrive», esattamente la sensazione di chi si perde nel montage. Questo stile del discorso, in fondo, si chiede Derrida «non è che quello di tutta la scena della scrittura in generale»: «l’apocalittica non sarà una condizione trascendentale di tutti i discorsi, di tutta l’esperienza stessa, di ogni marca o di ogni traccia? E il genere di scritti detti apocalittici in senso stretto non sarà allora che un esempio, una rivelazione esemplare di questa struttura trascendentale? In questo caso, se l’apocalisse rivela, essa è innanzitutto rivelazione dell’apocalisse, auto-presentazione della struttura apocalittica del linguaggio, della scrittura, dell’esperienza della presenza»28. E, aggiungeremmo noi, dell’immagine, anzi dell’immagine-testo. Il contrasto di voci, la confusione della scena apocalittica costituiscono infatti per Derrida l’attacco più violento al «contratto o al concordato dominante». Essa è scrittura (ed immaginazione) eversiva per eccellenza. Giungiamo così ad una seconda questione che definirei di ordine “formale”, legata al mezzo specifico di questa scrittura apocalittica e cioè all’immagine. Si tratta infatti di cogliere una caratteristica radicale della forma apocalittica: il suo essere forma che rivela, visione, nel senso ultimo del termine. Nell’apocalisse si fa vedere qualcosa, qualcosa si concretizza in un’immagine, qualcosa si “s-vela”, a-létheia: il destino del pensiero occidentale. Bisognerà

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forse cominciare a comprendere il nesso forte che vi è tra apocalisse e destino della verità, tra apocalisse e conoscenza, o più semplicemente tra apocalisse e pensiero. Come ha ricordato qualche tempo fa Massimo Cacciari, il «co-appartenersi originario nella nostra cultura di sapere e vedere»29 è ciò che sta alla base della consustanzialità di a-létheia e apo-calyptein. Da questo punto di vista l’Apocalisse non è un evento remoto ma costantemente presente in ogni atto conoscitivo. In questo senso Hans Urs von Balthasar ha potuto insistere sul fatto che la storia è l’apocalisse, cioè l’Apertura (Eröffnung) della decisione spirituale pro o contro Dio. E questa avviene non alla fine dei tempi ma in ogni tempo, in ogni momento. Non ci può essere cronolatria nel pensiero apocalittico coerente. Non siamo molto lontani dalle tesi di Derrida che vede in ogni scrittura, qui ed ora, una forma dell’apocalisse. Al di là della retorica sul comportamento del vero cristiano che in tanto è cristiano in quanto ne dà testimonianza ogni giorno, qui si manifesta un aspetto profondo del pensiero apocalittico che vede, deve vedere, nella sofferenza attuale, in questo eone, il risvolto di ciò che da un altro punto di vista è invece salvazione. Solo Kafka ha saputo comprendere questo pensiero tremendo che sta alla base di ogni speranza apocalittica. Negli Oktavhefte (Quaderni in ottavo) si legge infatti: «Solo qua il dolore è dolore. Non nel senso che coloro che soffrono in questo mondo debbano venire esaltati altrove in premio delle loro pene, ma nel senso che ciò che in questa vita si chiama dolore, in un’altra vita, pur restando immutato e liberato solo del suo contrario, diventa beatitudine»30. Nell’eone che verrà tutta la disperazione, in quanto privata del suo contrario – giacché ogni dualismo sarà sconfitto – sarà appunto salvata. Sarebbe il caso di rileggere i Quaderni in ottavo di Kafka come uno dei vertici dell’apocalittica novecentesca, forse proprio in forza della loro “ambiguità” tra Ebraismo e Cristianesimo. 4. Le immagini delle torri gemelle, “immagini-montaggio”, richiamano il pensiero apocalittico in quanto dispongono su uno spazio, lo spazio appunto del montaggio, e dunque negli intervalli tra di esse, la memoria del “simile”.

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Ma vi è un’altra virtualità dell’immagine cui ho già fatto riferimento quando parlavo di asincronie della ricezione: la sua dimensione di “archivio mnestico”: l’immagine-archivio. L’ immagine – come ci ha insegnato Warburg – è portatrice di una memoria individuale e collettiva, di tracce che si manifestano come sintomi e che dunque non solo non seguono i percorsi storici e geografici della trasmissione del senso, ma irrompono nel presente risalendo da un passato immemoriale della cultura e dell’individuo. A questa esperienza, che distrugge il continuum della storia, ci espone l’immagine dell’uomo con il cappuccio torturato ad Abu Ghraib. W.J.T. Mitchell vi ha voluto riconoscere – giustamente – una controfigura cristica, in bilico su un piedistallo, eterno Ecce Homo, crocifisso in occasione di una “crociata”. «Com’è che siamo diventati gli invasori romani del Medio Oriente? Com’è che siamo diventati coloro che crocifiggono il Cristo?»31 si chiede l’americano Mitchell. Ammirevole il coraggio civile dell’autore che peraltro stigmatizza la censura operata da Bush e dal sistema delle comunicazioni americano che ha bollato queste immagini come un “abuso disgustoso” che nessun americano avrebbe voluto/dovuto vedere in televisione. Tuttavia l’immagine dell’uomo col cappuccio si è dimostrata, grazie alla sua virtualità davvero immemoriale, capace di ogni sopravvivenza. E infatti non si contano le riproduzioni di questa foto che hanno circolato su internet, ma soprattutto le riscritture di questa immagine nei media più disparati, dai murales alla caricatura, dalla performance di strada alla pubblicità falsa degli iPod apparsa nella metropolitana di New York, dalle maschere per Halloween al fumetto underground. Anche qui siamo di fronte ad un fenomeno che va ben al di là dei riti della società dello spettacolo, che non si può certo spiegare semplicisticamente con le analisi della sociologia delle comunicazioni di massa e attinge invece alla capacità che hanno le immagini di far saltare apocalitticamente il continuum della storia. Mitchell ha visto bene quando ha individuato nell’“uomo di dolore” uno di questi (s)fondamenti del senso. Secondo il padre dei Visual Studies americani l’hooded man mette in scena un sincretismo fra tre figure decisive dell’archivio mnestico e visuale

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dell’Occidente: «in particolare l’immagine evoca e fonde tre momenti pittorici distinti della Passione: 1) la derisione di Cristo, che spesso lo mostra bendato per nascondere l’identità dei suoi aguzzini; 2) l’Ecce Homo, in cui il Cristo torturato è esposto con una finta corona, talvolta su un piedistallo; 3) l’uomo di dolore in cui il corpo apparentemente semicosciente del Cristo morto viene mostrato in una posizione precisa con le braccia aperte e divaricate verso il basso»32. Vi è tuttavia un ulteriore riferimento visivo che concorre ad ispessire la semantica dell’hooded man. Chiunque sia provvisto di cultura classica, infatti, non tarderà a riconoscere nell’uomo incappucciato e torturato con i fili elettrici la sopravvivenza di un altro exemplum doloris che ha determinato l’immaginario occidentale, il Laocoonte di Agesandro, Polidoro e Atenodoro conservato nei Musei Vaticani e certamente prototipo di molte trasposizioni cristiche nell’arte occidentale, come attestano le trascrizioni di Michelangelo. Non è difficile riconoscere nei fili che si dipartono dalle mani e dai genitali della vittima i due temibili serpenti mitologici. E nel destino di Laocoonte, e soprattutto dei suoi figli, una forma archetipica della sofferenza inutile, o quanto meno ingiusta (se non per i Greci almeno per noi che contempliamo il gruppo marmoreo fuori dalla koiné greca), e certamente una sofferenza in nome della verità e dell’amor di patria. Anche il Laocoonte, perfetta icona del dolore, si è prestato ad un’ampia circolazione nella società dello spettacolo (che comincia nel Settecento!), mettendosi al servizio, per così dire, della pubblicità, della caricatura, del fumetto, della satira politica. Credo – ma dimostrarlo è questione da rimandare ad altra sede – che queste ultime sopravvivenze dimostrino che il Laocoonte è destinato a far parte di un dispositivo emblematico in cui parola ed immagine si integrano. Proprio per poter riarticolare il proprio significato sulla soglia dell’indicibile e dell’invisibile – non a caso il gruppo marmoreo sta al centro del testo che in Occidente ha cercato di scongiurare l’inespressività nell’arte, l’Ausdrucklose, e cioè il Laocoonte di Lessing33 – si è fatto un uso emblematico di questa immagine che trova ampia applicazione nella pubblicità e nella caricatura, a loro volta sopravvivenze

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moderne dell’iconotesto barocco. Nell’emblema immagine e testo si confrontano per scongiurare l’inespressività, anche a costo dell’enigmaticità che tanto irritava Lessing e i teorici di una netta distinzione tra poesia e pittura: è quello che è accaduto durante i secoli al Laocoonte prima, e oggi all’hooded man di Abu Ghraib. Sono convinto infatti che l’ossessiva riproposizione di questa immagine e dei testi che via via la circondano sia la prova più evidente che l’indicibilità e l’inimmaginabilità (nel senso del “farsi immagine” indicato da Mitchell) del dolore ci costringe a continue ri-creazioni che non temono d’esibire le difficoltà intrinseche a parola ed immagine. In passato molti hanno storto il naso per queste volgarizzazioni di un’icona sacra al classicismo34, così come oggi ci si scandalizzerà per l’uso mediatico dell’uomo di dolore di Abu Ghraib. Grande perplessità ha sollevato l’uso dell’hooded man nell’emblema pubblicitario che mima l’iPod, la cui superscriptio recita iRaq e il cui epigramma spiega «10,000 volts in your pocket, guilty or innocent» (10 000 volts nella tua tasca, colpevole o innocente) che Copper Greene ha diffuso nelle metropolitane nel 2004. Tuttavia lo scandalo non sta nella semantica di questa provocazione, semmai, piuttosto, nella forma. Scandalosa è la sua sopravvivenza malgré tout, la sopravvivenza di un’icona che in quanto tale resiste ad ogni riscrittura, sopravvive oltre ogni cronologia, oltre ogni tempo. Appunto riappare come “sintomo”, laddove è in gioco la sofferenza dell’uomo, il dolore nostro e degli altri. Naturalmente si potrebbe obiettare che così facendo feticizziamo questa immagine edulcorandone il significato drammatico in una duplice maniera: innanzitutto la strappiamo al contesto, facendone un’icona sovratemporale del dolore e dunque sollevando quasi un “velo” sulla sua contingenza e assoluta realtà; per altro verso, eternizzandola insinuiamo che questo dolore sia irredimibile, appunto sub specie aeternitatis, e dunque sostanzialmente necessario ed inevitabile. Obiezioni legittime, il cui accoglimento però non risolve la questione del “successo” di questa immagine che comunque è divenuta un’icona del nostro tempo con una forza che evidentemente non è solo estetica né meramente “pornografica”. Senza poter fare riferimento ad Abu Ghraib, Susan Sontag ha scritto che «il gruppo

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statuario che rappresenta il tormento di Laocoonte e dei suoi figli, le innumerevoli versioni pittoriche e scultoree della passione di Cristo e l’inesauribile catalogo visivo delle terribili esecuzioni dei martiri cristiani sono rappresentazioni che mirano a commuovere e a eccitare, a istruire e a fornire esempio… La voglia di immagini che mostrano corpi sofferenti sembra esser forte quasi quanto il desiderio di immagini che mostrano corpi nudi»35. Non v’è dubbio che le immagini di Abu Ghraib sono figlie della pornografia spicciola ed inscenata che circola su internet, né che estasi ed orgasmo – come ci ha spiegato Bataille36 – crescono da uno stesso ceppo. Ma ciò semmai rafforza il tema della sopravvivenza dell’immagine. Tutto sta a scorgere in questo tema non la banalizzazione del male – che purtroppo non ha bisogno di immagini per sopravvivere – ma la forza apocalittica dell’immagine stessa che è nella storia contro la storia, nel tempo contro il tempo, è ciò che – certo in alleanza con la parola (anch’io non ho fatto altro che verbalizzare immagini) – può aprire uno spiraglio perché si possa uscire dal nostro tempo, non per sfuggirvi, ma per praticare una speranza che sta nella capacità di sospenderlo, di sollevarlo, di rivendicarne, almeno, la temporaneità. O magari, come diceva Kafka, per coglierne il risvolto positivo in un altro tempo. Distruzione che edifica, su un altro piano temporale, in un altro spazio. L’ uomo con il cappuccio fa affiorare il tempo occulto delle sopravvivenze, vero antidoto contro lo storicismo della critica, spezza ancora una volta il continuum della storia che è il continuum del potere. Ci allena in un certo senso a pensare il presente come revocabile, dunque come superabile. Le immagini sono in guerra con l’esistente, ma si tratta di una guerra ben diversa da quella che si immaginano gli scienziati della comunicazione al servizio delle grandi e piccole potenze. Nulla può Bush contro il dolore di Laocoonte e dell’hooded man che è un’accusa che risuona nei secoli: clamores simul horrendos ad sidera tollit recita Virgilio. Nulla possono le sue armate contro questo exemplum doloris la cui immagine si rifrangerà nei secoli a venire.

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NOTE

1. Cfr. B. Latour, Iconoclash. Gibt es eine Welt jenseits des Bilderkrieges?, Merve, Berlin 2002, p. 31 (Iconoclash. Beyond the Image Wars in Science, Religion and Art, M I T Press, Cambridge 2002). 2. Già: “rumorosamente”! Sarebbe interessante interrogarsi proprio su questo suono che si produce, un elemento davvero “unheimlich” che non a caso è il primo a scomparire quando si cerca di edulcorare le immagini delle nostre apocalissi quotidiane, dalle torri gemelle allo tsunami, dal crepitio di colpi in Iraq ai lamenti dei feriti: ma questo discorso mi porterebbe lontanto dalle immagini su cui invece voglio soffermarmi in questa sede. 3. Uso il termine con un ovvio riferimento a M. Blanchot, L’Ecriture du désastre, Gallimard, Paris 1980 (La scrittura del disastro, trad. it. di F. Sossi, S E , Milano 1990). 4. W.J.T. Mitchell, The Unspeakable and The Unimaginable: Word and Image in a Time of Terror, «E L H », 72 (2005), p. 296. 5. Ibidem. 6. Ho sviluppato questi temi nell’introduzione al mio Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale dal Settecento al Novecento, Meltemi, Roma 2004. 7. Cfr., per un primo orientamento nella letteratura antica e moderna, D. Harth, Finale! Das kleine Buch vom Weltuntergang, C.H. Beck, München 1999. 8. H. Böhme, Vergangenheit und Gegenwart der Apokalypse, in Id., Natur und Subjekt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1988, pp. 380-398. 9. Cfr. almeno D. Zuber, Flânerie at Ground Zero: Aesthetic Countermemories in Lower Manhattan, «American Quarterly», 58 (2006), pp. 269-299; C. Boggs, T. Pollard, Hollywood and the Spectacle of Terrorism, «New Political Science», 28 (2006), pp. 335-351; V.M. Davidov, Representing Representations: the Ethics of Filming at Ground Zero, «Visual Studies», 19 (2004), pp. 162-168; J. Wosk, Photographing Devastation. Three New York Exhibits of 11 September 2001, «October», 43 (2002), pp. 771-776. 10. Per una discussione di tali questioni, anche in una prospettiva storica, rimando allo studio di M. Belpoliti, Crolli, Einaudi, Torino 2005 e al mio Visioni della fine. Apocalissi, catastrofi, estinzioni, :duepunti edizioni, Palermo 2004. 11. S. Sontag, The Imagination of Disaster, in Id., Against Interpretation and Other Essays, Picador, New York 1966, pp. 209-225, p. 215 (L’immagine del disastro, in Id., Contro l’interpretazione, trad. it. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 1967, p. 313). 12. Cfr. S. Sontag, Regarding the Pain of Others, Farrar, Straus & Giroux, New York 2003 (Davanti al dolore degli altri, trad. it. di P. Dilonardo, Mondadori, Milano 2003, passim). In seguito è tornato sull’argomento N. Mirzoeff, Guardare la guerra. Immagini del potere globale, trad. it. di M. Bortolini, Meltemi, Roma 2004, pp. 82 ss. e L. Spigel, Entertainment Wars: Television Culture after 9/11, «American Quarterly», 56 (2004), pp. 235-270.

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13. Si pensi anche alla questione delle “caricature di Maometto” destinate ad accendere un nuovo “Bilderstreit” in cui in gioco, ovviamente, non sono soltanto le immagini. Si cfr. almeno U. Baatz, H. Belting, I. Charim, N. Kermani, A. Saleh, Bilderstreit 2006: Pressefreiheit? Blasphemie? Globale Politik?, con una premessa di H.Ch. Ehalt, Picus, Wien 2007. 14. Sulle trascrizioni vernacolari e sulle parodie dell’11 settembre cfr. R.V. Hathaway, “Life in the TV”. The Visual Nature of 9/11 Lore and Its Impact on Vernacular Response, «Journal of Folklore Research», 42 (2005), pp. 33-56 e L. Csaszi, World Trade Center Jokes and Their Hungarian Reception, «Journal of Folklore research», 40 (2003), pp. 175-210. 15. Della ormai vasta letteratura sull’argomento si cfr. almeno A. Lingis, The Effects of Pictures, «Journal of Visual Culture», 5 (2006), pp. 83-86; S. Sliwinski, Camera War, Again, ibidem, pp. 89-92; S. Malik, Fucking Straight Death Metal, ibidem, pp. 107-112; A. Feldman, On the Actuarial Gaze. From 9/11 to Abu Ghraib, «Cultural Studies», 19 (2006), pp. 203-226; H. Carby, A Strange and Bitter Crop: the Spectacle of Torture, http://www.opendemocracy.net/debates/article-8-112-2149.jsp (11/10/2004); S. Sontag, Regarding the Torture of Others, http://www.southerncrossreview.org/35/sontag.htm (7/10/2006). 16. A. Lingis, The Effects of Pictures, cit., p. 85. 17. W.J.T. Mitchell, Echoes of a Christian Symbol. Photo Reverberates with Raw Power of Christ on Cross, «Chicago Tribune», 27 giugno 2004 e il fondamentale The Unspeakable and The Unimaginable: Word and Image in a Time of Terror, cit. 18. Sull’iconoclastia e iconofobia occidentale il bel libro di M. Bettettini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Laterza, Roma-Bari 2006 e il classico A. Besançon, L’ Image interdite. Une historire intellectuelle de l’iconoclasme, Gallimard, Paris 2000. 19. F. Barry Fllod, Between Cult and Culture: Bamiyan, Islamis Iconoclasm, and the Museum, in «Art Bulletin», 84 (2002), pp. 641-659. 20. Cfr. N. Mirzoeff, Guardare la guerra. Immagini del potere globale, cit., pp. 98 ss. 21. J. Baudrillard, War Porn, «Journal of Visual Culture», 5 (2006), pp. 86-88. 22. Ne è testimonianza uno dei libri più importanti sul “funzionamento” e l’“ontologia delle immagini”: G. Didi-Huberman, Images malgré tout, Editions de Minuit, Paris 2003 (Immagini malgrado tutto, trad. it. di D. Tarizzo, Cortina, Milano 2005). 23. Cfr. A. Feldman, On the Actuarial Gaze. From 9/11 to Abu Ghraib, cit., soprattutto pp. 213 ss. 24. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 158. 25. Ibidem, p. 169. 26. J. Derrida, D’un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie, Éditions Galilée, Paris 1983. 27. J. Derrida, No Apocalypse, Not Now (full speed ahead, seven missiles seven missives), «Diacritics», 14 (1984), pp. 20-31.

Iconocrash

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28. J. Derrida, D’un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie, cit., p. 471. 29. M. Cacciari, Crónos apocalypseos, «Hermeneutica», 3 (1983), pp. 41-48. 30. F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, in Id., Confessioni e immagini, con una prefazione di E. Zolla, trad. it. di I.A. Chiusano, Mondadori, Milano 1964, p. 71. 31. W.J.T. Mitchell, Echoes of a Christian Symbol. Photo Reverberates with Raw Power of Christ on Cross, cit. 32. W.J.T. Mitchell, The Unspeakable and the Unimaginable: Word and Image in a Time of Terror, cit., p. 304. 33. G.E. Lessing, Laocoonte, a cura di M. Cometa, Æsthetica edizioni, Palermo 20022. 34. Se ne veda invece l’acuta e serissima analisi in S. Settis, Laocoonte. Fama e stile, Donzelli, Roma 1999, passim e, soprattutto, Id., La fortune de Laocoon au X X e siècle, «Revue Germanique Internationale», 19 (2003), pp. 269-301. A questo fascicolo rimandiamo per altri importanti approfondimenti sulle “sopravvivenze” del Laocoonte. Sulle sopravvivenze sette-ottocentesche del gruppo marmoreo mi permetto di rimandare al mio Die Tragödie des Laokoon. Drama und Skulptur bei Goethe, in B. Witte, M. Ponzi (a cura di), Goethes Rückblick auf die Antike, Berlin, Schmidt, 1999, pp. 132-60 e al già citato Parole che dipingono, cit., pp. 21-45. 35. S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, cit., p. 35. 36. Nel testo fondamentale su estasi del dolore e sessualità che è Le lacrime di Eros, a cura di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

Traduzione dal francese di Roberta Coglitore.

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La letter atur a, la linea, il punto, il piano

Il letterato che è in me è nello stesso tempo affascinato e sconfortato di fronte alla problematica dell’immagine: da un lato – secondo la propria “specialità” – lavora sui testi, oggetti semiotici del linguaggio che riguardano l’universo del segno arbitrario e “discreto”; ma dall’altro non può non incontrare l’immagine, perché l’immagine invade i testi e invade la questione e le problematiche del testo. Innanzitutto attraverso la forma materiale concreta con la quale si presenta: la scrittura, la lettura, la tipografia e l’impaginazione (punti, linee, segni su un piano) che sollecitano l’occhio di un osservatore-lettore. In secondo luogo perché i testi sono sempre accompagnati, in un modo o nell’altro, da immagini associate, immagini implicite, latenti o inserite nel corpo del testo – immagini reali sulla copertina o all’interno sotto forma di vignette, illustrazioni o frontespizi – e anche da immagini del “museo immaginario” di ogni lettore, fatto di ricordi, trasposizioni viste al cinema, reportage sull’autore, immagini moltiplicate del suo ritratto, caricature. Infine perché i testi, nella forma scritta, propongono al lettore immagini – reali o finzionali – rappresentate e descritte da e nel testo stesso: dipinti descritti durante la visita di un personaggio del romanzo in un museo, in un atelier d’artista o da un collezionista1, romanzi dell’artista che crea la sua opera2, appartamenti descritti con i vari ninnoli o i quadri appesi alle pareti3, strade di città evocate con statue, pubblicità e figure sulle insegne, abiti con disegni e motivi decorativi4, critici d’arte che descrivono i Saloni delle Esposizioni, ékphrasis antiche o moderne che rivaleggiano con

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un modello di pittura… Si veda un qualunque romanzo di Balzac, per citare soltanto uno scrittore. Essendo la realtà satura di immagini, la letteratura sarà a sua volta satura di immagini descritte, scritte, rievocate, sognate, nominate, suggerite, raccontate, lodate, condannate, costruite: anche la natura, con i suoi riflessi sulle superfici riflettenti, le diverse impronte, i figli che somigliano ai padri, non smette di proporre “direttamente” immagini alla letteratura. Essa è un «negozio di immagini» (Baudelaire). Ma l’immagine pone un problema. E il problema è sapere quale definizione e quale estensione dare – che si sia letterati, specialisti di storia dell’arte o semiotici – alla nozione di immagine. Perché l’immagine è varia: l’immagine in due dimensioni (una fotografia, un disegno) non è l’immagine a tre dimensioni (una statua, una maquette, un modello in scala), l’immagine positiva (un disegno, un ritratto dipinto) non è l’immagine “negativa” o “scavata” come l’impronta (quella di un sigillo, quella di un piede umano o di un animale lasciata sulla terra o un’impronta digitale), l’immagine parziale (un busto, l’alzato o la sezione di un edificio) non è l’immagine totale (la statua in piedi, la maquette di una casa); l’immagine razionalizzata della realtà (una carta geografica, una curva, un diagramma, la sezione, il piano o l’assonometria di un edificio) non è l’immagine di questa realtà percepita dall’occhio. Inoltre l’immagine mentale (nella testa del lettore, in quella del creatore, il “museo immaginario” che ci accompagna senza tregua) non è un’immagine descritta da leggere (l’immagine rappresentata e descritta nel e per il testo)5, non è un’immagine retorica (una comparazione, una metafora, un’ipotiposi, figura che, secondo i retori, «fa vedere la cosa stessa») e non è un’immagine reale (quella di un albero che si riflette su un lago, dell’ombra di qualcuno che si disegna in silhouette su una parete illuminata, l’impronta di un piede sulla sabbia di una spiaggia – vedi Robinson Crusoe). Fin dove bisogna spingersi nell’estensione e nella comprensione della nozione di immagine? In particolare, bisogna allargarne l’uso fino a tener conto di tutto l’analogico, in opposizione al digitale/discreto/differenziale? Così se faccio l’inventario delle “immagini” evocate, nominate e/o descritte nella lunga novella di Flaubert intitolata Un Cœur simple (Un cuore semplice)6 trovo con

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facilità: una pendola fatta a imitazione del tempio di Vesta, una tappezzeria di carta a fiori, alcuni disegni a inchiostro, un ritratto del “Signore”, una geografia illustrata, un’insegna “All’agnello d’oro”, un pupazzo di panpepato, una vetrata, un gruppo ligneo che rappresenta San Michele che atterra il drago, le carte di un atlante, la faccia del conte d’Artois, un tatuaggio sulle braccia, le carte da gioco7. Il “tempio di Vesta” è una maquette, un modello in scala, che fa dunque parte del mondo analogico dell’immagine, come il tatuaggio, i disegni a inchiostro o la scultura di San Michele. Ma il famoso “pappagallo impagliato” della serva Félicité o i “fiori artificiali” o i “rosari” evocati nel testo di Flaubert sono anch’essi “immagini”? E soprattutto se si tiene conto di tutto l’analogico, non è da ricordare ugualmente nell’inventario l’“immagine” altrettanto famosa del “barometro” evocato da Flaubert nell’incipit, barometro di cui ha parlato Roland Barthes nel suo articolo L’Effet de réel (L’effetto di reale) – emblema delle comodità piccolo-borghesi nel X I X secolo e macchina analogica della pressione atmosferica (come la pendola con le lancette che le sta accanto)? Allo stesso modo accanto all’immagine “classica” (l’immagine da vedere, l’immagine vista e guardata) si deve sicuramente tener conto di alcune immagini “subliminali” legate a certe costruzioni analogiche di testi, calligrammatiche e diagrammatiche, dove si inseriscono alcune immagini (legate alla tipografia, all’articolazione fonetica dei suoni ricostruiti dalla lettura silenziosa, alle costruzioni in masse crescenti, masse decrescenti, ritmi figurativi diversi) che mimano le azioni o le realtà concrete8. Sono ben noti i testi di Francis Ponge che consistono nella parafrasi letterale di suggestioni tipografiche9. In particolare la questione del ritmo, il procedimento di configurazione globale degli enunciati, pone il problema delle configurazioni “figurative” subliminali (diagrammatiche) dei testi. Prendiamo la breve poesia di Eluard L’Arbre-rose (L’albero rosa): «L’ annata è buona la terra si gonfia / Il cielo trabocca sui campi / Sull’erba curva come una pancia / La rugiada arde di fiorire»10. Quale ruolo gioca nella lettura, nella comprensione, nella percezione del “senso” della poesia la costruzione sintattica “in masse crescenti” (due frasi per il primo verso, una frase più lunga per il secondo

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verso, una frase ancora più lunga occupa gli ultimi due versi)? Quella costruzione che, mimeticamente, analogicamente, come un’immagine subliminale incorporata nel testo, “riproduce” la realtà in “crescita” evocata dal testo – qualcosa che si gonfia (enfle) fino a traboccare (déborde) – e anche dall’immagine (retorica) – la comparazione con il ventre della natura/donna pronta a partorire? Si ha così, in termini semiotici, un diagramma, l’immagine di un movimento11 e in termini più tradizionali per i letterati, la problematica del “numero”, del “ritmo”, del misurabile e della grandezza12. Tutte le grandezze misurabili di un testo (fonemi, parole, frasi, versi, paragrafi e capitoli più o meno lunghi) sono capaci di costruire immagini subliminali simili a questa. L’ immagine, subliminale o percepibile, è dunque diversa. Al cuore di questa diversità si può ancora selezionare una certa categoria di immagini (?), immagini “astratte” – forme, schemi o rappresentazioni mentali di immagini – ma rappresentabili (con il disegno, per esempio), le quali rivelano forse più oggetti o concetti della geometria che della semiologia: la linea, il punto, il cerchio, il quadrato, il piano, la rete, l’albero (nel senso di schema di arborescenza: per esempio un albero genealogico13), la curva (abbiamo già trovato questo termine nella poesia di Eluard). Cosa fare di questi “oggetti del pensiero”, “immagini”, “entità geometriche”, “figure” che non sono veramente “figurative” (un punto, una linea, un triangolo non “rappresentano” niente) ma che possono senza dubbio essere rappresentate (per esempio nel disegno) e possono configurare oggetti “figurativi” (come nell’arte aborigena australiana, dove combinazioni di punti disegnano un animale o la pianta del villaggio) alla stregua delle rappresentazioni perfettamente realiste in un testo letterario? Rivelano forse l’analogico (come fa, per esempio, proprio la parola “albero”)? Alcune arti, alcune produzioni di immagini (dipinte), alcune scuole di arti decorative si contentano di variare queste figure e motivi geometrici. In rapporto all’immagine “classica”, sempre più o meno ambigua (cosa rappresenta La Tempesta di Giorgione?) e che reclama sempre di essere “compresa” con una parafrasi più o meno lunga, l’immagine geometrica, in generale, ha il vantaggio di essere sprovvista di ambiguità, di essere facilmente riconoscibile, di

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poter essere nominata e designata con una parola: «è un cerchio», «è un triangolo», «è una linea». Si conoscono i dibattiti secolari, in seno all’estetica e alla filosofia dell’arte, sulla natura della linea. In particolare sulla linea dritta «che non esiste in natura» o sui meriti rispettivi della curva, dell’arabesco, della linea spezzata. Baudelaire, per esempio, ha fondato tutta la sua estetica, cioè tutta la sua filosofia, sul tema del “tirso”, oggetto mitico che associa le due linee “contraddittorie” (o complementari), quelle del bastone dritto e del pàmpino sinuoso (o del serpente) che si attorciglia attorno e che nella sua poesia si presentano sotto diverse personificazioni. I “Fantasisti” del X I X secolo hanno giocato volentieri a “zig-zag” (vedi il genere del “viaggio a zig-zag”, della linea “capricciosa”) contro la linea dritta “classica” e contro l’arabesco pittoresco e romantico. Dal canto suo Jules Laforgue, poeta che continua su numerosi piani la lezione estetica di Baudelaire, si fa volentieri seguace della linea “epilettica” propria della fin de siècle “isterica” e “nervosa”, la linea spezzata: «La linea dritta è noiosa – la linea leggermente piegata è insulsa, disgustosa, noiosa senza la serenità della linea dritta. L’ ideale è la linea spezzata mille volte, crepitante di scatti imprevisti, che inganna l’occhio, lo frusta, lo irrita, lo tiene in esercizio con le linee, mille linee spezzate si colorano con le loro spezzature vibranti nelle masse ondulatorie dell’atmosfera»14. È noto il saggio di Vasilij Kandinskij, pubblicato nel 1926, intitolato Punkt und Linie zu Fläche (Punto, linea, superficie) dedicato agli “elementi della pittura”, il più grande testo sulla teoria delle forme e dei loro valori (statico, dinamico, caldo, freddo, lirico) che nelle prime righe dell’introduzione si apre con l’evocazione di un tipo di “piano” originario, la “finestra”, una lastra di vetro trasparente che separa l’esterno dall’interno, sul quale ha origine l’opera d’arte. Questa evocazione metaforica riprende, quasi parola per parola, le metafore di Zola a proposito dell’opera d’arte (metamorfosi dello “schermo” e dell’opera come «finestra aperta sulla creazione»). Sarebbe interessante verificare se le riflessioni di Kandinskij si applicano all’universo dei segni discreti, all’universo delle opere del linguaggio. Se gli storici dell’arte e gli specialisti di estetica conoscono bene la storia di questo dibattito, i letterati al contrario se ne interessano meno15.

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Ritorniamo dunque al testo letterario e a quel tipo di immagini, sia quelle “incorporate” in modo subliminale (dalla prospettiva dei diagrammi e della ritmica) sia quelle esplicitamente “convocate” al momento della rappresentazione di oggetti concreti. In quest’ultimo caso vanno chiarite le funzioni della referenza, discreta o allusiva, alle entità geometriche. 1. Una funzione referenziale all’opera nelle descrizioni di paesaggi, di oggetti, di ritratti di personaggi maschili (“silhouette”, “figure” o anche soltanto “visi” dei personaggi del romanzo, come per esempio il borghese in Flaubert che spesso è soltanto un “profilo”16) o femminili (una bella donna in Balzac è un sistema di “linee”, di “tratti”, di “ovali” e di “curve”), cioè in qualunque punto dell’opera, per evocare qualunque cosa, qualunque aspetto del reale sempre riducibile a un punto, a una linea, a un contorno, a un cerchio. Si ha così un materiale semiotico tuttofare, passe-partout, senza ambiguità semantica, leggibile, sempre pronto a essere utilizzato per una funzione descrittiva locale, sicuramente con un “valore aggiunto”, un effetto di senso supplementare che “astrattizza”, razionalizza e stilizza la descrizione. Infine questo vocabolario della geometria permette anche di regolare complessivamente, attraverso una reticolazione del reale descritto, la descrizione di quello stesso reale “organizzandolo” come forma testuale autonoma, come descrizione in sotto-insiemi (a sinistra, a destra, più lontano) spesso disposti secondo una ”inquadratura”, alcune linee o un “templum” (una “intelaiatura”, una porta)17: «Un cappello di moire bianca inquadrava esattamente un viso d’una eccezionale regolarità, attraverso l’ovale descritto dal nastro di satin, annodato sotto un piccolo mento con fossetta»18. «Il paesaggio era ampio e inquadrava con grandi linee di vegetazione […] l’ampio terreno […] dove piogge recenti avevano lasciato, in qualche solco, alcune linee d’acqua che il sole faceva brillare come sottili fili d’argento»19.

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«Aveva cambiato biancheria e messa una cravatta di raso nero combinata con un colletto rotondo, in modo da incorniciare gradevolmente il suo viso bianco e ridente»20. «Il monumento era destinato a non lasciare il nostro orizzonte durante tutta la giornata perché la navigazione della barca continuava a procedere a zig-zag. Si era fatta sera, il disco del sole scendeva dietro la linea regolare delle montagne libiche»21. «Il porto, illuminato dalla luna, si inquadrava nei vetri e, in quella luce, vicinissima alla casa, spiccava dritta, rotonda e nera una magnifica figura imponente»22. «Poi si misero alla finestra, per ammirare il paesaggio […]. Due vialetti principali, in croce, dividevano il giardino in quattro parti»23. «Gli alberi la dividevano in grossi quadrati diseguali, segnati tra le erbe da linee più scure»24. «Il paesaggio nel riquadro dei finestrini / corre furiosamente»25. «La cittadella di Macherunte sorgeva a oriente del Mar Morto, su un picco di basalto a forma di cono. Lo circondavano quattro valli profonde, due lungo i fianchi, una di fronte, la quarta dietro. Alla sua base, nel cerchio di un muro che seguiva ondulando le disuguaglianze del terreno, s’ammassavano le case; e una strada tagliata a zig-zag nella roccia, collegava la città alla fortezza […] con numerosi angoli» 26. «I tre doppi binari, all’uscita dal ponte, si ramificavano, aprendosi in un ventaglio […]. Sotto la tettoia delle grandi linee, l’arrivo di un treno da Mantes aveva animato la banchina […]. Se ne scorgevano ormai solo i tre fanali di coda […] e il triangolo rosso»27.

L’ inquadratura e la geometrizzazione di ciò che è inquadrato polarizzano e attirano l’attenzione del lettore sull’oggetto descritto, creano un effetto di “composizione logica” (a beneficio dell’autore e

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della sua padronanza dei sistemi descrittivi), mettono in rilievo il soggetto della visione (il personaggio che la prende in carico) come origine e mezzo di questa visione, attraverso il lessico della geometria fanno riferimento indiretto alla pittura (plus-valore supplementare) e organizzano, distribuendolo razionalmente, il reale rappresentato. Nel X I X secolo l’evocazione di alcuni oggetti da descrivere come i paesaggi (con i loro piani più o meno ravvicinati), il corpo umano (con le sue “articolazioni”), l’abito (con i bordi, i cordoncini, la passamaneria, i disegni, le linee, il taglio…) o la ferrovia (con le linee, la rete ramificata, le opere d’arte che appianano il terreno, i punti di giunzione, di arrivo e di partenza) utilizzerà ampiamente questo lessico28. I paesaggi di Flaubert, che spesso sono ridotti a paesaggi piatti, fatti di macchie, lastre o superfici discontinue, di linee, di silhouette e di profili, su questo punto sono esemplari. Rimane da interpretare, in una certa letteratura realista della metà del X I X secolo, l’emergenza di un mondo riducibile a immagini di carta, di un mondo senza spessore, senza profondità, senza volume, un mondo di “piattezze” (si conosce l’accezione peggiorativa di questo termine, in particolare in Stendhal o Flaubert) ridotto a silhouette e superfici. Si è vicini alle sperimentazioni fin de siècle nell’arte delle vetrate tornata di moda (immagini composte di linee di contorno e di campiture29),in quella pittura dove il quadro è definito innanzitutto come una “superficie” (Maurice Denis), una superficie più o meno “chiusa” (Paul Gauguin), dove la natura è considerata un sistema di forme geometriche (Paul Cézanne), in attesa del cubismo e di Kandinskij. Si veda la poesia “astratta”, detta talvolta “cubista”, di un Pierre Reverdy dove le poesie si costruiscono come spazi minerali e rarefatti composti da incroci, muri, angoli, linee, cerchi, quadrati, bordi… 2. Una funzione metalinguistica che permette di parlare – direttamente o per allusione metaforica – di un’opera, della sua struttura, della creazione letteraria, della leggibilità o dell’accettabilità di un’opera, addirittura della letteratura in generale. Una pagina, sia scritta sia stampata, è un disegno di “linee” su una superficie “piana” e progettata secondo un “piano” (un “disegno”/“progetto”30), termini tra i più

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utilizzati dalla critica classica per parlare dell’atto creativo31. È nota la magistrale teorizzazione, in un critico come Roland Barthes, del “punto” nevralgico dell’immagine fotografica, del “punctum” dell’immagine32, quel dettaglio che attrae lo spettatore, come se la distanza metalinguistica (un linguaggio che parla di un linguaggio) utilizzasse di preferenza le figure della spazialità: «Terrò in mano tutti i fili […] essi si irradiano […]. La mia opera […] si muove entro un circolo chiuso»33. «La prosa deve rimanere dritta da un capo all’altro […] e formare una grande linea unita»34. «Manca […] la falsità della prospettiva. A forza di avere ben organizzato il piano, il piano scompare. Ogni opera d’arte deve avere un punto, un vertice, formare una piramide, o meglio la luce deve colpire su un punto della sfera»35.

3. Una funzione incitativa e generativa. Ci si può anche domandare se alcuni personaggi, alcuni paesaggi siano nati nell’immaginazione dello scrittore da un «immaginario geometrico della linea», suscitato e stimolato dal reale36. Conosciamo le rêveries del narratore in Proust sui nomi dei luoghi della linea ferroviaria dell’Ovest. Zola, preparando nel 1868 il piano generale dei suoi futuri RougonMacquart per l’editore parigino Lacroix, gli invia un certo numero di progetti di romanzi in preparazione, precisando per ciascuno quale ne sarà il “quadro”. Egli stesso, lo si è appena visto, concepirà la sua serie che sta portando a termine come racchiusa nel “cerchio” del Secondo Impero. Così, predisponendo nel dossier preparatorio de L’Assommoir (1877) alcuni personaggi, Zola annota per sé l’impegno di fare dei “caratteri ben quadrati”. Allo stesso modo, preparando nelle minute i primi abbozzi del suo romanzo “ferroviario” La Bête Humaine (La Bestia umana) del 1890, Zola annota per sé la consegna di fare «la poesia di una grande linea» e traccia su un foglio di carta una linea, il disegno della “linea” Paris-Le Havre con i suoi “punti” privilegiati (le stazioni di arrivo e di partenza, il passaggio a

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livello a metà percorso della “Croix-de-Maufras”, punto di incrocio ben conosciuto, luogo “cruciale” dove si svolgono gli avvenimenti principali del romanzo, assassinî e incidenti). Zola ci mostra i suoi disegni manoscritti nei dossier preparatori, ama organizzare l’intrigo, come la topografia dei suoi romanzi, a partire dai cerchi (delle città, di un grande giardino), dai quadrati (delle piante, degli appartamenti) e soprattutto da un punto e dalle linee (strade, corsi, vie, mura, fiumi) che convergono verso quel punto che funge da incrocio. L’ ambivalenza semantica linea di scrittura/linea di lettura/linea ferroviaria (la locomotiva del romanzo che percorre la linea e ne osserva i segnali intervallati si chiama la “Lison”37) favorisce il gioco dell’immaginazione creatrice. Tutto accade come se gli schemi generassero i temi del romanzo da scrivere. Simmetricamente lo stesso accade in alcune opere autobiografiche e retrospettive (e non più prospettive) come se i ricordi trattenessero meno i temi del reale che il ricordo degli schemi o delle forme dei ritmi astratti. Come nel capitolo quarantacinque de La Vie de Henry Brulard (Vita di Henry Brulard)38, testo autobiografico in cui il narratore Stendhal, trascorsi molti anni, ricorda meno il passaggio del San Bernardo con l’armata di Napoleone che i “movimenti” (alcuni ritmi, una salita, gli zig-zag o la “linea diritta” del sentiero, un precipizio verticale, una “lunga discesa circolare”) o le “immagini” piatte e scolorite che hanno “preso il posto della realtà” (“incisioni”), che rappresentano l’avvenimento e che si potranno osservare soltanto successivamente39. Questa schematica stimolatrice (o, forse, ricapitolatrice nel caso di alcune autobiografie, come si è visto nel caso di Stendhal) dovrà essere studiata sicuramente autore per autore e genere per genere, avendo forse ciascun genere (il romanzo realista, l’autobiografia, il fantastico, la poesia lirica) i propri “capitolati”, i propri temi, i propri soggetti e le proprie costrizioni, tipiche della materia. Si può anche ricordare, per finire, il caso di un sottogenere del paesaggio, tanto letterario che pittorico, la “marina” (un’evocazione della riva del mare) genere articolato e reticolato da alcune linee reali: linea della riva che separa il mare dalla terra, orizzonte che separa il cielo dal mare. Queste linee servono innanzitutto a reticolare la descrizione del paesaggio attraverso l’intelaiatura (“il templum”) di una

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finestra ideale (davanti, più lontano, a sinistra, di sotto) a partire da un punto (di vista), ma anche a scatenare e orientare la “figurazione” semantica del testo suggerendo certi tipi di “immagini” (immagini retoriche, immagini da leggere, “figure” di analogia, comparazioni e metafore). Ecco due esempi tratti dalla poesia del X I X secolo e da poeti radicalmente diversi, Marine di Arthur Rimbaud e Floridum mare di José-Maria de Hérédia: «Carri d’argento e di rame – / Prore d’acciaio e d’argento – / Battono la spuma, – / Sollevano i ceppi dei rovi. / Le correnti della landa, le immense / Carreggiate del riflusso, filano / Circolarmente a est / Verso i pilastri della foresta – / Verso i fusti della diga, / Che ha l’angolo urtato da turbini di luce»40. «Le messi traboccano sulla pianura iridescente / oscilla, ondeggia e si dispiega al vento fresco che la culla; / e il profilo, nel cielo lontano, di qualche erpice / sembra un battello che rulli e innalzi un nero bompresso. // E sotto i miei piedi, il mare, fino al tramonto purpureo, / ceruleo o roseo o viola o variegato, / O bianco di onde che il riflusso disperde, / verdeggia all’infinito come un immenso prato. // Così i gabbiani che seguono la marea, / verso i grani maturi che un mareggio dorato gonfia, / Con grida gioiose volavano a modo di turbine; // Mentre da terra, una brezza mielata, / sparpagliava assecondando la loro ebbrezza alata / Sull’oceano fiorito voli di farfalle»41.

È facile comparare e opporre la fattura del sonetto di de Hérédia, iperclassica, “parnassiana”, retorica, con la sua orgia di epiteti (il segnale più convenzionale di una certa “poeticità”), ai “versi liberi” di Rimbaud. Ma entrambi sembrano similmente ben organizzati attorno o a partire da un piano (la “pianura” di de Hérédia, la “landa” di Rimbaud) sul quale linee e figure ritmiche (“turbini” nei due testi, “disperdono”, “oscilla”, “ondeggia”, “culla”, “disperde”, “rulla”, “innalza”, “batte”, “solleva”, “urta”, “filano circolarmente”) e linee di demarcazione (“profili”, “orizzonti”, “solchi”, “angoli”, “correnti”, “circolarmente”) organizzano e discriminano parti di spazio. Ma soprattutto si vede che la linea che separa la terra (campo A) dal

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mare (campo B) suggerisce una specie di “barra” semantica, genera una serie di comparazioni e metafore (“figure” dell’analogia, secondo la retorica delle “immagini”), suscita rapporti semantici tra elementi presi nei due “campi”: a1 è come b1, a2 è come b2, a3 è come b3 e così via. L’ erpice (oggetto terrestre) è assimilato a una nave (oggetto marino), la farfalla (animale terrestre) è come il gabbiano (animale marino), la corrente (del mare) è come il solco (della terra), la prora (del battello) è come il carro (della terra), i rovi sollevati (della terra) sono come la spuma battuta (del mare), i fusti (della diga) sono come i fusti (del bosco), le messi “traboccano”, il grano è gonfiato da un “mareggio”, il mare è “fiorito” e “verdeggia” come un “prato”… La parola mouton con i suoi due sensi (animale terrestre e tipo di onda che si frange, nel vocabolario marino42) assicura l’innesto e la connessione dei due campi semantici. A titolo di esempio supplementare di “marina”, con mondi (marittimi e terrestri) in intercomunicazione attraverso un sistema continuo di comparazioni e metafore, si potrebbero aggiungere due esempi presi da A la recherche du temps perdu (Alla ricerca del tempo perduto) di Marcel Proust. Nel primo, il narratore racconta una serata a teatro e la sua visione affascinata della barcaccia (baignoire) della duchessa e della principessa di Guermantes: «Quanto meno, dicendo quella frase al controllore, egli scavava in una banale serata della mia vita quotidiana un’eventuale galleria verso un mondo nuovo: il corridoio che gli venne indicato, dopo che fu pronunciata la parola “barcaccia” e lungo il quale egli si incamminò, era umido e screpolato e sembrava conducesse a qualche grotta marina, al reame mitologico delle ninfe acquatiche»43.

Il termine polisemico baignoire (tipo di loggia del teatro, vasca da riempire d'acqua per il bagno) pronunciata da uno spettatore “collega” un mondo all’altro e nell’evocazione di questo mondo “altro” scatena quindi l’idea di sotto-mondi (l’orchestra, le barcacce e le logge, la scena, gli uomini e le donne, la parte anteriore e il fondo della barcaccia) separati da molte linee, piani o frontiere invisibili (“limite verticale”, “superficie”, “confine”, “due parti della realtà”, “confine del loro

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regno”, “sezione perpendicolare”) che le comparazioni e le metafore mettono in comunicazione, confrontando sistematicamente l’acquatico e il terrestre: “ondulazione di flussi” degli spettatori, “mareggiare” dei ventagli, “strapuntini della riva”, “tritoni barbuti”, “nereidi”, “alga liscia”, divano come uno “scoglio di corallo”… Il secondo racconta la visita del narratore all’atelier del pittore Elstir44. Su differenti “rettangoli di tela” egli scorge scene in riva al mare, di «marine dipinte lì, a Balbec» che producono un tipo di «metamorfosi delle cose rappresentate, analoga a quella che in poesia si chiama metafora»45, trattando in modo pittorico il mare come fosse la terra e viceversa: «Una delle metafore più frequenti, nelle marine ch’egli aveva con sé in quel momento, era appunto quella che, paragonando l’una all’altro, sopprimeva ogni demarcazione tra la terra e il mare […] grazie all’impiego di soli termini marini per la piccola città, e di soli termini urbani per il mare […] il pittore aveva saputo abituare gli occhi a non riconoscere frontiere rigide, delimitazioni assolute, tra la terra e l’oceano»46.

Segue una lunga descrizione (ékphrasis) di un mondo pittorico “anfibio” – è il termine di cui si serve Proust – dove ciascun elemento di uno dei due campi (il battello, i pescatori, il porto, le rocce) è sistematicamente comparato a quello dell’altro. Come in de Hérédia e Rimbaud. Dunque, in un sistema descrittivo, ogni linea – reale o sognata, presente o assente, astratta o concretizzata in un “tema” realista, ridotta a un punto o sviluppata in “figura” su un piano – può servire tanto da generatore (da stimolo, per il creatore) quanto da organizzatore interno (percettivo, per il lettore). Questo, per quanto riguarda il testo letterario, resta ancora da studiare e valutare ampiamente.

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NOTE

1. Cfr. P. Bourget, La Dame qui a perdu son peintre (La dama che ha perduto il suo pittore). 2. Cfr. E. Zola, L’Œuvre (L’opera). 3. Cfr. E. Goncourt, La Maison d’un artiste (La casa di un artista). 4. Cfr. l’insegna dell’albergo dei Thénardier ne I miserabili di V. Hugo, l’insegna del negozio Chat qui pelote (Gatto che gioca a palla) nel romanzo eponimo di H. de Balzac ecc. 5. Cfr. per esempio l’immagine di Epinal descritta da Arthur Rimbaud sotto forma di un sonetto umoristico nella poesia intitolata L’Eclatante victoire de Sarrebruck (La strepitosa vittoria di Saarbrücken) del 1870. Cfr. la mia analisi di questa poesia Images parlantes, paroles imageantes et images parlées, in M. Gagnebin (a cura di), Les Images parlantes, Champ Vallon, Seyssel 2005, ora in Ph. Hamon, Imagerie, Corti, Paris 2007, pp. 309-326. 6. Apparsa nella raccolta Trois contes (Tre racconti) del 1877. 7. G. Flaubert, Un Cœur simple, in Id., Œuvres, Gallimard, Paris 1952, vol. II, pp. 591-622 (Un cuore semplice, trad. it. di G. Raboni, in Id., Opere, vol. II, Mondadori, Milano 2000, pp. 817-854). 8. Cfr. su questo punto (la presenza subliminale dell’analogica e del “motivato” nell’universo dei segni arbitrari) l’articolo di R. Jakobson, A la recherche de l’essence du langage, in Id., Problèmes du langage, Gallimard, Paris 1966 (Alla ricerca dell’essenza del linguaggio, trad. it. di L. Del Grosso Destreri, in E. Benveniste et al., I problemi attuali della linguistica, Bompiani, Milano 1968, pp. 27-45). 9. Cfr. ad esempio Le Ministre (Il ministro) o 14 juillet (14 luglio) di F. Ponge. Cfr. anche la poesia O P O E T I C di Blaise Cendrars «Il y avait une fOis des pOètes qui parlaient la bOuche en rOnd…» 10. P. Eluard, L’Arbre-rose, in Id., Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1968, vol. I, p. 591. 11. Per un esempio famoso di poesia diagrammatica si veda la poesia di Victor Hugo Les Djinns (I digionesi). 12. Sul ritmo come figura di organizzazione spaziale si veda l’articolo classico di E. Benveniste, La Notion de «rythme» dans son expression linguistique, in Id., Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966, pp. 327-335 (La nozione di “ritmo” nella sua espressione linguistica, trad. it. di M.V. Giuliani, in Id., Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 390-400). 13. Lo schema dell’albero genealogico sta alla base delle grandi serie di romanzi familiari come I Rougon-Macquart di Zola (venti romanzi pubblicati tra il 1871 e il 1893). 14. P. Laforgue, Critique d’art, in Id., Mélanges posthumes, Mercure de France, Paris 1919, p. 177.

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15. Cfr. gli studi di G. Poulet sull’immaginario del cerchio. 16. Dove la “bestia” diventa una cosa vista, e prende spesso la forma di un’“immagine”: un profilo, una reclame, un “cliché”: «i due amici svilupparono una facoltà degna di compassione, quella di riconoscere la stupidità e di non tollerarla più. Si deprimevano per cose insignificanti: la pubblicità dei giornali, il profilo di un borghese, una stupidaggine ascoltata per caso». Cfr. G. Flaubert, Bouvard et Pécuchet, in Id., Œuvres, cit., vol. II, p. 915 (Bouvard e Pécuchet, trad. it. di E. Ferrero, in Id., Opere, cit., vol. II, pp. 1171-1172). 17. Sull’importanza di queste strutture in “templum” per reggere e organizzare le descrizioni spaziali nell’opera letteraria, si veda il mio saggio Du descriptif, Hachette, Paris 1981, nuova edizione 1993. L’edificio chiamato “tempio” (si veda la pendola di Flaubert «fatta a imitazione di un tempio di Vesta» in Un cuore semplice partecipa di questa etimologia del “templum” come divisione e ritaglio dello spazio augurale nelle antiche religioni latine. 18. H. de Balzac, Une Double famille, in Id., La Comédie humaine, Gallimard, Paris 1951, vol. I, p. 962. 19. G. Sand, La Mare au diable, in La Mare au diable et François le champi, Garnier Frères, Paris 1956, p. 17. 20. H. de Balzac, Eugénie Grandet, in Id., La Comédie humaine, Gallimard, Paris 1952, vol. III, p. 509 (Eugenia Grandet, trad. it. di F. Gemina, U T E T , Torino 1951, p. 72). 21. G. de Nerval, Voyage en Orient, in Id., Œuvres, Gallimard, Paris 1961, vol. II, p. 233 (Viaggio in oriente, trad. it. di B. Nacci, Einaudi, Torino 1997, p. 211). 22. V. Hugo, Les Travailleurs de la mer, in Id., Œuvres complètes, Laffont, Paris 1985, vol. III, p. 308 (I lavoratori del mare, trad. it. di G. Di Belsito, R. Prinzhofer, Mursia, Milano 1966, p. 284). 23. G. Flaubert, Bouvard et Pécuchet, cit., p. 730 (trad. it. cit., p. 958). 24. Ibidem, p. 733 (trad. it. cit., p. 962). 25. P. Verlaine, La Bonne chanson, in Id., Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1962, p. 146 (La buona canzone, trad. it. di M. Pasi, in Id., Poesie, Guanda, Parma 1967, p. 119). 26. G. Flaubert, Hérodias, in Id., Œuvres, cit., vol. II, p. 649 (Erodiade, trad. it. di G. Raboni, in Id., Opere, cit., vol. II, p. 886). 27. E. Zola, La Bête humaine, in Id., Les Rougon-Macquart, Laffont, Paris 2002, vol. V, pp. 22-23 (La bestia umana, trad. it. di F. Francavilla, Rizzoli, Milano 2004, pp. 15-16 e p. 44). 28. Si veda il mio articolo Figures de lignes apparso nell’opera collettiva dedicata alle rappresentazioni del treno in letteratura: Feuilles de rail, a cura di G. Chamarat, C. Leroy, Editions Paris-Méditerranée, Paris 2006, ora con il titolo Le Train : figures de lignes in Ph. Hamon, Imagerie, cit., pp. 363-394. 29. Un “racconto” come La Légende de Saint-Julien l’hospitalier (La leggenda di San

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Giuliano l’ospitaliere) del 1877 di Flaubert è esplicitamente presentato, infine, come ispirato da una vetrata reale. 30. In francese è evidente il gioco di parole tra “dessin” (disegno) e “dessein” (progetto) [N.d.T.]. 31. Alla fine del X V I I I secolo Marmontel annota alla voce Plan dei suoi Eléments de littérature (1787), Desjonqueres, Paris 2005, p. 886: «Questo termine tratto dall’architettura e applicato alle opere dello spirito, indica i primi lineamenti che tracciano il disegno di un’opera, la sua estensione circoscritta, il suo inizio, il suo centro, la sua fine, la distribuzione e l’ordinamento delle parti principali, i loro rapporti, i loro concatenamenti». 32. Cfr. R. Barthes, La Chambre claire, Gallimard, Paris 1978 (La camera chiara, Einaudi, Torino 1980). 33. E. Zola, Préface, in Id., La Fortune des Rougon, cit., vol. I, pp. 15-16 (La fortuna dei Rougon, trad. it. di S. Timpanaro, Garzanti, Milano 1992, pp. 3-4). 34. G. Flaubert, Lettre à Louise Colet (2 luglio 1853), in Id., Correspondance, Conard, Paris 1926-1954, vol. III, p. 264. 35. G. Flaubert, Lettre à Mme. Roger des Genettes (ottobre 1879), in Id., Correspondance, cit., vol. VIII, p. 309. Alla fine de L’Education sentimentale si trova la stessa “immagine” nella bocca dell’eroe Federico che fa il bilancio di una vita fallita: «Forse il difetto di una linea dritta» dice Federico (“difetto” qui ha il senso di “mancanza”). Cfr. G. Flaubert, L’Education sentimentale, in Id., Œuvres, cit., vol. II, p. 455 (L’educazione sentimentale, trad. it. di G. Bogliolo, in Id., Opere, cit., vol. II, p. 522). 36. Questi disegni e piani di mano di Zola sono stati commentati e pubblicati da Olivier Lumbroso nei suoi saggi La Plume et le compas, la construction de l’espace dans les Rougon-Macquart de Zola (Champion, Paris 2004) e Les Manuscrits et les dessins de Zola (in collaborazione con Henri Mitterand, Textuel, Paris 2002). Cfr. anche il suo articolo: Zola acrobate des figures in J.P. Leduc-Adine e H. Mitterand (a cura di), Lire/Délire Zola, Nouveau Monde Editions, Paris 2004, pp. 213-228. I dossier preparatori di Zola sono conservati presso la Biblioteca Nazionale di Parigi (Dipartimento Manoscritti). Il dossier preparatorio di Rêve, che comprende numerose mappe fatte da Zola, così come i disegni e le mappe del suo amico, l’architetto Frantz Jourdain, è integralmente accessibile dal server Gallica della Biblioteca Nazionale di Francia (http://gallica.bnf.fr/Zola/). 37. In francese è evidente il gioco di parole tra “Lison” e “liaison” (collegamento) [N.d.T.]. 38. Stendhal, La Vie de Henry Brulard, in Id., Œuvres intimes, Gallimard, Paris 1955, in particolare pp. 377-383 (La vita di Henry Brulard, trad. it. di N. Palmieri, Adelphi, Milano 1997, pp. 400-407). 39. Il testo di Stendhal è accompagnato da piccoli schizzi “geometrici” di mano dell’autore, dove il paesaggio è ridotto a linee, in cui egli annota e dà il nome ad alcuni “punti” (il punto “O”, “D”, “L”, “da R a P”, “da P a E”…).

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40.Questa poesia, tratta da una raccolta di testi scritti tra il 1871 e il 1875, viene considerata da alcuni storici della letteratura, come il primo esempio francese di poesia in versi liberi: «Les chars d’argent et de cuivre – / Les proues d’acier et d’argent – / Battent l’écume, – / Soulèvent les souches des ronces. / Les courants de la lande, et les ornières immenses du reflux, / Filent circulairement vers l’est, / Vers les piliers de la forêt, – / Vers les fûts de la jetée, / Dont l’angle est heurté par des tourbillons de lumière». Cfr. A. Rimbaud, Illuminations, Corti, Paris 2005, p. 441 (Illuminazioni, in Id., Opere, a cura di D. Grange Fiori, Mondadori, Milano 1975, pp. 282-355, p. 329). 41. J.-M. de Hérédia, Floridum Mare, in Id., Les Trophées, A. Lemerre, Paris 1893, p. 139 (Floridum Mare, in Id., I trofei, trad. it. di S. Ferrari, Ariele, Milano 1996, pp. 258-259): «La moisson débordant le plateau diapré / Roule, ondule et déferle au vent frais qui la berce ; / Et le profil, au ciel lointain, de quelque herse, / Semble un bateau qui tangue et lève un noir beaupré. // Et sous mes pieds, la mer, jusqu’au couchant pourpré, / Céruléenne ou rose ou violette ou perse, / Ou blanche de moutons que le reflux disperse, / Verdoie à l’infini comme un immense pré. // Aussi les goélands qui suivent la marée, / Vers les blés mûrs que gonfle une houle dorée, / Avec des cris joyeux volaient en tourbillons ; // Tandis que, de la terre, une brise emmiellée, / Eparpillait au gré de leur ivresse ailée / Sur l’Océan fleuri des vols de papillons». Cfr. nella stessa raccolta Soleil couchant (Tramonto) un’altra “marina” dalla struttura (la “barra” che “sbarra” e organizza il paesaggio) e dalla tematica molto vicina: «Au loin brillant encore par sa barre d’écume / La mer sans fin commence où la terre finit» (in Les Trophées, cit. p. 140); «Brillante da lontano per la sua sbarra di schiuma / Il mare senza fine inizia dove la terra finisce» (trad. it. cit., pp. 260-261). 42. Il doppio senso del termine “mouton”, come nel caso successivo di “bagnoire” (barcaccia), è valido soltanto nella lingua francese. In italiano alla “pecorellamouton” del vocabolario marino potremmo sostituire le “colombelle” che colorano di bianco le onde del mare [N.d.T.]. 43. M. Proust, Le Côté de Guermantes, in Id., A la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1954, vol. III, p. 36 (I Guermantes, trad. it. di G. Raboni, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1986, vol. III, p. 40). 44.M. Proust, A l’ombre des jeunes filles en fleurs, in Id., A la recherche du temps perdu, cit., vol. I, pp. 835-836 (All’ombra delle fanciulle in fiore, trad. it. di G. Raboni, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, cit., vol. I, pp. 1012-1013). 45. Ibidem (trad. it. cit., p. 1011). 46. Come la parola “mouton”, bivalente nel testo di Hérédia, o la parola bivalente “bagnoire” per l’episodio del teatro, qui la parola “terme” (termine), che si può avvicinare al suo omonimo “therme” (terme), ha potuto funzionare come innesto-disinnesto di questa metafora continua.

Traduzione dall’inglese di Federica Mazzara.

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Uno dei luoghi comuni più diffusi sulla natura della fotografia digitale (e sull’immagine digitale in generale) consiste nel sostenere che l’avvento della digitalizzazione ha indebolito l’antica convinzione secondo cui le immagini fotografiche rappresentano il mondo in modo fedele, naturale e puntuale. Si dice che la fotografia tradizionale basata su un processo chimico abbia avuto una relazione indessicale col referente perché era fisicamente obbligata a formare un’immagine attraverso i raggi di luce emanati dal soggetto. Questa immagine o parvenza era in tal modo doppiamente referenziale, una doppia copia, poiché era, da un lato, un’impressione o traccia, e, dall’altro, una riproduzione o un analogon. Che fosse indice o icona, essa forniva una sorta di registro a doppia entrata del reale. Come la traccia del fossile, l’ombra o il riflesso su un lago immobile, la fotografia tradizionale era un segno naturale. Possedeva un attestato di realismo come parte integrante della sua ontologia di base. Certo si potrebbe riconoscere, come osserva Mark Hansen, che «lo spettro della manipolazione è sempre andato a caccia dell’immagine fotografica» anche se egli insiste sul fatto che «questa è l’eccezione piuttosto che la regola»1. Come osserva il mio quasi omonimo William J. Mitchell «il riadattamento di immagini fotografiche è tecnicamente difficile, prende molto tempo ed è fuori dal mainstream della pratica fotografica»2. Con Photoshop, presumibilmente, la rielaborazione o l’“alterazione” delle fotografie diventa tecnicamente facile, veloce e piuttosto comune.

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Ricordo un gioco che mio padre era solito fare con le fotografie di famiglia. Consisteva nel posizionare me e le mie sorelle dietro di lui sul pendio di una collina in alto, mentre mia madre ci fotografava creando l’illusione che fossimo dei bambini minuscoli, sospesi sopra i palmi delle mani aperte di mio padre. La fotografia in sé non era manipolata, ma l’evento filmico era preparato e messo in scena in modo da sfruttare l’automatismo meccanico delle lenti della macchina fotografica (il suo disegno prospettico) per creare un’illusione. Quando il Kaiser Wilhelm andò in Palestina nella prima decade del XX secolo incontrò l’amico Theodor Herzl. Si presentò così l’opportunità fotografica di mostrarli insieme. Sfortunatamente una volta sviluppate le fotografie, si scoprì che il Kaiser e Herzl in realtà non si trovavano insieme in nessuno degli scatti. Così le fotografie tornarono nella camera oscura e fu prodotta una famosa foto di Herzl e del Kaiser insieme. Considerato che i due uomini si incontrarono davvero, questa fotografia andava comunque considerata un falso? Si trattava di un evento insolito? Era tecnicamente difficile o richiedeva molto tempo? Era fuori dall’ordinario? Cosa succederebbe se una foto così carica di significato politico come questa fosse prodotta oggi con Photoshop? Sarebbe considerata autentica, oppure lo “spettro della manipolazione” le vagherebbe attorno in virtù del suo carattere digitale? Per molti anni la contraffazione HerzlKaiser non fu scoperta. Se si fosse trattato di un trucco digitale sarebbe stato invece immediatamente percepibile? Oppure è l’impercettibilità dello “spettro della manipolazione” ad insinuare il dubbio su tutte le fotografie digitali? In questo caso, saremmo punto e a capo. Se tutte le fotografie digitali dessero adito a sospetti semplicemente per il fatto di essere digitali, allora nessuna potrebbe essere più affidabile (o inaffidabile) delle altre. Io utilizzo Photoshop per fabbricare un’illusione una volta l’anno, in occasione della consueta cartolina natalizia della mia famiglia. Una volta ho provato a restringere mia moglie e i miei bambini fino a trasformarli in piccoli nani, poi li ho sistemati sulla merlatura di uno dei miei castelli di sabbia: poiché le mie dimensioni erano rimaste invariate, incombevo su di loro come un Leviatano. È inutile precisare che questa foto non incontrò l’approvazione di mia moglie e

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dei miei figli; oggi esiste soltanto in una copia sbiadita e in un archivio digitale. Si tratta di una pratica rara o eccezionale? Era tecnicamente difficile? Fuori dalla pratica professionale comune? Il mio normale utilizzo di Photoshop ha, in realtà, proprio la finalità opposta: si tratta di ciò che viene chiamata “ottimizzazione” delle immagini in vista di una certa finalità – rimpicciolirle per proiettarle oppure per trasmetterle via internet, convertirle in formato .tiff per produrre stampe a colori ad alta risoluzione. In altre parole io manipolo quasi tutte le immagini digitali che arrivano sul mio computer, non per falsificarle o per contraffare qualcosa, bensì per valorizzare la loro capacità di assumere ruoli molto simili alle tradizionali diapositive o alle stampe fotografiche. In realtà non sono esperto in nessuna di queste pratiche. Spesso le mie presentazioni in Power Point vengono criticate perché contengono immagini di modesta qualità e a bassa risoluzione scaricate da internet. La mia risposta è che si tratta di una sorta di realismo. Perché dovrei provare a simulare la saturazione di colore e la messa a fuoco di una diapositiva, quando in realtà non sto mostrando diapositive ma proiezioni digitali a 72 dpi? Se realismo significa qualcosa, allora certamente significa onestà rispetto alle immagini di qualcuno. La foto della famosa rivista Life Magazine che mostra Lee Harvey Oswald con in mano il fucile a canna che uccise Kennedy è probabilmente un falso. Che differenza fa il fatto che fosse una fotografia chimica e non digitale? Tutti questi esempi ci servono per indebolire o, almeno, mettere in discussione il mito prevalente secondo il quale la fotografia digitale avrebbe un’ontologia differente rispetto a quella basata su processi chimici. Quest’ontologia richiederebbe un diverso rapporto col referente basato su informazione, codificazione e segni (il dominio simbolico), piuttosto che sulle dimensioni iconiche e indessicali della fotografia tradizionale. Questi esempi inoltre inducono a domandarsi se questa stessa ambigua “ontologia” (che isola l’“essenza” della fotografia dal mondo sociale in cui essa opera e reifica un singolo aspetto dei suoi processi tecnici)3 abbia qualche relazione fissa con questioni che riguardano il rapporto tra autenticità e falsificazione e quello tra immagini “manipolate” e “naturali”. È chiaro

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che l’autenticità, il valore reale, l’autorità, la legittimità delle fotografie (assieme al loro valore estetico, al loro carattere sentimentale, alla loro popolarità ecc.) sono questioni abbastanza indipendenti dal carattere “digitale” o “chimico analogico” delle fotografie. L’ idea che il carattere digitale di un’immagine stia in un rapporto imprescindibile con il significato di quell’immagine, i suoi effetti sui sensi, il suo impatto sul corpo o sulla mente dello spettatore, è uno dei grandi miti del nostro tempo. Si basa su un errore nella comprensione del concetto di concretezza: una specie di volgare determinismo tecnico crede che l’ontologia di un medium sia effettivamente determinata dall’importanza della sua materialità e dal suo carattere tecnico-semiotico. Preferisco la definizione dei media proposta da Raymond Williams come «pratiche sociali materiali» che coinvolgono abilità, tradizioni, generi, convenzioni, abitudini e automatismi, tanto materiali quanto tecnici. Vorrei qui dimostrare come il mito della fotografia digitale sia proprio l’opposto. Invece di rendere la fotografia meno credibile, meno legittima, la digitalizzazione ha prodotto una generale “ottimizzazione” della cultura fotografica, grazie alla quale sono possibili simulazioni sempre più sofisticate di effetti di realismo e una maggiore ricchezza informativa rispetto alla fotografia tradizionale. La mia stampante a inchiostro oggi può produrre immagini 8 x 10 con una resa di colore brillante, una pratica considerata rara ed eccezionale in passato. La nuova “tendenza” della fotografia digitale è verso “copie profonde” – che contengono molte più informazioni sull’originale di quelle di cui noi avremo mai bisogno – e ancora verso “super copie” – che possono essere migliorate, perfezionate e anche manipolate, e non per falsificare qualcosa ma per produrre un’immagine per quanto possibile a fuoco e con una luce ben distribuita, in altre parole per produrre qualcosa di simile ad una fotografia dalla qualità professionale tipica del vecchio stile. Non dobbiamo dimenticare il monito di McLuhan, secondo il quale uno dei primi effetti di un nuovo medium è semplicemente la simulazione e la sostituzione di un medium più vecchio. Ciò che la fotografia digitale sta facendo ai sensi, al corpo, al referente, al segno, all’immagine – molto

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meno di quanto non faccia il “Reale”, l’entità più evanescente mai conosciuta – dovrebbe essere una questione da dirimere a partire da alcuni particolari empirici, non una deduzione trascendentale basata su una semplice descrizione di caratteristiche tecniche riguardanti la digitalizzazione delle immagini. Con questo non intendo dire, comunque, che la digitalizzazione non abbia prodotto alcuna trasformazione nella fotografia o nella creazione delle immagini e più in generale nella loro circolazione. Semplicemente ciò va inteso come un complesso cambiamento nei diversi livelli della cultura fotografica e dell’immagine, un cambiamento nella loro produzione automatica che comporta usi popolari e anche professionali, politici e scientifici, ed è legato più in generale ai modi di produzione, vale a dire, alle nuove forme di mantenimento in vita o di riproduzione delle immagini. La mia critica è rivolta alla riduzione della fotografia digitale a mera essenza materiale e tecnica, «da basare – come afferma William J. Mitchell, il mio quasi omonimo – su caratteristiche fondamentalmente “fisiche”, invece che su usi e pratiche sociali»4. Utilizzerò come esempio principale la discussione di Mitchell sulla fotografia digitale, semplicemente perché il suo libro, The Reconfigured Eye (L’occhio riconfigurato) è spesso citato come il più autorevole, un “classico” sull’argomento. Ma avrei potuto facilmente utilizzarne altri, da Stanley Cavell a David Rodowick, che parlano di ontologia del medium a partire dalle caratteristiche materiali e tecniche. L’ uso principale della fotografia digitale (oltre ad aver simulato gli effetti della fotografia chimica amatoriale) ha contribuito all’approfondimento della questione del referente, non alla sua scomparsa. Questo punto è dimostrato dal frequente ricorso di Mitchell ad esempi tecnico-scientifici quali «l’immaginario della navicella spaziale» che rende possibile il «punto di vista dalla prospettiva»5 di un paesaggio vulcanico su Venere. Le immagini digitali in questo caso migliorano la riuscita di uno dei più importanti traguardi della fotografia “classica” o “realista”, cioè la rivelazione di realtà inaccessibili ad occhio nudo (vedi il famoso Picturing Vision di Joel Snyder). C’è davvero chi ritiene che la digitalizzazione delle immagini a raggi X o delle risonanze magnetiche comprometta “l’aderenza al referente” di queste immagini?

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Certamente i tipi di manipolazione e artificio che erano già resi possibili dalla fotografia tradizionale diventano ancora più semplici nella camera oscura digitale. Photoshop è corredato di strumenti magici per la distorsione, il perfezionamento, il “taglia e incolla”, il ridimensionamento, il ritaglio e l’ottimizzazione. Ma nonostante l’ansia relativa all’incapacità «di distinguere tra un’immagine genuina e una che è stata manipolata»6, l’attuale uso professionale della fotografia digitale nei nuovi media ha rivelato quanto straordinariamente pochi siano stati i tentativi di fabbricare immagini false o ambigue. Il fatto stesso che il “taglia e incolla” sia così facile, ha avuto, infatti, proprio l’effetto opposto sulle pratiche professionali e la National Press Photographer’s Association si è preoccupata di mettere in guardia dall’uso della tecnologia digitale per “creare falsi”. Si tratta di una fantasia paranoica, proprio come per la distinzione tra un’immagine “genuina” e una “manipolata”, dato che ogni fotografia realizzata in modo tradizionale era anch’essa una manipolazione prodotta dalla tecnica, dai materiali ordinari e dalle decisioni riguardanti cosa fotografare, come sviluppare e come stampare. Il concetto di immagine “genuina” è un fantasma ideologico. Questo, poi, non significa che la macchina fotografica possa essere utilizzata per mentire o che le fotografie possano essere manipolate per ingannare. Semplicemente l’invenzione dell’immagine digitale non fa di questa capacità la chiave di un’“ontologia della fotografia digitale”. Se l’ontologia è lo studio dell’essere, allora non dobbiamo dimenticare che l’ontologia della fotografia dovrebbe concentrarsi sull’essere nel mondo e non su una caratterizzazione riduttiva della sua essenza. Mitchell si concentra molto sulle pratiche di “de-realizzazione” delle immagini che furono inizialmente messe alla prova nella prima guerra del Golfo, dove «bombe laser comandate avevano videocamere poste sull’ogiva» e «i piloti e i comandanti di carri armati divennero cyborg inseparabili dalle elaborate protesi visuali che consentivano loro di vedere immagini di un verde spettrale, immagini di campi di battaglia al buio, elaborate digitalmente»7. Egli non nota, comunque, che queste immagini di un verde spettrale permettono agli esseri umani di vedere ciò che altrimenti rimarrebbe invisibile.

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Siamo qui di fronte ad una sorta di paradosso nella relazione fra la tecnologia dell’immagine e il suo referente: ciò che era buio è illuminato, ciò che potrebbe non essere visto si offre alla vista. La “derealizzazione” riguarda soltanto la visione notturna naturale dell’uomo che da sola non gli permette di vedere nulla. Dunque si tratta di una perdita o di una conquista di realtà? La mia sensazione è che sia entrambe e che ogni tentativo di parteggiare per l’una o per l’altra comporterebbe la perdita della visione d’insieme di questo tipo di tecnologia dell’immagine, in quanto pratica universale. Riguardo alla Guerra del Golfo, Mitchell osserva con piglio critico: «Non c’era Matthew Brady a mostrarci i corpi a terra, né Robert Capa a metterci di fronte alla realtà umana di una pallottola che attraversa la testa. Piuttosto alle persone a casa venivano mostrate immagini di distruzioni distanti e impersonali, accuratamente sezionate, catturate elettronicamente, talvolta realizzate digitalmente. La carneficina divenne un videogioco: la morte imitò l’arte»8.

Questa dichiarazione è evidentemente selettiva. Erano in realtà immagini di corpi iracheni in tempo reale, quelle trasmesse mediante satellite da Baghdad dopo che una “bomba intelligente” americana aveva distrutto ciò che poi si sarebbe rivelato una struttura civile. Erano fotografie (probabilmente non digitali) di tracce di distruzione lasciate dall’esercito iracheno in ritirata, massacrato in un turkey shoot di bombe e missili americani (sebbene la loro circolazione, assieme a quella di immagini di bare di militari americani, venisse censurata). Anche se non c’era Robert Capa, c’era comunque Peter Arnett a verificare l’autenticità delle immagini dei civili iracheni morti. C’è da chiedersi cosa direbbe Mitchell sul ruolo della fotografia e dei video digitali nell’attuale guerra in Iraq9. Le famose foto di Abu Ghraib sono tutte digitali. Una delle più note (quella che mostra un’ammucchiata di uomini iracheni nudi) è stata usata come salvaschermo in un computer della prigione stessa. La digitalizzazione delle foto, per quanto ne sappia, non ha avuto alcun effetto sulla loro ricezione in quanto illustrazioni autentiche e realistiche di ciò che stava accadendo dentro quella prigione, e, inoltre, in quanto

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rivelatrici delle peculiari attitudini al sadico divertimento che caratterizzava la presenza degli americani di fronte e dietro la macchina fotografica. Come le fotografie dell’inizio del ventesimo secolo che mostravano il linciaggio americano, queste immagini sono rivelazioni di una realtà strutturale, sociale e politica che altrimenti si sarebbe ridotta a un semplice rumore o a un resoconto verbale. Certamente queste immagini avrebbero potuto essere manipolate e prodotte per trasmettere false informazioni. E, in effetti, molte sono state visibilmente modificate per cancellare le facce delle vittime irachene. Un’intera industria di fotografie false e artefatte di Abu Ghraib si è diffusa velocemente su internet al posto di quelle autentiche. Ma queste immagini sono state falsificate nello scenario profilmico, non nel procedimento digitale. La loro inautenticità non ha nulla a che vedere con il loro statuto di immagini digitali. La mia opinione, comunque, non è che la digitalizzazione sia un fattore irrilevante, ma che la sua rilevanza vada specificata. Nel caso delle foto di Abu Ghraib la caratteristica fondamentale della digitalizzazione non è l’“aderenza al referente” (che è quasi sempre, in ogni caso, stabilita dalla documentazione e dalle credenziali dei testimoni fuori dall’immagine stessa), ma la circolazione e la disseminazione. Se le foto di Abu Ghraib fossero state create attraverso un processo chimico, sarebbe stato molto difficile per loro circolare nel modo in cui lo hanno fatto. Non avrebbero potuto essere copiate così velocemente e trasmesse in tutto il mondo attraverso la posta elettronica o i siti internet (a meno che non fossero state acquisite con uno scanner e dunque digitalizzate). Sebbene dietro le foto di Abu Ghraib non ci siano stati eroici fotoreporter in grado di offrire una prospettiva umana, esse hanno comunque fornito qualcosa di ancora più sorprendente e inquietante: una rivelazione di ciò che accade all’interno delle prigioni militari americane, e del Gulag illegale che ha creato l’amministrazione Bush, e un’intuizione di un uso diverso della fotografia come strumento di tortura. In modo particolare, le foto di Abu Ghraib hanno dimostrato il nuovo ruolo dell’“essere al mondo” della fotografia reso possibile attraverso la digitalizzazione. Hanno mostrato il modo in cui la circolazione rapida e virulenta

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delle immagini digitalizzate ha dato loro una sorta di validità incontrollabile, un’abilità ad oltrepassare i confini, a sfuggire a restrizioni e quarantene, a “superare” qualsiasi tipo di confine stabilito per il loro controllo. In un tempo in cui corpi umani reali vengono sempre più confinati entro limiti reali o virtuali, recinzioni, posti di controllo e mura di sicurezza, in cui quegli stessi corpi sono soggetti ad una sorveglianza incredibilmente intensiva e invasiva, l’immagine digitale può qualche volta agire come un tipo di “gas ribelle” che sfugge a queste restrizioni. Non è tanto l’“aderenza al referente” ad essere minacciata dall’immagine digitale, quanto piuttosto l’aderenza all’“intenzione di controllo” nella produzione delle fotografie. Di certo l’intenzione dei fotografi di Abu Ghraib non è stata perfettamente “soddisfatta” dalla loro circolazione digitale. Le loro intenzioni (che restano ancora in qualche modo oscure) erano piuttosto legate all’idea di creare dei trofei di dominio sadico in un contesto in cui l’incapacità americana di contenere l’insorgenza irachena era ormai diventata evidente e di umiliare i soggetti delle fotografie, forse utilizzandoli perfino come ricatto per costringere gli iracheni a lavorare contro la ribellione e a favore dell’Intelligence americana (vedi le riflessioni di Seymour Hersh su questo punto). Entrambe queste intenzioni sono state rivolte contro gli stessi produttori delle fotografie. I loro “trofei” sono stati esibiti e loro hanno subìto l’accusa di essere “poche mele marce” da punire per quegli “abusi”. Inoltre, invece di fornire informazioni sulla ribellione irachena, le fotografie in realtà hanno fomentato la resistenza e sono servite da strumenti di reclutamento per la rivolta e per le cellule terroristiche di tutto il mondo. Cosa possiamo dire dunque sul significato della rivoluzione tecnica nell’immagine digitale che si oppone oggi al suo significato mitico? Sbagliano i critici più esperti quando parlano della fotografia chimica come sostanzialmente realistica e dell’immagine digitale come intrinsecamente aperta alla manipolazione, all’inganno, alla de-realizzazione, alla liberazione dal corpo e alla disumanizzazione? Ritengo sia qualcosa di molto più complicato di un semplice errore, e che questo genere di narrazioni mitiche, di perdita di autenticità e significato umano debba confluire in una qualche combinazione

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che comprenda l’ontologia delle immagini fotografiche, il loro “essere nel mondo” della politica, della tecnoscienza, della vita di ogni giorno. Il fatto stesso che queste storie siano in qualche modo convincenti e che finiscano per diventare dei classici o dei luoghi comuni, è parte (ma non tutto) dell’ontologia dell’immagine. Voglio dunque concludere ampliando l’orizzonte di inchiesta al di là delle immagini fotografiche verso due ambiti più generali: 1) il livello dei “codici” che sottostà alle rivendicazioni della referenzialità e del significato delle immagini, in particolare quelle riguardanti l’opposizione tra immagine digitale e analogica; 2) l’analogia tra immagini e forme di vita che è drasticamente aumentata a causa dell’intensificazione quantitativa nella produzione, riproduzione e circolazione delle immagini nel mondo digitale. La distinzione di William Mitchell fra codici digitali e codici analogici è un buon punto di partenza: «La fondamentale distinzione tecnica tra rappresentazione analogica (continua) e digitale (discreta) è qui cruciale. Rotolare giù per una rampa è un movimento continuo, ma scendere i gradini è una sequenza di passi distinti – così dunque si può contare il numero di passi, ma non il numero dei livelli della rampa. Un orologio con un meccanismo a spirale in cui le lancette ruotano armoniosamente dà una rappresentazione analogica del passaggio del tempo, ma un orologio elettronico che mostra una successione di cifre mette in atto una rappresentazione digitale»10.

Anche se questa illustrazione potrebbe a tutta prima sembrare convincente è facilmente opinabile. Rotolare giù da una rampa può essere un movimento continuo ma si potrebbe, volendo, contare il numero delle ruzzolate. Oppure, per rendere la metafora più realistica, si potrebbe scendere una rampa e contare i passi che si fanno. Lo stesso vale per la discesa dei gradini: è vero che si possono contare i gradini, ma si può anche fare esperienza di questa discesa (come regolarmente mi dimostrano i miei dinamici nipotini) come fosse un volo o una discesa libera. Esiste una reale differenza, dunque, tra la rappresentazione digitale e analogica, ma si tratta di una

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differenza piuttosto labile e flessibile, di una relazione dialettica, non di una rigida opposizione binaria. Non si tratta, fatto ancora più importante, di una differenza nella rappresentazione e nella percezione. La stessa cosa può essere scansionata, mappata, disegnata, descritta, valutata – in una parola, rappresentata – in un formato digitale o analogico. I gradini possono essere rappresentati analogicamente e la rampa può essere digitalizzata. Ancora più importante è il fatto che le due forme di rappresentazione si definiscano e si completino reciprocamente. L’ idea di isolarne una in quanto auto-sufficiente è un’illusione (motivo per cui la stessa idea di una cultura digitale mi colpisce in quanto semplificazione ambigua e confusa, anche se riconosco l’inevitabilità del suo sviluppo). L’ analogico trae il suo significato soltanto in opposizione ad alcune specifiche nozioni di digitale e viceversa. E la traduzione reciproca e reversibile tra i due formati è essenziale per il loro uso. La registrazione digitale del suono, ad esempio, non dà luogo ad un output digitale. Il segnale analogico restituisce il momento della registrazione solo quando viene riprodotto dagli altoparlanti collegati ad un amplificatore. Le fotografie dei giornali basate per tutto il Ventesimo secolo su un processo chimico venivano sempre digitalizzate al momento della stampa e questo avveniva molto prima dell’invenzione del computer. Esaminate qualsiasi vecchia fotografia con una lente di ingrandimento e troverete che essa è composta da una rete di punti Ben Day, pixel prima dei pixel. È stato l’occhio umano a trasformare la rete digitalizzata in una rappresentazione analogica. Se la digitalizzazione è (come osserva Mitchell) una questione di “passi distinti”, allora ogni cosa, dalla tessera di un mosaico alla pittura puntinista, è già digitalizzata. La stessa fotografia basata su un procedimento chimico doveva confrontarsi con un livello digitale noto come “grana”, che stava nel cuore dei suoi stessi ingranaggi. Chiunque abbia visto il film di Antonioni, Blow-Up sa bene che, ad alti livelli di ingrandimento, la stampa di fotografie chimiche si dissolve in un mélange astratto di macchie nere e bianche. Una guida migliore alla relazione tra digitale e analogico è offerta da Nelson Goodman, il quale insiste sul fatto che siamo noi a stabilire i tipi di cifre e segni da distinguere e i codici che governano la

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loro combinazione. La relazione digitale/analogico varia, ad esempio, secondo i tipi di cifre o “elementi distinti” impiegati. Le lettere dell’alfabeto latino e i numerali greci sono già digitali nel senso che sono “distinti”. Le tessere bianche e nere assemblate per produrre una figura geometrica che sembri alternativamente retrocedere o avanzare sono elementi digitali percepiti come analogici. Una curva geometrica che discende l’asse y e si estende infinitamente lungo l’asse x è una descrizione analogica che può essere espressa in modo digitale nell’espressione y=1/x. Talvolta un sistema di rappresentazione può essere un compromesso tra una precisa quantificazione digitale e una misurazione qualitativa piuttosto vaga. La specificazione delle misure delle scarpe, come ad esempio 40, 41, 42 o 43, è una rappresentazione “digitale”, rispetto a quella per magliette, Small, Medium o Large? La digitalizzazione, in altre parole, non ha bisogno di coinvolgere sistemi numerici binari (1 e 0). Non ha anzi bisogno di alcun numero, ma può avere luogo ogni volta che un limitato numero di caratteri inequivocabili (ad esempio, rosso, giallo e verde) siano mostrati per indicare significati inequivocabili (stop, attenzione, via libera). Mi piace illustrare il carattere dialettico della differenza digitale/analogico facendo riferimento ai dipinti di Chuck Close, che simulano l’aspetto della griglia o dello schermo digitale della rappresentazione, ma trattano poi i singoli “pixel” o le unità distinte come oggetti di operazioni pittoriche individuali, come se ogni pixel fosse un dipinto astratto in miniatura. Oppure, se si desidera un esempio ancora più noto, basta considerare due scene da un referente culturale ormai universale come Matrix. In una scena, un personaggio chiamato appositamente “Cipher” guarda uno schermo inondato da un fiume di segni alfanumerici. Quando gli viene chiesto cosa sta guardando dice che si tratta della competizione per Miss Universo e che conosce il codice così bene che per lui è ormai diventato trasparente. Egli vede, attraverso i numeri e le lettere, proprio le immagini analogiche che essi rappresentano (allo stesso modo in cui riusciamo a “vedere attraverso” i punti Ben Day di una foto di giornale, le immagini analogiche che trasmettono). L’ altra scena è quella della rivelazione della “realtà digitale” che sta dietro la “superficie”, l’“illusione” analogica costruita per gli esseri umani

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da Matrix. Nel momento della sua rivelazione Neo vede improvvisamente gli Agenti della morte di Matrix per quello che “sono veramente”, nient’altro che fiumi di segni alfanumerici in uno spazio virtuale. Ma nello stesso momento in cui ha luogo questa rivelazione vediamo anche ritornare il fantasma dell’analogico, e le forme dei corpi degli Agenti sono chiaramente delineati in mezzo al fiume di lettere e numeri che stanno “dietro” la loro illusione corporea. Quando critici raffinati sostengono (come di solito fanno) che l’era “analogica” è dietro di noi, la digitalizzazione ha distrutto la fotografia, il video digitale ha distrutto il film, l’immagine è stata eliminata dalla digitalizzazione chiedete loro a cosa può servire uno scenario simile. Se il “Deserto del Reale” è davvero costituito di soli numeri allora ci conforta il fatto che Platone avesse già formulato questa ipotesi duemila anni fa, pensando che l’unica morale da trarre era che dovevamo continuare a vivere in questo mondo di ombre, illusioni e immagini, cioè nel mondo dell’analogico. Eppure i creatori di miti non sono del tutto fuori strada a proposito dell’immagine digitale. La digitalizzazione modifica enormemente il ruolo delle immagini nella cultura, nella politica, nella vita quotidiana. Questa differenza tuttavia non può essere “letta” a partire dalle loro caratteristiche materiali e tecniche. Per esempio, dal momento che le immagini digitali possono essere duplicate con una semplice serie di tasti ci si aspetterebbe che il mondo venisse inondato da copie di immagini, numerose quanto mai. Ma la mia personale esperienza è esattamente opposta. Le immagini digitali private (cioè le immagini amatoriali) tendono a rimanere ignorate nei dischi rigidi dei computer, un po’ come le immagini di 35 mm usate per rimanere nascoste in scatole o caroselli. La stampa di fotografie digitali genera nuove abitudini. Si scarica la memory card al negozio come si fa con i rullini tradizionali; oppure prima si ottimizzano e revisionano le immagini con Photoshop, poi si copiano su un C D Rom e dunque si portano in negozio; o ancora si compra una stampante per fotografie e si stampano a casa, un processo che può sembrare semplice fino a quando non si provi a formattare immagini di dimensioni più piccole come 4 x 6’’; oppure si spediscono ad un servizio on-line e si aspetta che le stampe arrivino per posta.

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Va notato che il problema qui non sta tanto nella difficoltà di produrre una serie di stampe in modo tradizionale, quanto nelle diverse maniere di farlo. Il modo più semplice, quello di scaricare la memory card (o spedire le immagini ad un servizio on-line), è complicato dalla consapevolezza che per farlo meglio basterebbe perdere un po’ più di tempo nell’ottimizzazione delle immagini. Ma chi ha più il tempo per farlo? Anzi chi ha il tempo di pensare a scelte come queste? La mia risposta, che suppongo sia prevedibile, è di rimandare queste decisioni, salvando (si spera) le immagini di famiglia negli archivi digitali. Le fotografie digitali hanno un differente ciclo di vita rispetto alle fotografie chimiche: non circolano necessariamente in forma stampata e restano in un regno sostanzialmente sotterraneo, invisibile e per lo più dimenticato, ma, grazie ad una varietà di sistemi di ricerca, sono recuperabili molto più velocemente delle foto stampate. Sebbene si parli in proposito di “de-materializzazione” dell’immagine, in quanto esiste soltanto come file su disco da qualche parte, in realtà anche questa è un’esistenza materiale, che occupa un posto reale ed è soggetta ad una decadenza materiale, certa tanto quanto quella delle fotografie tradizionali. William Mitchell osserva che una fotografia tradizionale “è luce fossilizzata” e, se accettiamo questa metafora, allora vorrà dire che le fotografie digitali sono semplicemente gli strumenti di una paleontologia dell’immagine ancora lontana. Un’altra implicazione della metafora del fossile è che le immagini sono forme di vita morte, assopite o perfino estinte, che possono essere riportate in vita riportandole alla luce, stampandole, proiettandole o facendone una scansione. Credo che questa sia una chiave per pensare al più generale contesto culturale dell’immagine digitale. Queste immagini hanno inoltre raggiunto una certa perfezione tecnica nello stesso periodo in cui una classe di immagini completamente differente è stata soggetta ad un processo analogo. Mi riferisco qui alla riproduzione di organismi, di forme di vita biologiche, attraverso il processo della clonazione. I cloni sono una versione vivente e organica dell’immagine digitale, che comporta una relazione simile tra un codice genetico nascosto e una manifestazione analogica visibile e corporea. Gran parte dell’ansia in merito alle immagini digitali

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rispecchia la comune fobia della clonazione: entrambi i processi sono accusati di sostituire un processo “naturale” con uno che comporta una manipolazione artificiale; entrambi sono accusati di produrre copie infinite che minacciano l’identità dei modelli individuali. Come osserva Mitchell, «un’immagine digitale che è lontana mille generazioni dall’originale è indistinguibile come qualità da ognuno dei progenitori»11. La metafora delle “generazioni” e dei “progenitori” chiarisce la figura biologica del doppio o del gemello perfetto e artificiale, in contrasto con i tradizionali processi di copia che coinvolgono sempre la perdita del dettaglio e il deterioramento naturale. Una sorta di immortalità raccapricciante ammanta l’immagine digitale fotografica o organica. E questo può spiegare la ragione per cui le descrizioni delle immagini digitali si rifanno così spesso a metafore biologiche come se fossimo assaliti da una “epidemia” di immagini che si autogenerano, entità virulente che minacciano non solo la fotografia tradizionale, ma le stesse tradizionali forme di vita. Una delle più importanti conseguenze di questa forma di “vita”, così virulenta e mutevole, prodotta dalla digitalizzazione delle immagini è la disgregazione dei confini tra la circolazione privata e pubblica, amatoriale e professionale, delle fotografie12. L’ immagine digitale non consiste semplicemente nel fare una foto con una macchina fotografica digitale e dunque nel salvarla su un disco oppure stamparla. È anche un fatto legato alla circolazione su internet via e-mail o “fotoblog”. Gli album di famiglia sono adesso facilmente trasformabili in esibizioni pubbliche e perfino foto segrete (come ancora una volta ci ha mostrato l’esempio di Abu Ghraib) possono circolare facilmente a livello globale una volta uscite dalla quarantena. Cosa ci dice dunque tutto questo sul problema del realismo in fotografia o nelle immagini in generale? Tutto dipende, ovviamente, da cosa pensiamo significhi realismo nella rappresentazione. Personalmente penso significhi liberare il problema del realismo dall’ontologia del mezzo. Nonostante le appassionate discussioni di Susan Sontag, non c’è niente di automatico rispetto al realismo in fotografia, nulla di codificato nell’ontologia della fotografia che la “faccia aderire al referente”. E il realismo può essere, in qualsiasi caso, molte altre cose oltre che “aderenza al referente”. Per prima

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cosa il referente della fotografia deve essere specificato. Una fotografia di mia zia Mary denota lei, il suo vestito, la sua espressione in quel giorno particolare o il significato di una particolare occasione? È realistico il fatto che lei indossi il suo abito della domenica per essere fotografata, cosicché l’immagine dimostri che lei avesse qualcosa di eccezionale? Inoltre è possibile che le discussioni sul valore o sulla qualità di questa immagine si concentrino sulla questione del suo realismo? Oppure ci si deve chiedere se in questa foto lei appaia bella o se si tratti di un giorno speciale? La mia sensazione è che nelle comuni fotografie di famiglia, il realismo si colloca ad un livello molto basso nella graduatoria delle consuetudini familiari. Il realismo non è “assimilato” all’ontologia del mezzo in quanto tale. Il realismo cinematografico lo rivela forse in maniera ancora più chiara, poiché si tratta di un progetto molto speciale all’interno di un mezzo che, nonostante abbia la tendenza all’assimilazione, si muove verso la fantasia e la spettacolarizzazione, non verso il ritratto fedele della vita quotidiana. La maggior parte delle persone fanno foto per idealizzare e commemorare, non per ritrarre realisticamente qualcosa. Ciò che “è realmente” il realismo, è un argomento che meriterebbe ben altri approfondimenti. Si può fare una foto che “aderisce letteralmente al referente”, producendo direttamente una stampa. Ma questo non ne garantirebbe il realismo. Il realismo socialista, come sappiamo, non era altro che questo: uno studiato processo di ideologizzazione di una realtà agognata e di là da venire. Come sottolineò Lukács, esso era tutt’altra cosa rispetto al “realismo critico”: un progetto di rappresentazione oggettiva e storicamente informata, costruita su un punto di vista indipendente, “esterno” al socialismo, una prospettiva che necessariamente identifica il realista critico come qualcuno che occupa una posizione di classe media, forse persino borghese13. Il realismo letterario, come sottolineò anche Northrop Frye, coinvolge la rappresentazione di gente comune in una situazione “di mezzo”, tra le categorie aristoteliche di soggetto “alto” (tragedia e romance) e “basso” (personaggi e episodi comici)14. Il “realismo sociale” del tipo praticato da Allan Sekula tende a fondere il “realismo critico” di Lukács con un’enfasi sulle condizioni di lavoro e un interesse nel sottoporre alla visione

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fotografica un mondo che è ignorato o generalmente nascosto allo sguardo pubblico – tutto questo, comunque, in contrasto con lo status artistico delle sue fotografie, il loro carattere di oggetti di alto artigianato e spesso di grande bellezza. Un esempio è una fotografia di Sekula15 che raffigura una chiave inglese spostata. La fotografia esemplifica il realismo sociale in quanto non è sola ma è parte di un intero mondo documentato con accurato dettaglio, sia in altre fotografie sia nel testo d’accompagnamento. Con la sua enfasi sul mondo del lavoro maschile essa soddisfa la nozione di Frye di realismo basso mimetico. Si tratta del “realismo critico” nel senso lukácsiano, dal momento che l’immagine che Sekula documenta colpisce chi è fuori da quel mondo. Certamente nessun marinaio a bordo di una nave porta-container considererebbe questa una foto che valeva la pena di fare. Sarebbe ignorata e “invisibile” non solo per il mondo esterno, ma anche da un punto di vista interno. A parte questo, si tratta oltretutto di un’immagine straordinariamente bella e ammaliante, un’immagine che non ho più dimenticato da quando l’ho vista per la prima volta in quel libro. Perché? Innanzitutto perché soddisfa molti dei criteri estetici del formalismo astratto, con la sua composizione semplice, ben delineata e geometrica e la sua resistenza alla profondità prospettica a favore di una piattezza del piano dell’immagine che sarebbe piaciuta a Clement Greenberg. Questa piattezza è associata ad un’alta risoluzione e ad un’elevata saturazione di colore, all’attenzione alla materialità del metallo arrugginito e alla semplice bellezza dei materiali, isolati come elementi grafici in una rappresentazione patinata (se la fotografia ha un automatismo, è una tendenza tanto ad estetizzare e ad abbellire quanto ad “aderire ad un referente”). Infine, qual è il “referente” della fotografia? La chiave inglese? O la traccia spettrale che appare alla sua destra, lasciata dal suo spostamento? A qualsiasi altra cosa si riferisca questa immagine, essa si riferisce precisamente alla questione che abbiamo fin qui considerato, vale a dire, l’aderenza di un’immagine al suo referente. La traccia spettrale della chiave spostata è un tipo di impronta da contatto naturale, tracciata sul metallo arrugginito, molto simile a quella delle impronte solari che usavo per trasferire le foglie sulla carta

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durante le lezioni di scienze alle elementari. A qualcuno forse piacerebbe sapere se è stato l’artista a spostare la chiave o se l’ha trovata così. Nessuna risposta comprometterebbe l’alta considerazione che ho di questa immagine, anche se sospetto che Sekula probabilmente non ha mosso la chiave, forte di un certo principio realistico. In entrambi i casi, la fotografia soddisfa un’altra condizione dell’estetica modernista, cioè la rivelazione dell’auto-consapevolezza e dell’auto-referenzialità nell’opera d’arte. Questo significato dell’immagine rimarrebbe intatto anche se si scoprisse che è stata fatta con una macchina digitale, oppure proiettata come immagine digitale. E poi, per finire, esiste un realismo scientifico che definisce attentamente la sua nozione di verità, corrispondenza, adeguamento e informazione, e che (data la sua base quantitativa) è profondamente connesso alla precisione dell’immagine digitale. Il realismo scientifico, comunque, è generalmente in disaccordo con il realismo del senso comune e ci mostra qualcosa che non potremmo vedere ad occhio nudo. Ecco perché, ovviamente, la fotografia (sia chimica sia digitale) gioca su entrambi i lati della barricata in merito al dibattito tra la scienza e il senso comune, le verità verificabili e le idealizzazioni del desiderio. È questo il motivo per cui, alla fine, sposo la tesi del realismo filosofico (distinto dal nominalismo), secondo il quale entità astratte e ideali sono “entità reali” nel mondo reale – più reali, invero, del nostro confuso repertorio di impressioni e opinioni comuni. Verità, Giustizia, Essere e “il Reale” stesso (assieme a concetti geometrici quali il cerchio, il quadrato e il triangolo) sono, per il realismo filosofico, le fondamenta del mondo reale. Ma il realismo che permetterebbe di accedervi non è vincolato unicamente a un particolare medium oppure alla propria “ontologia” apparente. Sono proprio questi i fondamenti dell’ontologia e i media – verbali o visuali, materiali o immateriali – non sono che poveri strumenti attraverso cui rappresentarli. Ecco perché il realismo è un progetto per la fotografia, non qualcosa che le appartiene per natura.

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NOTE

1. M. Hansen, Seeing with the Body: The Digital Image in Postphotography, «Diacritics», 31 (2001), pp. 54-82, p. 54. 2. W.J. Mitchell, The Reconfigured Eye. Visual Truth in the Post-photographic Era, MIT Press, Cambridge Mass. 1992, p. 7. 3. Come osserva William J. Mitchell «la differenza si basa su fondamentali caratteristiche fisiche che hanno conseguenze logiche e culturali» (ibidem, p. 4). 4. Ibidem. 5. Ibidem, p. 10, fig. 2.1. 6. Ibidem, p. 17. 7. Ibidem, p. 13. 8. Ibidem. 9. È importante notare che la presenza della fotografia digitale ha avuto un enorme impatto sulla circolazione di immagini realistiche della guerra in Iraq. Non più l’esclusivo punto di vista di giornalisti professionisti, ma blog fotografici e testuali di civili iracheni e soldati americani hanno invaso internet. E la missione militare americana ha chiarito che le nozioni di neutralità giornalistica professionale non saranno onorate in questa guerra. Il fatto che i giornalisti fossero “integrati” (embedded) nelle unità militari e il loro confinamento in aree controllate militarmente fu solo il primo passo verso un totale controllo dei media. La violenza e la carcerazione diretta sono anch’esse tattiche favorite: 67 giornalisti sono stati uccisi nella guerra americana in Iraq, rispetto ai 63 reporter uccisi in Vietnam dieci anni fa (http://www.salon.com, 30 agosto 2005). 10. W.J. Mitchell, The Reconfigured Eye, cit., p. 4. 11. Ibidem, p. 6. Per uno smantellamento tecnico di questo mito della copia perfetta, vedi la discussione sulla “Lossy Compression” in L. Manovich, The Language of New Media, M I T Press, Cambridge Mass. 2001 (Il linguaggio dei nuovi media, trad. it. di R. Merlini, M C F , Milano 2002). Si ha un simile problema con la nozione di clone come copia perfetta. In realtà, un clone è meno simile al suo donatore o genitore rispetto ad un gemello uguale perché di solito la gestazione è avvenuta in un utero diverso e matura in un contesto completamente diverso, almeno una generazione dopo quella del suo antenato. Né i cloni né le fotografie digitali possono essere in questo senso gemelli identici. 12. Sono grato a Alan Thomas per avermi segnalato questo aspetto. 13. G. Lukács, Saggi sul realismo, Einaudi, Torino 1950. 14. N. Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, Princeton University Press, 1957 (Anatomia della critica, trad. it. di P. Rosa-Clot e S. Stratta, Einaudi, Torino 1969). 15. A. Sekula, Fish Story, Richter, Düsseldorf 1995, p. 16 (cfr. http://www.cgrimes.com/artist/sekula/as_exhibit_fish_story_05.html).

Traduzione dal tedesco di Renata Gambino.

Ulrich Stadler

Vedere meglio, vedere altro! La scienza e la poesia in r appor to all’esper ienza visiva

1 . L’ invenzione degli strumenti ottici, o meglio, la loro prima applicazione in ambito scientifico non si può datare con esattezza ma fu senza dubbio assai significativa per la nascita delle scienze naturali moderne durante la seconda metà del X V I I secolo. Ciò che fino ad allora era stato considerato sconosciuto o meglio inesistente entrò improvvisamente a far parte del visibile, per quanto tale oggetto fosse piccolo, vicino o lontano. Il numero degli oggetti di studio della scienza aumentò in maniera vertiginosa. Con l’ampliamento del sapere crebbe non soltanto l’esigenza di ordinare e sistematizzare tali elementi secondo nessi causali ma anche quella di disporre di strumenti sempre più perfezionati. Per le scienze naturali tali esigenze sono rimaste vive fino al giorno d’oggi, diventando con il tempo più articolate e sempre più di pertinenza degli specialisti. L’ impiego di un modesto microscopio, in fin dei conti di una lente d’ingrandimento, ha dato origine ad una nuova disciplina, la nanologia, e ciò che si trova a grande distanza e che un tempo si cercava di cogliere attraverso il telescopio di Keplero o di Galilei viene oggi studiato grazie al telescopio Hubble che gira intorno alla Terra alla distanza di 600 km e, solo nei primi dieci anni, ha scattato con i suoi giroscopi 259 000 immagini inviando sulla Terra dati riguardanti più di 13 000 oggetti, la cui valutazione impegnerà gli scienziati ancora a lungo. In una fase iniziale la poesia non si mostrò ostile nei confronti del progressivo sviluppo di strumenti ottici sempre migliori e precisi. Agli esordi dell’applicazione del microscopio e del telescopio gli

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scienziati e i poeti lavorarono addirittura a stretto contatto. Così, ad esempio, Henry Power, uno dei membri più importanti nella fase di fondazione della Royal Society di Londra, scrisse nel 1661, oltre alle sue relazioni scientifiche in prosa, un Poem on the Microscope (Poema sul microscopio) in 86 versi1. L’ orientamento fisico-teologico di questi ricercatori contò molti seguaci anche in ambito germanofono nel Nord protestante e in particolare ad Amburgo. Barthold Heinrich Brockes (1680-1747), funzionario a Ritzebüttel, l’attuale Cuxhaven, fu molto vicino al circolo dei fisico-teologi legati a Johann Albert Fabricius (1668-1736). Come Power egli compose versi sui telescopi e sui microscopi e inneggiò ai due strumenti poiché, a suo giudizio, avrebbero aperto la strada a una terza rivelazione di Dio, dopo quella della Bibbia e del grande Libro della Natura. A differenza di Power, Brockes non giunse mai ad alcuna ulteriore scoperta o invenzione scientifica. Pur avendo descritto una grande quantità di fenomeni naturali nei nove volumi del suo Irdisches Vergnügen in Gott (Diletto mondano in Dio) del 1721-1748, testimoniando la sua straordinaria capacità d’osservazione, le sue poesie non possono essere considerate scienza, nemmeno secondo l’accezione del tempo; i versi si conformano alla scienza, o meglio, l’autore tenta di armonizzare le sue osservazioni con la scienza. Non è certo un caso che, all’interno della non proprio rigogliosa letteratura critica riguardante le opere di Brockes, si sia dibattuto se considerare le argomentazioni di questo autore come adduzioni di “prove”, poiché Brockes stesso ricorre spesso nei titoli delle sue poesie al termine “prova” (Beweis). A parte il fatto che il significato della parola “prova” è mutato nel corso della storia, questo dibattito può essere anche considerato un indizio rivelatore del fatto che nell’opera di Brockes, dietro la facciata dell’edificazione religiosa, cominci a delinearsi la definitiva scissione tra scienza e poesia. Questa separazione, che si manifesta anche con la scomparsa della “poesia didascalica” (Lehrgedicht), si impone durante il X V I I I secolo in maniera sempre più decisa. Anche se questo processo, come dimostreremo più avanti, non si è sviluppato gradualmente, la poesia si è distanziata sempre più dalle scienze naturali del tempo. Il modo in cui i poeti (si tratta veramente soprattutto di poeti e non di poetesse) parlano del

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telescopio e del microscopio rivela come sia avvenuto questo processo di separazione. A questo proposito, mi limiterò ad esaminare l’uso che di questi emblemi del progresso scientifico viene fatto nei testi letterari come tema o motivo. Cercherò di dimostrare come la discussione intorno a tali apparecchiature fosse strumentale al tentativo di porre in evidenza le peculiarità della poesia, la quale tentava così di definire il proprio statuto in opposizione alle scienze naturali. In estrema sintesi si potrebbe dire che la poesia non rivendichi, in fondo, un vedere meglio bensì un vedere altro. Prenderò in esame tre casi particolari anche se, essendo costretto a trattarne in maniera assai concisa, non potrò comprovare estesamente le mie affermazioni. Le tre situazioni che intendo mettere a fuoco sono: 1) la rappresentazione poetica di un normale sguardo attraverso il telescopio; 2) quella di uno sguardo attraverso un cannocchiale capovolto; 3) quella di uno sguardo che usa contemporaneamente un telescopio e un microscopio. Questi tre modi di vedere sono assai importanti anche per la quarta parte del mio intervento, in cui farò riferimento a testi poetici in cui si cerca di ricreare un collegamento tra il mondo delle scienze naturali e quello della poesia. 2. Le rappresentazioni letterarie dello sguardo attraverso un cannocchiale o telescopio sono innumerevoli. Ne ho interpretato un numero considerevole nel mio libro Der technisierte Blick (Lo sguardo tecnicizzato). Ne avevo trovati talmente tanti che decisi di creare un inventario in cui venivano elencati i passi decisivi senza alcun commento2. La lista è diventata assai lunga e da allora è cresciuta sensibilmente. L’ uso più radicale e forse più esasperato di tali “scene attraverso il telescopio” è stato fatto da E.T.A. Hoffmann, il quale ha dimostrato che, in realtà, lo sguardo attraverso il cannocchiale non permette di vedere meglio, in maniera più precisa, più grande e dai contorni più nitidi l’oggetto che si sta guardando, ma che tale strumento stimola piuttosto le passioni e in particolare la fantasia dell’osservatore. Si esprime così una critica rivolta alle scienze naturali dell’epoca per non aver preso in sufficiente considerazione i problemi derivanti dal procedimento conoscitivo dello sguardo tecnicizzato. Non si trattava soltanto delle imperfezioni tecnologiche, della scarsa qualità delle lenti,

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della poca luminosità dell’immagine e del limitato campo visivo o della distorsione cromatica che rendevano difficoltosa l’osservazione esatta dell’oggetto; il fatto stesso che l’osservatore si trovasse da solo a guardare attraverso la lente o il sistema di lenti, e che l’oggetto osservato si trovasse in tal modo escluso da tutti i suoi contesti e che oltretutto a ogni minimo movimento svanisse velocemente dal campo d’osservazione, aveva come conseguenza un’attivazione straordinariamente intensa dell’immaginazione del soggetto. Hoffmann rappresenta tale processo in modo particolarmente drammatico nel suo racconto Der Sandmann (L’uomo della sabbia). Il protagonista Nathaniel che ama la chiarezza sia di Clara che della bambola Olimpia diventa vittima di tale passione perché guarda attraverso il cannocchiale: «tuttavia aguzzando sempre di più lo sguardo attraverso la lente, fu come se negli occhi di Olimpia spuntassero umidi raggi di luna»3. Considerando gli eventi traumatici vissuti dal protagonista durante la sua infanzia si è tentati di interpretare le allucinazioni e pure il suicidio di Nathaniel come fenomeno patologico. Ma l’elemento veramente inquietante di tale racconto è dato dal fatto che l’eroe, evidentemente folle, non solo ha studiato fisica ma è anche un poeta che descrive in alcune lettere la sua poetica, in tutto e per tutto uguale a quella dell’autore E.T.A. Hoffmann. Come se ciò non bastasse l’istanza narrativa, ovvero l’io narrante del testo in prosa, perde, in modo analogo al protagonista, la capacità di distinguere chiaramente tra realtà e rappresentazione e non è più in grado di separare in modo netto la figura di Coppelius da quella di Coppola4. La prossimità tra l’istanza narrante e l’eroe narrato pone in luce una caratteristica poetica che però – per via dei tratti patologici di Nathaniel – non viene affatto apprezzata. Il racconto di Hoffmann ha quindi anche aspetti metatestuali. Se infatti rappresenta il passaggio dalla chiarezza alla follia è perché non si scaglia soltanto contro una scienza abituata a pensare in termini dicotomici, che sa come distinguere ordinatamente il vero dal falso, ma si rivolge anche contro una società che crede di essere in grado di riconoscere di volta in volta quale sia il «concreto, reale mondo esteriore» 5. Una poetica come quella di Hoffmann sviluppa una prospettiva del tutto peculiare che si concretizza contenutisticamente al meglio nello

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sguardo attraverso il cannocchiale o come leggiamo nel testo, con lo sguardo attraverso il Perspektiv6. Il legame etimologico tra il termine Perspektiv e la prospettiva pone l’accento sul carattere soggettivo, individuale della percezione. Tale strumento è dunque un apparecchio più o meno ben fatto, usato per vedere. Il suo uso presuppone automaticamente l’inserimento di un elemento contingente nell’atto percettivo. Lo strumento artificiale, quindi poetico, sfugge per via della sua artificiosità a tutto ciò che vuol sembrare naturale. Il soggetto è libero di scegliere se farne uso; egli è assai fragile e fornisce immagini sempre diverse che necessitano d’essere interpretate e inducono a un atto interpretativo. Tutte queste caratteristiche peculiari hanno spinto Robert Musil a considerare il cannocchiale quale elemento trascendentale della produzione artistica per eccellenza. Esso sostituirebbe, a suo dire, «il genio o almeno lo prepara»7. Certo Musil ha anche fatto notare che l’uso di tale «strumento filosofico»8 non è ancora in grado di celare automaticamente lo sguardo geniale. La gente, infatti, ne farebbe un uso errato ad esempio a teatro per «accrescere l’illusione oppure negli intervalli per vedere chi c’è fra il pubblico; nel far questo non cerca l’ignoto, ma la gente che conosce»9. 3. Per rendere ancora più difficoltoso l’«abuso sconveniente»10 di tale oggetto, come direbbe Musil, è possibile anche capovolgere il cannocchiale e guardare attraverso l’obiettivo invece che attraverso le lenti, il che allontanerebbe gli oggetti senza però diminuirne la nitidezza. Tra i primi poeti ad adottare questo motivo troviamo ancora una volta Brockes. La poesia Die Welt (Il mondo) tratta dal primo volume della raccolta Das Irdische Vergnügen in Gott (Diletto mondano in Dio) comincia con i versi: «La splendida struttura del mondo la vede, purtroppo! ognuno, / attraverso il cannocchiale capovolto delle proprie passioni, / così che tutto, tranne sé stessi, rimpicciolisce e s’allontana, / così che s’impara ad ingrandire unicamente sé stessi»11.

In questo caso lo sguardo non è capovolto soltanto in senso letterale, ma anche in senso metaforico. Chi guarda in tal modo

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giunge a conclusioni sbagliate, sia sul mondo sia su se stesso. “Rimpicciolendo” ciò che gli sta intorno e ingrandendo se stesso, ovvero sopravvalutandosi, lo sguardo fallisce sia nella conoscenza del mondo sia in quella di sé. Contravviene sia alle norme scientifiche sia a quelle morali. In questo caso la poesia è ancora in armonia con le scienze naturali e sostiene il canone dei valori sociali. Anche se “ognuno” contravviene a questi canoni, ciò avviene “purtroppo”. L’ infrazione tradisce tutt’altra natura rispetto a quella proposta da Musil nel caso dell’«abuso sconveniente». Qui si tratta di una riaffermazione delle norme, mentre nel caso di Musil di un tentativo di sovvertirle. È chiaro che la funzione sociale della poesia e anche il suo rapporto con le scienze naturali hanno subìto un fondamentale cambiamento se il testo più antico critica ciò che quello più recente invece propaganda. Il cambiamento risulta evidente anche osservando altri testi della modernità in cui si parla di un cannocchiale capovolto. Nella letteratura a cavallo tra il X V I I I e il X I X secolo si trova ad esempio nel romanzo di Tieck William Lovell del 1795 12 o in Selina di Jean Paul del 182713, nella prosa del X X secolo e in quella contemporanea è altrettanto evidente, come ad esempio in Einbahnstrasse (Strada a senso unico) di Walter Benjamin14, nel romanzo Gourrama di Friedrich Glauser15, in Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami16 o nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa17. In tutti questi testi, come nella poesia Die Welt (Il mondo) di Brockes, il capovolgimento dello strumento determina anche un allontanamento del soggetto dal mondo oggettivo. Ma mentre nel caso di Brockes il cambiamento prospettico avveniva su un piano allegorico-morale, adesso è determinato da una nuova dimensione psicologica. Di conseguenza la decisa critica negativa assume toni neutrali o diviene addirittura positiva. Sono stati gli studiosi della psiche umana della fine del X V I I I secolo e gli autori del primo Romanticismo tedesco a programmare tale cambiamento. Karl Philipp Moritz è la figura chiave rimasta finora celata. Nel brevissimo scritto del 1789, intitolato Grundlinien zu einer Gedankenperspektive (Linee fondamentali per una prospettiva del pensiero) egli parla, senza fare riferimento esplicito all’uso di un

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cannocchiale capovolto, dell’effetto di rimpicciolimento dato dalla lontananza e scrive: «Grazie alla distanza gli oggetti divengono sempre più simili alla sola idea degli oggetti stessi; più l’orizzonte assume ampiezza, più la vista si avvicina dell’immaginazione»18.

Se applichiamo questa osservazione al caso del cannocchiale capovolto troviamo che gli oggetti osservati appaiono piccoli ma in realtà non lo sono. Questa pura apparenza modifica anche la loro essenza reale, rendendoli sempre più simili alla pura idea di sé stessi. Autore di tali “idee” è il soggetto che osserva, la cui attività, ovvero l’atto dell’osservare, si trasforma impercettibilmente da visione ottica a visione interiore, da videre a contemplari. Immaginazione, memoria, speranza, presagio, in breve, tutti i sensi interiori vengono attivati. Tutto ciò avviene mentre i sensi esterni, in particolare gli occhi, percepiscono un’immagine eccezionalmente nitida degli oggetti rimpiccioliti. Dalla tensione che si viene così a creare scaturisce quell’irritazione, quel “vedere altro”, che a partire dal romanticismo diviene costitutivo per la poesia moderna e per l’arte in genere. 4. Ancor più che attraverso l’uso del cannocchiale capovolto, lo sguardo si confronta con l’inatteso e l’ignoto quando si è costretti a guardare contemporaneamente con un occhio attraverso un telescopio e con l’altro attraverso un microscopio. È stato Georg Christoph Lichtenberg ad elaborare tale esperimento in varie forme. Ciò può sembrare strano, considerato che Lichtenberg era prima di tutto un astronomo, un matematico e un fisico. In effetti poteva essere irritante che uno scienziato, così stimato durante la vita, proponesse un procedimento che si prendeva gioco della ricerca di strumenti che permettevano un’osservazione del mondo oggettivo sempre più precisa e che invece di fare chiarezza producevano soltanto confusione intorno alla natura delle cose. Tale teoria pare in effetti contraddire la tesi che sostiene una dissociazione di due pratiche sociali fondamentali come le scienze naturali e la letteratura, o meglio, la poesia. Bisogna però considerare che la procedura sperimentale proposta da Lichtenberg

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fu registrata nei suoi Sudelbücher, volumi che in origine non erano destinati alla pubblicazione, mentre in altri suoi scritti (come anche nei Sudelbücher privati) egli non ha mai rinnegato di voler acquisire una maggiore e migliore conoscenza della natura. Gli appunti raccolti nei vari volumi dei Sudelbücher vogliono essere soprattutto un chiarimento per l’autore stesso. Sono il luogo prescelto da Lichtenberg per giustificare il proprio lavoro. La radicalità di questo approccio è la ragione per cui il professore di fisica di Gottinga è noto ancor oggi soprattutto come autore dei Sudelbücher ed è considerato in primo luogo un poeta. Oltre ai famosi esperimenti mentali nei quali Lichtenberg provava a immaginare cosa sarebbe accaduto se l’oggetto di studio fosse diventato improvvisamente un soggetto e quindi avesse reso l’osservatore oggetto della sua indagine19, molte delle annotazioni di carattere autoriflessivo prendono in considerazione le varie possibilità e i limiti della conoscenza sensoriale. Lichtenberg pare essere fermamente convinto del fatto che una conoscenza piena, vale a dire una percezione completa, non possa avere luogo. Anche usando il miglior microscopio non sarebbe possibile giungere alla componente minima di un oggetto, così come il telescopio migliore non sarebbe in grado di garantirci che non esistono altre stelle, più piccole, più lontane, dietro e oltre a quelle già conosciute. Per quanti passi avanti possa fare lo sviluppo tecnologico degli strumenti ottici20, tra ciò che è visibile e ciò che è pensabile permane comunque una differenza incolmabile21. Lichtenberg sostiene addirittura che l’aumentata precisione nell’osservazione renderebbe l’oggetto sempre meno conoscibile. In una annotazione del 1796 scrive: «Ebbene, sarebbe possibile, a causa di un avvicinamento eccessivo, come con il microscopio […], che ci si allontani di nuovo da ciò a cui ci si può avvicinare. Vedo, ad esempio, in lontananza su una montagna una strana massa, mi avvicino e scopro che si tratta di un castello, avvicinandomi ulteriormente ne individuo le finestre ecc. Ciò sarebbe sufficiente, ma se il fine dell’intero mi fosse sconosciuto e volessi continuare ad indagare, giungerei probabilmente ad analizzare la struttura delle pietre, cosa che mi condurrebbe altrove»22.

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L’ argomentazione rivela come Lichtenberg non intendesse dimostrare che una visione più precisa conduce ad una conoscenza adeguata dell’oggetto, ma volesse metterne in evidenza il legame con il soggetto che guarda. Per questo soggetto categorie pragmatiche quali “castello” o “finestra” sono importanti. Un ingrandimento ulteriore mostrerebbe, al contrario, solo la pietra ovvero un’immagine non strutturata come quella iniziale percepita da lontano. Ciò «condurrebbe altrove», lontano da un’adeguata conoscenza dell’oggetto. Di conseguenza Lichtenberg non suggerisce di aumentare ulteriormente il coefficiente d’ingrandimento, ma di combinare l’effetto del cannocchiale con quello del microscopio in maniera «del tutto spontanea»23. L’ improvvisa combinazione delle due immagini darebbe luogo a un quadro complessivo che nulla ha a che fare con l’intero, ma che produce nel soggetto che osserva confusione e mancanza di comprensione. Si è tentati di pensare alla teoria della subitaneità (Plötzlichkeit) di Karl Heinz Bohrer e a considerare l’esperimento di Lichtenberg come un’anticipazione di ciò che l’estetica surrealista e postmoderna considererà momento fondamentale della poesia e dell’arte24. Una tale associazione di idee può essere ulteriormente confermata facendo riferimento a simili modalità del vedere presenti nei testi di autori contemporanei, come nel caso di Gerhard Richter25. Ciò sottolineerebbe ancora una volta il fatto che, a partire dal Romanticismo, in arte e poesia, il vedere non richiede necessariamente una perfetta aderenza al mondo esterno ma al contrario l’accettazione di immagini anche sfocate, apparentemente confuse perché diverse o nuove. Sarebbe errato, però, considerare Lichtenberg portavoce di una simile concezione dell’arte. Per questo autore non si trattava di distaccarsi dalla conoscenza scientifica e di rinunciare alla sua disciplina, le scienze naturali. La tecnica perturbante da lui proposta non doveva essere utile soltanto al poeta ma anche allo studioso di scienze naturali. Quando Lichtenberg scrive che un uomo «che vedesse con un occhio come attraverso un microscopio e con l’altro come attraverso un cannocchiale […], costituirebbe davvero un caso strano tra persone comuni»26 bisogna considerare che la sua osservazione prende l’avvio dagli studi di fisiognomica del suo collega di Gottinga Abraham

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Gotthelf Kästner e vuol essere una norma valida per tutti gli esseri umani, indifferentemente dall’attività in cui sono impegnati. Nonostante il fatto che simili individui apparirebbero strani, cioè fuori dal comune, la combinazione dei due opposti modi di vedere potrebbe permettere loro di giungere a scoperte straordinarie, non soltanto in ambito poetico ma soprattutto nelle scienze naturali. Rimane da chiedersi, ovviamente, di che genere potrebbero essere tali scoperte. Una prima risposta si trova nell’annotazione D 469: «Se l’acutezza (Scharfsinn) corrisponde ad una lente d’ingrandimento, allora l’arguzia (Witz) è una lente riduttiva. Credete forse […] che le scoperte si possano fare soltanto grazie alle lenti d’ingrandimento? Io credo che grazie alle lenti riduttrici, o quanto meno attraverso strumenti simili del mondo intellettuale, siano state fatte molte più scoperte. La luna vista attraverso un cannocchiale capovolto somiglia a Venere, mentre se osservata ad occhio nudo somiglia a Venere vista attraverso un cannocchiale usato regolarmente. Le Plejadi viste attraverso un comune binocolo da teatro assumerebbero l’aspetto di una nebulosa. La terra, così bella, ricoperta di fiori e di piante, ad un essere lontano potrebbe sembrare proprio per questo ammuffita. Il più bel cielo stellato guardato attraverso un cannocchiale capovolto ci sembrerebbe vuoto»27.

Il cambiamento degli strumenti ottici, la combinazione di diversi sistemi di lenti e il capovolgimento del cannocchiale, tutto ciò si trova all’origine della distruzione dell’ordine percettivo fino ad allora noto. Le immagini, percepite attraverso lo strumento ottico forniscono all’improvviso dati completamente diversi, dati spesso privi di senso, apparentemente “vuoti”. Ciò che prima sembrava essere certo, viene improvvisamente spazzato via per far posto ad un vuoto inaspettato, in attesa di nuove scoperte. L’ uso non convenzionale delle lenti ottiche diviene così «un importante strumento d’invenzione», in particolar modo nell’ambito delle scienze naturali28. Con tali osservazioni, Lichtenberg, critica i suoi colleghi studiosi di scienze naturali e cerca di opporsi al dilagante «antagonismo tra scienza e poesia»29. Acutezza e arguzia sono, a suo parere, complementari e non devono essere assegnate a differenti ambiti sociali.

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Lichtenberg non è il solo a difendere apertamente l’unione di questi ambiti. Non è solo nemmeno se osserviamo il risultato dei suoi sforzi: l’impegno individuale non è riuscito a fermare il processo di differenziazione strutturale delle due pratiche sociali. 5. Mentre Lichtenberg prende le mosse dalle scienze naturali dell’epoca, di cui criticava l’allontanamento dalle cosiddette “belle lettere” (schöne Wissenschaften), avvicinandosi senza volere alla poesia, il suo contemporaneo Goethe percorre la strada inversa. Goethe era diventato famoso come poeta e riteneva di non aver intrapreso nelle sue opere, che dimostrano un profondo interesse per la natura, un cammino diverso da quello di Lichtenberg. Quando però pubblicò lo studio sulla metamorfosi delle piante e gli scritti di anatomia comparata non registrò lo stesso successo e dovette ammettere che non era facile conciliare le scienze naturali con la poesia30. Goethe fu tacciato di poca scientificità, gli fu addirittura spesso rimproverato di avere una posizione avversa alla scienza e a riprova di ciò si fece spesso riferimento alla sua avversione, in effetti più volte testimoniata, nei confronti dell’uso di strumenti ottici. A sostegno di ciò fu più volte citata una sua massima secondo la quale «l’uomo è di per sé, in quanto fa uso dei suoi sensi, […] il sommo e più preciso dispositivo fisico esistente»31. Questo senza considerare però che Goethe nel suo scritto programmatico Der Versuch als Vermittler von Objekt und Subjekt (L’esperimento come mediatore tra oggetto e soggetto) considera un’ovvia premessa l’uso di apparecchi ottici32, tanto è vero che lui stesso aveva spesso usato cannocchiali e microscopi come si evince chiaramente dai suoi diari e dalle sue lettere33 e senza considerare il fatto che è stato sempre omesso che la massima citata continua così: «questo è appunto il più grande dramma della fisica attuale, che gli esperimenti sono stati separati dall’uomo e si studia la natura solo attraverso quello che mostrano gli strumenti artificiali, volendo così comprovare e limitare ciò che essa è in grado di fare»34.

Il riferimento all’allontanamento dell’uomo dagli esperimenti si collega a quel processo, ritenuto importante anche dagli altri autori

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già citati, origine e causa del fatto che l’attività dei sensi interiori, in particolare l’immaginazione, prende il sopravvento sull’attività dei sensi esteriori. Goethe intendeva impedire un simile ribaltamento e riteneva importante poter riconoscere «il vero mondo esterno» e non sostituirlo con un’immagine interiore, come aveva fatto E.T.A. Hoffmann35, a suo giudizio un malato. Se in determinati casi si dichiarò contrario all’uso di strumenti ottici, ciò avvenne sempre quando la diretta funzione conoscitiva dello sguardo veniva messa in forse, ovvero quando lo sguardo doveva essere messo in discussione e svuotato per essere riprogrammato ad accogliere nuove impressioni. Goethe era contrario a simili atti casuali di violenza. Li considerava espressione di una soggettività divenuta dispotica e inconciliabile con la scienza. Non per nulla voleva differenziare quest’ultima anche dalla poesia, affinché questa, sempre più separata dalla scienza, non ampliasse ulteriormente la spaccatura creatasi tra le due discipline. L’ affermazione riguardante l’uomo quale «sommo e più preciso dispositivo fisico esistente» adesso si comprende meglio. Non deve essere interpretata come critica contro le prestazioni tecnologiche dei costruttori di strumenti ottici; si tratta piuttosto di una puntualizzazione riguardante i parametri con cui confrontare la nostra idea di precisione. È l’uomo di per sé «in quanto fa uso dei suoi sensi» a costituire il parametro di giudizio della capacità conoscitiva umana. Mentre Goethe lavorava per l’unità tra arte e scienza escludendo la possibilità di un’arte fortemente soggettiva, Lichtenberg aveva sostenuto la stessa unità attraverso l’apertura della ricerca scientifica, in cui acutezza e arguzia dovevano essere usate nella stessa misura. Se l’uno aveva considerato l’uso eccessivo di strumenti ottici un ostacolo alla realizzazione di tale unità, l’altro riteneva invece tale uso addirittura una chance. Nessuno dei due riuscì, naturalmente, a conciliare in modo duraturo le due pratiche sociali in progressivo allontanamento. La separazione tra scienze naturali e poesia era inarrestabile. Con la conseguenza che, negli ultimi due secoli, la poesia è stata relegata in un ambito dal quale non le viene più permesso di esprimersi su questioni riguardanti la struttura effettiva delle cose, ma soltanto di mettere in dubbio i modi di vedere già esistenti. La maggior parte degli artisti e poeti si è sentita sollevata grazie a questa nuova assegnazione di ruoli; sono davvero

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pochi coloro che nelle loro opere tematizzano o addirittura denunciano come perdita la creazione di due differenti culture visuali. A questi ultimi appartiene il pittore, ormai dimenticato, Johannes Gumpp, nato nel 1626. Il suo autoritratto del 1646 lo raffigura contemporaneamente da più prospettive. Sul lato sinistro si vede la sua immagine riflessa in uno specchio, sul lato destro si trova dipinta su una tela. La riproduzione catottrica rappresenta un tentativo di comprensione scientifica, mentre il quadro rappresentato in fieri sulla destra illustra l’approccio artistico alla persona del pittore. Il pittore nell’atto di dipingere se stesso mentre si riflette nello specchio si trova al centro del quadro e rimane letteralmente in ombra. Di lui è possibile vedere soltanto la schiena, l’abito, il colletto e i capelli. Il quadro rappresenta due versioni dell’io dell’artista messe a confronto. Quella artistica sembra essere superiore a quella puramente scientifica36, ma entrambe rimangono a pari distanza dal vero io, sono solo immagini e sono dunque fallaci. Nel 1927 Pablo Picasso ha affrontato un argomento simile nel foglio Peintre et modèle tricotant (Pittore e modella che fa la maglia). Anche su questa illustrazione per l’edizione del 1931 di Le Chef-d ’œuvre inconnu (Il capolavoro sconosciuto) di Honoré de Balzac si possono individuare due diversi sguardi. Nella metà a sinistra dell’immagine si trova una donna che fa la maglia, mentre sul lato destro un artista con la barba, nell’atto di ritrarre la modella sulla tela. Le due persone siedono una di fronte all’altra. È stato tratteggiato solo il contorno, ma in modo straordinariamente realistico. Tra di loro, al centro del foglio, si trova la tela sulla quale è invece possibile vedere soltanto un groviglio di linee curve e rette del ritratto della donna, un tratteggio e due cerchi di diversa grandezza. Il quadro nel quadro non assolve affatto la funzione di riproduzione, è piuttosto una messa in scena della pura confusione proprio in contrasto con il suo presumibile soggetto, la donna che fa la maglia. Viene così espresso in modo paradigmatico l’assunto che per l’arte è sufficiente trasmettere un modo di vedere diverso. Nell’ambito della letteratura moderna bisogna tornare a far riferimento al già citato testo in prosa di Musil dal titolo Triedere (Il cannocchiale prismatico). Anche in questo caso due diverse tipologie di

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rappresentazione sono costrette a stare insieme. L’ una ha caratteristiche chiaramente scientifiche ed è definita con il termine «esperimento»37. Il soggetto di tale esperimento, ovvero colui che usa il telescopio o il cannocchiale prismatico, viene definito «l’osservatore», «il conoscitore», «l’indagatore»38 oppure «l’uomo dietro lo strumento»39. A questo soggetto appartiene l’oggettività, la mostruosa freddezza con cui vengono comunicate le singole osservazioni. Queste devono essere riportate, come troviamo scritto ad un certo punto, «obiettivamente»40. A questo comportamento scientifico corrispondono affermazioni che presuppongono la possibilità di avere una giusta e vera percezione del reale. Viene detto ad esempio che lo sguardo attraverso il cannocchiale prismatico «impedisce i suoi rapporti romantici con il mondo circostante e ristabilisce la verità ottica»41 oppure che il cannocchiale dissolve «le correlazioni convenzionali» e scopre quelle «reali» 42. Questo modo di vedere non è però universalmente valido. Altrove, nello stesso testo in prosa, viene messa in evidenza la capacità straniante dello sguardo, in grado non tanto di vedere il mondo in maniera più precisa o addirittura corretta ma semplicemente in maniera diversa. E questa differente modalità della visione creerebbe «un bagliore e un luccichio» tra diversi modi di vedere, importante già solo per il fatto che mette in crisi tutte le nostre abitudini visive. Nessuna delle due modalità esposte nella prosa musiliana può avanzare la pretesa di essere l’unica giusta. Ciò conferisce al testo quel carattere frammentario, non limato, riscontrato più volte nell’opera di Musil. Tale caratteristica può essere considerata l’espressione di un fallimento, come ha tentato di fare di recente un critico letterario conservatore come Marcel Reich-Ranicki43, ma è anche possibile, come è mia intenzione, considerarla una qualità della scrittura di questo autore. Musil ha voluto rappresentare in maniera diretta, non tanto l’apparenza di un mondo unitario, bensì l’effettiva dicotomia esistente tra due processi cognitivi all’interno della nostra cultura.

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NOTE

1. Ristampato nella rivista «Isis», 21 (1934), pp. 71-80. 2. U. Stadler, Der technisierte Blick. Optische Instrumente und der Status von Literatur. Ein kulturhistorisches Museum, Königshausen & Neumann, Würzburg 2003, pp. 321-372. 3. E.T.A. Hoffmann, Fantasie- und Nachtstücke, a cura di Müller-Seidel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1979, p. 352 (Racconti, trad. it. di F. Masini, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 92). 4. Ibidem, p. 358 (trad. it. cit., pp. 99-100). A proposito del litigio tra Spallanzani e Coppelius, durante il quale viene distrutta la bambola Olimpia, Hoffmann scrive: «erano le voci di Spallanzani e dell’odioso Coppelius» e poco più avanti «il professore [= Spallanzani] teneva aggranfiato per le spalle un corpo femminile che l’italiano Coppola teneva per i piedi». 5. Ibidem, p. 339 (trad. it. cit., p. 79). La critica sociale del racconto è particolarmente evidente nella descrizione dei circoli del tè. Cfr. ibidem, p. 360; trad. it. cit., p. 101. 6. Ibidem, p. 362 (trad. it. cit., p. 103). 7. R. Musil, Triedere, in Id., Prosa, Dramen, späte Briefe, a cura di A. Frisé, Rowohlt, Hamburg 1957, p. 496 (Pagine postume pubblicate in vita, trad. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1970, p. 105). 8. Ibidem, p. 494 (trad. it. cit., p. 102). 9. Ibidem, p. 496 (trad. it. cit., p. 105). 10. Ibidem, p. 494 (trad. it. cit., p. 102). 11. B.H. Brockes, Das Irdische Vergnügen in Gott, in Id., Auszug der vornehmsten Gedichte aus dem Irdischen Vergnügen in Gott (Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1738), Metzler, Stuttgart 1965, p. 338. 12. L. Tieck, William Lovell, a cura di W. Münz, Reclam, Stuttgart 1986, p. 324. 13. Jean Paul, Sämtliche Werke, a cura di N. Miller, Hanser, München 1963, vol. V I , t . I, pp. 1124 ss. 14. W. Benjamin, Briefmarken-Handlung, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972, vol. IV, t . I, p. 136 (Filatelia, in Id., Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, trad. it. di B. Cetti Marinoni, Einaudi, Torino 1983, p. 57). 15. F. Glauser, Gourrama Ein Roman aus der Fremdenlegion, Schweizer Druck-u. Verlagshaus, Zürich 1940, p. 172. 16. H. Murakami, Umibe no Kafuka (Kafka sulla spiaggia, trad. it. di G. Amitrano, Einaudi, Torino 2008). 17. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1969, p. 357. 18. K.Ph. Moritz, Schriften zur Ästhetik und Poetik. Kritische Ausgabe, a cura di H.J. Schrimpf, Niemeyer, Tübingen 1962, p. 125.

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19. Nella più famosa di queste annotazioni egli scrive: «l’americano che per primo scoprì Colombo, fece una scoperta assai dannosa» (G.Ch. Lichtenberg, Sudelbücher, in Id., Schriften und Briefe, a cura di W. Promies, Hanser, München, 1968, vol. II, p. 166). 20. «La maggior parte delle cose […], quando diventano per noi rilevanti […] sono già troppo grandi […] quando noi le percepiamo […]; sia che io osservi il germoglio nella ghianda al microscopio, sia che guardi solo con gli occhi l’albero di 200 anni, mi trovo parimenti distante dal principio. Il microscopio serve solo a confonderci maggiormente. Con i nostri cannocchiali possiamo vedere dei Soli, attorno ai quali probabilmente orbitano dei pianeti […]. E se tutto ciò si estendesse ulteriormente, se anche nel più piccolo granello di polvere ruotassero particelle intorno ad altre particelle che a noi sembrano invece essere immobili come stelle fisse? Potrebbe esistere una creatura alla quale il mondo per noi visibile appare come una montagna di sabbia incandescente», ibidem, vol. I, p. 213, C 303. 21. Cfr. l’annotazione: «è stato un grosso errore della filosofia wolffiana l’aver ampliato al conoscibile le possibilità della contraddizione, dato che compete solo al pensabile», ibidem, p. 199, H II 149. 22. Ibidem, p. 852, L 10. 23. Ibidem, p. 463, F 28. 24. Cfr. K.H. Bohrer, Plötzlichkeit. Zum Augenblick des ästhetischen Scheins, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1981. 25. G. Richter, Atlas der Fotos, Collagen und Skizzen, Kaiser Wilhelm Museum, Krefeld 1976. 26. G. Ch. Lichtenberg, Sudelbücher, in Id., Schriften und Briefe, cit., vol. I, p. 62, B 54. 27. Ibidem, vol. I, p. 301 ss., D 469. Acutezza e arguzia erano considerate in questo caso, come del resto in tutto il XVIII secolo, dimensioni complementari. L’ acutezza permette di scoprire ciò che è lontano attraverso elementi tra loro vicini, l’arguzia invece scopre ciò che vi è di comune tra elementi assai distanti tra loro. La prima capacità è stata sempre associata all’attività dello studioso di scienze naturali, la seconda invece a quella del poeta. 28. Ibidem, vol. I, p. 536, F 559. 29. H. Schlaffer, Poesie und Wissen. Die Entstehung des ästhetischen Bewußtseins und der philologischen Erkenntnis, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990, p. 7. 30. Non manca di una certa ironia il fatto che proprio queste opere di Goethe non fossero particolarmente apprezzate da Lichtenberg. Nella Geschichte der Farbenlehre (Storia della teoria di colori) la delusione per la reazione del professore di fisica di Gottinga è assolutamente evidente: «per un certo tempo egli [Lichtenberg] mi aveva risposto; quando però cominciai a diventare più incalzante e a perseguitare con forza il ributtante bianco newtoniano, smise di scrivere e di rispondere a tal proposito; non ebbe nemmeno la cortesia, in considerazione

Vedere meglio, vedere altro!

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di un rapporto così intenso, di citare i miei contributi nell’ultima edizione di Erxleben. Così fui rimesso al mio posto». Cfr. J.W. Goethe, Werke. Hamburger Ausgabe in 14 Bänden, D T V , München 1998, vol. XIV, p. 263. 31. Ibidem, vol. XII, p. 458, n. 664. 32. Ibidem, vol. XIII, p. 14. 33. Cfr. ad esempio l’osservazione fatta nella descrizione del viaggio in nave verso Palermo: «ci fecero vedere una grossa tartaruga che luccicava in lontananza, visibile attraverso i nostri cannocchiali come un punto in movimento» (ibidem, vol. XI, p. 227, corsivo mio). 34. Ibidem, vol. XII, p. 458, n. 664. 35. Cfr. il giudizio espresso da Goethe in J. W. Goethe, Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, a cura di E. Beutler, Artemis Verlag, Zürich 1949, vol. XIV, pp. 928 ss. 36. Questo almeno il giudizio espresso da J.-L. Nancy in Le Regard du portrait, Galilée, Paris 2000, pp. 42 ss. (Il ritratto e il suo sguardo, trad. it. di R. Kirchmayr, Cortina, Milano 2002). 37. R. Musil, Triedere, cit., p. 492 (trad. it. cit., p. 101). 38. Ibidem, pp. 493 ss. (trad. it. cit., pp. 103 ss.). 39. Ibidem, p. 496 (trad. it. cit., p. 104). 40.Ibidem, p. 495 (trad. it. cit., p. 103). 41. Ibidem (corsivo mio. Traduzione lievemente ritoccata). 42. Ibidem, p. 496 (trad. it. cit., p. 104. Corsivo mio). 43. Cfr. M. Reich-Ranicki, Sieben Wegbereiter. Schriftsteller des zwanzigsten Jahrhunderts, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 2002, pp. 155-202.

Rober ta Coglitore

Postfazione

L’ occasione che ha permesso questa raccolta di saggi è stata quella di un convegno internazionale promosso dal Dipartimento di Arti e Comunicazioni dell’Università degli studi di Palermo, Cultura visuale in Italia. Prospettive per la comparatistica letteraria (Palermo, 28-30 settembre 2006) e realizzato nell’ambito delle attività di ricerca di un progetto di rilevante interesse nazionale (P R I N 2005) su Letteratura e cultura visuale: dall’era prefotografica all’era del cinema che ha coinvolto studiosi delle università di Palermo, Bologna e L’ Aquila. Il primo incontro delle tre unità di lavoro – impegnate a studiare le relazioni tra la cultura visuale e la comparatistica letteraria, che per sua propria vocazione cerca confronti con le altre discipline, oltre che con le letterature “altre” – ha visto protagonisti indiscussi i padri fondatori della visual culture che in questo volume vengono presentati al pubblico italiano, in alcuni casi per la prima volta. La comparatistica e la teoria della letteratura – discipline guida nell’ampio panorama di ricerca che si è delineato grazie alla rivoluzione operata negli studi umanistici dagli studi culturali 1 – si sono così confrontate con una prospettiva interpretativa fondamentale per comprendere la questione delle immagini, degli sguardi e dei media nelle opere letterarie. Sia dal punto di vista tematologico (la presenza dei dispositivi ottici all’interno delle opere letterarie) che poetologico (le trasformazioni apportate in letteratura dai nuovi modi di vedere e più in generale dai “regimi scopici”2 che si impongono nelle diverse epoche) gli studi sui dispositivi ottici in letteratura, svolti dalle tre unità di lavoro,

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hanno offerto nuovi strumenti alla ricerca letteraria3 e, a partire dal fortunato incontro palermitano, hanno avviato altri approfondimenti e indagini in direzioni limitrofe4. Ma ancora più fecondo è stato il confronto sulle questioni fondamentali e quanto mai attuali della visual culture che sono emerse dalle relazioni degli ospiti internazionali e che sono state in quei giorni al centro del dibattito con gli studiosi italiani5. Nati all’interno del panorama dei cultural studies americani, i visual studies scelgono come proprio oggetto la determinazione del “regime scopico”: un intreccio di soggetti e oggetti che producono la visione fornendo non soltanto una rappresentazione culturale dell’epoca ma evidenziando inoltre l’enorme ruolo delle varie pratiche della rappresentazione visiva, sia quelle tecniche, legate ai materiali e ai supporti anche tecnologici, sia quelle discorsive (linguistiche o istituzionali, di potere o di classe) che sostengono la produzione, l’interpretazione e la circolazione delle immagini. La cultura visuale si riconosce soprattutto grazie all’individuazione del nuovo oggetto di studio che ha permesso la nascita della disciplina stessa e soprattutto grazie all’aggregazione di studiosi dai profili di ricerca profondamente innovativi. In effetti non si tratta soltanto della confluenza di discipline già accreditate per tradizioni di studio e partizioni territoriali, quanto di un confluire di forze che si mettono al servizio di un nuovo oggetto e quindi permettono una produttiva collaborazione e un lavoro di équipe, tipici dell’approccio culturalista. Le ragioni di questo sincretismo non derivano quindi da un mero esercizio accademico di confronto ma da una necessità che scaturisce dalla scelta degli oggetti di studio. Non si tratta soltanto di studiare, per esempio, immagini d’arte che arricchiscono la tradizione pittorica secondo una tradizionale ricognizione delle fonti e delle fortune dell’opera e quindi attraverso un confronto con altri capolavori o opere minori. E neanche di allargare semplicemente il bacino di raccolta delle immagini non limitandosi solo a quelle “artistiche”. Al contrario si riconosce la necessità di studiare, per esempio, un ritratto su tela, una foto di guerra o i disegni ai margini dei manoscritti letterari, ponendoli all’incrocio tra pratiche discorsive e supporti tecnologici, tra particolari modalità della visione e i giochi di potere delle istituzioni non soltanto artistiche.

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Il passaggio da una filosofia delle immagini a una teoria che vede coinvolte discipline diverse come l’antropologia, la politica, l’etica ma anche l’epistemologia e le neuroscienze, oltre alle tradizionali estetica e storia dell’arte, ha dato luogo a una forma di “scienza dell’immagine” (Bildwissenschaft) o “iconologia critica” (iconic criticism), che fanno riferiento ad un paradigma complesso ed ancora in evoluzione. In questo volume si incontrano dunque studiosi di diverse provenienze, a testimonianza delle varie anime che hanno contribuito alla costituzione della disciplina, o come sarebbe più appropriato dire delle differenti prospettive che cooperano a fornire uno sguardo di insieme su un oggetto di studio completamente nuovo. Si confrontano così rappresentanti dei visual studies americani (W.J.T. Mitchell), storici dell’arte (A. Beyer), antropologi dell’immagine (H. Belting) e letterati di estrazione comparatistica (M. Cometa, Ph. Hamon, U. Stadler), da sempre allenati al confronto con l’altro. Le questioni che sono state dibattute, e che vengono presentate nei saggi compresi in questo volume, appartengono ad ognuna delle discipline sopra elencate: la rappresentazione dello spettatore, il realismo delle immagini e la loro capacità di astrazione e figurabilità, il potere di manipolazione della visione sulla conoscenza, la possibilità dell’autore di iscriversi nell’oggetto rappresentato, la relazione tra iconofilia e iconofobia. Lascio al lettore la possibilità di approfondire gli itinerari di studio all’interno dei singoli contributi che qui vengono proposti per limitarmi soltanto a una breve presentazione delle tradizioni di studi che gli studiosi hanno traghettato nella nuova disciplina. W.J.T. Mitchell, è riconosciuto come uno dei padri della visual culture americana6. A lui dobbiamo quella sentita reazione all’imperialismo del testo nelle analisi delle immagini che va sotto il nome di pictorial turn, una svolta visuale nella filosofia e nella cultura contemporanee7. Impegnato nello studio dei nuovi media e delle più moderne produzioni di immagini, Mitchell non considera lo studio dell’immagine e dei relativi media avulso dal contesto di pratiche e discorsi non legati alla visualità. Centrale diviene allora il concetto di “image/text”, come concrezione di immagine e testo che non vede mai l’esistenza di un termine senza l’altro, così come quello dei “mixed media”, da intendersi come la forma naturale dei mezzi di comunicazione, un mix di immagini,

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suoni e parole, e mai soltanto come supporti di pura visibilità. Nelle sue ricerche “iconologiche” Mitchell ha spesso affrontato i fenomeni più urgenti e scottanti della nostra epoca come il feticismo o l’idolatria delle immagini, la rappresentazione della violenza o quella del paesaggio come forma di potere. Anche nel saggio qui presentato Mitchell discute di una questione fondamentale della modernità: l’immagine fotografica digitale e il suo presunto maggior grado di realismo. Hans Belting, storico dell’arte e medievista già conosciuto al pubblico italiano 8, affronta la nuova svolta iconologica adottando la prospettiva dell’“antropologia dell’immagine” (Bildanthropologie) che mira a riformare la storia dell’arte tradizionale. Ciò non vuol dire semplicemente imporre un indirizzo antropologico alla storia dell’arte, ma considerare che il punto centrale nello studio dell’immagine, non soltanto artistica, non è il fatto d’arte ma l’uomo come produttore e fruitore di immagini. La prospettiva antropologica scelta da Belting ha operato come una vera e propria rivoluzione metodologica e filosofica di ripensamento della disciplina, e soprattutto di apertura nei confronti delle sue vicine: dalla storia dell’arte alla storia della letteratura, dalla storia della scienza alla filosofia, dalla psicologia alla fisiologia, in linea con le più moderne Kulturwissenschaften. Belting si spinge a pensare che anche la costruzione ideologica dell’uomo oggi è stata soppiantata dalla costruzione biologica della sua immagine. Una ricerca quindi che vede comunque l’uomo, il suo corpo e il suo sguardo al centro della cultura visuale. Per esempio, l’analisi della prassi e della rappresentazione dello sguardo nelle immagini vengono considerate gli elementi centrali di una nascente “iconologia degli sguardi”, come si legge nel saggio che viene qui presentato. Altra posizione di ripensamento della storia dell’arte come Bildkritik o Iconic criticism è quella di Andreas Beyer che, nel centro internazionale di studi dell’immagine Eikones (www.eikones.ch) fondato a Basilea, ha attivato un gruppo di ricerca legato all’analisi del significato e del potere delle immagini scientifiche e artistiche. Soprattutto la tipologia delle immagini provenienti dalla scienza ha imposto quasi un ulteriore turn, un cambiamento nella natura profonda delle immagini che si accompagna a una rivoluzione epistemologica d’inusitata portata metodologica anche per le tradizionali Bildwissenschaften.

Postfazione

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Se sul versante della storia dell’arte la principale conquista della “cultura visuale” è stata quella di estendere la gamma di immagini, di riconsiderare le possibilità degli sguardi in esse incorporati, e soprattutto quello di affrontare la grande questione dei nuovi media, sul versante degli studi letterari il maggiore interesse è stato quello di discutere della natura delle immagini che nascono e alimentano la scrittura, considerare gli sguardi proiettati sulla pagina e scambiati al suo interno, dare testimonianza delle trasformazioni del testo dovute ai nuovi strumenti ottici e ai media. Non va dunque ripetuta la distinzione troppo semplice tra immagine materiale, da un lato, e immateriale, dall’altro, che distingueva tradizionalmente la storia dell’arte e la letteratura. Il realismo delle immagini, la possibilità di vedere meglio, perché da vicino, l’“immaterialità delle immagini letterarie”, i rapporti tra dispositivi della visione e testi letterari, la traducibilità delle immagini in discorso sono solo alcune delle questioni che i comparatisti presenti al dibattito – Michele Cometa 9, Philippe Hamon 10 e Ulrich Stadler 11 – hanno affrontato criticamente. Le immagini, gli sguardi e i media nella letteratura non costituiscono dunque in questa prospettiva un campo di mero esercizio accademico per questioni che vengono indagate con maggior agio in discipline come le scienze della comunicazione, oppure la storia dell’arte o la percezione visiva. Gli studi letterari divengono così una chiave di lettura determinante per chiarire l’intreccio tra le diverse pratiche della rappresentazione, per seguire i tempi profondi della sopravvivenza delle immagini, e le complesse trasformazioni dei media che le supportano e degli sguardi che le costruiscono. La tradizione storico-artistica, da un lato, e quella comparatisticoletteraria, dall’altro, convergono dunque nel progetto della cultura visuale contemporanea interessata a definire i termini della negoziazione che i varî regimi scopici della modernità operano inesorabilmente tra parole e immagini.

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NOTE

1. Cfr. M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, a cura di R. Coglitore e F. Mazzara, Meltemi, Roma 2004. 2. Nato all’interno degli studi sul cinema, il termine “regime scopico” deve la sua attuale e fortunata circolazione nella cultura visuale a M. Jay, Scopic Regimes of Modernity, in Id., Force Fields. Between Intellectual History and Cultural Politique, Routledge, Chapmann and Hall, London 1993, pp. 114-133. 3. I principali prodotti della ricerca sono stati pubblicati in tre volumi presso l’editore Meltemi nel 2008: V. Cammarata (a cura di), La finestra del testo. Letterature e dispositivi della visione tra Settecento e Novecento, S. Albertazzi, F. Amigoni (a cura di), Guardare oltre. Letteratura fotografia e altri territori; M. Colombi, S. Esposito (a cura di), L’immagine ripresa in parola. Letteratura cinema e altre visioni e D. Meneghelli, F. Cattani (a cura di), L’immagine allo specchio. 4. Altri due incontri del gruppo di ricerca si sono svolti a Bologna (Guardare oltre: riproducibilità tecnica e rappresentazioni in conflitto, marzo 2007) e a L’Aquila (L’immagine ripresa in parola, maggio 2007). 5. I materiali del dibattito si trovano sul sito http://www.visualstudies.it. 6. William J. Mitchell insegna Inglese e Storia dell’arte presso l’Università di Chicago, Department of Arts and History, Chicago School of Media Theory e al Franke Institute for the Humanities (insieme a A. Stafford, N. Mirzoeff, J. Snyder tra gli altri). Tra le sue principali pubblicazioni: Iconology. Image, Text, Ideology, University of Chicago Press, Chicago-London 1986; Picture Theory, University of Chicago Press, Chicago-London 1994; The Last Dinosaur Book: The Life and Times of a Cultural Icon, University of Chicago Press, Chicago-London 1998; What Do Pictures Want? The Lives and Loves of Images, University of Chicago Press, ChicagoLondon 2004. 7. Cfr. W.J.T. Mitchell, Four Fundamental Concepts of Image Science, in J. Elkins, Visual Literacy, Routledge, New York-London 2007, pp. 14-30, p. 20: «La svolta dalla “filosofia” a qualcosa che nelle scienze umane è chiamato “teoria”, descritta da Fredric Jameson, si basa, credo, sul riconoscimento che la filosofia sia mediata non semplicemente dal linguaggio, ma anche dall’intera serie delle pratiche rappresentazionali, incluse le immagini. Per questa ragione, negli ultimi decenni, le teorie dell’immagine e della cultura visuale hanno preso in considerazione un ambito molto più generale di problemi, spostandosi da un’attenzione specifica verso la storia dell’arte ad un “campo esteso” che include la psicologia e la neuroscienza, l’epistemologia, l’etica e l’estetica, teorie di media e politica, verso ciò che può solo essere descritto come una nuova “metafisica dell’immagine”». 8. Cfr. H. Belting, Das Bild und sein Publikum im Mittelalter: Form und Funktion früher Bildtafeln der Passion, Gebr. Mann Verlag, Berlin 1981 (L’arte e il suo pubblico: funzione e forme delle antiche immagini della passione, trad. it di G. Cusatelli, Nuova Alfa

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Editoriale, Bologna 1986); Das Ende der Kunstgeschichte? Überlegungen zur heutigen Kunsterfahrung und historischen Kunstforschung, Deutscher Kunstverlag, München 1983 (La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, trad. it. di F. Pomarici, Einaudi, Torino 1990); Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, C.H. Beck, München 1990 (Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, trad. it. di B. Maj, Carocci, Roma 2001); Deutschen und ihre Kunst, C.H. Beck, München 1992 (I tedeschi e la loro arte. Un’eredità difficile, trad. it. di P. Quadrelli, Il Castoro, Milano 2005); e in ultimo Das echte Bild. Bildfragen als Glaubensfragen, C.H. Beck, München 2005 (La vera immagine di Cristo, trad. it. di A. Cinato, Bollati Boringhieri, Torino 2007). 9. Michele Cometa si è sempre interessato alle questioni relative al confronto tra la letteratura e le arti figurative, pittura, scultura e architettura. Per quanto riguarda le sue ultime pubblicazioni si vedano almeno: (con S. Vaccaro), Lo sguardo di Foucault, Meltemi, Roma 2007; Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E.T.A. Hoffmann, Meltemi, Roma 2005; Letteratura e arti figurative: un catalogo, in «Contemporanea», 3 (2005), pp. 15-29; Visioni della fine. Apocalissi, catastrofi, estinzioni, :duepunti edizioni, Palermo 2004; Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale nell’età di Goethe, Meltemi, Roma 2004; (con L. Crescenzi), Cultura e rappresentazione nell’età di Goethe, Carocci, Roma 2003. 10. Di Philippe Hamon vanno ricordati: Du descriptif, Hachette, Paris 1993; Expositions. Littérature et architecture au X I X siècle, Corti, Paris 1989 (Esposizioni. Letteratura e architettura nel X I X secolo, trad. it. di M. Giuffredi, Clueb, Bologna 1995) e da ultimo Imagêrie. Littérature et images au X I X siècle, Corti, Paris 2007. 11. Cfr. U. Stadler, Von Brillen, Lorgnette und Kuffischen Sonnenmikroskopen. Zum Gebrauch optischer Instrumente in Hoffmanns Erzahlungen, in «Hoffmann-Jahrbuch», 1 (1992-1993), pp. 91-105; Der technisierte Blick. Optische Instrumente und der Status von Literatur. Ein kulturhistorisches Museum, Königshausen & Neumann, Würzburg 2003; (con K. Wagner, a cura di), Schaulust. Heimliche und verpönte Blicke in Literatur und Kunst, Fink, München 2005.

INDICE

Hans Belting Per una iconologia dello sguardo

5

Andreas Beyer Il volto: descritto, dipinto, letto

29

Michele Cometa Iconocrash. Sul disastro delle immagini

43

Philippe Hamon La letteratura, la linea, il punto, il piano

63

W.J.T. Mitchell Realismo e immagine digitale

81

Ulrich Stadler Vedere meglio, vedere altro! La scienza e la poesia in rapporto all’esperienza visiva

101

Roberta Coglitore Postfazione

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Finito di stampare nel mese di aprile 2008 per i tipi della Graffiti – Pavona (Roma) per conto di :duepunti edizioni – Palermo

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