CURA/ARCHITETTURA

June 2, 2017 | Autor: Martina Pietropaoli | Categoria: Philosophy, Architecture, Urbanism
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cura/architettura

Martina Pietropaoli Tesi triennale C.d.L. in Scienze dell’Architettura a/a 2010 2011 relatore: Professor Giovanni Caudo Facoltà di Architettura Università degli Studi Roma3

Indice degli esami Liceo Scientifico p. 12

C.d.L. in Lettere e Filosofia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi Roma3:

I N D I C E mappa 1

Storia del teatro a/a 2003/2004, Professoressa Maria Luisa Grilli, pp. 30, 31, 32, 33, 35 Storia del Cinema 1 a/a 2003/2004, Professoressa Stefania Parigi, pp. 34, 35

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C.d.L. in Scienze dell’Architettura, Facoltà di Architettura, Università degli Studi Roma3: Test d’ingresso pp. 7, 9, 13 Il modello di architettura a/a 2005/2006, corso opzionale, pp. 73, 74 Laboratorio di Urbanistica 1 a/a 2005/2006, Professore Mario Cerasoli, pp. 16, 17, 19, 23

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Storia dell’Architettura 1 a/a 2005/2006, Professore Pier Nicola Pagliara, pp. 31, 32, 35, 37 Laboratorio di Progettazione Architettonica 2 a/a 2006/2007, Professore Michele Furnari, pp. 54, 55

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Laboratorio di Urbanistica 2 a/a 2006/2007, Professore Giovanni Caudo, pp. 18, 19, 20, 21, 22, 23, 28, 29

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Storia dell’Architettura 2 a/a 2006/2007, Professore Maurizio Gargano, pp. 33, 35, 36, 37, 68, 69, 70, 71

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Disegno dell’Architettura a/a 2006/2007, Professore Diego Maestri, pp. 24, 25, 26, 58, 64 Teoria e Storia del Restauro a/a 2007/2008, Professoressa Francesca Romana Stabile, pp. 38, 39, 49, 41

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Laboratorio di Progettazione Architettonica a/a 2007/2008, Professore Andrea Vidotto, pp. 48, 49, 50, 53

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Laboratorio di Restauro dell’Architettura a/a 2007/2008, Professore Cesare Feiffer, pp. 40, 41 Studi Urbani a/a 2008/2009, Professore Giovanni Caudo, pp. 16, 17, 23, 60, 61, 62, 64 Istituzioni di Matematiche 2 a/a 2009/2010, Professoressa Laura Tedeschini Lalli, pp. 58, 59

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materiale?

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il giardino planetario

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sincretismo

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mappa

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Il vaso/studente è al centro e riceve in sé i contenuti con cui viene a contatto durante il percorso universitario. Questo non vuol dire che è destinato ad essere passivo: è il “mozzo della ruota”, l’unica cosa che può far girare il ragionamento e determinarne le coordinate. Il contenitore cede al contenuto parte delle proprie qualità. Il ritmo delle riflessioni è circolare: si ritorna sulle questioni più volte. Un cerchio che si evolve nel tempo da’ origine a una spirale.

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C C

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1 materiale?

SVUOTAMENTO = DUBBI S

suggestioni

L

letture

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criticità

2 s-oggetto? 3 cittadini? 4 piani? 5 filologia? 6 progetto?

RIEMPIMENTO = APPRENDIMENTO

7 de-costruire 8 abitanti

C

criticità

9 accessibilità

L

letture

10 il giardino planetario

S

strumenti

11 sincretismo 12 manifesto

Il portfolio si presta a più modalità di lettura che non ne alterano il senso. Ad esempio, si possono scorrere soltanto le letture oppure leggere di seguito tutte le criticità. C’è una corrispondenza tra la prima fase di SVUOTAMENTO e la seconda di RIEMPIMENTO: si possono quindi leggere di seguito soltanto i due capitoli accoppiati per avere la trattazione di un argomento (“materiale?” “de-costruire”; “cittadini?” “accessibilità”, ecc.).

1 materiale?

Un articolo sull’Ex Mattatoio.

Sanpietrini del corridoio aperto della Facoltà.

LA RESPONSABILITA’ - Ripercorrendo la mia storia di studentessa in Scienze dell’Architettura, evidenzio come acquisire coscienza sia una fase preliminare imprescindibile dal reperimento degli strumenti e del metodo necessari per svolgere la professione, una volta investiti di un titolo. Qual è il senso della mia ricerca? C’è uno scopo? Di quali strumenti si deve servire un architetto? Cosa mi sono lasciata dietro e cosa possiedo una volta uscita da questa Facoltà? Mettendo a fuoco sulla responsabilità civile del mestiere per cui abbiamo scelto di studiare, si rivela necessario un esame delle proprie potenzialità in qualità di esseri umani prima ancora che come lavoratori eletti ad una carica “istituzionale”, addetti ad un compito che difficilmente nasconde il proprio carattere pubblico. Descrivendo il mio percorso pongo l’accento sul carattere critico dell’acquisizione delle informazioni e sulla natura dialettica dei

rapporti instaurati con i corsi, gli insegnanti e i colleghi. IL VASO - Con la metafora del vaso traccio con la scrittura e con un grafico una “mappa” del percorso di conoscenza intrapreso dallo studente: il cammino è lineare, parabolico, circolare? Anziché riempirsi progressivamente, questo vaso inizialmente si svuota, testimoniando un abbandono delle convinzioni attraverso domande e dubbi. Solo dopo aver intrapreso questa messa in discussione si può nuovamente riempire, trovando gli strumenti necessari per ricucire il senso. Di cosa è fatto questo vaso? Il vaso è fatto di argilla e può prendere forme differenti e cedere al materiale contenuto parte delle sue qualità, dell’essenza di cui è fatto. Ciò mette in luce la soggettività di ogni esperienza che però può diventare universale per la semplice ma complessa constatazione del fare parte di qualcosa di più grande. LA CURA - Nell’ottica di questa universalità e di un’etica della responsabilità, la propria unicità non è soltanto un capriccio del proprio arbitrio o del destino: richiede di essere consapevoli e di agire facendo delle scelte. Con queste decisioni facciamo i conti e interveniamo secondo la nostra natura personale che in una piccola ma importante parte ci accomuna: la dimensione umana dell’“aver cura”. È possibile integrare con la pratica del costruire la necessità umana, troppo dimenticata, di vivere avendo cura del proprio “mondo”? Cosa hanno in comune queste due azioni/atteggiamenti costitutivi dell’uomo? L’aver cura è una pratica puramente mantenitiva che esclude un atto di trasformazione, fondativo o distruttivo che sia?

Il vaso-studente si svuota delle proprie convinzioni per poi riempirsi nuovamente di strumenti e saperi nuovi.

1 s u g g e s t i o ni

Entrando nella sede dell’ex Mattatoio il giorno del test d’ingresso mi colpì che, per la prima volta, osservavo le cose intorno a me con uno sguardo nuovo: precisamente concentrato sulla materia; all’improvviso denudato da ogni pregiudizio. Prima di entrare nell’aula destinata alle aspiranti matricole ho fissato a lungo i sanpietrini del corridoio aperto apprezzandone la pesantezza. Avrei avuto a che fare con questo? Con materia e forza di gravità? Provai a seguire questa intuizione e immediatamente ebbi il presentimento che quello che era più interessante da comprendere fosse il motivo per cui quei sanpietrini fossero proprio lì e non altrove, chi gli avesse dato quella forma e per quanto ci sarebbero rimasti. In una maniera che non mi sembrò scontata risposi che erano state delle persone a volerlo. I loro desideri, necessità, pulsioni, percezioni: è questo il vero “materiale” con cui l’architetto ha a che fare, qualcosa d’impalpabile ma molto potente nel suo rapporto conflittuale ma decisivo con la metamorfosi continua della materia. Già dopo i primi mesi ho visto l’architettura come il precipitato materiale di un’intenzione (o una distrazione?) politica; democratica o di altra natura. Le case, le strade, la crosta di cemento, quelle centinaia di sanpietrini grigi tutti uguali e unici non erano più dati di fatto ma diventavano gli indizi di un’intenzione. La trasformazione dello spazio e degli oggetti, a qualsiasi scala, è la messa in atto di una volontà di dare senso da parte di qualcuno.

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m a t e r i a l e ? m a t e r i a l e ?

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Presto o tardi ogni architetto passeggia nelle città invisibili di Italo Calvino:

L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà

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Quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città

l e t t u r e

“Tutto perché Marco Polo potesse spiegare o immaginare di spiegare o essere immaginato spiegare o riuscire finalmente a spiegare a se stesso che quello che lui cercava era sempre qualcosa davanti a sé, e anche se si trattava del passato era un passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perché il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più di avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti. […] I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi. - Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: - Viaggi per ritrovare il tuo futuro? E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.” pp. 26-27 “Detto questo è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.” pp. 34-35 (Italo Calvino, “Le città invisibili”, Mondadori, Milano 1996)

Cura teneat, quamdiu vixerit - la cura lo possieda finché vivrà

Bottiglie di creta realizzate a colombino: lo studente è un “vaso” che accoglie ciò che impara cedendo a sua volta a questo contenuto parte delle proprie qualità.

“La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre era intenta a stabilire che cosa avesse fatto, intervenne Giove. La Cura lo pregò di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsentì volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato a esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “tu, Terra, che hai dato il corpo riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (terra).” (Martin Heidegger, “Essere e Tempo”)

Abbiamo perso un dono ma abbiamo guadagnato un cuore, e per molti versi lo stiamo ancora guadagnando “Grazie ad Adamo ed Eva abbiamo perso un dono ma abbiamo guadagnato un cuore, e per molti versi lo stiamo ancora guadagnando, proprio come stiamo ancora imparando che tutto quello che la terra offre – a prescindere dal lavoro che richiede - è qualcosa che viene dato gratuitamente più che acquisito rapacemente.” (Robert Pogue Harrison, “Giardini. Riflessione sulla condizione umana”, Fazi Editore, Roma 2009, p.11)

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m a t e r i a l e ?

m a t e r i a l e ?

La vocazione ad aver cura di tutto questo, a fare in modo che tutto ci riguardi, è una benedizione/maledizione a cui siamo condannati. Per alcuni è il prezzo dell’umanizzazione guadagnata in cambio di un Eden perfetto e concluso. Sembrano temi “di attualità” eppure sono da sempre problematiche alla base dell’attività dell’architetto, di chi pretende di sapere cosa è dato costruire e demolire, cosa è adatto o meno per abitare. Quali sono le tracce degli uomini sulla terra che possono migliorare la loro vita.

Sopra e in basso: fotografie dell’Ex-Mattaoio; a destra: “controguida all’università” realizzata da alcuni studenti di Roma3.

IL PORTFOLIO – Rispettando la richiesta del nostro ordinamento di studi di proporre come elaborato finale un “portfolio” delle nostre esperienze scaturite da corsi ed esami, propongo alla commissione di laurea un percorso puramente soggettivo che suggerisce e tenta di cogliere le complessità - e alcune delle tante questioni aperte - della preparazione di un architetto oggi. La mia “tesi” critica la possibilità di riassumere in un portfolio di immagini realmente comunicativo quello che si è fatto in questi anni senza sentire ridotti e banalizzati gli sforzi fisici e mentali fatti per imparare e comprendere. Si richiede di proporre una “tesina” per dimostrare le proprie capacità critiche ma la forma prevista per l’elaborato può facilmente condurre ad un fallimento. Pongo l’accento non solo sui contenuti ma soprattutto sulla qualità dell’acquisizione di questi contenuti. Lo sforzo di questo portfolio è il tentativo di descrivere ciò che tiene insieme le conoscenze e i modi di pervenire ad esse, convinta che questa capacità di moltiplicare i ragionamenti ma di saperli tenere insieme sia lo scopo di un’istruzione accademica. Impossibilitata ad approfondire un qualsiasi tema di architettura nello spazio di qualche foglio A4 e pochi minuti di discussione, propongo quindi una mappa aperta che è il prodotto dei dubbi, le convinzioni e il lavoro di questi anni di studio. LA MAPPA – La mappatura di queste conoscenze è aperta e modificabile nel tempo, quello che conta è: 1 L’intenzione che la muove. Che sta, come sottolineato, nel pendere in carico la propria respon-

sabilità accettando la cura come causa e scopo della propria azione umana e professionale. Riconoscendo questo come un’opportunità e non un peso.

2 La sua struttura. Il vero frutto di un Corso di Laurea, quel che conta veramente e che permette di sentirsi un po’ più liberi di prima è la possibilità di organizzarsi, accedere alle informazioni e saperle sintetizzare. Liberi di pensare e partecipare. Si può provare a tracciare dei grafici per capire come il pensiero, più o meno razionale, possa acquisire coscientemente degli strumenti, mettendo a confronto la proposta formativa lineare data dall’università con la propria esperienza di studente.

1 c r i t i c i t à

TRACCE - Volenti o nolenti, solo in quanto esseri plasmati dalla Cura ogni giorno agiamo nel mondo e accogliamo in noi quello che ci circonda, vicino o lontano; come architetti abbiamo la possibilità di porci in modo più attivo nella nostra condizione umana? Le nostre potenzialità e il nostro ambito d’intervento all’interno di dinamiche che sono, oggi, più complesse di ieri, sono da abbracciare in una visione etica che aiuta nel reperimento di una traccia da seguire: inserendosi fra le tracce di chi ci ha preceduti e di chi vive insieme a noi. Tracce da considerarsi fatte da noi ma anche dentro di noi, plasmati col fango dalla Cura, fatti di terra o almeno sporchi della nostra appartenenza alla Terra.

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LA MATRICE – Il percorso dà origine ad una matrice di concetti ritmata da

SUGGESTIONI intuizioni e temi emergenti dall’esperienza.

LETTURE approfondimenti bibliografici, in parte relativi ad esami sostenuti in parte personali.

CRITICITÀ originate dalla partecipazione ai corsi e dalle letture e l’esperienza.

STRUMENTI rimasticate e covate nel corso del tempo, le critic ità hanno portato alla definizione di strumenti consolidati proprio dal loro sviluppo complesso e articolato, dialettico.

Il vaso è al centro di una spirale e non è passivo, seleziona ciò che entra. La parte di svuotamento e quella di riempimento del vaso-studente sono speculari e la loro progressione non è lineare ma c’è una circolarità del processo di conoscenza che porta a tornare più volte su una problematica a non abbandonarla. Si può alimentare una criticità integrandola con altre criticità, si possono seguire le letture scorrendo il dito su una biblioteca personale o si possono rintracciare le suggestioni date dall’esperienza universitaria una accanto all’altra. Quindi non è importante soltanto rintracciare e selezionare gli argomenti significativi del proprio percorso ma evidenziare questo ritmo di acquisizione e comprensione di ciò che si fa in una Facoltà di Architettura.

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2 s-oggetto? Superato il test d’ingresso, l’inizio degli studi appare come una tappa di un viaggio più che come un percorso predefinito in cui inserirsi meccanicamente per arrivare ad un traguardo. Ognuno viene da qualche altra parte e proseguirà in modo diverso. L’importanza di questa esperienza universitaria è la natura di passaggio che permette di dare un respiro maggiore al sapere con cui si viene a contatto, a confrontarlo con quello che avviene fuori, a vederlo ponendosi ogni volta in un punto di osservazione diverso, sapendo che lo si sta attraversando. Come attraversare una città invisibile nuova, mettendola in risonanza con le proprie potenzialità, i propri limiti e i propri desideri; la propria sensibilità. Nei primi mesi di studio, ogni giorno, più che sui sanpietrini mi sembra di camminare sulle uova. Ho sentito la necessità di mettere in relazione la mia soggettività con l’atteggiamento oggettivo che richiedevano le domande che mi ponevo riguardo al materiale di studio. Essendo ancora digiuna di studi architettonici cercai dove potevo, cominciando a confrontare il mio “vocabolario” con le nuove parole con cui venivo a contatto durante i corsi. Di quali parole si serve un architetto per leggere e scrivere lo spazio? Compresa l’importanza del valore del costruire e del non costruire, resta da scegliere un atteggiamento da prendere tenendo presente che il movente dell’operare dell’architetto e dell’urbanista è la volontà di dare senso. L’epoca attuale sembra caratterizzata da un enorme sforzo di ridare senso in seguito ad una serie di messe in discussione della propria identità e del valore delle proprie azioni, che non hanno più delle chiare conseguenze ma i cui risvolti si perdono ed esplodono frammentandosi nella complessità della realtà. Ma l’esclusione dall’Eden, questa punizione divina può essere vista come un’opportunità di radicarci sulla Terra, ricevendo da essa più di quanto immaginiamo. Siamo esclusi dall’Eden e “apparteniamo alla cura”: La Cura come entità mitologica appare come un tramite tra gli dèi e la Terra. L’uomo le appartiene. Queste definizioni annullano ogni equivoco sulla natura totalmente passiva dell’aver cura: def. “La cura è quel qualcosa tra cognizione e passione che è seguita da un fare, si conclude nell’azione. Curarsi di qualcosa significa starci attenti, preoccuparsene, ma nello stesso tempo essere pronti a fare, passare all’azione. È quel nodo essenziale

che come sostenevano Aristotele e Descartes, lega la cognizione e la passione delle azioni.” (Paolo Fabbri, “Abbozzi per una finzione della cura”, in Pino Donghi e Lorena Preta (a cura di), “In principio era la cura”, Laterza, Roma-Bari 1995, p.29; da Elena Pulcini, “La cura del mondo”, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.260) Ai miei occhi appare sempre più evidente che l’azione dell’aver cura abbia a che fare con la pratica architettonica. E non è solo una questione intuitiva. La prossima definizione di cura sembra parlarci dell’ambito di ragionamento e di intervento dell’architetto: def. “Al livello più generale, suggeriamo che la cura venga considerata una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro “mondo” in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della vita.” (Joan Tronto, “Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura”, Diabasis, Reggio Emilia 2006, da Elena Pulcini, “La cura del mondo”, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.260) La cura è invece quell’“informazione” in più che permette alla passione e la cognizione di innescare un’azione. La scintilla senza cui non sarebbe possibile interagire in modo completamente umano con il mondo fisico, quel quid senza il quale la materia non sarebbe energia, non sarebbe vita. Durante il primo anno le mie letture non sono ancora orientate verso una letteratura architettonica propriamente detta, eppure comincio a trovare in tutti i testi conosciuti o nuovi qualcosa che mi porta a interrogarmi sullo spazio, a dipanare le contraddizioni che si presentano vivendo in una società che non sembra interessata a scoprire il proprio potenziale trasformativo sulle cose e che, afflitta dai propri problemi di gestione delle risorse, rinuncia alla sacralità dei luoghi. Basterebbe accorgersi che le parole che pronunciamo ce le insegna lo spazio?

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Disegni realizzati al Liceo Scientifico: all’inizio degli studi di architettura mi rendo conto che, nello sforzo di produrre un ornato, fino ad ora ho completamente ignorato le regole della rappresentazione architettonica. Il basamento del Tempietto di Bramante è tagliato, così come il basamento del Tempio Malatestiano. Anziché “prospetto laterale” nomino l’immagine “fiancata”. Mi rendo conto della necessità di un vocabolario “oggettivo” dell’architettura.

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s - o g g e t t o ?

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Egli è stato fisicamente plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo “La prima lezione me l’ha data una tenda I primi ricordi della vita sono ricordi visivi. La vista, nel ricordo, diventa un film muto. Tutti noi abbiamo nella mente un’immagine, che è la prima, o tra le prime, della nostra vita. Quell’immagine è un segno e, per l’esattezza, un segno linguistico. Dunque, se è un segno linguistico, comunica o esprime qualcosa. […] La prima immagine della mia vita è una tenda, bianca, trasparente, che pende, credo immobile, da una finestra che dà su un vicolo piuttosto triste e scuro. Quella tenda mi terrorizza e mi angoscia: non come qualcosa di cosmico. In quella tenda si riassume e prende corpo tutto lo spirito della casa in cui sono nato. Era una casa borghese a Bologna. Infatti, le immagini che concorrono con la tenda il primato cronologico sono: una stanza con una alcova (dove dormiva mia nonna); dei pesanti mobili perbene; una carrozza, per strada, su cui volevo montare. Queste immagini sono meno dolorose di quella della tenda: tuttavia anche in esse è rappreso quel qualcosa di cosmico in cui consiste lo spirito piccolo-borghese in cui sono nato. […] Sono, appunto, dei segni linguistici, che, se a me personalmente rievocano il mondo dell’infanzia borghese, tuttavia, in quei primi momenti, mi parlavano oggettivamente facendosi decifrare come nuovi e sconosciuti. […] Altri “discorsi di cose” sono intervenuti poco dopo, e poi per tutta l’infanzia e la giovinezza. [...] La loro regressività e il loro spirito autoritario per molti anni sono stati invincibili: ho presto capito, è vero, che oltre al mio, piccolo-borghese, così cosmicamente assoluto, c’era anche un altro mondo, anzi c’erano altri mondi. Ma mi è sempre sembrato, per molto tempo, che l’unico vero, valevole, insegnatomi dagli oggetti, dalla realtà fisica, fosse il mio: mentre gli altri mi sembravano estranei, diversi, anomali, inquietanti, privi di verità. L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito. La condizione sociale si riconosce dalla carne di un individuo (almeno nella mia esperienza storica). Perché egli è stato fisicamente plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo.” (Pier Paolo Pasolini, “Lettere luterane. Il progresso come falso progresso.”, Einaudi, Torino 2005, pp. 34-37)

Pier Paolo Pasolini a Testaccio, ospite a una trasmissione televisiva, leggendo.

“Sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici… Tutte le sere, tutte le notti, la mia vita consiste nell’avere rapporti diretti, immediati, con tutta questa gente che io vedo che sta cambiando. E quindi questo fa parte della mia vita intima, della mia vita privata, della mia vita quotidiana.” (Pier Paolo Pasolini, un’intervista) Tornando al problema del materiale di studio, della sua soggettività/oggettività, da queste due letture emerge chiaramente il carattere soggettivo dell’esperienza ma anche il carattere oggettivo del condizionamento che gli oggetti e la realtà che ci circonda hanno su di noi e sui nostri desideri. Il lavoro di ricerca ha come premessa, quindi, una presa di coscienza continua della propria soggettività? Il soggetto è connesso ad un contesto, complesso, che esiste in quanto tale ma la cui definizione avviene attraverso una visione personale da confrontare continuamente con le altre visioni per far sì che abbia un significato. Esiste una grammatica dello spazio che ci comunica qualcosa su di noi da quando nasciamo? Con il tempo possiamo prenderne coscienza e imparare ad utilizzarla? L’oggettività si concretizza già nel momento in cui proviamo a contestualizzare e a comunicare un pensiero? È una convenzione? La vita pubblica si integra con la vita privata. Ogni cosa mi riguarda.

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l e t t u r e

L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito

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Nanni Moretti in vespa in “Caro Diario”: le strade di Casal Palocco.

Quali sono i soggetti attivi e quali quelli passivi di questa continua vicenda di metamorfosi dell’architettura? Come entrare in relazione con questo in qualità di figura professionale in grado di intervenire? L’ambito delle “scienze dell’architettura” appare subito una disciplina paludosa e piena di equivoci. È stato necessario quindi prima vedersi come individuo immerso in qualcosa in cui oggi si è perlopiù passivi. E poi come architetto, come un cittadino speciale investito di una possibilità di provvedere e interferire con il processo di trasformazione in atto. Due condizioni apparentemente inconciliabili.

Prima di manipolare questo materiale con il progetto, il disegno, l’architetto deve prendere coscienza di farne, per primo, parte ed avere un ruolo professionale che lo mette in una posizione dialettica con una responsabilità etica e civile. Va subito chiarito l’equivoco dell’oggettività della professione: ci si pone sempre in modo soggettivo, facendo delle scelte. In questo processo d’interpretazione continuo anche la presunta scientificità di alcune discipline va inserita in un percorso di coscienza individuale - ma non individualista - chiamato ad operare nella realtà prima per una capacità di osservare, accogliere e poi per saper intervenire, seminare… possibilmente, qualcosa di buono. La questione sembra la possibilità di un soggetto di poter parlare delle cose. Per questo sembra importante focalizzare sul linguaggio. Per due motivi:

1 Ogni testa è un piccolo mondo ma il mondo è anche in ogni testa. Possiamo comunicare questa osmosi continua grazie alle parole. Occorre riconoscere le proprie parole e poi accordarsi con gli altri per come si usano, in modo da poterle comunicare.

2 È importante la natura linguistica dei segni materiali nello spazio: in questo modo è possibile pensare ad un discorso architettonico e spaziale creando un parallelismo con gli strumenti dello studio del linguaggio (oggi fortemente connessi alle neuroscienze).

Come si può raccontare lo spazio? La prima difficoltà nel parlare delle cose emerge nel Laboratorio di Urbanistica 1 a/a 2005/2006, in cui abbiamo tentato di tracciare una mappatura del XIII Municipio di Roma. Ci immergiamo nel quartiere, tentati dal vicino mare di Ostia a primavera. Per qualche giorno a settimana la nostra vita si sposta lì. Guardiamo a lungo e traduciamo in numeri e disegni i supermercati, le vie, le auto parcheggiate o in corsa. Poi però ci fermiamo, compriamo il giornale e un panino e ci godiamo la vista della pineta di Castel Fusano, incontriamo casualmente altri studenti scatentati su e giù per la Colombo nel loro primo sopralluogo. Osservare soltanto è impossibile senza entrare nel gioco quotidiano della vita di Acilia e Casal Bernocchi.

E un pomeriggio mentre telefoniamo distratti vicino alla chiesa di quartiere qualcuno ci ruba anche lo stradario appoggiato sulla macchina.

Della zona è emersa una conformazione frammentaria in cui le leggi di genesi e di gestione attuale del territorio sono, quasi sempre, poco chiare e eterogenee. Lo studio del piano regolatore ha portato alla luce uno scarto tra le direttrici degli interventi inseriti nello sviluppo della città e le volontà dei cittadini intervistati durante la ricerca. Le reali esigenze di queste persone e di alcuni ambiti apparentemente degradati non sono scritte nei documenti recuperati negli Uffici amministrativi del Comune. Non a caso, tutte queste criticità difficilmente trovavano una forma di racconto “istituita” di cui servirsi: lo strumento proposto al Prof. Cerasoli per discuterne durante l’esame è stato un Diario in cui abbiamo tracciato dei percorsi significativi e provato a rispondere alle domande di attenzione emerse dai sopralluoghi e dalle ricerche portate avanti una revisione dopo l’altra. Una forma narrativa, quindi, oltre che un disegno. Un racconto soggettivo e relativo ma significativo tanto da poter essere presentato come elaborato di esame, insieme a un disegno. Questa consapevolezza ha innescato un ragionamento sulla questione dell’individuo come soggetto/oggetto dello studio che si è concretizzata nella proposta di uno schema, durante il corso di Studi urbani a/a 2008/2009. L’elaborato propone una tabella (intenzionalmente concepita come provvisoria e modificabile) che suggerisce l’incompiutezza dello schema ma l’importanza del suggerimento delle relazioni, utili a comprendere la nostra posizione rispetto alle cose. Quali siano le cose con cui entriamo in relazione si va via via definendo, aggiornando lo schema. La suggestione importante è la continua dialettica tra soggettività e oggettità, descrivibile solo in modo provvisorio, che si innesca tra individuo e contesto, tra materia e coscienza. Il fatto che al centro dello schema ci sia proprio l’“io” sottolinea il carattere attivo dell’individuo nella produzione di senso. In quanto studenti siamo contemporaneamene oggetti e soggetti del nostro studio. Qual è il margine tra attività e passività di questo “io”? Ogni racconto ed ogni disegno sullo spazio contengono già una sua trasformazione.

2 c r i t i c i t à

Sopra, in basso e pagina accanto: disegno su lucido e presentazione in powerpoint per il Laboratorio di Urbanistica 1 a/a 2005/2006. Sotto: tavola “io e lo spazio” per Studi Urbani a/a 2008/2009, tabella aperta che suggerisce la centralità del soggetto nel ragionamento sullo spazio.

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3 cittadini? to che la civiltà occidentale fa di sé, in un modo che appare sempre più passivo. Per tutti questi motivi secondo una certa tradizione ci avviciniamo ad un presunto vuoto sociale e culturale e all’uomo contemporaneo non resta che avere una reazione nevrastenica, dovuta allo shock continuo a cui sottopone la realtà mediatica. Il cittadino sembra una vittima del luogo in cui vive. Emerge una crisi della produzione di senso da parte degli abitanti e del concetto stesso di abitare. Si dissolve l’alleanza tra corpo e tempo. Se non è di vuoto che possiamo parlare, sicuramente emerge uno scarto, una distanza. E una nostalgia, a cui è difficire dare una definizione tecnica ma che aleggia nelle pagine degli scrittori e negli sguardi critici dei cittadini che non hanno più un rapporto diretto con l’architettura delle proprie città. Quello che offre la città sembra essere una casualità diffusa piuttosto che un ordine stabilito e leggibile. Anche gli incontri sono immersi in questa inafferrabilità. Non è chiaro se questo sia un vantaggio o uno svantaggio per i nostri sensi avidi di esperienza (senza per forza essere Beaudelaire!). Come cittadini possiamo ancora dire di aver bisogno delle città. Quello che è certo è che, parallelamente alla famosa “perdita del ruolo” del poeta, dello scrittore, dell’artista, sembra avvenga anche una perdita del ruolo dell’urbanista che, cercando di farsi garante di standard e sicurezza e promotore di nuovi alfabeti tecnici per raccontare la civiltà, sembra perdere la capacità di interpretarne la sua vera sostanza. Di idearla e farle spazio tra le proprie idee. La vecchia figura del poeta che sa interpretare lo spirito di un tempo è sempre più rara anche se ci sono dei punti di riferimento ancora vivi. Anche gli architetti più noti e celebrati ai miei occhi non sembrano rappresentare appieno il ruolo ad essi riconosciuto… Quando gli è riconosciuto, perché in genere quello che sembra susciti l’architettura sia perlopiù indifferenza se non insofferenza. Ascolto le interviste delle archistar nazionali ed internazionali e mi chiedo come non possano approfittare della propria visibilità per comunicare qualcosa alle persone, per non parlare soltanto del “futuro” che è già qui e che loro hanno colto con i loro progetti. Mi sembra che le persone cerchino altro e, non trovandolo, ignorano la nostra categoria o la confondono con la politica o con l’interesse privato. Perché dove ci sono soldi ci sono potere, infrastrutture e progetti di architettura.

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Tavole A2 per l’esame di Laboratorio di Urbanistica 2 a/a 2006/2007. Nell’analisi del quartiere di Roma Val Melaina emerge uno scarto tra le intenzioni dei progettisti e gli esiti. Gli “addetti ai lavori”, architetti e urbanisti, sono assenti nel processo di appropriazione dell’edilizia popolare e di quella privata da parte dei cittadini. Nel progetto di riqualificazione urbana si tenta di ridare senso al vivere in questa zona rafforzando i valori significativi della storia del luogo, ad esempio il suo passato agricolo. Nell’analisi dello stato di fatto come in quella di progetto i cittadini sono in primo piano.

Il primo s-oggetto di cui sembra spontaneo occuparsi in una Facoltà di Architettura è il cittadino, protagonista contemporaneo del mondo artificiale costruito dall’uomo per l’uomo. Siamo sicuri che questa figura sia ancora protagonista? La città è ancora fatta dai cittadini o i cittadini sono fatti dalla città? Torniamo alla questione di quali siano l’oggetto di studio e i suoi, vivi, soggetti partecipanti. Attraverso la struttura dei Laboratori di Progettazione Urbanistica comincia ad emergere che la città è ancora protagonista se si pensa all’architettura del vivere civile. Quale città? Siamo ancora consapevolmente e decisivamente cittadini? Perché le città oggi ci fanno male? Perché continuano a farci bene? Qual è il rapporto degli individuisoggetti con i luoghi e i propri conviventi? È definito o siamo in un momento di confusione? La città moderna è vista come perdita più che guadagno. Da uno dei dibattiti delle prime lezioni del Laboratorio di Urbanistica 2 a/a 2006/2007 emerge che tutti siamo convinti che da un lato le città oggi ci facciano male e siano istituzioni più deboli rispetto ad altre (come il mercato o lo Stato). È richiesto agli studenti di scrivere un testo sul “perché la città fa male”. Ash Amin e Nigel Thrift in “Città. Ripensare la dimensione urbana” - in bibliografia per l’esame con il Prof. Caudo - spiegano che i colpi che indeboliscono la città sono comunemente considerati inferti da: 1 Il denaro, considerato un “acido culturale” che corrode la socialità verso la mercificazione. La qualità diventa quantità e il colore e la differenza sono cancellati. 2 La mercificazione, la cultura dell’oggetto su quella degli esseri umani: Simmel e Benjamin parlano delle città come luogo tecnologico di abitazione dell’uomo dove il conflitto fra tecnologia e tradizione umana è più evidente. Le possibilità speculative della tecnologia sono ridotte dalla merce. 3 L’accelerazione costante della vita e la “tendenza a creare distanza”, il rifiuto del contatto intimo. 4 L’ascesa dei mass media che conduce ad un rapido tracollo della tradizione. Anche se non disapprovano questa narrazione, è da notare che Amin e Thrift contestano che siano pochi i tentativi di una verifica empirica, quindi elencano delle obiezioni. Resta importante questo raccon-

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La via mi stordiva e mi urlava intorno Ignoro dove fuggivi, non sai dove io vada

La città è costituita da voi stessi, dovunque decidiate di stabilirvi… sono gli uomini a fare la città, non le mura e le navi senza gli uomini La paura di imporre restrizioni assume spesso la forma del timore di soffocare una crescita autonoma, e per questo gli urbanisti, quando parlano del modo di vivere e crescere delle città, ricorrono a immagini tratte dalla natura

Fotogrammi del video per il Laboratoio di Urbanistica 2 a/a 2006/2007. Le “tracce” di Val Melaina che riportiamo sono tentativi dei cittadini ad ogni scala di delimitare e ingabbiare, illudendosi di dare un margine all’identità ma alimentando la difficoltà di radicamento. Le corti immaginate dai progettisti sono impigliate tra gli svincoli. I cittadini, confinati in edifici-gabbie si convincono a loro volta della necessità di isolarsi, rompendo il rapporto con il luogo. Rinunciando ad essere cittadini.

“La povertà concettuale del nostro discorso sulla città si manifesta se ci riferiamo al passato più recente. I criteri in base ai quali nel secolo scorso (il XIX, ndr) si definiva la terminologia urbanistica erano forse ancor più direttamente “concreti” di quanto lo siano oggi: ad esempio, la distinzione fra “città” e “cittadina” poteva essere ricondotta al tipo di pavimentazione stradale. Il tono del discorso cambia (com’era da aspettarsi) se risaliamo verso il passato: nel suo dizionario di termini architettonici un teorico francese del Settecento, Charles Daviler, definisce la città “un insieme ordinato di isolati e di quartieri disposti con ornata simmetria, di strade e piazze pubbliche che si aprono lungo tracciati rettilinei orientati in modo gradevole, con pendenze sufficienti per lo scolo delle acque…”. Ma una tale interpretazione segna la fine di tutta una tradizione: secondo un autore moderno, “la città è innanzitutto una realtà fisica, un raggruppamento più o meno esteso di case e di edifici pubblici… La città ha inizio solo quando i sentieri si trasformano in vie…”. Una simile definizione, che ricalca i precedenti ottocenteschi, appare ben lontana dalle parole con cui Nicia incitava i soldati ateniesi sulla spiaggia di Siracusa: “La città è costituita da voi stessi, dovunque decidiate di stabilirvi… sono gli uomini a fare la città, non le mura e le navi senza gli uomini…”. […] In genere si suppone – da parte non solo dei pianificatori, ma anche delle autorità e dello stesso pubblico – che l’espansione urbana debba proseguire col ritmo attuale e che quindi essa sia prevedibile in base a semplici estrapolazioni statistiche; la possibilità di nuovi sviluppi viene messa fuori discussione passandola sotto silenzio. Il quadro di riferimento concettuale entro cui gli abitanti operano è fatto apposta per eludere il problema di instaurare nella città un qualsiasi ordine di tipo extraeconomico. La paura di imporre restrizioni assume spesso la forma del timore di soffocare una crescita autonoma, e per questo gli urbanisti, quando parlano del modo di vivere e crescere delle città, ricorrono a immagini tratte dalla natura: la planimetria urbana è un albero, una foglia, una porzione di tessuto epidermico, una mano, e così via, non senza qualche excursus nella patologia quando si denunziano le situazioni più critiche. Ma la città non è un fenomeno naturale: è un fatto artificiale sui generis, in cui si mescolano elementi volontari ed elementi casuali, non rigorosamente controllabili. Se proprio la città dev’essere messa in relazione con la fisiologia, più che a ogni altra cosa essa somiglia a un sogno.” (Joseph Rykwert, “L’idea di città”, Adelphi, Milano 2002, pp. 5-7)

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“La via mi stordiva e mi urlava intorno. Alta, esile, lutto sontuoso di un grande dolore, Una donna passa, fasto della mano Nel mostrare lo smerlo, ricamo ondeggiante. Agile e nobile, la sua gamba di statua. Io, viso contratto degli stravaganti, bevo Nel suo occhio, cielo livido dove l’uragano addensa, Nettare che affascina e piacere che uccide. Uno squarcio... poi la notte! Beltà che fuggi Il tuo sguardo d’un tratto mi fa rinascere, Non ti rivedrò che nell’eternità? Lontano da qui, chissà dove! Tardi! Mai forse! Ignoro dove fuggivi, non sai dove io vada O tu che avrei amato, tu, lo sapevi!” (Charles Baudelaire, “A’ une passante”)

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La differenza tra polìtes e cives, tra città greca (la polis della gens) e città romana (la civitas della lex), illumina alcune questioni contemporanee ma soprattutto emerge la necessità di ridefinire i requisiti e le potenzialità della condizione di cittadinanza oggi. Il cittadino è ridotto a nuove figure di consumatore, turista, soggetto/oggetto burocratico, prigioniero, migrante. Questa consapevolezza mette in discussione il valore della convivenza. Apparteniamo ancora ad un luogo? I luoghi ci appartengono ancora? Questo legame, che supera la linea sottile del sacro, non è più al centro del dibattito sulle città proposto dai giornali e dalla televisione, sebbene sia ancora pretesto per conflitti religiosi o etnici che prendono l’ombra obliqua della strumentalizzazione economica. Assumere come Cacciari la polis e l’urbs come due modelli all’origine del concetto di cittadinanza occidentale, comporta una riflessione sul destino dei temi della legge, della religione, del potere, dell’appartenenza, delle radici. Nel corso dei Laboratori di Progettazione Urbanistica 1 e 2 ho potuto approfondire questo rapporto tra le leggi e le radici dell’identità. Cosa permette la passività o l’attività dell’essere umano nel suo ambiente di vita, di sentirsi parte di qualcosa o espulso da quello spazio? È ancora congruente, logico, il rapporto tra le leggi e l’identità dei cittadini? Come si declina questo rapporto in altre parti del mondo? Emerge una dialettica interna alle città che mistifica i modelli consolidati di conformazione dello spazio rendendo debole lo spessore ideologico della costruzione delle città, il tradizionale rapporto tra centro e periferia e confonde le funzioni e i significati dei luoghi e delle architetture. È possibile un vero progresso se si è perso il vero valore della parola “tradizione” (e di “tradimento” ad essa) e si deraglia dall’ideale binario dell’evoluzione dei significati?

Ancora fotogrammi del video per il Laboratorio di Urbanistica 2 sul tema della gabbia.

Il rapporto con il luogo sembra oggi spostarsi dalla dicotomia comunità-città a quella corpo-città (o città diffusa, metropoli o post-metropoli che sia). Monadi che si muovono all’interno dello spazio cercando una dislocazione, una collocazione, scivolando sulle automobili senza riuscire ad aderire bene al suolo che si percorre. Anche le case non sembrano

nascere dal basso, sembrano piuttosto lanciate più o meno densamente da chi governa la colonizzazione degli ambienti antropici. Le cose sono complicate dai mezzi di comunicazione di massa che rendono le relazioni più complesse. Possiamo ancora chiamare un “corpo umano” il nostro corpo o abbiamo assunto alcuni tratti della macchina nel nostro modo di scambiare fluidi corporei ed incorporei con le congiunture circostanti? Quali esseri e quali macchine a questi esseri necessarie dobbiamo accogliere negli edifici che impariamo a progettare? I lineamenti del corpo umano sfuggono mentre cerco di imparare cosa mi serve per dargli una casa e un portico sotto cui sostare per dialogare. Nel video prodotto per una delle consegne del Laboratorio di Urbanistica 2 2006/2007 ci soffermiamo sul tema del radicamento e raccontiamo proprio questa “sospensione” delle persone a qualche centimetro dal suolo, questa paradossale distanza tra il luogo e chi lo vive. La periferia di Roma – Val Melaina può essere raccontata nelle sue parti progettate o spontanee attraverso il metodo paranoico-critico di Dalì scegliendo la gabbia come elemento la cui esasperante ripetizione e onnipresenza porta a una metafora espressiva di una condizione. Più che metterlo di fronte ad un esempio da seguire, la crisi evidente dei progetti e delle loro buone intenzioni porta lo studente a una messa in discussione del ruolo di architetti e urbanisti. Gli abitanti di Val Melaina, ingabbiati nei loro edifici a corte, sovradimensionati ma insufficienti a soddisfare i proprio bisogni, producono paradossalmente altri recinti, altre gabbie per tentare di dare un limite alla propria identità che sembra coincidere con la proprietà e non con le possibilità che dà lo scambio con un luogo. Le possibilità restano ingabbiate e nascoste tra le maglie di una città che non può essere descritta solo dalle planimetrie. Riusciamo a dire bene cosa manca ma ancora non sappiamo come istituirlo nuovamente. Il cambiamento dovrebbe partire dalle persone. E l’architetto può dire cosa è bene per gli altri? Se anche l’architetto è una persona, sì.

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Oltre alle narrazioni soggettive che si possono e si devono fare e accogliere, ci sono anche delle storie che riguardano tutti e che è pericoloso ignorare. È quindi opportuno conoscere delle interpretazioni della genesi della città occidentale. Decisiva la lettura de “La città” di Massimo Cacciari, in bibliografia per Studi Urbani A/A 2008/2009, che propone un’idea di città come entità ancora viva poiché storicamente definita nelle leggi e nell’immaginazione degli uomini.

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4 piani? Scoperta sul campo l’insufficienza degli strumenti di percezione e racconto della realtà, cerchiamo di passarli in rassegna e capirne i limiti. Alcuni appartengono al settore specifico dell’architettura e dell’urbanistica, altri sono mutuati da altre discipline. Ci serviamo di planimetrie, piani regolatori, disegni di progetto, interviste, statistiche, dati, censimenti osservazione sul campo (più o meno partecipante), disegni dal vivo. Ma ci rendiamo conto che questo non basta mai per descrivere lo stato di fatto degli ambienti che percorriamo. Mancano le informazioni sui rapporti tra le strade e le persone che le percorrono. Come si può descrivere questo rapporto? Questo fa emergere un senso di inadeguatezza da parte dello studente, che non sa come cogliere i nodi fondamentali delle virtù e dei vizi della gestione del territorio e degli edifici che lo colonizzano. Vengono fuori nuove parole: tracce, mappe psicologiche, psicogeografia. Tra piani e progetti ci barcameniamo tra visioni d’insieme e visioni dal basso, dal volo d’uccello alla formica. Eppure sfugge una realistica rappresentazione di ciò che si vede. Riconoscere uno spessore a questa complessità e relatività di visione comporta una messa in crisi degli strumenti ufficiali della rappresentazione… Nonché della validità della propria visione, nonostante tutte le buone intenzioni. È più utile sapersi orientare o disorientare? Sempre attuale e pregnante la figura del flâneur, un po’ svalutata oggi, nell’era degli “eventi” precotti e premasticati di Facebook, quando ciò che conta è la capacità di creare un caso attorno a qualsiasi fatto e non tendere l’orecchio e gli occhi verso il ronzio degli avvenimenti lasciandosi andare ad essi. Il flâneur è più che un semplice “curiosone” che attraversa “avidamente distratto” la letteratura: “Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta è una cosa tutta da imparare. Ché i nomi delle strade devono suonare all’orecchio dell’errabondo come lo scricchiolio di rami secchi e le viuzze interne gli devono rispecchiare nitidamente come le gole montane” (Walter Benjamin, “Berliner Kindheit um neunzehnhundert”). Forse il posto dell’urbanista non è un posto fisso, dietro una scrivania. Agisce camminando. Oltre a proporre il nomadismo come forma di abitare di pari valore all’abitare

stanzialmente un luogo, Francesco Careri suggerisce in “Camminare come pratica estetica” una storia di questo percorrere i luoghi da parte dell’uomo. Sottolineando come percorrere sia una forma di intervento e di partecipazione alla costruzione del senso degli spazi non indifferente. Una storia non solo occidentale ma sicuramente segnata in modo significativo da alcune esperienze della cultura europea del XIX-XX secolo: tra i focus, nel libro non mancano la Parigi di Benjamin e il movimento Dada. Il dadaismo, il situazionismo, il decostruttivismo e altri –ismi importanti rompono la staticità della collocazione della coscienza culturale e la spargono nelle strade. O spargono le strade nelle proprie anime, facendo più sensibile e intenso il rapporto dello spazio stesso con il flusso di coscienza, ormai irrimediabilmente in movimento. Questa poesia di André Breton parla da sola.

“La terra, sotto i miei piedi, non è altro che un immenso giornale spiegato. A volte passa una fotografia, è una curiosità qualunque e dai fiori nasce uniformemente il profumo, il buon profumo dell’inchiostro di stampa” (André Breton, “Poisson soluble” 1924)

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Tavola per l’esame di Disegno dell’Archtiettura a/a 2006/2007 dedicata alle esperienze psicogeografiche, alla land art e all’architettura del paesaggio. Lo spunto è un viaggio in Bretagna, alla scoperta del sito megalitico di Carnac. L’esperienza antichissima del percorrere il territorio lasciando un segno e lasciando che ci segni necessita di mappe diverse da planimetrie per essere descritta. Sotto: disegno a tempera delle pietre di Carnac. Pagina accanto: acquarello su cartoncino colorato.

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Il primo oggetto situato del paesaggio umano nasce direttamente dall’universo dell’erranza e del nomadismo Nei surrealisti c’è la convinzione che lo spazio urbano possa essere attraversato come la nostra mente, che nella città possa rivelarsi una realtà non visibile “Il primo oggetto situato del paesaggio umano nasce direttamente dall’universo dell’erranza e del nomadismo. Mentre l’orizzonte è una linea stabile più o meno dritta a seconda del paesaggio in cui si trova l’osservatore, il sole ha un andamento più incerto, segue una direzione che appare chiaramente verticale solo nei due momenti di avvicinamento all’orizzonte: all’alba e al tramonto. È probabile che fu anche per stabilizzare la direzione verticale che fu creato il primo elemento artificiale dello spazio: il menhir.” “La città teatro dei flussi e della velocità futurista era stata trasformata da Dada in un luogo in cui scorgere il banale e il ridicolo, in cui smascherare la farsa della città borghese e come luogo pubblico in cui provocare la cultura istituzionale. I surrealisti abbandonano il nichilismo di Dada e si muovono verso un progetto positivo. Appoggiandosi sulle basi della nascente psicanalisi si lanciano verso il superamento della negazione dadista nella convinzione che “qualcosa si nasconde là dietro”. Oltre ai territori del banale esistono i territori dell’inconscio, oltre alla negazione esiste ancora la scoperta di un nuovo mondo che va indagato prima di essere rifiutato o semplicemente deriso. Nei surrealisti c’è la convinzione che lo spazio urbano possa essere attraversato come la nostra mente, che nella città possa rivelarsi una realtà non visibile.”

Particolari delle tavole di Disegno dell’Architettura. A sinistra: fotografia di Carnac; sopra: disegni a china; sotto: acquarello. In basso a sinistra: locandina dell’esperienza dadaista parigina della visita alla chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre. Camminare e perdersi permette di accedere ad un’esperienza diversa dello spazio. Il disorientamento apre i sensi e la mente alla conoscenza. Dai segni preistorici alla land art, l’uomo dà forma a un’architettura da percorrere che si interroga sull’armonia con il luogo e sulla natura di passaggio del nostro essere sulla Terra.

“Il comunicato stampa. Oggi alle 15 nel giardino della chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre… Dada inaugura una serie di escursioni a Parigi, invita gratuitamente amici e nemicia visitare le dépendances della chiesa. Sembrerebbe infatti che si possa trovare ancora qualche cosa da scoprire nel giardino, seppure sia già noto ai turisti. Non si tratta di una manifestazione anticlericale, come si sarebbe tentati di credere, ma piuttosto di una nuova interpretazione della natura, applicata questa volta non all’arte, ma alla vita.” (Francesco Careri, “Camminare come pratica estetica”, Einaudi, Torino 2006)

La pluralità di visioni urbane ed architettoniche, invece di esprimere il disordine diffuso, può essere canalizzata e articolata Sul piano della teoria architettonica, i nuovi dogmi dell’incertezza, dell’ironia, della decostruzione, della provocazione, della discontinuità e del surrogato si contrappongono a ogni pensiero coerente “La libertà di scelta, la libertà di espressione e il rispetto delle leggi sono i valori principali della democrazia politica. Una pluralità di stili di vita, di credi, e dunque di stili di architettura e di città ne costituiscono la naturale espressione. Non potrebbe esserci un solo “stile democratico” così come non potrebbe esistere “un partito democratico unico”. È sicuramente errato attribuire al pluralismo democratico la responsabilità dell’aspetto caotico delle nostre città e campagne. Esso non esprime affatto il funzionamento pacifico, organizzato e convenzionale della società civile, né ne facilita lo sviluppo armonioso. Le differenze di opinioni possono sfociare nel conflitto oppure risolversi in un dibattito civile. La pluralità di visioni urbane ed architettoniche, invece di esprimere il disordine diffuso, può essere canalizzata e articolata per produrre una moltitudine di città e centri minori estremamente diversi nella loro struttura ordinatrice, nella loro architettura, nella loro densità, ognuna tendente a raggiungere la propria unità e armonia.[…] Anche la forma delle città è una questione di scelta e non di fatalità; coloro che sostengono il contrario considerano l’aspetto delle nostre città come il realizzarsi di un laisser-faire sfrenato, laddove questo si configura invece come il realizzarsi di un’ideologia pianificatrice errata. […] Sul piano della teoria architettonica, i nuovi dogmi dell’incertezza, dell’ironia, della decostruzione, della provocazione, della discontinuità e del surrogato si contrappongono a ogni pensiero coerente.” (Léon Krier, “Architettura. Scelta o fatalità”, Laterza, Bari 1995)

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Oltre ai territori del banale esistono i territori dell’inconscio

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I prodotti della rappresentazione spesso assumono la consistenza del sogno, della metafora, dell’ossessione, del ricordo. In ogni caso assumono una dimensione “vitalistica e narrativa, partecipante e collettiva, essenzialmente itinerante, in cammino”. C’è un continuo rimando tra le strade della comunicazione, quelle della coscienza e quelle fisiche, lastricate. Le esperienze di scoperta della città corrono parallelamente alla scoperta dei limiti e delle potenzialità dell’esperienza umana. Cosa ne è stato di questo patto tra le strade che percorriamo con i piedi e quelle che percorriamo scoprendo la nostra natura di uomini? Tutte queste importanti suggestioni della flânerie non possono restare nella loro forma quasi di divertimento, apparentemente evasiva. Sembra si possa dargli dignità e collocazione epistemologica confrontandole con gli strumenti della disciplina architettonica anche se è un’operazione che richiede attenzione.

“Delirious New York” di Rem Koolhaas, in bibliografia per l’esame di Laboratorio di Urbanistica 2 a/a 2006/2007, mette di fronte ad un esempio riuscito di interrogazione di una città riguardo alla sua identità, alla sua storia e alla sua condizione attuale. Le vicende dei grattacieli di New York sono, ai suoi albori, intimamente legate alle vite dei loro architetti. Manhattan si racconta come fosse su un lettino dello psicanalista. Non importa se dice il vero o sta inventando: la bugia e la finzione sono parte della produzione di senso. La metafora è un mezzo privilegiato per descrivere questi spostamenti di significato.

Diventa necessario stabilire se davvero la città stia diventando un organismo che vive di vita propria, indipendente da piani e progetti. Il grande organismo novecentesco della città, fatto di organi e articolazioni e bisognoso di medici e agopuntori, sta diventando piuttosto un’enorme in-coscienza collettiva che sfugge ad ogni rappresentazione? Ci troviamo all’interno di questo interessante e critico passaggio? Ci sono nuovi modi per cogliere questa trasformazione? Se proviamo a rintracciare gli archetipi nelle forme che oggi sembrano sopraffarci sembra più facile ricondurci alla nostra natura e ricondurre le città alla nostra, forse inconscia, volontà. Ho visitato il sito megalitico Carnac, Bretagna, nel 2006 e per la prima volta ho avuto chiaro davanti a me cosa significasse un archetipo. E quanto l’ar-

chitettura contemporanea sia ancora impregnata di questa energia. Tornando al problema dei linguaggi dell’architettura, ecco che la figura retorica, regina della poesia diventa importante quanto la retorica dei piani regolatori. Non è un caso che Koolhaas fosse sceneggiatore prima che architetto. Manhattan, l’emblema della metropoli, viene personificata e messa a nudo provocando un iniziale senso di imbarazzo nel lettore ma offrendo ad ogni architetto le coordinate di una visuale preziosa sul materiale del proprio studio. Koolhaas chiarisce inoltre il problema della passività/attività degli architetti rispetto a un disegno più grande in cui si trovano ad agire. Le personalità degli architetti fautori della civiltà dei grattacieli inseriscono il proprio destino in quello della storia di un luogo grazie alla loro capacità di interpretare le sue esigenze e i suoi desideri. Forse sono proprio loro, di volta in volta, i pazienti ma appassionati analisti della mente collettiva di quella desolata penisola colonizzata divisa in lotti che è, all’inizio, Manhattan. Alla luce di questo, il problema della città è solo la sua velocità di sviluppo? Di certo il vertiginoso susseguirsi di eventi fa pensare che, in questo peregrinare in cerca di segni tra le strade più o meno tangibili della città, sia necessaria una grammatica riconosciuta che permetta agli uomini di capire il proprio spazio e orientarsi. E, soprattutto, di incontrarsi tra di loro. Il piano da proporre per dare “ordine” a qualcosa che sembra essere esploso o imploso, a seconda dei punti di vista, non sembra riducibile soltanto a una planimetria. L’urbanista deve potersi muovere agilmente per rintracciare i segni del cambiamento o della conservazione. Senza dimenticare quanto questo lavoro sia relativo. E di come sia relativa la definizione di una qualsiasi “cultura istituzionale” oggi.

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Il problema dell’orientamento sembra centrale: dal riconoscimento dell’impossibilità ad orientarsi e di incontrarsi nella città, ad incontrare la città stessa; all’esplorazione di modi che reinventano il modo di darsi delle coordinate. Quali sono le coordinate? I punti cardinali? La posizione degli edifici di riferimento? I luoghi istituzionali? Cerco dei modelli di città. Dei nomi da dare alla città. Per Benjamin la capitale del XIX secolo è Parigi: oggi quale può essere un modello di città? Tra le pagine di Giorgio Piccinato, “Un mondo di città”, emerge, inquietante, una città che fagocita il territorio: la megalopoli del “mondo in via di sviluppo”, del sud del mondo. Sono città in cui gli abituali rapporti tra centro/periferia si dissolvono, dove le gerarchie si ricompongono e dove l’elemento della casualità è portato all’estremo, a scapito della popolazione. Qual è il ruolo degli urbanisti? E se è vero che un ruolo è stato perso, come possono gli urbanisti stessi ricollocarsi tra le coordinate e proporre queste coordinate ai cittadini?

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5 filologia?

In senso orario: pianta di teatro greco nell’edizione di Vitruvio di Fra Giocondo (1513), teatro Kabuki giapponese, il Teatro Laboratorio contemporane. Lo studio della Storia del Teatro è lo studio del rapporto del corpo dell’uomo con lo spazio, intimamente connesso alle convenzioni e alla ricerca del significato del “racconto” che l’uomo fa di se stesso. Nel teatro le convenzioni e la corrispondenza tra tempi dell’azione e spazio della rappresentazione sono fondamentali. Si può cercare di rintracciare anche nell’architettura l’unità tra azione, tempi e spazio.

Un altro dubbio che si insinua se ci si muove filologicamente è il significato di cultura. Chi stabilisce i suoi margini? Ci riferiamo ad un’epoca, a un’etnia, a uno moderno stato e alle sue origini? O semplicemente ai limiti di un sistema linguistico, se esistono?

Sicuramente la spettacolarizzazione della cultura e dei suoi presunti valori non è da considerarsi soltanto un sintomo di una degenerazione dei costumi, come oggi si tende a fare troppo facilmente. È complesso il trasferimento d’interi sistemi culturali dal loro lento svolgimento materiale nelle strade a pacchetti mediatici prefabbricati ma non di fatto fabbricati fisicamente. “Virtuali”, diremmo. Il problema del reale e del virtuale, così pieno di equivoci e contraddizioni, trova pace se pensiamo al valore delle rappresentazioni teatrali e cinematografiche. La loro nascita scaturisce da un percorso di ricerca di linguaggi atti a descrivere il mondo e a proporne altri possibili, consapevoli di alimentarli e quasi mai pensando di sostituirli. Ha una storia recente la sostituzione del mondo reale, tangibile, con i suoi surrogati. La “vetrinizzazione sociale”, premonita da Benjamin e più che mai viva nell’era dei reality e dell’e-commerce, è un ramo innestato nella storia dello spettacolo che nonostante tutto continua a produrre senso e a interpretare come ha sempre saputo fare. La ricerca del consenso e del giusto linguaggio per ottenerlo non sono per forza una cosa sporca se sono a favore delle persone. Se gli schermi televisivi e cinematografici o telematici fanno parte della realtà perché non provare a considerarli nel loro rapporto con essa? Non è un paradosso quello delle realtà virtuali? Nel teatro contemporaneo si comincia a negare il palcoscenico, la scenografia, per focalizzare l’attenzione sullo strumentoattore che basta a fare teatro. Il corpo è al centro della scena e l’allenamento del corpo, della sua verità e sacralità nell’adesione alla rappresentazione teatrale è centrale. Nel XX secolo in molti indagano sul rapporto tra il corpo e la parola, la verità e la finzione. Ricercando l’intenzione, il coinvolgimento totale dell’attore per mettere a nudo la nostra natura fisica e interiore, consapevoli che questo proprio questo coinvolgimento sia un mezzo ma forse anche il solo fine dello stare al mondo. Il risultato del training corporeo dell’attore e l’esplorazione delle sue potenzialità nello spazio è il raggiungimento di una sorta di essenza, di nocciolo sacro di umanità. Iluminante per l’indagine sul rapporto tra spazio e coscienza è il mondo del palcoscenico. O meglio, dello spazio del fare teatro, che non è necessariamente un palco ma un luogo in cui spettatori e attori decidono di incontrarsi: la sublimazione di una convenzione.

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Non è irrilevante dire che prima di iscrivermi alla Facoltà di Architettura ho studiato per due anni Lettere e Filosofia a/a 2003/2004, 2004/2005, con un iniziale disposizione verso la sceneggiatura cinematografica. Interessandomi, poi, in modo particolare all’antropologia. Queste due passioni sicuramente orientano lo sguardo verso esperienze che tentano di dislocare il proprio punto di vista acquisendone un altro o partecipando alle esperienze per comprenderle. Mi sono affacciata agli studi di architettura con le domande che avevo ereditato da questo primo approccio con il mondo accademico. O forse proprio grazie a quelle domande. Durante i corsi di Storia del teatro a/a 2003/2004 ho conosciuto la seduzione dello spettacolo che, al contrario di quanto pensassi, è tutt’altro che qualcosa di puramente sentimentale e perdutamente lirico: solo i codici che sono dietro ad ogni rappresentazione permettono che questa sia comprensibile e godibile. Questi codici e i contenuti di cui si nutrono cambiano nei secoli, insieme alle architetture che permettono la loro rappresentazione. Una delle prime lezioni di architettura me l’ha data “Lo spazio scenico” di Nicoll. Forse una libro “di architettura” più di molti altri. Nicoll racconta la storia della rappresentazione teatrale descrivendo i luoghi della messa in scena. La relazione tra le istituzioni politiche, la realtà storica e le opere teatrali si concretizza nell’invenzione e nella trasformazione dei palcoscenici. Nella scelta dei luoghi adatti ad accogliere attori, pubblico, ospiti d’onore e addetti ai lavori, riuniti dalle storie che si raccontano, confluisce tutto il rumore e l’umore del “fuori”, dentro la scatola del teatro o nelle corti, le chiese, le strade dove il teatro si fa. I dettagli architettonici (faticosissimi da comprendere per uno studente di letteratura!) sono tutti ugualmente importanti per comprendere un clima culturale. Una nuvola di cartone, uno scalino di legno, una carrucola, un drappo. Le scoperte ottiche e la padronanza della prospettiva condizionano la finzione scenica così come le guerre tra regni e le rivoluzioni. Chi sono i protagonisti? Chi si muove nello spazio? Quale spazio è adatto? Come risalire alla sua genesi se queste strutture non esistono più?

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Da A. Nicoll, “Lo spazio scenico. Storia dell’Arte teatrale”, in senso orario: le tre scene di Serlio, dramma liturgico medievale, uso della prospettiva nel 1600, artifici scenici di Inigo Jones.

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“Non è questa l’essenza del problema: ciò che conta è l’incontro. Il testo esiste in senso oggettivo come realtà artistica. Ebbene, se questo testo è abbastanza antico ad ha conservata intatta, fino ad oggi, tutta la sua forza, in altre parole se questo testo contiene una sintesi di esperienze umane, immagini, illusioni, miti e verità che sono tutt’ora validi per noi, allora esso ha il significato di un messaggio che ci viene indirizzato dalle generazioni precedenti. Ugualmente, un testo nuovo può essere una specie di prisma che riflette le nostre esperienze. […] il testo può essere illustrato dall’interpretazione degli attori, la messa in scena, il décor, la situazione scenica… Il risultato di tutto ciò non è teatro poiché il solo elemento vivo in tale rappresentazione consiste nella letteratura. […] L’essenza del teatro è costituita da un incontro. L’individuo che compie un atto di auto-penetrazione, stabilisce in qualche modo un contatto con se stesso: cioè un confronto estremo, sincero, disciplinato, preciso e totale – non soltanto un confronto con i suoi pensieri ma un confronto tale da coinvolgere l’intero suo essere, dai suoi istinti e ragioni inconsce fino allo stadio della sua più lucida consapevolezza.” (Jerzy Grotowsky, “Per un teatro povero”, Bulzoni, Roma 1970)

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L’essenza del teatro è costituita da un incontro. L’individuo che compie un atto di auto-penetrazione, stabilisce in qualche modo un contatto con se stesso: cioè un confronto estremo, sincero, disciplinato, preciso e totale

33 Si può vedere parallelamente a questo la “rappresentazione” architettonica come spettacolo nel senso più nobile della parola. Non basta la messa in scena e il décor… forse occorre ricercare un’architettura “povera” che vada all’essenza delle esigenze del corpo e dello spirito umano? Negli scritti di Adolf Loos in bibliografia per l’esame di Storia dell’Architettura 2 a/a 2007/2008 del Prof. Gargano – troviamo, con lucida ironia e sarcasmo, riflessioni sul problema del significato di povertà culturale. In “A proposito di un povero ricco”, l’architetto alla moda ha provveduto alla progettazione totale della dimora di un abbiente cittadino. Venuto a far visita al committente nella sua casa-capolavoro, si indigna con il proprietario che ha osato indossare delle ciabatte che stonano terribilmente con l’atmosfera!

Non mi sono forse preoccupato di tutto? Lei non ha più bisogno di nulla. Lei è completo! Era escluso per il futuro dalla vita, dai desideri e da ogni aspirazione. Egli intuì: ora avrebbe dovuto imparare ad andarsene in giro con il suo cadavere. Si! Era finito! Era completo! “Ieri” disse timidamente “ho festeggiato il mio compleanno. I miei cari mi hanno letteralmente coperto di regali. Le ho chiesto di venire, caro signor architetto, perché ci dia qualche consiglio su come possono essere sistemati nel modo migliore” La faccia dell’architetto si allungava a vista d’occhio. Infine esplose: “Com’è possibile che lei arrivi al punto di farsi regalare qualcosa? Non le ho forse disegnato tutto io? Non mi sono forse preoccupato di tutto? Lei non ha più bisogno di nulla. Lei è completo!” […] A questo punto nell’uomo ricco avvenne una trasformazione. L’uomo felice si sentì all’improvviso profondamente, infinitamente infelice. Vide la vita che l’aspettava. Nessuno avrebbe più potuto dargli una gioia. Era condannato a passare davanti alle vetrine dei negozi della città senza provare desideri. Per lui non sarebbe stato prodotto più nulla. Nessuno dei suoi cari avrebbe più potuto regalargli una sua fotografia. Per lui non sarebbero più esistiti pittori, artisti, artigiani. Era escluso per il futuro dalla vita, dai desideri e da ogni aspirazione. Egli intuì: ora avrebbe dovuto imparare ad andarsene in giro con il suo cadavere. Si! Era finito! Era completo!” (Adolph Loos, “Parole nel vuoto”, Adelphi, Milano 1992)

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Immagini dai libri di Storia del Cinema 1 a/a 2003/2004. Sopra: fotografie dell’esperimento di Muybridge, preistoria del cinema; sotto: fotogramma da “Playtime” di Jacques Tati; fotogrammi da “L’uomo con la macchina da presa”. Il frammento si impone nella cultura occidentale contemporanea. Pagina accanto: Herbert Bayer, “Lonely metropolitan” 1932.

Se il testo di Koolhaas aveva molto a che fare con una sceneggiatura, si può rintracciare anche nella storia dello spettacolo un parallelismo con quella della storia dell’architettura. Come se quel mondo artificiale che sono il teatro o il cinema fossero l’estremizzazione dell’artificialità delle costruzioni umane sulla superficie terrestre. In cosa queste costruzioni sono diventate più povere di prima? La complessità e la semplicità hanno valore assoluto? C’è qualcosa in più. Ciò che emerge guardando dentro e fuori i palcoscenici è il permanere nei secoli di una volontà di partecipazione. Tutti vanno a teatro (perlomeno in quello destinato alla propria classe sociale…) e c’è una forma di rappresentazione per ogni occasione: l’anno è scandito ciclicamente dalle stagioni nascoste dietro al sipario. Le vie della città confluiscono verso le biglietterie. È affascinante questa voglia di conoscere qualcosa che spesso già si conosce, storie note che acquistano il proprio valore solo quando si spengono le luci. L’uso sacro dello spazio. Lo spettatore lo sa e sta in silenzio, mette il suo abito di attenzione e curiosità e cambia faccia, pronto a vedere quello che già si aspetta ma ignaro di ogni cosa. Oggi ha ancora senso parlare della forza di queste convenzioni o esiste una deriva commerciale dello spettacolo? Da umanizzante la rappresentazione si è fatta disumanizzante, alienante? Si può trovare un parallelismo con l’architettura? Siamo sicuri che sia scomparsa la voglia di partecipare? Che non sia invece talmente forte che rimane appiccicata ad ogni facile proposta di soddisfazione? C’è forse da domandarsi se essere “spettatori dell’architettura” sia un disvalore? E soprattutto: i cittadini sono ancora portati ad esserlo? Nei drammi liturgici tutti partecipano alla messa in scena: si cuciono costumi, si mettono insieme le assi di legno, si colorano le scene, si prepara da mangiare. I cittadini di Atene uscivano prima dell’alba, con un po’ di olive e di formaggio. Ancora al buio s’incamminavano verso la cavea e prendevano posto aspettando che sorgesse il sole: le modulazioni di illuminazione erano date dagli agenti atmosferici. Il teatro greco come momento fondamentale della vita democratica,

della sua solidità e dei suoi conflitti, è un’immagine forte ed evocativa nell’unione, nel teatro stesso, dell’architettura con il luogo naturale. Lo studio delle architetture teatrali al pari di quello dei testi drammaturgici necessita di un approccio filologico. Le parti del discorso sottoforma di prosa, dialoghi, canovaccio, poesia, trovano un loro corrispondente nelle parti della struttura architettonica, modulate per creare finzione e raccontare. Tenendo presente che c’è sempre qualcuno che ha qualcosa da dire e qualcun altro che saprà come capirlo. Sembra che la sacralità dell’attore, ricercata da molti in un lavoro quasi ossessivo sul corpo, fosse un tempo istituita dalla civiltà che riponeva nel teatro molti dei propri bisogni di autorappresentazione, di evasione e di indagine sui propri conflitti interni. Il ruolo propulsivo delle istituzioni era fondamentale nel finanziamento e nella valorizzazione delle rappresentazioni teatrali che davano nella loro messa in scena un senso di completezza e un’alleanza con i tempi della percezione che si sono persi con il frammento del fotogramma cinematografico, di pari passo ad una deresponsabilizzazione delle istituzioni rispetto allo spettacolo. La televisione è un mezzo di propaganda, non un mezzo in cui la cultura può esprimersi. Anche l’architettura ha perso questo ruolo di messa in forma della cultura? Si possono individuare le tracce di questo scollamento per ricucirlo? Siamo poveri, quindi, della consapevolezza della partecipazione, dell’”auto-coscienza dell’attore” di cui parla Grotowski. Siamo invece sovraccarichi di concetti, di possibilità che, come direbbe Bauman, forse ci paralizzano. L’uomo moderno sembra produrre scarabocchi che poi accartoccia da solo, senza dargli modo di sopravvivere nel tempo, lasciando il proprio segno invecchiando. Non crediamo più nel valore del tempo e non prendiamo o offriamo quasi nulla ad esso. Questo significa essere in parte incoscienti. Loos non scade nella retorica del ricco che non sa dare e per questo rimane solo. Il suo è un ricco che non può più avere. La povertà non è né di tipo intellettuale né materiale, è una perdita di un altro tipo, una sorta di “perdita del tempo”. Rinunciando allo scambio con il mondo esterno anche la vita intima perde valore. Rinunciare a potersi prendere cura della propria casa è come morire, rinunciando al tempo. Perdere la possibilità di accogliere in essa gli oggetti che ci sono donati è perdere le relazioni.

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Nei secoli, il dibattito tra povertà/essenzialità e decorazione/ornamento, si articola in molti modi, parallelamente a quello su antico/moderno. La modernità, che di volta in volta assume il suo volto “nuovo” e pregnante, s’impone spesso come istanza etica, talvolta politica, ma mai rinunciando al suo stretto patto con la forma. Viaggiare, scivolando o arrancando, sui binari della filologia permette di rintracciare simboli, segni e sistemi linguistici strumentali al cambiamento. Si va avanti sulla carreggiata sempre con un occhio agli specchietti retrovisori. L’architettura è più che mai protagonista nella metamorfosi delle società e dei loro costumi. In alcune epoche sembrano confluire molti interrogativi.

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Teoria e Storia del Restauro a/a 2007/2008. Il tema del rapporto

tra teoria e prassi nell’architettura è complesso e stimolante. Gli esami storici proposti dalla Facoltà permettono di ragionare sul proprio ruolo e sull’importanza di delineare delle direttrici nel proprio modo di concepire l’architettura e il progetto tra passato, presente e futuro.

Pagina accanto: “Storia dell’architettura contemporanea” di Fanelli e Gargiani.

c’è un unico metodo progettuale ma ci sono più strade e strumenti da conoscere che superficialmente sembrano addensarsi attorno alle azioni di “creare” e “comporre”. In una Facoltà di Architettura da cosa è data la spinta a farlo, a tirar fuori una risposta, a pro-gettare? Nel momento in cui ci si avvicina, grazie alle cose imparate, alla possibilità di progettare un edificio con una certa disinvoltura è difficile non chiedersi se questo progetto sia necessario più o a noi stessi che agli altri. Le nostre sono evidententemente delle “simulazioni”, come avviene quasi sempre durante i corsi di Progettazione Architettonica. In una Facoltà universitaria può esistere un sapere davvero “inutile” o ce n’è solo uno male utilizzato? In questi anni di studio molte conoscenze già acquisite o imposte da alcuni corsi non risultano addirittura inutili ma sicuramente, talvolta, finalizzate nel modo sbagliato o non finalizzate affatto. Nel suo “Elogio dell’ozio”, Bertrand Russel ci pone di fronte ai pericoli derivanti dall’eccesso di zelo propendendoci l’importanza della contemplazione. Come può un edificio progettato da una sola persona essere di tutto un popolo senza essere un capriccio? Come può un architetto, nel momento in cui interroga un singolo committente, collocare la sua idea e la sua opera nel tempo in modo consapevole? Manca un’insegnamento sulla “volontà”, non per forza un insegnamento sull’etica e sui rischi delle azioni nel vivere insieme. Semplicemente il riconoscimento della propria coscienza e di lasciare un segno non solo con il manufatto costruito ma anche con il proprio atteggiamento progettuale, la propria idea di architettura, prima di tutto. Altrimenti questo corso di laurea starebbe formando dei kamikaze dell’architettura, pronti a crollare nei loro intenti insieme agli esiti del loro operato? Anche se le case, poi resteranno davvero in piedi… Come già sottolineato è una questione di rapporto con il tempo, oltre che con lo spazio.

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Destra e sinistra: immagini da “Forma e Materia” di Maurizio Gargano, in bibliografia per l’esame di Storia dell’Architettura 2 a/a 2007/2008. Sopra: Tavola 1 del book presentato per l’esame di

Sebbene tenuti da docenti diversi, i corsi di Storia dell’architettura 1-2 mi hanno comunicato l’importanza di guardare a una figura di architetto come individuo immerso nella storia più che alla forma in sé. La personalità degli architetti del 1500 come quelle del 1800 sono state indagate dai docenti con un’attenzione al contesto storico e sociale. Ogni volta si tentava di immedesimarsi e di confrontare il proprio foglio da disegno ancora vuoto con quelli pieni d’incisioni e segni provenienti dal passato. Questo lavoro di ricerca sulle “idee” dell’architettura quanto sulle sue forme porta a riconoscere la necessità di trovare un compromesso, una sintesi tra la forma e la materia. In questo senso, oltre alle lezioni del Prof. Pagliara e del Prof. Gargano, è stata incisiva la lettura di “Forma e materia. «Ratiocinatio e fabrica» nell’architettura dell’età moderna” di Maurizio Gargano. La questione tra ratiocinatio e fabrica è posta da Vitruvio quando esorta a riflettere sulla natura dell’architettura come teoria e prassi, forma e materia: l’una rende visibile una ratio e l’altra dà corpo a una fabbricaprassi costruttiva. Il disegno-progetto sta nel mezzo tra ratiocinatio e fabrica: medium tra forma e materia dove l’architetto è necessario perché capace di pensare-disegnare-progettare quella forma (progettare = gettar fuori). Questa capacità maieutica dell’architetto che tira fuori qualcosa che già esiste si fa strada. Ha a che fare con l’interpretazione e con la capacità demiurgica. A un ritratto di architetto-politico dipinto nei primi anni, si affianca quello dell’architetto-demiurgo e lentamente la migliora. Lasciando aperta la questione di cosa tira fuori: ci sono delle istanze che possono essere interrogate di continuo oppure vanno ridefinite di volta in volta attingendo all’istinto e alla capacità di ragionamento? Questo appare come un lavoro creativo, nel senso figurato della parola di dar forma a qualcosa di plasmabile, argilloso, già esistente, non manifestatosi ex-novo. È nuova la risposta, nuovo il risultato. Ma è anche un lavoro compositivo. Non esiste una risposta unica ma la consapevolezza di poter dare risposte se si sanno fare domande. E queste risposte sono perlopiù delle “composizioni” di spazi da mettere in opera. Si può allora “stupire per assoggettare” committenze, innescare uno stordimento visivo tramite l’architettura, capace di “muovere, stupire e meravigliare”. Si possono redigere dei campionari di soluzioni da proporre al committente. Chiaramente non

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Si direbbe che le rovine siano state per loro come una iniezione di ormoni che ha provocato nel loro organismo un frenetico desiderio di costruire Gli edifici sono un immenso gesto sociale. L’intero popolo si dice in essi “Ebbene, lo spettacolo che per me è stato il Darmstadter Gespräch mi ha fornito la prova sperimentale di quello che io, a priori, presumevo. Come è noto, il colloquio riguardava l’architettura e lì accorsero quasi tutti i più grandi architetti tedeschi – sia gli anziani sia i giovani. Era commovente assistere a quella vivacità, quella brama di lavoro con cui quegli uomini, che vivono sommersi tra le rovine, parlavano di ciò che potevano fare. Si direbbe che le rovine siano state per loro come una iniezione di ormoni che ha provocato nel loro organismo un frenetico desiderio di costruire. […] Si immagini una città costruita da architetti “geniali”, però legati, ognuno per conto proprio, al rispettivo stile personale. Ognuno di questi edifici potrebbe essere magnifico e, tuttavia, l’insieme sarebbe bizzarro e intollerabile. In tale insieme sarebbe fin troppo evidente un singolo aspetto dell’arte che non si è preso abbastanza in considerazione, quello del capriccio. La capricciosità si mostrerebbe nuda, cinica, indecente, intollerabile. […]Penso che ogni artista – e ovviamente anche il pensatore – sia come tale un organo della vita collettiva, anche se adesso non posso tentare di argomentare questa affermazione. È un organo di vita collettiva sebbene non sia soltanto questo. Nel caso dell’architetto questo si eleva all’ennesima potenza. Gli altri dovrebbero essere quest’organo ma l’architetto dovrebbe esserlo necessariamente. […] In questa questione si scopre ciò che è veramente l’architettura: essa non esprime, come le altre arti, sentimenti, e preferenze personali, ma, al contrario, stati d’animo e intenzioni collettive. Gli edifici sono un immenso gesto sociale. L’intero popolo si dice in essi. È una confessione generale della cosiddetta “anima collettiva”, espressione che potrebbe essere un flatus vocis, e il cui riguardo ma interessantissimo senso richiederebbe un lungo sviluppo.” (José Ortega Y Gasset, “Intorno al ‘colloquio di Darmstadt, 1951’”, pp. 62-63 in “Costruire, abitare, pensare” a cura di Fabio Filippuzzi e Luca Taddio)

L’infelicità privata e pubblica può essere dominata soltanto da un processo in cui volontà e intelligenza agiscono concordi Il mondo soffre per colpa dell’intolleranza e del bigottismo, e per l’errata convinzione che ogni azione energica sia lodevole anche se male indirizzata “La vita, che fu sempre colma di sofferenza, più dolorosa ora che nei due secoli precedenti (la prima pubblicazione è del 1935, ndr). Il tentativo di sfuggire al dolore spinge gli uomini a occuparsi di cose banali, a ingannare se stessi, a inventare vasti miti collettivi. Questi palliativi momentanei finiscono, a lungo andare, col creare nuove fonti di sofferenza. L’infelicità privata e pubblica può essere dominata soltanto da un processo in cui volontà e intelligenza agiscono concordi.” “Il mondo soffre per colpa dell’intolleranza e del bigottismo, e per l’errata convinzione che ogni azione energica sia lodevole anche se male indirizzata; mentre la nostra società moderna, così complessa ha bisogno di riflettere con calma, di mettere in discussione i dogmi e di esaminare i più disparati punti di vista con grande larghezza di idee”. “è compito della volontà rifiutarsi di chiudere gli occhi davanti al male o di accettare una soluzione che non ha contatti con la realtà, ed è compito dell’intelligenza capire il male, porvi un rimedio considerandolo sotto i suoi vari aspetti accettandolo come inevitabile e rammentando tutto ciò che esiste al di fuori del male, in altre regioni, in altre età e negli abissi dello spazio interstellare”. (Bertrand Russel, “Elogio dell’ozio”, Longanesi, Milano 2011)

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Tavole del book per l’esame di Teoria e Storia del Restauro: come argomento da approfondire, anziché scegliere un’architettura restaurata tra quelle studiate, individuo alcuni termini che entrano in relazione nella storia del restauro e nel corso di tutta la storia dell’architettura: Teoria/Prassi, Estetica/Materia, Politica/ Fruitori, Monumento/Città, Etica/Storia. Questi termini dialettici sono fecondi per ogni progetto di architettura.

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Prendere una posizione rispetto al passato e al futuro fa parte dell’architettura. Come l’atto del costruire, l’atto del ricostruire o restaurare presuppone una trasformazione dei luoghi. Tenendo conto del passato si prevede il futuro in modo più o meno attento. Questo non è mai neutrale, occorre una scelta critica. La stessa sospensione dell’atto costruttivo è in sé una scelta architettonica in negativo? Il silenzio, lasciare un vuoto è in sé un modo di occuparsi dello spazio? Significa manifestare la necessità di un’astensione? Perché si parla sempre poco di presente e ci si riferisce sempre in proiezione? Derrida, rivolgendosi ad Eisenman e agli archtietti: “Mi piacerebbe sentirvi parlare di passaggio dei rapporti tra l’architettura, oggi, e la povertà, tutte le povertà, quella di cui parla Benjamin e l’altro, tra l’architettura e il capitale tra l’architettura e la guerra, gli scandali dell’edilizia popolare, della “residenza” in generale. Ho citato questo testo di Benjamin, tra altri motivi, per portarvi alla rovina e alla distruzione. Come sapete, quel che dice dell’“aura” distrutta dal vetro (e dalla tecnica in generale) si articola in un discorso difficile sulla “distruzione”. 1 C’è un rapporto tra la vostra scrittura il palinsesto, la vostra esperienza architettonica della memoria e

“qualche cosa” come la rovina che non è più una cosa? 2 Se ogni architettura è finita, se dunque porta in se stessa, in modi ogni volta originali, le tracce della sua distruzione a venire, il futuro anteriore della sua rovina, se è ossessionata [hantée] perfino firmata dalla sagoma spettrale di questa rovina, che cosa rapporterebbe ancora l’architettura di “questi tempi” alla rovina, all’esperienza della “sua propria” rovina? Nel passato le grandi invenzioni architettoniche organizzavano la loro distruttibilità essenziale, la loro stessa fragilità, come una resistenza alla distruzione o come una monumentalizzazione della stessa rovina (il barocco, secondo Benjamin).” Dunque il “resistere” a tutti i rischi e alle derive disumane di cui abbiamo parlato non significa reagire con qualcosa di solido, di materialmente irremovibile. È qualcosa che ha più a che fare con la capacità di mettere insieme, accordare, saper procedere nel proprio metodo con un palinsesto più che con un testo rigido. Avere una prospettiva, ogni volta distruttibile e ricostruibile nelle sue linee e nei suoi esiti. Nel 2007 mi colpisce questo articolo: un paesaggista francese si rifiuta di svolgere il suo lavoro dopo la vittoria di Sarkozy in Francia. È Gilles Clément e questa è la sua definizione di Resistenza. def. “Résistance: éspace partagé par un ensemble volontaire où se rejoignent et s’organisent les tenants d’un projet politique et social. La résistance fonde les bases d’une histoire à venir où se joue l’équilibre des sociétés humaines et des milieux dans lequels elle évolue et dont elle tire constamment parti. Pour les êtres rejetés dans l’ombre elle offre une plage de lumière, une perspective, un territoire mental d’espérance.” Questa immagine della resistenza sembra richiamare la responsabilità già evidenziato. Non nega ma anzi esalta il senso dell’“aver cura”, dandogli uno spessore politico. Inoltre, anche per questo, aggiunge alla cura di cui è capace il soggetto-uomo singolare, di cui si è parlato, un’idea di cura come qualcosa di comune, condiviso. La resistenza è uno “spazio condiviso” in cui questa cura è possibile. Riconoscendo la resistenza ci si inserisce nell’avvenire dell’uomo consapevolmente, insieme, nel proprio tentativo di trovare un equilibrio. E, ciò che è importante, si crede ancora in un possibile equilibrio. Il respiro etico della riflessione sull’architettura già sottolineato, acquista dimensione etica e collettiva spostando verso “gli altri” la necessità di inscrivere il proprio gesto in una vita che si svolge necessariamente insieme per avere senso.

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In alto: Superstudio, “Salvataggi di centri storici italiani; a sinistra: dettaglio di abaco dei portali e schizzi per eidotipi per Laboratorio di Restauro a/a 2007/2008; in basso a destra: articolo su “la resistenza” di Gilles Clément che rifiuta di lavorare per la Francia per la congiuntura politica. L’esigenza di prendere una posizione rispetto alla storia è stata messa in luce nel semestre dedicato al restauro. Seguire il Laboratorio di Restauro del Prof. Feiffer mi ha messa di fronte a un’idea di restauro conservativo. La natura di documento dell’architettura impone l’approfondimento di questioni relative alla cura e alla discrezionalità di questa cura. Quali sono gli edifici da salvare? Quali da demolire? In che modo ricostruirli?

La letteratura e l’arte si configurano come una storia che ha carattere di processo solo quando la successione delle opere è mediata non soltanto attraverso i soggetti produttori, ma anche attraverso i soggetti consumatori, vale a dire attraverso l’interazione di autore e pubblico. Così l’architettura. Ma se per la letteratura il problema del tempo non è sempre legato al suo uso, per le costruzioni la deperibilità porta ad un invecchiamento di un manufatto che non è sempre un valore. Il tema della rovina, del rapporto col tempo è fertile di significati. L’architettura, inoltre, ha sempre un committente. Lo spettacolo descritto non è certo uno spettacolo teatrale ma ha di esso la sacralità della convenzione e del riconoscimento. Mantiene in sé la consapevolezza dell’avvenire che, hanno detto, non è quello che accadrà ma è qualcosa che attraversa tutti i secoli e su cui non tutti sono capaci di sintonizzarsi. Nelle parole di Ortega Y Gasset appare l’idea della rovina come stimolo alla costruzione. Non tanto come vuoto lasciato all’immaginazione di altro ma quanto simbolo di un passato recente che, se ci si gira a contemplarlo, spinge a girare in avanti la testa come un elastico. È complesso questo rapporto tra passato, presente, futuro. Le tre dimensioni si nutrono in un gioco di rimandi continuo difficile da descrivere in modo lineare. La storia può essere un enorme laboratorio da cui attingere per costruire e in questo il dibattito sul restauro è emblematico quanto quello sulla progettazione del nuovo.

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7 de-costruire Sotto e a pagina 44: Peter Eisenman, Memoriale all’olocausto, Berlino.

Rispetto allo svuotamento di senso e alla difficoltà di rimettere insieme i pezzi frammentati, tipico della nostra epoca, si possono trovare molte suggestioni che aiutano a rendere il processo della frammentazione e della loro ricomposizione comprensibile e riproducibile. Questa frammentazione è inscritta in un preciso momento oppure è avvenuta in uno scarto temporale? La rottura è istantanea o discreta rispetto ad un momento passato? Un’altra delle criticità emerse in relazione a quella della frammentazione, infatti, è il rapporto con la tradizione e la consapevolezza del tradimento di essa che implica il progresso, quando questo è erroneamente vissuto come una rottura ignorando la continuità. Riguardo al progresso e allo sviluppo indiscriminato (ma discriminante!) tipico della globalizzazione iniziata ben prima del XX secolo occorre trovare nuovi strumenti di descrizione del percorso umano in cui ci si pone ma non bastano gli strumenti dell’economia e della scienza, che ci portano irrimediabilmente a considerare il nostro senso di colpa di fronte allo sfruttamento senza freni delle risorse del nostro pianeta. Quali sono i margini di intervento dell’architetto di fronte a tutto questo? Forse la questione va trasformata ed è piuttosto: come un architetto può fare in modo che la propria visione e capacità di osservazione delle cose includa più aspetti possibili in modo da padroneggiarli per andare verso una direzione di miglioramento? Questo porta a considerare altri ambiti di ricerca, non così lontani dal nostro ma che invece compongono la sostanza di ogni ricerca umanistica. E insieme alla tecnologia e alla scienza l’architetto è indubbio che si occupi di materie umanistiche. Quindi interroghiamo la filosofia e la sociologia per trovare degli strumenti che sembrerebbero astratti ma che portano ad un metodo. Scoprendo che i filosofi già ci stanno interrogando.

def. “Decostruzione, vale a dire una messa in questione di una tradizione filosofica che concerne il rapporto tra la parola e la scrittura, tra lo spazio e il tempo, e il modo in cui la cultura filosofica occidentale gerarchizza – il che ha anche una dimensione politica – e finalizza le sue norme e i suoi valori. La parola stessa decostruzione ha delle connotazioni architettoniche. Non si tratta di distruggere e far apparire un suolo nudo ma di mettere in questione i rapporti fra filosofia e architettura, una metaforica architettonica che parla sempre di fondamenta, di architettonica eccetera.” (Jaques Derrida, “Adesso l’architettura”-) Derrida spiega che la tradizione filosofica ha usato il modello architettonico come metafora per un pensiero che non può essere architetturale. L’architettura quindi serve alla comodità retorica in un linguaggio che fa uso dell’architetturalità. Le metafore urbanistiche nella filosofia sono rappresentazioni architettoniche che hanno sempre un valore politico. Cartesio usa la metafora della fondazione della città (assi ortogonali). Per Aristotele l’architékton è colui che conosce la causa delle cose, un teoretico, dunque, che comanda i manovali imponendo una gerarchia politica; l’architetto è colui che è prossimo all’arché, l’“inizio”, l’“ordine”. Per Kant l’architettura è l’arte dei sistemi, organizza razionalmente le regioni del sapere. Leggendo Heidegger, su cui torneremo:

“Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare”

“Abitare […] vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente, e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura” “Il costruire, in quanto erigere luoghi, è un fondare e un disporre di spazi […] Costruire e pensare sono sempre, secondo il loro diverso modo, indispensabili per l’abitare”

“L’abitare […] accade solo quando il poetare dispiega il suo essere” “Solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire” (Martin Heidegger, Conferenza del 5 Agosto 1951)

Cominciamo a mettere in relazione con l’abitare l’atto della costruzione, dalla preminente vocazione colonizzatrice.

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Il concetto di “resistenza” proposto da Clément è un buon punto di partenza per considerare il faticoso svuotamento del vaso sufficiente per accogliere nuove convinzioni. Siamo pronti a parlare di Noi. Si continua ad essere ricettivi ma ci si sente pronti per proporre. Dopo essersi svuotato delle sue convinzioni, lo studente/vaso è pronto a riempirsi di nuovo. Ha faticosamente messo in discussione il mondo in cui vive e adesso è pronto a ridare valore a ciò che è altro per farlo proprio. Avendo sempre presente che il suo scopo è lasciare un segno che non sia vano.

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Bisogna accettare che ciò che guida la costruzione non è più ciò per cui si credeva che l’architettura fosse fatta, e questa è una lotta che non è architettonica in senso stretto, è una lotta che non ha limiti intellettuali, politici, economici “Jaques Derrida: Nei testi di Eisenman ho riconosciuto un certo numero di cose che mi sono familiari. Ho riconsciuto delle parole, dei motivi, degli schemi, e la mia prima impressione era quella di una traduzione, di una trasposizione analogica. In seguito, avvicinandomi sempre di più a questo lavoro, è il senso buono dell’analogia che ha prevalso. Questa destabilizzazione non è altro che una destabilizzazione dell’architettura stessa nei suoi principi, nelle sue fondazioni, della sua storia, del suo concetto più fondante. Un’architettura senza referenza all’origine, alla dimensione umana, all’habitat umano, alla bellezza eccetera non è più ciò che si chiama correntemente un’architettura, Eisenman ha appena parlato di “grado zero dell’architettura”, “zero condizioni”. Un’opera architettonica, a differenza di un dipinto classico o di una scultura, non ha referente reale, dignità; non imita niente, è perfettamente presenza, non rinviando che a se stessa, anche se gli uomini o gli dèi l’abitano; dunque è la fortezza della metafisica della presenza, in un certo modo. Se una decostruizione deve essere effettiva, deve concernere per principio l’architettura, non soltanto perché l’architettura rappresenza la fortezza della metafisica della presenza, con tutto ciù che comporta in se stessa in quanto significato, ma perché per fare di questa decostruzione un’opera affermatrice, e non soltanto un discorso in proposito all’origine, ma un’affermazione capace di lasciare delle tracce e dunque per scrivere un lavoro come quello di Eisenman altrove che in un discorso, in un plastico o in una rivista bisogna far muovere molte cose nella “realtà dura” e cioè nella pietra, nell’economia, nella politica, nella cultura. Bisogna accettare che ciò che guida la costruzione non è più ciò per cui si credeva che l’architettura fosse fatta, e questa è una lotta che non è architettonica in senso stretto, è una lotta che non ha limiti intellettuali, politici, economici ecc.”“E’ l’incompletezza, è non l’incompiutezza dei lavori per imperizia o incapacità di darsi i mezzi, è la non-saturazione dello spazio urbano che dovrebbero costituire la regola d’oro di qualsiasi progetto di restauro o di ristrutturazione urbana oggi. Questa non-saturazione non consisterebbe nell’abbandonare degli spazi vergini o selvaggi , ma nel costruire secondo delle strutture tali che delle nuove possibilità, in una volta funzionali ed estetiche, possano all’infinito arricchire conservando, fondare proteggendo, custodire il patrimonio in vita senza ridurre la città a un museo o a una sepoltura monumentale, cosa che la città comprende sempre in se stessa e non sarà mai.” (Jaques Derrida, “Adesso l’architettura”, Libri Scheiwiller, Milano 2008- Chora L Work. Note a margine - sequenza 2 – scena 2) Queste parole di un “non addetto” ai lavori dell’architettura sono un suggerimento prezioso, un vero e proprio strumento di progetto. La filosofia permette di integrare il “materiale” palpabile e quello impalpabile propri della costruzione architettonica. Attraverso il linguaggio, già individuato come chiave fondamentale per la comprensione e ora stimolo fondamentale per un’estetica e un’etica della costruzione.

l’uomo è capace dell’abitare solo se già in un altro modo ha costruito e rimane intenzionato a costruire “Il coltivare-costruire del contadino che si prende cura del campo, oppure quello che costruisce edifici e fabbriche, o quello che prepara utensili e strumenti, è già una conseguenza dell’abitare, ma non un suo fondamento o addirittura la sua fondazione. […] Tuttavia, l’uomo è capace dell’abitare solo se già in un altro modo ha costruito e rimane intenzionato a costruire” (Heidegger, “Poeticamente abita l’uomo”)

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Un’architettura senza referenza all’origine, alla dimensione umana, all’habitat umano, alla bellezza eccetera non è più ciò che si chiama correntemente un’architettura

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sone, immagini informazioni, denaro, all’interno e attraverso i confini tradizionali. Molteplici flussi sono combinati e ricombinati attraverso i tempi e gli spazi: la città come modello ipertestuale. Derrida spiega il senso del fallimento babelico del linguaggio universale in “Labirinto e architestura”: solo l’impossibilità della torre di Babele rende possibile all’architettura, come anche alla molteplicità della lingua, di avere una storia. E questa storia è sempre in relazione al divino. Il moderno ha un’aspirazione all’autorità assoluta mentre il post-moderno attua una constatazione o un’esperienza della fine di questo piano di dominazione ed è quindi sviluppabile un nuovo rapporto con il divino. Se c’è un pensiero architetturale esso media soltanto con la dimensione dell’alto, del divino supremo, cioè con dio.

In “Labirinto e archi-testura” affiora il concetto di “spaziatura”: non c’è nessun edificio senza strade, la spaziatura del linguaggio è apertura di strade. Ma che cos’è una “strada”? Per Heidegger il metodo è una tecnica di appropriazione di una strada che a sua volta non è un metodo. Per Cartesio, Leibniz, Hegel il pensiero è sempre una strada, è in corso di avvicinamento. Il linguaggio è una strada e per questo motivo ha da sempre ha a che fare con la l’abitabilità e l’architettura.

Tornando alla questione della decostruzione della cultura è importante sottolineare, con Derrida, che non si tratta di qualcosa di naturale: il latino colere allude alla colonizzazione della campagna e ha a che fare con l’agricoltura. Le questioni del decostruire sono già nel sistema di quest’opera di coltivazione. Tutti i corpora non sono omogenei ma intervenire non ha a che fare con l’attuare un collage, con l’aggiungere un pezzo a un sistema. Questo implicherebbe un corpo unitario a cui appartengono i frammenti e tiene insieme i pezzi morti. Si opera, invece, con l’innesto da cui si ottiene un nuovo organismo vivente, si ha qualcosa di imprevedibile, è in gioco il futuro dell’evento: si innesta ma non si può programmare.

Tutto questo permette quindi di dare una base agli interrogativi scaturiti dalla consapevolezza che l’architettura possa essere letta maneggiata come un linguaggio e consente di mettere in luce l’importanza degli spazi tra le lettere, i vuoti di linguaggio e di sottolineare il momento del non-sapere, della non-fondazione come invito alla fondazione stessa di qualcosa. Alla domanda “La decostruzione blocca la produzione di sapere?” Derrida risponde: “Si e no. Perché essa stessa produce sapere”.

Il muro di Berlino, fotomontaggio.

Lo strumento della decostruzione permette di inseguire la fluidità del moderno e indirizzarla. In passato le rappresentazioni dell’economia urbana avvenivano con punti, linee, confini, e la città era un’entità divisibile in centri e periferie e descrivibile con termini come raggruppamento, agglomerazione, localizzazione; Oggi non si possono riproporre dualismi esclusivi che non sono utili alla comprensione delle città contemporanee: mondo/flussi vs città/fissità, globale/ remoto vs locale/prossimo, faccia a faccia/piccolo vs distanza/grande. Ma le economie moderne sono sempre più strutturate su flussi di per-

Si può quindi superare l’ansia del “foglio bianco” di una cultura apparentemente svuotata di senso riaggrappandosi al significato stesso di cultura. Nella consapevolezza che ogni nostro gesto interviene su di essa. Questo gesto assume valore maggiore e un’energia. L’incompletezza, la non-saturazione, l’innesto, sembrerebbero a un primo sguardo strumenti poco consoni ed efficaci per la pratica architettonica e urbanistica eppure nell’esperienza della progettazione diventano interessanti proprio quando si scende dalla vertiginosa torre dell’autoreferenzialità estetizzante del progetto e ci si confronta con le esigenze reali della committenza. Così come i desideri e i bisogni di chi abita, anche le risposte di chi si fa carico di queste istanze sono complesse, molteplici, contraddittorie, integrate. Con intenzioni chiare ma senza un esito certo.

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Capire cosa significa costruire implica l’esplorazione dell’azione del decostruire. Per Jacques Derrida l’invenzione presuppone un momento in cui non c’è nulla. Fondiamo sulla base della non-fondazione, perciò la decostruzione è la base della costruzione. Per far esistere l’appello [viens] della decostruzione l’ordine della conoscenza dev’essere lacerato: è in relazione al non-sapere che l’appello è prodotto. Questo non-sapere è condizione necessaria perché qualcosa accada, una responsabilità sia presa, una decisione affermata, un evento abbia luogo. “Ogni evento ha luogo la’ dove non c’era luogo, dove non sapevamo che il luogo c’era. Un’opera c’e’ quando tutte le condizioni che potrebbero diventare oggetto di analisi sono state soddisfatte ma tuttavia qualcosa accade.”

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Nella fase preliminare di progetto del Laboratorio di

Progettazione Architettonica 3 a/a 2007/2008

ci interroghiamo sul significato dell’abitare. Cosa garantisce che il futuro abitante di una casa popolare si senta a proprio agio in una casa di cui non è il committente ufficiale? Indaghiamo il mondo animale e i modi di allestire una tana: scavare, accumulare, spostare. Ripetiamo sistematicamente queste azioni sul linoleum per ottenere delle incisioni che siano una matrice del masterplan, “casuale” ma piena dell’intenzione di predisporre un’abitazione accogliente. Su una delle immagini ottenute costruiamo la volumetria e i primi plastici di studio. In alto: disegno a matita di nido e incisione selezionata; a sinistra: incisioni di studio; sotto: schema del masterplan. Pagina accanto: plastico di studio del “mat-building”.

La riflessione sul significato di costruire e de-costruire progettando incontra, come già detto, la presa in considerazione di altre azioni che si scoprono essere insite nell’atto stesso del disporre un luogo. Ho evidenziato come il punto di partenza ma anche la fine di questo percorso di studio sia la consapevolezza dell’importanza della “cura”. Ma di quali gesti, atteggiamenti e sentimenti è fatta? La famosa e pluricitata espressione “costruire abitare pensare” (e senza virgole!) derivante dal testo di una conferenza di Heidegger del 1951 è sicuramente un buon punto di partenza per imbastire la base di una ricerca che riconosca il ruolo non solo materiale dell’atto dell’erigere una struttura ma ammetta in questa volontà e nella sua messa in opera una qualità umana più complessa. Cominciamo a viaggiare su percorsi che considerano l’abitare come essenza stessa dello stare al mondo dell’uomo e che fanno confluire nel gesto della cura la poesia, oltre che l’atto di provvedere alla costruzione della propria dimora. Il verbo abitare è come una calamita che una volta liberata attrae moltissime attività umane verso la sua essenza ma non coincide esattamente con esse. E’ più il senso lirico di qualcosa, il rumore sordo di una foglia che tocca terra, la neve che si appropria del terreno silenziosamente. Qualcosa che senza dubbio ci riguarda tutti.Se l’architetto dunque deve provvedere alle abitazioni dell’uomo, non è forse più importante concentrarsi su questo “sentire” preliminare ad ogni appropriazione di un luogo, piuttosto che alle conseguenti “funzioni” che questo luogo può accogliere? Perché è evidente che se, come abbiamo detto, le nostre città non ci accolgono più o addirittura ci respingono, c’è qualcosa che manca nella nostra adesione a questi luoghi. E credo che questa carenza vada ricercata con un’indagine sulla consapevolezza di abitare davvero un luogo, che implica una serie di diritti e doveri ma che, soprattutto, implica il sentimento della cura verso di esso. Uno dei pochi diritti-doveri non codificati dalle moderne costituzioni, non riducibile all’idea di manutenzione, attenzione, premura, custodia. Perché contemporaneamente ci dice che apparteniamo ad un luogo

quanto esso ci appartiene, non siamo né detentori né prigionieri di esso. Ma l’architetto non costruisce per sé quindi non basta la propria consapevolezza di questo modo di stare al mondo, o meglio “con” il mondo. Il progettista ha un committente. Entra quindi in gioco il rapporto con la committenza: occorre dare ad essa qualcosa di più che una risposta ad un problema, la configurazione di un edificio. Come far entrare la dimensione della cura nella relazione con il committente e nell’impostazione di un progetto di architettura o di restauro? In “Memorie di Adriano” Marguerite Yourcenar afferma che “Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa della città”. Modificato per sempre: questo è il punto. Possiamo ignorare la “pesantezza” del nostro operare fino a un certo punto. Fino al punto in cui, abbiamo detto, riconosciamo il valore del tempo. Di chi è la Terra? C’è una giustizia che regola la sua colonizzazione e questa garanzia di giustizia può essere definita artificialmente dagli uomini? Oppure possiamo regolare e rendere autentico il nostro vivere e agire semplicemente riconoscendone la sua poesia, riconoscendo quello che accomuna ad ogni latitudine gli uomini, il senso di appartenenza e il porsi domande sulla propria origine e la propria destinazione? Occorre considerare quindi dei sistemi di riferimento che forse vanno ridefiniti di volta in volta ma che servono a definire la collocazione dell’uomo in relazione a quello che condiziona il suo modo di vivere e a quello che contemporaneamente è lui a poter condizionare vivendo. “Tra la terra e il cielo”, dicono da tanto tempo in Oriente. Ma anche alcuni filosofi occidentali si sono rassegnati a farci i conti. Dove si colloca la nostra coscienza di stare al mondo?

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Ripartiamo da Derrida che in “Adesso l’architettura” esplicita il pensiero di Heidegger in “Poeticamente abita l’uomo”: “Il poetare edifica l’essenza dell’abitare. Non solo poetare e abitare non si escludono reciprocamente. Essi sono anzi una connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente. “Poeticamente abita l’uomo”. Noi abitiamo poeticamente? Probabilmente noi abitiamo in un modo completamente impoetico. Questo vuol dire forse che la parola del poeta viene smentita e diventa non vera? No. La verità della sua parola è confermata nel modo più inquietante. Giacché un abitare può essere impoetico solo perché l’abitare, nella sua essenza, è poetico.”

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Thierry Paquot nel suo “Demeure terrestre” dedica un capitolo a Gaston Bachelard. Per Bachelard la casa è uno strumento di analisi dell’animo umano.

“Le battaglie per questo territorio privilegiato che è la dimora sono essenziali. Partecipano a delle necessità biologiche (...) Fondare il proprio territorio e difenderlo è fondare e difendere il proprio corpo, la propria identità. Senza di esso non c’è né sviluppo né coscienza.” “Il nostro inconscio è “alloggiato”, la nostra anima è una dimora. E noi ricordandoci della “case” e delle “camere” apprendiamo a dimorare in noi stessi” (Gaston Bachelard)

Le cose attuali dell’architettura non rispondono più ai nostri bisogni. Per questo ci sono gli standard dell’alloggio. La meccanica porta in sé il fattore dell’economia che seleziona. La casa è una macchina per abitare Thierry Paquot spiega che il pittore Amedée Ozenfant, che fonda con Le Corbusier la rivista L’Esprit nouveau, nota: “Avevo battezzato l’opera d’arte una ‘Macchina per commuovere’”, slogan che Le Corbusier trasforma per l’architettura in ‘Macchina per abitare’”; mentre Paul Valery chiama il libro ‘Macchina da leggere’. Secondo Le Corbusier infatti: “Il problema della casa non è posto. Le cose attuali dell’architettura non rispondono più ai nostri bisogni. Per questo ci sono gli standard dell’alloggio. La meccanica porta in sé il fattore dell’economia che seleziona. La casa è una macchina per abitare” “La casa ha due fini. E’ innanzitutto una macchina per abitare ossia una macchina destinata a fornirci un aiuto efficace per la rapidità e l’esattezza nel lavoro, una macchina diligente e previdente per soddisfare le esigenze del corpo: comfort. Ma è anche un luogo utile per la meditazione e infine un luogo dove la bellezza esiste e porta all’animo la calma che gli è indispensabile.” “Speranza della civilizzazione macchinista: l’alloggio” (Thierry Paquot, “Demeure terrestre. Enquête vagabonde sur l’habiter”, Les éditions de l’imprimeur, Paris/Besançon 2005)

Per aggiungere alla garanzia dell’accoglienza quella dell’”abitabilità” facciamo ricorso ad un modulo strutturale e distributivo che permetta il rispetto degli standard architettonici e una trasformabilità nel tempo delle abitazioni.

In questo zelo di cui si carica la volontà di “garantire”, c’è l’intenzione di fare in modo che l’architettura sia davvero per tutti ma si perde di vista la possibilità di ognuno di poter anche solo “pensare” al proprio modo di abitare. Il gesto architettonico tende ad imporsi e a non accogliere. C’è chi invece fa della propria capacità di accogliere il fondamento della progettazione.

L’architettura è infatti un modo di comunicazione che tutti, potenzialmente, potrebbero usare; che un tempo tutti usavano “La partecipazione è questione complessa. Ma io continuo a credere che per l’architettura sia una delle vie d’uscita. L’architettura è infatti un modo di comunicazione che tutti, potenzialmente, potrebbero usare; che un tempo tutti usavano. Nella civiltà contadina la pratica dell’edificare era affidata ai capimastri, o semplicemente ai muratori, però l’idea del come organizzare e dare forma allo spazio era patrimonio comune: chi si faceva costruire la casa sapeva bene quali erano i suoi bisogni e aveva idee precise su come lo spazio doveva essere organizzato per corrispondere alle sue esigenze pratiche, e di come doveva essere configurato per diventare una sua propria rappresentazione. Molti partecipavano a una cultura diffusa dell’abitare. […] Poi la conoscenza è scomparsa e l’architettura è diventata dominio esclusivo dell’architetto. […] Questo processo è ancora in corso e la figura dell’architetto, nell’epoca postindustriale tende a essere ancora più esclusiva, sotto l’apparenza del tendere a includere, che in realtà è un tendere a cooptare.” (Giancarlo De Carlo, tratto da: Marianella Scavi, I. Romano, S. Guercio, A. Pillon, M. Robiglio, I. Toussaint “Avventure urbane, progettare la città con gli abitanti”, Elèuthera, Maggio 2002)

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Il nostro inconscio è “alloggiato”, la nostra anima è una dimora. E noi ricordandoci della “case” e delle “camere” apprendiamo a dimorare in noi stessi

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Che cosa significa “abitabilità” di un’architettura? Sopra e a destra: immagini da “Demeure terrestre” di Thierry Paquot; sotto: disegno a matita e frammento di tavole di Laboratorio di Progettazione Architettonica 3.

E Le Corbusier? Prevale la dimensione dell’abitazione o dell’alloggio nella sua ricerca? La missione dell’urbanistica è per lui la “messa in ordine del mondo”. In “La Maison des hommes” Francois de Pierrefeu che tiene la penna a nome di Le Corbusier - che si accontenta di illustrazioni e disegni – dedica un paragrafo al “Saper abitare” e questa scienza dell’abitare risulta dall’architettura dell’alloggio concepita da Le Corbusier ed è qualcosa che si apprende e dovrebbe essere secondo l’autore concepita dalla legge. Secono Thierry Paquot Le Corbusier è totalmente convinto della generosità dei suoi principi ma quello che preoccupa l’architettura dell’Unità d’abitazione di Marsiglia non ha a che vedere con l’abitare ma prima di tutto con l’abitabilità di un appartamento in serie: il suo comfort, le sue norme sociali e tecniche, le sue condizioni industriali e la sua realizzazione. Quello che emerge è che per predisporre un luogo all’abitazione è necessario uno spirito sistematico e soprattutto la definizione di uno standard. La “Carta di Atene” del 1943 torna su quest’idea che l’abitante deve imparare ad abitare come una scienza. Il popolo, secondo Le Corbusier, è vittima del disprezzo degli architetti formati al Beaux-Arts, dell’incompetenza dei piccoli artigiani, del disinteresse degli uomini politici che ignorano l’importanza dell’alloggio, della funzione dell’abitazione e questa scienza dell’alloggio che chiama domisme. Invita a un vero e proprio sacerdozio che serva a liberare il popolo stesso: “l’architettura è un vero e proprio atto d’amore e non una messa in scena. Dedicarsi all’architettura (...) è come entrare in religione, è credere, consacrasi e darsi.”. Le Corbusier riconosce acutamente tutti i pericoli

della società macchinizzata e capitalista e se ne fa carico. Lo standard come garanzia. Ma si può garantire una qualità dell’abitare nel senso complesso in cui abbiamo deciso di coglierlo? Quali sono gli strumenti? Ci sono forme universali che possono corrispondere alle esigenze del singolo, al confort come è inteso da ognuno di noi? La progettazione partecipata ci propone un modello da seguire per permettere, non senza difficoltà e contraddizioni, di accogliere davvero le domande importanti e fare in modo che, attraverso la partecipazione e la consapevolezza, l’abitante possa davvero aver cura del predisporre il proprio luogo di vita. Possiamo quindi fare nostri sia alcuni articoli della Carta, sia i presupposti e i fini della progettazione partecipata: Art. 71 La plupart des villes étudiées offrent aujourd’hui l’image du chaos: ces villes ne respondent aucunement à leur destin qui serait de satisfaire aux besoins primordiaux biologiques de leur population Art. 75 La ville doit assurer, sur le plan spirituel e matériel, la liberté individuelle et le benefice de l’action collective. Art. 79 Le cycle des fonctions quotidiennes: habiter, travailler, se récreéer (recuperation), sera reglé, par l’urbanisme, dans l’économie de temps, la plus stricte, l’habitation étant consideré comme le centre meme des preoccupations urbanistiques et le point d’attache de toutes les mesures. “Per questo non esistono ricette per la partecipazione. Se cambiano i partecipanti e le ragioni per cui si sono incontrati, cambia la partecipazione: bisogna inventarla e esperirla ogni volta da capo. Le proposte architettoniche che un bravo architetto riesce a dare nel processo partecipativo sono senza dubbio personali, e questo non è di per sé un limite; al contrario è una risorsa. […] Lo sforzo di organizzare e dare forma allo spazio fisico continuerà a essere esigenza impellente e passione umana. Ma per non morire l’architettura dovrà coinvolgere chi direttamente o indirettamente la utilizza. Non sarà facile, perché la società è sempre più intricata: infinite sono diventate le classi, le categorie, i gruppi sociali. Ma questa è la bellezza del periodo che stiamo vivendo.” (Giancarlo De Carlo, da: Marianella Scavi, I. Romano, S. Guercio, A. Pillon, M. Robiglio, I. Toussaint “Avventure urbane, progettare la città con gli abitanti”, Elèuthera, maggio 2002)

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Dove rintracciamo la poesia di cui parla Heidegger, inscindibile dall’atto dell’abitare? In questo dramma della geometria intima dove bisogna abitare? Bachelard consiglia di entrare in se stessi per situarsi nell’esistenza richiamando nel felice disordine gli angoli della nostra infanzia, del nostro suolo natale, delle immagini che vere o false si imprimono nella nostra memoria. In mille alveoli lo spazio tiene il tempo compresso, lo spazio serve a questo. La casa di Bachelard è attiva nella sua immobilità, dinamica nella sua stabilità, aperta nella sua chiusura, ascensionale nel suo radicamento. Assicura le condizioni poetiche della nostra percezione del reale, senza sosta ci conferma la nostra origine. E’ in essa che troviamo la prima parola di ogni poesia, è da essa che traiamo la nostra capacità poetica. Questa concezione della dimora, della casa, diversa da un qualsiasi alloggio, è quindi uno strumento progettuale fondamentale.

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Nel progetto di centro civico proposto per l’esame di Laboratorio di Progettazione 2 a/a 2006/2007 al centro della preoccupazione c’è la possibilità per gli utenti di accedere a tutto l’edificio. La rampa diventa protagonista e non “accessorio” dell’edificio.

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Nel tentativo di far partecipare davvero il committente alla disposizione dei propri luoghi di via - attivamente o con un coinvolgimento dato dall’osservazione da parte dell’architetto – emerge che le dimensioni della vita quotidiana e ordinaria o di quella più “straordinaria” delle persone sono numerose e spesso si intrecciano negli stessi luoghi. Si parla di luoghi “polivalenti”, capaci di prendere la forma e la qualità che di volta in volta sono richieste dalle azioni di un soggetto e dall’interazione di più soggetti. Ma soprattutto si parla di “permeabilità”, di facoltà da parte degli spazi di assorbire le richieste e accoglierle al proprio interno o con il riflesso indiretto dello svolgimento della propria funzione. Le due dimensioni antropologiche, sociologiche e psicologiche per eccellenza sono senza dubbio lo spazio pubblico e lo spazio privato. Uno separato dall’altro, sfere complete e autosufficienti in cui chiudersi di volta in volta; al massimo considerate l’una specchio dell’altra, perché le conseguenze della pienezza del vissuto pubblico permettono di dedicarsi completamente a quello intimo e viceversa. Eppure, affondando nella questione e continuando a interrogare i filosofi, queste due realtà appaiono mischiate, fuse. Nella casa contemporanea medio-borghese si espletano funzioni di ricevimento, lavoro e “pubblicità” (attraverso i mezzi di comunicazione), mentre la città accoglie manifestazioni private, anche quelle che forse un tempo erano considerate sconvenienti. Diventa fondamentale esplorare il limite tra le due sfere, il passaggio osmotico dell’esperienza dall’uno all’altro. Individuare quali devono ancora essere i confini per rispettare una certa “umanità” degli equilibri, il confine come inizio di qualcosa. Oppure, riprendendo un’altra metafora già indagata: quali sono le strade/ponti che permettono di arrivare da

un’esperienza all’altra, i percorsi fisici nelle città e quelli interiori nel proprio flusso di coscienza che rendono complessa e interessante l’esistenza in questa realtà, in questo mondo così come ci è dato conoscerlo? Per Deleuze “Non è la linea a trovarsi tra due punti ma è il punto che è intersezione di due linee”. Quali sono queste reti - fatte di incontri, mezzi, pulsioni, desideri, conflitti – che permettono lo svolgimento della vita biologica, psicologica e culturale dell’essere umano? Di cosa sono fatte? Si possono individuare delle leggi universali nei suoi ritmi, nei loop che si creano, nella forza d’irrorazione dei nodi? Lo spazio pubblico, condiviso, che sia statuale o etnico, mediato o mediatico, ha ancora un suo luogo di elezione? Oppure non ha più confini? Dobbiamo ricercarne i bordi in altre tessiture meno palpabili ma non per questo meno forti? L’accessibilità reciproca tra le due dimensioni (quella pubblica e quella privata) sembra un nodo delle problematiche della città contemporanea. Sempre più spesso siamo di fronte a spazi pubblici che non permettono ai singoli di esprimere la propria istanza, la propria personalità e allo stesso modo, le condizioni degli spazi privati non sembrano spesso adeguate permettere una sana espressione delle proprio universo intimo. E quindi una barriera architettonica o un problema d’inquinamento acustico o atmosferico non sono soltanto dei dati da studiare ma sono i sintomi che il nostro sistema di vita è fallato, non è realmente il precipitato materiale dei nostri desideri ma è imposto e impermeabile ad essi. Il problema è stabilire, da una parte, come parlare di un’universale “umanità” degli spazi. Dall’altra, come riuscire a parlare della molteplicità di questa umanità. Quello che permette, in ogni caso, che si verifichino entrambe le circostanze è che lo spazio esterno sia accessibile all’uomo, ad ogni uomo. E che lo spazio interno dell’uomo sia permeabile a quello che la realtà circostante propone, grazie alla sua comprensibilità.

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Ascoltano Giancarlo De Carlo descrivere le difficoltà e le potenzialità della progettazione partecipata: “E’ difficile che il dialogo si apra subito a una fluente e efficace comunicazione. Ma quando si raggiungono fiducia e confidenza, allora il processo diventa vigoroso, spinge all’invenzione, innesca uno scambio di idee che viene continuamente alimentato dall’interazione dei vari modi diversi di percepire le questioni portate nel dibattito dai vari interlocutori. A questo punto l’ambiente si scalda e “accade” la partecipazione, che è un evento non solo intellettuale o mentale, ma anche fisico, alimentato da calore umano. Man mano che lo scambio si intensifica – e si assottiglia, si acuisce, si stratifica – l’interazione diventa sempre più stimolante e i suoi esiti non sono più prevedibili, perché dipendono dagli interlocutori, che sono sempre diversi e perciò rendono unico il processo progetto a cui partecipano.” (Giancarlo De Carlo, da “Avventure urbane, progettare la città con gli abitanti”)

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Citando ancora “Demeure terrestre”, Thierry Paquot focalizza la riflessione sul rapporto tra il “dentro” e il “fuori”, relazione dialettica fondamentale nella ricerca sull’accessibilità:

“Intimo viene dal latino intimus, superlativo di interior e il plurale interiora indica sia gli spazi interni di un’abitazione sia del corpo. Anche la parola interno non è riservata alla casa ma riguarda anche il territorio delimitato dalle frontiere.” […] La metafora dell’isola è importante perché non ha un fuori, l’isolamento è diverso dalla solitudine che invece ti riconnette a te stesso e quindi alla realtà. […] nessuna tecnica e’ neutra, ogni strumento corrisponde a un universo mentale. Lo “spazio pubblico” preoccupa l’urbanista ma è pericoloso per la polisemia del termine: lo spazio pubblico è aspaziale e ha la forma dell’assemblaggio provvisorio che si raggruppa per accogliere il conflitto, il dibattito, è lontano da un disegno di posto, dal disegno di un arredo urbano, dal trattamento di un edificio pubblico. Può essere virtuale ma in questo caso non si aspetta molto dall’architetto o dall’urbanista ma dipende soprattutto dalla politica di cui è un’espressione.” Fondamentale ricordare, insieme a Paquot, la filosofia di Lévinas sulla dimora.

Il volto è insegnamento, origine del discorso, appello incessante che «investe» la mia libertà e che mi costringe alla responsabilità Dal per sé della separazione, quindi, si è giunti al fuori di sé della donazione La possibilità della donazione all’altro è permessa soltanto dalla capacità di accumulare oggetti nel proprio spazio di vita intimo. Ecco che i presupposti per una vita pubblica sono proprio il tempo e lo spazio del raccoglimento.

“Per Levinas, dunque, l’etica è il luogo del senso, essa, infatti, viene prima di tutto (prima della cultura, dell’economia e dell’essere nella sua totalità), e non a caso è definita con il termine di «filosofia prima»; tuttavia il senso si esprime nel volto dell’altro che diviene così la significanza stessa della significazione: il viso, infatti, immediatamente comandamento etico, esprime la precedenza della metafisica sull’ontologia. Tra me e l’altro non c’è reciprocità, il volto è insegnamento, origine del discorso, appello incessante che «investe» la mia libertà e che mi costringe alla responsabilità. È importante evidenziare […] la frequenza con cui, nel testo levinassiano, è presente la parola «accoglienza»: essa, infatti, esprime il primo movimento verso altri. Per poter pensare l’etica, dunque, risulta necessario concepire la possibilità dell’accoglienza poiché senza di essa non c’è volto. Alla luce di tutto ciò, a nostro avviso, solo l’ospitalità costituisce quell’evento fondamentale in grado di trasformare la ricettività in relazione etica. La sproporzione or ora accennata, infatti, mette in luce la «legge dell’ospitalità»: la ragione, in quanto accoglimento dell’idea d’infinito, diviene passiva e «riceve» trasformandosi, così, in accoglienza e quindi in ospitalità” “L’intimità che è già presupposto della familiarità è un’intimità con qualcuno. L’interiorità del raccoglimento è una solitudine in un mondo che è già umano. Il raccoglimento si riferisce ad un’accoglienza. […] La dimora, infatti, sancisce la separazione dall’«elementale» (c’è quindi un’interruzione delle risposte immediate stimolate dalla natura), è rifugio, dà sicurezza e consente all’uomo di poter progettare; tuttavia essa non è soltanto il luogo del possesso (dove vengono conservate le cose), altresì costituisce il luogo dell’interiorità (la soggettività umana), dell’intimità (rapporto col mondo sotto forma di godimento, familiarità in cui si svolge la vita) ed infine la condizione di possibilità della donazione. Dal per sé della separazione, quindi, si è giunti al fuori di sé della donazione; il raccoglimento costituisce la possibilità dell’accoglienza ospitale: apertura della porta della propria casa al volto dell’altro che, nella sua umile-maestà, implora, supplica e, contemporaneamente, esige una risposta totale.” (Thierry Paquot, “Demeure terrestre. Enquête vagabonde sur l’habiter”, Les éditions de l’imprimeur, Paris/Besançon 2005)

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Lo spazio pubblico è aspaziale e ha la forma dell’assemblaggio provvisorio che si raggruppa per accogliere il conflitto, il dibattito, è lontano da un disegno di posto, dal disegno di un arredo urbano, dal trattamento di un edificio pubblico

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Le formule e i parametri con cui ci si muove nel corso di

Istituzioni di Matematiche 2 a/a 2009/2010 sono una via d’accesso alla forma e allo spazio, un “ponte” che permette di capire l’importanza del modello nella progettazione. Non solo come oggetto di studio o modellazione dell’architettura ma come vero e proprio strumento di comprensione e ragionamento. A destra: immagini di elaborato Povray della Escuela della Sagrada Familia di Gaudì.

Stabilita l’importanza della relazione e della dialettica tra il dentro il fuori come sostanziali nel dispiegamento delle pratiche civili e aggiustando la riflessione sul contenuto “umano” degli spazi, spostandola da un semplice predisporre e disporre di essi alla considerazione della sostanza della trasformazione di uno spazio a un luogo-spazio dell’uomo. Per Lévinas l’altro per eccellenza, la cui presenza è discretamente un’assenza, e a partire dal quale si attua l’accoglienza ospitale che descrive il campo dell’intimità, è la donna. La donna è la condizione del raccoglimento, dell’interiorità della casa e dell’abitazione: l’io-tu nel quale Buber scorge la categoria della relazione interumana non è la relazione con l’interlocutore, ma con l’alterità femminile. Che sembra la stessa consistenza della tenda della stanza infantile di cui parla Pasolini. La dimora, quindi, è uno strumento da considerare non solo come premessa dell’abitare ma come premessa per la relazione, l’accoglienza e infine l’ospitalità. Il poter raccogliere i propri oggetti, i propri beni non ha come fine la loro accumulazione ma la loro offerta. E quindi la possibilità di raccoglimento e la relazione, l’accoglienza, l’ospitalità che essa stessa permette, sono strumenti veri e propri che non possono non essere tenuti in considerazione nell’apprestarsi a progettare. S’impone quindi come valore l’importanza del sapersi collocare sul confine tra le cose e saper viaggiare sulla loro distanza. A questo proposito può essere interessante dare uno spessore a questi “ponti”, importantissimi, di cui parla Heidegger: “Anzitutto: in che rapporto stanno luogo e spazio? e in secondo luogo: qual è la relazione tra uomo e spazio? Il ponte è un luogo. In quanto è una cosa siffatta, esso accorda uno spazio, in cui hanno accesso terra e cielo, i mortali e i divini. Lo spazio accordato dal ponte contiene vari posti (Plätze) che stanno variamente vicino o lontani dal ponte. Questi posti possono essere fissati come puri e semplici punti (Stellen) tra i quali sussiste una distanza misurabile; una distanza, in greco στάδιον, è sempre disposta in uno spazio (eingeräumt), e precisamente è disposta tra due puri e semplici punti. Quello che è così disposto dai punti è uno spazio di un tipo particolare. In quanto distanza, στάδιον, è ciò che la stessa parola stadion dice in latino: è uno spatium, un intervallo. In tal modo vicinanza e lontananza tra uomini e cose possono diventare pure distanze, definite da un intervallo. In uno spazio che è rappresentato come puro spatium, il ponte appare ora come un semplice qualcosa che sta in un punto, un punto che in ogni momento può essere occu-

pato da qualcos’altro o può essere sostituito da una semplice notazione. Non solo: dello spazio inteso come intervallo si possono rilevare le estensioni in altezza, larghezza e profondità. Ciò che in tal modo viene tirato fuori, in latino abstractum, ce lo rappresentiamo come la pura molteplicità delle tre dimensioni. Ciò che questa molteplicità dispone e ordina (einräumt) non è più definito in base a distanze, non è più spatium, ma solo più pura extensio, estensione. Lo spazio inteso come extensio, però, si lascia ancora a sua volta ridurre, attraverso un processo astrattivo, a relazioni analitico-algebriche. Ciò che queste dispongono e aprono (einräumen) è la possibilità della pura costruzione matematica di molteplicità con qualunque numero di dimensioni. Si può dire che questo spazio, così matematicamente disposto e aperto, è “lo” spazio. Ma “lo” spazio in questo senso non contiene spazi e posti. In esso non troveremo mai dei luoghi, cioè delle cose del tipo del ponte. […] Gli spazi che ogni giorno percorriamo sono disposti e aperti da luoghi; e l’essenza di questi si fonda in cose del tipo del ponte. Se facciamo attenzione a questi rapporti tra luogo e spazi, tra spazi e spazio, troviamo anche una base per riflettere sulla relazione tra uomo e spazio.” I ponti (non solo quelli dell’ingegneria!) diventano veri e propri strumenti di trasformazione dello spazio e possono assumere varie forme più o meno materiali, sono ciò che lega, ciò che permette di riflettersi nella realtà: sono degli arcobaleni densi di riverberi. In questo senso oggi è importante approfondire il virtuale, non tanto come semplice alternativa al fattuale, ma come potenzialità di esso. Guardando agli esami scientifici della facoltà di architettura è interessante il campo della rappresentazione vettoriale delle superfici, degli spazi e delle azioni permesse in essi, perché permette di attuare una decostruzione di essi e di evidenziare e selezionare la parte di queste operazioni che ha funzione di ponte, la parte che unisce, che porta da una cosa all’altra, da uno spazio a un luogo, dall’uomo allo spazio. I ponti vanno costruiti e percorsi, nella piena consapevolezza del fondamento “relazionale” della vita e del suo materializzarsi. Proprio l’idea del tramite permette, rispettando la non-compiutezza e la spaziatura, di dare fondamento etico e scientifico all’architettura, di renderla accessibile.

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A sinistra: tavola di Disegno dell’Architettura sulle architetture “altre”, disegni a china su cartoncino. Studiando gli edifici di Hassan Fathy e di altri architetti mediorientali emerge come nello spirito dell’architettura “povera”, in terra battuta ma anche di edifici più ambiziosi, ci sia ancora l’armonia con il clima e il paesaggio. Gli agenti atmosferici “entrano” nelle case e vengono sfruttati a proprio favore oppure si legge la traccia della loro esclusione. Nella pagina accanto: maschera.

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10 il giardino planetario Sotto e pagina accanto: tavole per Studi Urbani a/a 2008/2009 che mettono a confronto l’idea di “giardino planetario” di GIlles Clément e la descrizione di “spazi polivalenti” di Massimo Cacciari.

Secondo Thierry Paquot è, quindi, meglio parlare di “fuori”, l’esterno, piuttosto che di spazio pubblico che è incongruo e i due mondi devono continuamente infiltrarsi l’uno nell’altro. La dialettica tra il dentro e il fuori rappresenta la condizione essenziale nella quale sta l’uomo, per crescere occorre questo confronto tra l’esteriorità e l’interiorità. Tutto questo, abbiamo detto, porta a comprendere come nel disporre un luogo all’abitare, nella prospettiva dell’incompletezza, sia più importante evidenziare la dimensione dell’accoglienza piuttosto che quella della definizione e dell’imposizione di una morfologia spaziale, di una tipologia architettonica, sebbene perfettamente calzante con quello per cui questo spazio è previsto. Pur senza negare quest’ultima. La vita umana, come quella biologica, ha delle leggi riconoscibili ed analizzabili per essere descritta? Si può provare a mettere in luce delle regole, delle costanti, delle direttrici con cui gli uomini si organizzano tra loro per soddisfare i propri bisogni fisiologici, i propri desideri, le proprie deviazioni. E se è di questo che l’architetto si occupa quando considera le funzioni di utilizzo di una struttura costruita, allora queste leggi del sistema sul quale ci prendiamo la responsabilità di operare sono davvero prevedibili? Come ogni specie vivente l’uomo ha un genere di vita essenzialmente parassitario. Si nutre dell’aria, dell’acqua, dei frutti della terra. La riflessione sulla vita dell’uomo va integrata con un’indagine sulle risorse di cui si serve. Gli stessi scambi di queste risorse e la sopravvivenza delle comunità sono garantiti prima da queste risorse che dalle buone intenzioni e dal respiro etico delle azioni dell’uomo. Se ci poniamo, comprendendo la maggior parte delle filosofie orientali, in una visione “tra cielo e terra”, che prenda in considerazione il labile equilibrio che mette l’uomo nel mezzo tra la forza di gravità e l’energia vitale del sole, è evidente che oggi ci sono numerosi dubbi rispetto alla capacità della nostra specie di contribuire a quest’armonia e di non minare quella delle altre specie con cui convive. Eppure c’è ancora una ciclicità dell’esistenza a cui non riusciamo facilmente ad attingere ma che ci permette di condurre “pacificamente” le dinamiche vitali e natu-

rali a nostro favore. Per capire questo occorre aprirsi all’intuizione e non solo portare avanti la ricerca scientifica con il suo metodo induttivo-deduttivo. Come si può codificare la capacità che i progettisti hanno di accogliere e favorire al complessità del reale e delle sue forme di vita? Che cos’è realmente l’organicismo di un’architettura? E’ la capacità di uno spazio di integrare la vita? Una sua capacità evocativa? L’aggregarsi delle forme secondo le suggestioni della natura? Come si può descrivere il ruolo dell’architetto e dell’urbanista dopo aver compreso che queste figure non sono soltanto dei laureati successivamente iscritti ad un albo? Come parlare di queste professioni per comunicarne il valore, senza sminuirne gli ambiti di competenza e lo spessore umanistico della preparazione? La sfida che si impone all’architetto sembra quindi quella di saper “accogliere” è far sì che il proprio pensiero e la propria opera materiale a sua volta sia accolta. Ma abbiamo già detto che questo è complicato se ci si confronta con più soggetti, pulsanti di vita e di desideri, e con il problema delle risorse di cui essi necessitano. Diventa uno svantaggio un’eccessiva diversità di istanze da parte di questi soggetti? La differenza è un’ostacolo? Va quindi a vantaggio del sociologo o dell’architetto di turno poter individuare facilmente delle comunità, delle aggregazioni di individui, più o meno definite, che si pongono insieme nel loro essere nel mondo? O il problema della comunità complica ulteriormente il lavoro se la garanzia non è solo quella di offrire un’unità abitativa consona ma quella di fare in modo che tutto lo spazio a cui gli uomini hanno accesso permetta di continuo uno scambio tra di loro? E, soprattutto, quanto il progetto può influire su questa vita e quanto invece la complessità del vivere è indifferente ad esso e procede fagocitando il progetto stesso?

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Seguendo il pensiero di Paquot, quindi: “L’importante è occuparsi (ménager) del fuori ossia offrire agli abitanti un esterno degno del loro interno. Il verbo “occuparsi” appartiene al quotidiano, all’ordinario che rassicura, all’abitudine e vuol dire “prendersi cura”, “essere attenti a”. L’architetto e l’urbanista che è attento non riempirà un vuoto ma lascerà che gli elementi del gioco possano assemblarsi. Il “fuori” della casa, la soglia, è importante perché questa separazione è unificazione e questo la qualifica non è tagliata da esso.”

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Spugna e noccioli di pesca, disegni a matita.

Bisogna progettare a bassa voce, piano, a terra, in borghese, se no si diventa ridicoli, come la maggior parte delle architetture contemporanee “Viviamo ossessionati da immagini e miti di velocità e ubiquità, mentre gli spazi che costruiamo insistono pervicacemente nel definire, delimitare, confinare. Abbiamo bisogno di luoghi dove abitare, ma questi non possono essere spazi chiusi che contraddicono il tempo del territorio in cui, ci piaccia o meno viviamo. […] Lo spazio metropolitano era ancora, per usare una metafora tratta dalla fisica contemporanea, uno spazio ‘a relatività ristretta’, quello del territorio post-metropolitano dovrà essere uno spazio a ‘relatività generale’. Qui non solo qualsiasi edificio deve poter valere come corpo di riferimento, ma i corpi debbono potersi ‘deformare’ o trasformare durante il loro movimento. La distribuzione della materia in questo spazio muterà così costantemente e imprevedibilmente. Lo spazio complessivo risulterà dall’interazione dei suoi diversi corpi: elastici, ‘deformabili’, capaci di ‘accogliersi’ l’un l’altro, di penetrare gli uni negli altri, spugnosi, mollusco lari. Ognuno sarà polivalente non solo in quanto ingloba in sé diverse funzioni, magari ‘confinandole’ di nuovo al suo interno, imprigionandole in sé, ma in quanto intimamente in relazione con l’altro da sé, in quanto capace di rifletterlo. Ogni parte di un tale spazio è come una monade che accoglie in sé l’intero, che tiene in sé la logica dell’intero: un’individualità universale.[…] Ma l’abitare nostro, di questo tempo – del tempo del “general Intellect e della Mobilitazione universale – non è, né mai diventerà, l’utopia del totale sradicamento del tempo da ogni metrica spaziale e della disincarnazione della nostra anima. Queste sono cattive gnosi, figlie di un’ingenua fede o, meglio, superstizione nel ‘progresso tecnologico’ Per il territorio post-metropolitano abbiamo bisogno di quella architecturae scientia di cui giù parlavano gli antichi: capacità di costruire luoghi adeguati all’uso, luoghi corrispondenti alle esigenze e ai problemi del proprio tempo. Allora politici e architetti dovrebbero cercare di superare la monofunzionalità, pensare ad edifici davvero polivalenti. […] Tutto è rigido in un territorio in cui non c’è più alcun luogo. Da parte del pubblico s’avverte il bisogno di dare valenze simboliche alla città, allora il politico risponde facendo il teatro, l’università, l’ospedale, la chiesa. Nello stesso tempo rade al suolo la città, trasformandola in un’unica strada, in un unico parcheggio. E quindi vengono fuori le mostruosità insensate perché non c’è la persona dietro quel luogo. […] Bisogna progettare a bassa voce, piano, a terra, in borghese, se no si diventa ridicoli, come la maggior parte delle architetture contemporanee. Si devono combinare più funzioni nel costruire edifici. Se questo dia soddisfazione alla nostra esigenza di luoghi non saprei dirlo. So che oggi viviamo in queste contraddizioni. (Massimo Cacciari, “La città”, Pazzini Editore, Rimini 2009, IV edizione; cap. La città territorio - Spazio e tempo - Un’indicazione: la polivalenza degli edifici)

Forse il giardiniere non è chi fa durare le forme nel tempo ma, ammesso che ci riesca, è colui che nel tempo fa durare l’incanto “Il sentimento di appartenenza al mondo non potrebbe mai coincidere con il desiderio di dominarlo” “Territorio di incertezza – della nostra personale insicurezza – il giardino trasforma i nostri gesti trascurabili in istanti sacri. E se il giardino fosse in movimento, quei rari istanti di cui abbiamo tanto bisogno si moltiplicherebbero” “Il mondo vivente sfugge alla dominazione e la firma, se mai esiste, è il risultato di un’imprecisione, di un sentimento – lo spirito del luogo – piuttosto che di forme leggibili, perfette” “Forse il giardiniere non è chi fa durare le forme nel tempo ma, ammesso che ci riesca, è colui che nel tempo fa durare l’incanto” (Gilles Clément, “Il giardiniere planetario”, 22publishing, Milano, giugno 2008)

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Ognuno sarà polivalente non solo in quanto ingloba in sé diverse funzioni, magari ‘confinandole’ di nuovo al suo interno, imprigionandole in sé, ma in quanto intimamente in relazione con l’altro da sé, in quanto capace di rifletterlo.

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Dal taccuino di Disegno dell’Architettura, studi di alberi.

Per Gilles Clément il giardino è l’intero ecosistema del pianeta Terra ma anche il più piccolo esempio di convivenza di organismi. Questa la sua definizione di mondo vivente: def. “Somma degli essere dotati di capacità di trasformazione, dai batteri all’uomo, intrecciati insieme in un nodo di relazioni più o meno strette che legano ciascuna parte al tutto in una dinamica continuamente rinnovata”. (Clément Gilles, “Il giardiniere planetario”) Dato per certo che l’architetto si occupa di questo, di predisporre adeguatamente lo spazio per le attività del mondo vivente, “il giardino in movimento” del paesaggista francese arricchisce la definizione di spazi polivalenti di Cacciari – nodi della rete, polivalenti, interscambiabili, sensori, interfacce, più mobile e meno “radicata” l’informazione che ne riceviamo, più rispondente all’esigenza insopprimibile dell’abitare. Per Clément l’uomo è giardiniere, garante della diversità e deve imparare a guardare ad un eco-etno-sistema. Quello che è fondamentale per un giardiniere, e per il giardiniere-architetto, è il conoscere le specie osservandole. La possibilità che esse convivano dipende da lui che appartiene al giardino ma può avere uno sguardo dall’esterno e intervenire. La pratica del giardinaggio coglie appieno la diversità delle specie organiche e pulsanti che vi dimorano, dandogli un carattere polivalente. Il fatto che sia una forma di natura organizzata artificialmente dall’uomo descrive appieno la natura delle nostre città come spazi di vita biologica e culturale. Proseguendo sul nostro percorso verso l’accoglienza e indefinitezza, è importantissimo quindi immedesimarsi nella figura del giardiniere. Per fare un giardino occorre prima di tutto osservare, perché la vita non può essere congelata in una forma, può essere favorita e incanalata. E, inoltre, perché un giardino abbia successo nel tempo, sopravviva, c’è bisogno che le specie che lo compongono convivano felicemente, aiutandosi e non ostacolandosi. E rigenerandosi di volta in volta cedendo al terreno e alle altre forme di vita quello che prendono, trasformandolo. Il giardino di Clément, l’intero pianeta richiama a una prospettiva di intervento intimamente legata alla cura, se non identificabile con essa. Il giardinaggio è un’opera di cura per eccellenza. A questa non banale trattazione dell’ecologia si aggiungono le intuizioni del “Manifesto del Terzo Paesaggio” sulla salvaguardia della diversità. Non a caso l’Eden è un giardino, da cui siamo stati esclusi e, per questo, siamo condannati a crearne uno nostro su questa Terra. E’ l’opportunità di responsabilità che avevamo individuato all’inizio. Il giardino è una comunità, la nostra.

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def. “Comunità: termine riassuntivo di una serie di realtà diverse, ma unificate dal presupposto di fondo di ospitare, per così dire, le attività refrattarie alla razionalità economica. Quale ambito dell’agire non mercificato, autonomo e gratuito, relazionale e affettivo, la comunità garantisce quello spazio informale di reciprocità nel quale la tensione cooperativa si coniuga con l’affermazione sovrana, da parte dei soggetti, della propria irriducibile singolarità: aspetti, questi, entrambi minacciati e corrosi dalla voracità colonizzatrice della ragione strumentale.” (Elena Pulcini, “La cura del mondo”, Bollati Boringhieri, Torino 2009) Ecco che gli strumenti della progettazione nella prospettiva del giardinaggio planetario ci si presentano quasi naturalmente. Quasi come se avessimo per tanto tempo dimenticato quello che l’intuito di dice.Rispetto a questa “firma” del progetto Clément è molto chiaro: “Nel mio stesso giardino io, il giardiniere, non saprei predire l’esatta forma dell’indomani. Esiste solo l’istante”; la mia firma non è la precisione con cui ingabbio le forme viventi e la costruzione. La mia firma sul progetto, se esiste, è un sentimento, la capacità di rispettare lo spirito del luogo. Così sappiamo come si fa a progettare a “bassa voce” e sottolineo nuovamente l’importanza di una prospettiva ciclica dell’esistenza umana e naturale. Qualcosa che da sempre sembrerebbe impedire il progresso, l’evoluzione, invece ne è il presupposto fondamentale (il cerchio che diventa una spirale): il programma di lavoro di un giardiniere è fatto soprattutto della capacità di osservazione delle potenzialità del sistema di cui ha cura. Se domina la materia senza conoscerla è destinato a fallire, questa si vendicherà su di lui. Un giardino è tanto più ricco quanto più è vario nelle sue specie, quanto più queste convivono insieme sostenendosi a vicenda, senza contendersi la terra in modo violento ma offrendosi rigogliose secondo il ritmo delle stagioni, con il tempo che ci vuole: “Qui donc, aujourd’hui, a le temps de prendre ce temps-là? Qui se permet d’oublier le temps qui passe pour s’interesser au temps qu’il fait? Qui a l’esprit assez préoccupé du vivant du jardin naissant pour s’en contenter dans son état et le suivre dans son évolution?” (Gilles Clément, “Une brève histoire du jardin”, JB Béhar, Paris 2011). Per “far durare l’incanto” occorre considerarne le fasi alterne felici ed infelici, le crepe, le ombre grottesche. Nella consapevolezza che l’inizio di un ciclo coincide con il suo nuovo inizio, con la fiducia nella materia su cui operiamo.

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Sotto: Gilles Clément, appunti sulla proliferazione delle specie da “Manifesto del Terzo paesaggio”; a destra, dall’alto: la sua casa nella campagna francese dove mette in pratica la salvaguardia della diversità descritta ne “Il giardino planetario”, progetto di giardino.

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“L’oggi si compone di due parti fondamentali diverse – il vicolo cieco e la soglia – con forte prevalenza della prima parte. Il prevalere del tema del vicolo cieco esclude la denominazione di “civiltà” – la nostra epoca è completamente mancante di civiltà, ma possiamo scoprire qua e là germi di civiltà futura – tema della soglia. Questa disarmonia tematica è il segno dell’”oggi”, che si impone continuamente all’osservatore. […]

Così:

1 le radici di due sistemi numerici si incontrano con 2 le radici delle forme artistiche

Se veramente esiste questa profonda affinità, abbiamo una conferma sicura del nostro presentimento di una radice unitaria dei fenomeni che, apparentemente, sembrano fondamentalmente diversi e completamente distinti gli uni dagli altri. Oggi, in modo particolare, è impellente la necessità di trovare queste radici comuni. […] le necessità sono di natura intuitiva. Intuitiva è anche la via che verrà scelta per soddisfarle. Ne consegue una congiunzione armonica di intuizione e calcolo – né l’uno né l’altro bastano da soli per andare oltre. […]

Se il punto di partenza è quello giusto e la direzione presa è scelta bene, non si può fallire lo scopo. E lo scopo di ogni indagine teorica è: 1 trovare il vivente,

2 renderne percepibile il pulsare, e

3 stabilire quale sia l’elemento normativo del vivente stesso.

Immagini da “Punto, Linea, Superficie”.

In questo modo si raccolgono realtà viventi – in quanto fenomeni singoli e nelle loro connessioni. Trarre conclusioni da questo materiale è il compito della filosofia, ed è un lavoro sintetico, nel senso

più alto del termine. Questo lavoro conduce a delle rivelazioni interiori – nella misura in cui ciò è concesso a ogni epoca.” (Wassily Kandinsky, “Punto, linea, superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici”, Adelphi Edizioni, giugno 2005) Fino ad ora questa indagine teorica porterebbe a credere che sia stata la perdita d’interazione tra le due polarità autonomia/appartenenza a provocare lo smarrimento del senso di cui abbiamo parlato fino ad ora. Essere “individui” e “soggetti” radicati in sé escluderebbe dal radicamento fuori? Günter Anders definisce il problema dato da questa forbice “Perdita del mondo”. Ma che cosa significa aver perso il mondo? In che relazione sono i mondi di ognuno di noi con “Il mondo”? Oltre a questa necessità di indagare teoricamente il mondo abbiamo perso il mondo stesso. In che senso? E’ il “giardino planetario” di Clément che ci sfugge? def. “Un mondo è per l’appunto un posto in cui c’è posto per tutti, per tout le monde: ma un posto autentico, un posto che rende davvero possibile esserci (in questo mondo). Altrimenti, non si tratta di un mondo: si tratta solo di un globo o di un glomus, di una “terra d’esilio”, di una “valle di lacrime””.

(Nancy, “La creazione del mondo o la mondializzazione”, Einaudi, Torino 2003)

In un’epoca in cui sembra in gioco la sopravvivenza del genere umano e dell’intero mondo vivente, garantire questa sopravvivenza richiede di disporsi a un atteggiamento attivo e propositivo che consenta di “creare un mondo” là dove non c’è altro che un “globo”. Come riuscire a creare? Questa creazione ha a che fare proprio con la cura? La terra d’esilio di cui parla Nancy sembra la terra intesa come paradiso perduto. Se invece continuiamo a considerare questa perdita dell’Eden come un’opportunità eviteremo di “perdere il mondo”.

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Sottolineata l’importanza dell’osservazione, come trarre conclusioni dal materiale delle realtà viventi? Per farlo occorre il lavoro sintetico proprio della filosofia. Fondamentale sembra il presentimento di una radice unitaria dei fenomeni, pre-sentimento, qualcosa a cui si accede sentendo. Kandinsky sottolinea che è una necessità di natura intuitiva. Il reperimento attraverso l’empatia, l’emotività, di queste radici comuni conduce a delle rivelazioni interiori che permettono di condurre un’indagine teorica sulla realtà vivente. Non sono rari i testi o i progetti di architettura in cui la necessità di questa intuizione è in primo piano.

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Il movimento verso il limite è una grande possibilità, un mezzo potente (in definitiva un elemento) per i fini compositivi “Simili fatti non sono ignoti anche ad altre scienze, per esempio alla chimica: la somma scomposta nelle sue componenti non si ricrea, in certi casi, dalle combinazioni delle componenti.” “I progressi raggiunti con un lavoro sistematico creeranno un vocabolario di elementi, che, in un ulteriore sviluppo, porterà a una grammatica. Essi condurranno alla fine a una teoria della composizione, che varchi i limiti delle arti singole, e si riferisca all’“arte” in generale.” “Il vocabolario di una lingua non va pietrificato, poiché esso vive di trasformazioni ininterrotte: certe vengono sommerse, muoiono, altre nascono, vengono alla luce, altre ancora vengono importate dall’”estero” e passano i confini. Ma strano a dirsi, una grammatica dell’arte sembra a molti, ancora oggi, fatalmente pericolosa.” “I limiti sono sempre mal distinguibili e immobili. Qui tutto dipende dalle proporzioni, come nel caso del punto – l’assoluto viene portato dal relativo a un suono indistinto e diminuito. Nella prassi il movimento verso il limite è espresso in modo più preciso che nella formulazione teorica. Il movimento verso il limite è una grande possibilità, un mezzo potente (in definitiva un elemento) per i fini compositivi.” (Wassily Kandinsky, “Punto, linea, superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici”, Adelphi Edizioni, giugno 2005)

Ognuno sa quale sia la malattia che affligge il nostro tempo: esso non riesce a dominare e organizzare le possibilità che ha saputo creare Non sappiamo come adeguarci a questa civiltà in quanto la nostra cultura non ha un sufficiente contrappeso di distensione psichica e spirituale. Infine: non abbiamo trovato la chiave della realtà: essa si trova nel sentimento “Ogni forma autentica d’arte ha il compito di aprirci una via di accesso, di procurarci un’interpretazione della realtà. Nel dominio dell’attività umana spetta a essa il compito più razionale: trovare l’espressione del sentimento. Se essa fallisce, significa che l’epoca non riesce a ritrovare se stessa. Ognuno sa quale sia la malattia che affligge il nostro tempo: esso non riesce a dominare e organizzare le possibilità che ha saputo creare. Non esiste forse pericolo peggiore, per l’equilibrio delle forze interiori, di una produzione che divenga fine a se stessa e che, con la potenza degli strumenti di cui dispone, potrebbe praticamente superare ogni limite. Le invenzioni sono importanti: esse spianano la via cui si può raggiungere la possibilità del riscatto definitivo. Non ve n’è un’altra, se vogliamo ottenere per tutti un altro tenore di vita. Il problema comincia però nel momento in cui l’invenzione fa sentire i suoi effetti. […] Gli effetti cominciano ad agire sui produttori, continuano sui distributori e non si conchiudono neppure sui consumatori. Quel che conta è il modo e la misura del contraccolpo che il consumo esercita sull’intero organismo, che vien detto civiltà. […]

Esposizione Internazionale, Parigi 1967, veduta aerea da “Spazio, tempo ed architettura”, Siegfried Giedion, in bibliografia per Storia dell’Architettura 2 .

Non abbiamo dominato né le conseguenze sociali, né quelle umane, in quanto abbiamo creato una società cui manca il concetto della tranquillità. Non sappiamo come adeguarci a questa civiltà in quanto la nostra cultura non ha un sufficiente contrappeso di distensione psichica e spirituale. Infine: non abbiamo trovato la chiave della realtà: essa si trova nel sentimento. Dobbiamo ora soffermarci soltanto su questo punto. (Sigfried Giedion, “Spazio, tempo ed architettura. Lo sviluppo di una nuova tradizione”, Hoepli Editore, Milano1984)

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Simili fatti non sono ignoti anche ad altre scienze, per esempio alla chimica: la somma scomposta nelle sue componenti non si ricrea, in certi casi, dalle combinazioni delle componenti.

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Ci occorre quindi, come architetti, una grammatica, non una semplice somma di elementi giustapposti pietrificata.

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Immagini da “Punto, linea, suprerficie”; illustrazione di Cecilia Valli; pagina accanto: fotografia della Terra dal satellite.

Il sentimento. “Una città: pietra, cemento, asfalto. Gente sconosciuta, monumenti, istituzioni. Megalopoli. Città tentacolari. Arterie. Folla. Formicai? Cos’è il cuore di una città? E l’anima di una città? Perché si dice che una città è bella o che una città è brutta? Che cosa c’è di bello e cosa c’è di brutto in una città? Come si conosce una città? Come si conosce la propria città? Metodo: bisognerebbe, o rinunciare a parlare della città, o costringersi a parlarne il più semplicemente possibile, a parlarne in modo ovvio, familiare. Scacciare ogni idea preconcetta. Smettere di pensare in termini bell’e fatti, dimenticare quanto è stato detto dagli urbanisti e dai sociologi. C’è qualcosa di spaventoso nell’idea stessa di città; si ha l’impressione che non si possa trovare un appiglio se non in immagini tragiche o disperate: Metropolis, l’universo minerale, il mondo pietrificato, e che non si possa far altro che accumulare senza tregua domande senza risposta: Mai potremo spiegare o giustificare la città. La città è qui. E’ il nostro spazio e non ne possediamo altro. Siamo nati in città. Siamo cresciuti in città. E’ in città che respiriamo. Quando prendiamo il treno, è per andare da una città all’altra. Non c’è niente di inumano in una città tranne la nostra umanità.” (Georges Perec, “Specie di spazi”, Bollati Boringhieri, Torino, prima edizione 1989)

Il limite. “Pensare i limiti come uno spessore e non come un tratto. Pensare al margine come a un territorio di ricerca sulle ricchezze che nascono dall’incontro di ambienti. Sperimentare l’imprecisione e la profondità come modi di rappresentazione del Terzo paesaggio. Ignorare le scadenze amministrative, politiche, di gestione del territorio. Non aspettare: osservare ogni giorno. Offrire al Terzo paesaggio la possibilità di dispiegarsi secondo un processo evolutivo incostante, attraverso una reinterpretazione quotidiana delle mutevoli condizioni dell’ambiente.” (Gilles Clément, “Manifesto del Terzo paesaggio”, Quodlibet, Macerata 2005)

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Per un grande storico dell’architettura come Sigfried Giedion dobbiamo preoccuparci perché l’artista è un isolato e il pubblico è un isolato; spazio-tempo-architettura cambiano il loro rapporto dando indizi altrettanto preoccupanti. Giedion critica fortemente la “specializzazione” delle discipline: l’uomo moderno non è riuscito a reagire alla meccanizzazione della vita a causa di una frattura tra pensiero e sentimento. Se non si integrano gli ambiti disciplinari la conoscenza rimarrà fine a se stessa e scissa dalla passione; occorre ricucire il legame tra pensiero e sentimento. Facendo dialogare Fedro e Socrate, Valery dipinge una figura di architetto ideale che sia ancor prima un filosofo. Dobbiamo quindi porci ai limiti tra le discipline, esplorare la ricchezza del confine senza mai rinunciare ad usare insieme gli strumenti fondamentali che, usati insieme, possono combattere la divaricazione e le “forbici” frammentanti dell’epoca contemporanea; e di ogni epoca.

La filosofia. “Sforzati dunque di immaginare cosa sarebbe un mortale abbastanza puro, abbastanza ragionevole, abbastanza sottile e tenace, abbastanza potentemente armato da Minerva per meditare fino all’estremo del proprio essere e dunque fino all’estrema realtà, quello strano accostamento delle forme visibili e delle effimere associazioni dei suoni successivi; pensa a quale origine intima e universale si accosterebbe; a quale punto prezioso potrebbe giungere, al dio che potrebbe trovare nella propria carne! E se, ponendosi infine in quello stato di divina ambiguità, si proponesse allora di costruire non so quali monumenti, la cui figura d’autorità e di grazia partecipasse direttamente della purezza del suono musicale, o dovesse comunicare all’anima l’emozione d’un accordo inesauribile – pensa, Fedro, che uomo sarebbe! Immagina quali edifizi! E che godimento per noi!” (Paul Valery, “Epaulinos o l’Architetto” in “Tre dialoghi”, Einaudi, Torino 1990)

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12 manifesto Il “manifesto” non è qualcosa di immobile, pietrificato ma rappresenta un “ponte” per accedere a una visione e ad un atteggiamento. Sotto: Paolo Soleri, Double Cantilevere Bridge.

E’ cosa nota che in architettura ci si serva continuamente di modelli. Plastici, elaborazioni vettoriali, rappresentazioni grafiche, analogiche, digitali, sono alla base di ogni iter progettuale. Costruire un modello, operazione tipica della progettazione, è un esempio perfetto dei “ponti” di cui parlava Heidegger. La visione resta parziale, soggettiva ma nel mettersi in relazione e mettere in relazione agisce sulla realtà relativa. Nel caso di Paolo Soleri, progettista che utilizza molto i modelli, non emerge solo un’indagine sulle misure e le relazioni tra le parti architettoniche ma le sue costruzioni a piccola e a più grande scala appaiono come veri e propri atti di riflessione sulla condizione umana. Sono visioni dello sviluppo dell’uomo in rapporto con l’ambiente e con l’intero cosmo. La verticalità estrema verso l’alto o verso il centro della terra degli Hyper Building, così evidenti nei disegni e nei modelli di Soleri, vorrebbero fare da ponte verso un progetto di cambiamento etico e civile. Con Arcosanti e Cosanti, la sua è dichiaratamente un’esperienza di “work in progress”, possiamo dire che

Soleri sia, in questo atteggiamento, un “giardiniere” di questa terra. Ma siamo sicuri che un universo di pensiero così centrato su una personalità e così attaccato all’utopia possa trasformare le cose? Soleri appone sui suoi lavori quella “firma” di cui parlano Derrida e Clément, non utile ad un armonioso sviluppo di idee ed esseri? Dato il proliferare di “non luoghi”, non è ormai diventata un’utopia saper proporre e vedere luoghi? Anche in altri esempi di architetture radicali, con i loro fotomontaggi si può notare questa volontà di creare, con un modello, seppure inverosimile, un ponte tra la realtà e la sua trasformazione. Nel caso di alcune provocazioni di Superstudio viene rilevata la natura disumana dell’architettura incapace dI fare davvero da ponte ma totalizzante e indiscriminata, proprio affermandola e portandola all’estremo. Eppure sono pochi i corsi in cui, al momento di redigere un manifesto programmatico del proprio progetto, è richiesto qualcosa in più che un plastico o un disegno in scala 1:500. La relazione con il contesto, col genius loci, si limita al luogo ristretto del lotto o ad analisi talvolta frettolose sul “contesto”. Secondo Undertwasser abbiamo “cinque pelli” e tutte compongono la nostra identità. Se una di queste pelli ha una patologia, le altre senza di essa non sono sufficienti a renderci uomini. “The five Skins of Man The first, the natural skin is that of his original truth. By stripping off his second skin – his clothes – Hundertwasser proclaims his right to the third skin – his home. The fourth skin refers to Hudertwasser’s effect on his social environment, his struggle to preserve man’s personal identity. The fifth skin is the planetary skin, directly concerned with Hudertwasser’s ecological endeavours. Hundertwasser’s visions for society are aimed at all those who are not prepared to renounce their individual creativity, the great existential challenge of their identity, and thereby their respect for organic integrity of cycles of nature”. (Pierre Restany, “HUNDERTWASSER, The PainterKing with the 5 skins.”)

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Sotto: Hundertwasser, schema di abitazione con humus toilet; pagina accanto: mappa concettuale delle “cinque pelli” dell’uomo. Pelle, vestiti, casa, identità sociale, cosmo: se manca uno di questi strati la vita non si può dire completa.

Il “perdere il mondo” di Anders è come perdere una delle nostre “cinque pelli”. Incontriamo Hundertwasser, un altro architetto e artista che codifica molto bene questo atteggiamento rispetto alle risorse naturali, al rapporto con esse, senza sminuirle a un ambientalismo esasperato ma aggiungendo alla riflessione tutte le criticità delle società e della psicologia contemporanea. Inoltre, essendo pittore, architetto, costruttore e scultore insieme (oltre che personale sarto di se stesso) rappresenta uno dei casi di figura “completa” di architetto. La sua critica della dannosità della città contemporanea e i suoi effetti disumanizzanti non è distruttiva e violenta. Ci gira intorno per poi andarne al nòcciolo, rappresentandola in tutti i modi, quasi in maniera ossessiva. Anche il suo attaccamento al simbolo, che lo vede inventore di simboli immaginari per i francobolli e per le sue architetture, testimonia una volontà di produrre figure e ideali che siano una sorta di bandiera per una scelta di vita e di intervento sulle risorse della terra e su quelle culturali dell’uomo (il materiale dei simboli, i mali inflitti dalla metropoli). Questo contraddice il concetto di non-saturazionedi cui si è parlato? Lo spingersi verso il limite e farne un “manifesto”, capriccioso nella sua irremovibilità, è un passo avanti o un passo indietro? Può questo manifesto concretizzarsi in un’architettura o resta, quasi sempre, inespresso, racchiuso in un’immagine? Queste immagini da sole hanno un loro potere? Alla luce di tutto quello che è stato detto, possiamo dire che anche un testo, un disegno, un simbolo facciano parte di un progetto architettonico oppure questo si limita a dei disegni, a varia scala, atti a comunicare una trasformazione fisica di materia in altra materia?

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“XXI. Se dunque vogliamo essere iniziati alla vita, dobbiamo considerare due aspetti: per prima la grande melodia partecipe delle cose e dei profumi, di sensazioni presenti e ricordanze passate, di tramonti e nostalgie; e poi le singole voci che con se stesse portano a compimento questo unanime coro. E affinché l’opera d’arte significhi creare un’immagine della vita profonda che va oltre il quotidiano e farne esperienza fino in fondo, in ogni tempo, è necessario accordare le due voci, quella di un’ora particolare e quella presente in una comunità di persone al suo interno, e porle in giusta relazione.” “XV. Solo in quell’ora di comunione, nella comune tempesta, all’interno della stanza in cui si incontrano, finiscono per trovarsi. Solo quando dietro di loro c’è uno sfondo, entrano finalmente in relazione. E allora devono richiamare alla memoria l’unica patria della loro stessa origine e mostrarsi, per così’ dire, reciprocamente, gli attestati che ciascuno reca con sé e che contengono tutti il senso e il sigillo di uno stesso principe.”

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Per prima la grande melodia partecipe delle cose e dei profumi, di sensazioni presenti e ricordanze passate, di tramonti e nostalgie; e poi le singole voci che con se stesse portano a compimento questo unanime coro

(Rainer Maria Rilke, “Appunti sulla melodia delle cose”, Passigli Editore, Firenze 2006)

Seguendo il corso opzionale Il modello di architettura a/a 2005/2006 capisco l’importanza del modello come veicolo di idee e ideologie. In una tesina di approfondimento sull’uso del modello nell’opera di Paolo Soleri evidenzio il rapporto tra carica ideologica e costruzione di prototipi. Anche un plastico, un prototipo vettoriale o un fotomontaggio, a qualsiasi scala, possono essere un “manifesto”.

Entrambe queste patologie sono, in altri termini, il prodotto della dissociazione tra il sistema e gli attori sociali, tra l’universo tecnico-economico e la cultura, tra la razionalizzazione e la soggettività “Lo scenario globale sembra dunque essere caratterizzato da una duplice patologia: da un lato da un individualismo strumentale e illimitato, e dall’altro da un comunitarismo endogamico e distruttivo; o, in altri termini, da un lato da una sorta di assolutizzazione dell’Io, dall’altro da una assolutizzazione del Noi, che si presentano, per così dire come due facce di una stessa medaglia. […] Entrambe queste patologie sono, in altri termini, il prodotto della dissociazione tra il sistema e gli attori sociali, tra l’universo tecnico-economico e la cultura, tra la razionalizzazione e la soggettività” pp.110-111 “Il paradosso della responsabilità […] risiede proprio nel coniugare passività e unicità del soggetto, de-posizione e insostituibilità, desostanzializzazione e singolarità: paradosso che Lévinas efficacemente riassume nell’ossimoro che definisce la soggettività come “ostaggio insostituibile”.” p.244 (Elena Pulcini, “La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale”, Bollati Boringhieri, Torino 2009)

Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi. Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio, qualche segno

Fotomontaggio di Superstudio, “Un rito espiatorio”, da “Atti fondamentali per un’architettura di riti antropologici”, dove sono selezionate nella letteratura internazionale citazioni sulla città e sul comportamento dei suoi abitanti, accompagnate da fotomontaggi e storyboard. Vita, Educazione, Amore, Morte diventano i riti originali di un’architettura fatta di immagini radicalmente diverse da quelle convenzionali. La folla di indiani sulla spiaggia denominata “Maldesign” rappresenta gli iscritti ad una setta di Progettisti che una condanna dantesca costringe a essere rinchiusi in una torre bianca per ventuno anni, ognuno con il proprio oggetto.

“Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti: il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti… Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo. I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato. […] Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi. Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio, qualche segno”. (Georges Perec, “Specie di spazi”, Bollati Boringhieri, Torino, prima edizione 1989)

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Le parole di Rilke sono parte di una lirica ma lucidissima descrizione dell’uomo e del suo vivere inscindibilmente con gli altri e con il mondo. Sottolinea come lo sfondo di certi quadri dei 1300, che sostituisce gli sfondi dorati delle icone medievali con città e paesaggi, sono la base della vita umana nella collettività. E i nostri sfondi non sono altro che architettura. Il percorso soggettivo proposto alla scoperta di una possibile e

Fotomontaggi di Superstudio. Sopra: “Educazione” da “Atti fondamentali per un’architettura di riti antropologici”; pagina accanto “Gli uomini che vollero il deserto” da “Città ideali”. Qui sopra: “Città del libro”. Il racconto delle dodici città di Superstudio, pubblicate in Architectural Design e Casabella, si chiude con un epilogo scritto per dichiarare ai lettori che non vogliono essere le ennesime visioni utopiche di città future ma sono vere e proprie parabole tese ad educare gli uomini a riflettere sui reconditi meccanismi comportamentali che regolano la loro vita nelle metropoli contemporanee.

davvero creativa oggettività dell’architettura porta a riaffermare l’importanza del nostro contesto artificiale, alla luce di una messa in discussione che ne rafforza l’essenza e la forza creativa nella realtà degli esseri viventi e dei loro rapporti. Chi si pone in relazione con tutto questo in un ruolo attivo, l’architetto, riconosce la propria responsabilità. La sua possibilità di aver cura più di altri del mondo in cui vive, di “fare mondo”. Questo portfolio si propone come un manifesto per la cura in architettura. Occorre usare dei manifesti. Occorre attingere all’utopia, alla distopia, all’eterotopia senza scrupoli per poi scrupolosamente prendere una direzione, intuitivamente prima ma con una forte capacità analitica e sintetica poi. Il simbolo come l’ossessione intorno ad un’idea che crea forsennatamente un bozzolo e si fa farfalla. Il manifesto, retroattivo o propulsivo, per prendere una direzione, una posizione fissa che non è volontà coercitiva di ingabbiare la realtà ma è un nodo in cui fluiscono criticità e attrazioni magnetiche nuove tra i concetti. Anche se oggi la vera utipia sta nel saper guardare la realtà per come è e saper riconoscere le vere relazioni tra le cose. Se manca la dimensione di relazione non è più possibile dichiararsi e dichiarare, provando a mettere sulla carta un pensiero sullo spazio, per renderlo più forte.

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Non è questo lo spazio per indagare sul giusnaturalismo e approfondire questioni etiche ma possiamo affermare che nel riconoscimento della propria vulnerabilità e nella risposta all’altro il soggetto produce senso. Alla convocazione dell’altro, ci mostra Lèvinas, si può anche non rispondere, ma è solo nel rispondere che il soggetto istituisce la propria libertà, e soprattutto introduce un senso nel mondo. La vulnerabilità, insieme alla responsabilità, è dunque una risorsa etica poiché costituisce un’opportunità, “L’opportunità di comprendere come nessuno di noi sia totalmente delimitato, assolutamente separato, e come si sia invece tutti costitutivamente, epidermicamente, affidati gli uni agli altri, nelle mani gli uni degli altri, alla mercé gli uni degli altri” (Judith Butler, “Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo”, a cura di Olivia Guaraldo, Meltemi, Roma 2004).

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