Dante fra Enrico VII, Pisa e Cangrande

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ALIAS DOMENICA 19 GIUGNO 2016

«LA CONQUISTA DEL PARADISO» DI PAUL M. COBB, DA EINAUDI

COBB

Una storia del mondo arabo tra l’XI e il XV secolo, ripercorsa attingendo a importanti fonti originali, rivela come già allora il jihad fosse più una carta a disposizione della politica che un impegno morale

Tra Islam e Cristiani giochi di alleanze nonostante le Crociate di VERMONDO BRUGNATELLI

lllAll’epoca del feroce Saladino, quando Riccardo Cuor di Leone ottenne il permesso per i cristiani di circolare liberamente a Gerusalemme, i due eserciti – stabilita la tregua – «fraternizzarono, forse durante un banchetto». Lo si apprende, insieme a molti altri fatti d’arme, scenari geopolitici e aneddoti interessanti, dalla vivida descrizione di Paul M. Cobb nel suo volume La conquista del Paradiso Una storia islamica delle Crociate (traduzione di Chiara Veltri, Einaudi, pp. 367, e 32,00), che disegna un vasto panorama di storia del mondo arabo nel medioevo, prendendo in considerazione un buon mezzo millennio di storia, dall’XI° al XV° secolo. Per Cobb, che non si limita a tracciare una semplice «storia delle crociate», è importante partire dal contesto generale del confronto-scontro in atto per molti secoli tra il mondo islamico e quello cristiano, fin dalla prima espansione araba nel VII° secolo. Dopo la fase iniziale che vide un ampliamento quasi travolgente dei territori della «Casa dell’Islam», le conquiste musulmane presero a rallentare, a segnare il passo, e fu proprio intorno al mille che cominciò, su più fronti, una lenta ma sensibile «riconquista» delle posizioni perdute da parte del mondo cristiano, sia nella penisola iberica (al-Andalus), sia in Sicila, sia, infine, nelle regioni prossime all’Anatolia che un tempo era stata bizantina. Le «crociate» vere e proprie, dal punto di vista del mondo islamico, non furono che una fase di questa offensiva generale su più fronti da parte dei sovrani cristiani. È una storia molto dettagliata e basata su un saldo impianto di fonti di prima mano quella che l’autore tratteggia nei nove capitoli del suo lavoro, permettendo di apprendere un gran numero di informazioni sulle dinamiche interne al fronte musulmano che, lungi dal costituire un’entità compatta vedeva invece interagire numerosi attori, divisi per stirpe, lingua, fazione religiosa, alleanze politico-militari. Le conquiste e le perdite di territori, appaiono così inquadrate in una prospettiva ben più approfondita di quanto apparirebbe dalla sola elencazione delle battaglie e dei nomi dei guerrieri che vi parteciparono. Dal punto di vista etnico-linguistico, accanto agli arabi – ormai in netto declino, col tramonto del califfato iniziato ben prima del sacco di Baghdad del 1258 – compaiono sullo scacchiere popolazioni e dinastie turche di varia origine (selgiuchidi, turcomanni, kipcapi, ottomani), ma anche curdi, iranici, corasmi, georgiani, armeni, berberi, mongoli... Mentre dal punto di vista religioso si sovrapponeva il frazionamento tra sunnismo, sciismo, le diverse sette sciite, nonché

i cristiani di varia obbedienza. Lo sviluppo degli eventi era dettato principalmente da un gioco di alleanze che ben poco avevano a che vedere con una guerra di religione. Seguendo il filo della storia colpisce come fosse tutt’altro che raro il caso di alleanze tra cristiani e musulmani di una fazione contro i musulmani di un’altra. Così pure erano frequenti i cambi di fronte repentini, come quello del selgiuchide Ridwan di Aleppo che per qualche tempo fece invocare nelle moschee i nomi dei califfi fatimidi (sciiti), salvo poi tornare, dopo poche settimane, a invocare il nome del califfo abbaside (sunnita) e del suo sultano Barkiyaruq. Chi oggi non si capacita di come la diplomazia e le pressioni internazionali non riescano a venire a capo del ginepraio siriano potrebbe trarre da questo libro alcune lezioni interessanti su come, nel complesso, da secoli a questa parte, questi territori siano al centro di contese tra un incredibile numero di attori, piccoli e medi potentati locali, non di rado mossi da forze esterne alla regione. Anche allora, infatti, sullo sfondo agivano, come ispiratrici o a volte con interventi diretti, potenze ai margini della frontiera: non solo i cristiani d’Europa, Bizantini o Franchi, ma anche, per esempio, la terribile setta sciita dei nizariti (i famosi «assassini»), che agivano in Siria e in Mesopotamia, ricevendo direttive dalla fortezza iranica di Alamut, o l’impero mongolo, entrato di prepotenza nella regione e fermato solo dai mamelucchi di Baybars. Paul M. Cobb non si limita ai dati evenemenziali delle guerre e delle paci, ma indaga e espone con chiarezza anche i molti aspetti economici e commerciali che sottostavano alle politiche dei vari gover-

nanti, obbedienti soprattutto a queste logiche, facendo uso della giustificazione religiosa solo saltuariamente e perlopiù in chiave opportunistica, quando occorreva rinsaldare le proprie forze con alleanze altrimenti labili o problematiche; ma avendo sempre presente l’opportunità di mantenere per quanto possibile rapporti di buon vicinato con tutti, indipendentemente dalla fede religiosa dei governanti. Già allora il jihad era più una carta a disposizione della politica che un reale impegno morale. Dei tre grandi condottieri passati alla storia per avere fermato e respinto i regni crociati, Nur ad-Din, Saladino e Baybars, il secondo è forse il più noto per aver legato la sua fama alla guerra ai cristiani, ma dalla ricostruzione di Cobb si ricava come la maggior parte del suo sforzo bellico sia stata profusa nel combattere rivali del campo islamico, e come il suo jihad contro i cristiani sia stato più che altro frutto di un tentativo di rifarsi un’immagine di buon governante musulmano dopo le spietate campagne fratricide con cui si era assicurato il potere. Lo stile del racconto di Cobb invoglia il lettore a seguire con interesse le vicende che descrive, nonostante non sia sempre facile districarsi nella loro complessità. Appartiene a questo stile anche il ricorso a alcune allusioni che, pensate per un pubblico di cultura anglofona, possono risultare poco perspicue per il lettore italiano. Per esempio, parlando degli eventi del 1066 nel corso della conquista normanna della Sicilia, l’autore lascia cadere, di passaggio «mentre i familiari di Ruggero e Roberto in Normandia erano occupati ad invadere un altro regno insulare...»: per quanto scolpita nelle menti di qualunque

scolaro del mondo anglosassone, la battaglia di Hastings che sanzionò la conquista normanna dell’Inghilterra a opera di Guglielmo il Conquistatore è una nozione decisamente meno presente a quelli del nostro paese. Alla traduzione, nel complesso molto buona, nuocciono purtroppo un certo numero di scivoloni, malapropismi e rese poco felici del senso originale, che sono statisticamente quasi inevitabili in un lavoro di tale mole, ma quando compaiono, qua e là, possono rendere problematica la comprensione. Il lettore si domanderà, ad esempio per quale motivo gli Almoravidi, in

Miniatura ottomana della battaglia di Nicopoli, XVI secolo, Museo Topkapi, Istanbul

FILOLOGIA n OPERE LATINE MINORI E UN LIBRO DI STUDI

Dante fra Enrico VII, Pisa e Cangrande di PAOLO PELLEGRINI

lllDante si è fermato a Pisa. E non per poco tempo. Questo è il teorema portante che regge il recente e ricco volume a più voci dedicato a Enrico VII, Dante e Pisa uscito per le cure di Giuseppe Petralia e Marco Santagata (Angelo Longo editore, pp. 520, 56 ill., e 45.00). E sarebbe novità non di piccolo rilievo nella biografia del poeta che mai ha annoverato Pisa tra le tappe del suo lungo peregrinare, neppure tra le più brevi. A questo punto, ognuno di noi

farà appello alla propria memoria scolastica recuperando la celeberrima apostrofe di Inferno XXXIII «Ahi Pisa, vituperio de le genti» con quanto segue, e si chiederà come sia possibile che Dante si rifugiasse proprio là dove aveva destinato alcuni dei suoi versi più duri. Ebbene, Santagata spiega con dovizia di particolari come tutta la biografia del poeta appaia costellata da incoerenze morali e ideologiche che lo vedranno transitare senza battere ciglio dall’uno all’altro schieramento politico (dai guelfi bianchi ai guelfi neri fino al partito

arabo al-Murâbitûn, avrebbero dovuto chiamarsi «trattatevi con pazienza tra di voi», mentre il senso del termine, reso in inglese con «those who fight together», è «coloro che combattono strettamente uniti». Un merito notevole del libro, rivendicato con fierezza dall’autore, è l’ampio ricorso alle fonti arabe, spesso ignorate dagli storici occidentali o conosciute solo tramite traduzioni invecchiate e non sempre affidabili. Da questo punto di vista, giova ricordare che il pubblico italiano gode di un enorme vantaggio avendo a disposizione, fin dagli anni cinquanta, eccellenti traduzioni di numerosi fonti islamiche sulle crociate da parte di un arabista della statura di Francesco Gabrieli. Il suo volume Storici arabi delle Crociate è un classico, tuttora reperibile grazie a continue ristampe, e la sua lettura arricchirebbe, con la vivacità delle descrizioni di prima mano degli au-

imperiale), senza curarsi troppo di conservare quella patente di coerenza che è giunta fino a noi bella e confezionata da una troppo benevola storiografia dantesca di marca risorgimentale. Dante si trovò spessissimo a «frequentare persone, per non dire a dipendere da loro, che aveva gravemente insultato nei suoi scritti», dal nobile genovese Branca Doria sino al più noto Cangrande della Scala «per il quale nel Paradiso scriverà il più smaccato encomio cortigiano che sia uscito dalla sua penna». E di servitù in servitù, quando udì della calata in Italia del novello imperatore Enrico VII (1310) eccolo farsi conquistare dal nuovo miraggio di un governo universale che tutto e tutti avrebbe pacificato. Questo se solo l’Imperatore fosse riuscito a vincere l’ostilità perniciosa del pontefice Clemente V, che già manifestava i primi segni di irrequietezza nei riguardi del troppo ingombrante coinquilino, e della riottosa Firenze guelfa, che con tutti i suoi fiorini non solo assoldava milizie per opporsi all’esercito imperiale, ma anche fomentava la ribellione delle città

tori arabi, molti dettagli del panorama tracciato con precisione accademica dall’autore statunitense. «I lettori moderni potrebbero trarre altre lezioni da una storia islamica delle crociate»: questa affermazione racchiusa nell’ «epilogo» del libro non è una frase di circostanza. La sua lettura infatti, oltre a far conoscere le vicende passate di queste terre martoriate, permette di scoprire come le stesse vicende venivano vissute dagli appartenenti ai due campi rivali, e consente di meditare sulle sconcertanti analogie che molti fatti di allora presentano con la cronaca odierna, individuando alcune costanti tuttora presenti nella realtà geopolitica e nella mentalità generale. Molti schemi e preconcetti diffusi presso chi ignora questa storia si ridimensionerebbero o sparirebbero. Historia magistra vitae dicevano gli antichi. Forse non avevano tutti i torti.

del Nord Italia. Quale momento più propizio, allora, per la stesura della Monarchia, trattato che prendeva le difese dei diritti dell’Impero e ne fustigava gli oppositori, e che Diego Quaglioni («La “Monarchia”, l’ideologia imperiale e la cancelleria di Enrico VII») vuole ora composto all’ombra del mantello di Enrico, forse proprio col supporto e la consulenza dei giuristi imperiali. Parrebbe filare tutto liscio, sennonché la Monarchia contiene un antipatico inciso (I, XII, 6) che fa riferimento al canto V del Paradiso, questo sì certamente composto non prima del 1317. E quell’inciso, ogni volta che si lo vuol cacciar fuori dalla porta rientra dalla finestra, perché recenti e recentissimi contributi confermano che esso compare in quasi tutti i testimoni manoscritti del trattato e deve pertanto esser considerato parte integrante e genuina del testo. Col che viene a crollare buona parte dell’edificio in riva all’Arno. Ma se Dante non fu a Pisa dove si trovava in quegli anni? I venerandi biografi alla Giorgio Petrocchi lo portano

ALIAS DOMENICA 19 GIUGNO 2016

«LA GRANDE GUERRA NEL MEDIO ORIENTE» DI EUGENE ROGAN, DA BOMPIANI

ROGAN Ottomani sul viale del tramonto di FRANCESCO BENIGNO

lll13 novembre 1919, quarantadue navi da guerra britanniche, francesi, italiane e greche risalirono gli stretti dei Dardanelli dirette a Istanbul e ormeggiarono proprio davanti al nuovo palazzo reale, il Dolmabhaçe Palace, che domina le acque del Bosforo. La Sublime Porta aveva ormai perduto la guerra, Istanbul era conquistata e con questo evento epocale, cui sarebbe seguita la rivolta nazionalista repubblicana di Mustafa Kemal e la nascita della Turchia moderna, si chiusero sei secoli di storia ottomana, il più grande impero islamico al mondo. Si può ben dire che tutto ebbe inizio da lì, come ci racconta Eugene Rogan, in La grande guerra nel medio oriente La caduta degli Ottomani 1914/1920 (Bompiani, pp. XXVIII-746, e 25,00). La lezione di questo libro – scritto da un docente di Oxford in modo godibile e accattivante, come spesso accade con gli studiosi inglesi – è che la prima guerra mondiale ebbe un ruolo decisivo nel ridefinire in modo duraturo i confini (e i problemi) dell’area mediorientale; il quadro geopolitico allora disegnato avrebbe esibito, insomma, una straordinaria resilienza. Certo, nessuna delle battaglie combattute in quella parte del mondo ebbe la portata, tragicamente grandiosa, di quelle che segnarono la tormentata vicenda del fronte occidentale: La Marna, Verdun, la Somme, Caporetto. Ma tutto sommato, a cent’anni di distanza, i popoli europei che allora si combatterono con tutta la violenza resa possibile da nuove micidiali armi di distruzioni di massa, dagli obici alle mitragliatrici, adesso convivono pacificamente nell’Unione europea; in Medio Oriente, invece, le questioni politiche emerse nel quinquennio bellico si direbbero eternate. È in quegli anni che emerse – di fronte al nazionalismo rampante dell’élite al potere a Istanbul, il gruppo dei cosiddetti «giovani turchi» – la questione curda; e, soprattutto, è in quegli anni, che maturò il genocidio armeno. Di fronte all’atteggiamento aggressivo della Russia, che trovava sponda nella comunità ar-

mena, il governo turco ne decise la deportazione in massa; a differenza di altre minoranze epurate, come quella greca, gli Armeni non avevano però una terra promessa in cui andare o da cui tornare: furono quasi interamente sterminati.

Tutto si può vedere, in una prospettiva generale, partendo dalla questione, così decisiva nel nostro tempo, dell’uso politico della religione e dei processi di radicalizzazione islamica. Una delle ragioni fondamentali che spinsero la Germania a

chiedere con forza (e poi a ottenere) l’intervento ottomano nella guerra fu la speranza che la Porta potesse guidare la sollevazione islamica contro i propri avversari, e soprattutto contro i britannici in Egitto. A questo fine il barone Max von Op-

Lo storico oxoniano ricostruisce i moventi che portarono la Sublime Porta alla guerra ’14-’20 e le ricadute sugli assetti del Medio Oriente

a Verona forse già nel 1312, e a Verona dovette fermarsi un bel pezzo, almeno fino al 1319, se non oltre. Il che renderebbe lo «smaccato encomio cortigiano» di Cangrande pronunciato nel XVII del Paradiso un po’ più coerente con i dati biografici i nostro possesso. A rinforzare quella che dovette essere invece una solida e sincera amicizia giunge ora la recentissima e pregevole edizione delle opere latine minori di Dante (Epistole, Egloge, Questio de aqua et terra, testo italiano a

fronte, Salerno editrice, pp. LXXXIV-840, e 59,00). Fra i tanti e sinceramente encomiabili sforzi degli editori, si segnala in prima battuta la nuova proposta testuale dell’Epistola XIII a Cangrande della Scala, che il curatore Luca Azzetta correda di una equilibrata e puntuale introduzione, rendendo conto in modo lucido e sintetico di tutte le ipotesi in campo (autenticità integrale dell’Epistola; autenticità dei soli primi 13 paragrafi; totale falsità). Ne emerge una ricostruzione assolutamente

convincente che si pronuncia, a mio avviso una volta per tutte, a favore della totale autenticità del documento, lo data in modo persuasivo all’ultima fase di vita del poeta, ne mette in evidenza le stringenti connessioni intratestuali e lo valuta alla luce del solido legame amicale che dovette caratterizzare, in questa fase, il rapporto tra Dante e il signore di Verona nonché vicario imperiale. Ma, ed è questo un ulteriore e importante elemento di novità, quella lettera non fu mai spedita: la natura del testo, ancora provvisoria, denuncia il fatto che Dante non la sottopose a revisione; la tradizione manoscritta, tutta toscana, esclude che vi sia mai stata una circolazione del testo in area veneta, insomma che essa abbia mai fatto ingresso nella cancelleria di Cangrande, come non vi fecero ingresso i canti finali della Commedia. Quando Dante lasciò la città per trasferirsi nell’ultimo rifugio di Ravenna è dato che si desume dalla composizione della Questio de aqua et terra e delle notevolissime Egloge latine. La Questio fu pronunziata da Dante a Verona il 20

penheim, grande conoscitore del Medio oriente e scelto personalmente dal Kaiser Guglielmo II, istituì a Berlino nell’agosto del 1914 un ufficio di propaganda panislamica allo scopo di usare il Jihad per istigare rivolte contro gli infedeli. Il sultano di Istanbul, il più importante capo politico islamico, era infatti anche la guida spirituale della religione islamica, il califfo. Le prove generali dell’uso politico del Jihad erano già state fatte, con buoni risultati, qualche anno prima, nel 1911, in Libia, contro gli invasori italiani. I «giovani turchi» al potere a Istanbul avevano tentato di organizzare la resistenza anti-italiana facendo perno sulla Jihad lanciata dalla confraternita religiosa dei Sanussi, un ordine mistico musulmano transnazionale. E ancora, di fronte all’invasione britannica della Mesopotamia (l’attuale Iraq) e alle difficoltà di convivenza con la popolazione sciita, il governo ottomano fece svolgere atti pubblici di reverenza verso la memoria di Alì, il quarto califfo e padre spirituale del movimento sciita: addirittura, nel 1915, mentre gli inglesi muovevano verso Baghdad, veniva inviata da Istanbul, scortata da un drappello di cavalleggeri e quasi fosse un’arma segreta, la bandiera di Alì, una reliquia venerata e dotata di grande appeal tra la popolazione sciita. È in questo contesto che si spiega la scelta britannica di giocare, in funzione anti-ottomana, la carta della rivolta delle popolazioni arabe riottose al dominio turco. E fu questo lo scenario in cui precipitò l’azione militare e diplomatica, circonfusa della nota aurea mitica, di Thomas Edward Lawrence, il famoso «Lawrence d’Arabia», uomo dell’intelligence, grande conoscito-

gennaio 1320, di ritorno da Mantova dove si era forse recato per una ambasceria presso i Bonacolsi, alleati di Cangrande. Se così fosse, pare difficile allontanare il poeta dall’Adige prima di questa data. A loro volta le Egloge, qui offerte in un nuovo ed eccellente testo critico per cura di Marco Petoletti, mossero da una prima epistola metrica che il dotto bolognese Giovanni del Virgilio inviò a Dante da Bologna, dopo averlo incontrato a Ravenna ai primi del ’20. Dante rispose con un’egloga virgiliana e resuscitò così – geniale anche in questa circostanza – un genere letterario rimasto sepolto per secoli durante il Medioevo. La metrica di Giovanni riferisce di avvenimenti che si collocano verso la fine del 1319; anzi, a essere precisi pare di poter scendere fino al giugno del 1320. Fatto il paio con la data della Questio, l’ipotesi più economica è che Dante sia rimasto a Verona fino ai primi mesi del 1320: la forbice dell’ultimo rifugio ravvenate si riduce drasticamente, il che sarebbe un altro elemento di non piccola novità nella biografia documentaria del poeta.

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Truppe di occupazione britannica a Costantinopoli, gennaio 1919; in basso, Tino di Camaino, Monumento sepolcrale di Arrigo VII di Lussemburgo, primo quarto XIV secolo, Pisa, S. Maria Assunta

re del Medio oriente, inviato a organizzare la guerriglia araba. Convincere i leader arabi ad abbandonare la fedeltà alla Porta, aveva come controparte la garanzia di importanti concessioni territoriali nella divisione futura delle spoglie ottomane. Il protocollo di Damasco, firmato dai principali leader arabi, fissava la richiesta di uno stato arabo indipendente nei territori ex-ottomani a cavallo tra Asia ed Africa, includente la Grande Siria (e cioè l’attuale Siria più il Libano e la Palestina), l’Arabia e la Mesopotamia. Nel 1915, in una fase difficile della guerra e di fronte alle complicazioni emerse con la disastrosa campagna di Gallipoli, il governo britannico largheggiò in promesse, come testimonia la corrispondenza tra sir Henry McMahon, luogotenente britannico in Egitto, e l’emiro Sharif Husayn, che governava una parte dell’attuale Arabia Saudita, lo Hayaz, ed era stato scelto come leader dell’insurrezione. Rivolta araba contro Jiahd islamica, dunque: sicché i campi di raccolta dei prigionieri di guerra erano anche, da una parte e dall’altra, dei centri di reclutamento per volontari. I tedeschi, in particolare, avevano allestito vicino a Berlino un campo di internamento chiamato Halbmondlager, il campo della mezzaluna, dedicato ai prigionieri di guerra musulmani. Lì i prigionieri venivano trattati bene, e c’era anche una moschea frequentata da attivisti islamici, al soldo del governo tedesco, incaricati di raccogliere volontari. Lo stesso avveniva sul fronte alleato dove Francesi e Inglesi cercavano di arruolare prigionieri affascinati dall’eco straordinario della rivolta araba. Questi volontari entravano a far parte di eserciti estremamente compositi, costruiti mediante quella che Rogan definisce una chiamata globale alle armi: nel conflitto in Medio oriente si trovavano infatti, oltre a combattenti di molti paesi europei e ai contingenti mediorientali, truppe provenienti da ogni angolo del mondo: gurka e maori, soldati venuti dai possessi coloniali africani (Senegal, Guinea, Sudan, Maghreb) e dall’estremo Oriente (indiani, Pakistani, Australiani, Neozelandesi). Una vera Torre di babele che conferisce senso pieno all’aggettivo «mondiale» assegnato a quella guerra. Con la continuazione del conflitto, però, contrariamente alle promesse fatte agli arabi, emersero le reali intenzioni inglesi in merito alle zone d’influenza in medio oriente, rese evidenti dal patto Sykes-Picot, stilato nel 1916 e presto divenuto pubblico: esso prevedeva il riconoscimento alla Francia della Siria, il mantenimento sotto controllo britannico della Mesopotamia, e i ricchi giacimenti petroliferi di quella zona; e la disponibilità alla creazione di uno stato ebraico in Palestina (come affermato dalla dichiarazione Balfour diffusa nel novembre 1917), atto fondato sulla convinzione dell’importanza dell’appoggio del movimento sionista sul prosieguo della guerra. A queste scelte, destinate, e non a torto, a rianimare lo stereotipo della Perfida Albione, si può aggiungere la posizione pilatesca assunta nella lotta infra-araba, che avrebbe visto negli anni seguenti il dominio dell’alleato Sharif Husayn minacciato e poi travolto dall’ascesa di un’altra creatura occidentale, quell’Ibn Saud che dai suoi territori dell’Arabia centrale puntava alla riunificazione della penisola. La sconfitta della dinastia Hashemita (rimasta al potere oggi solo sul trono giordano) e l’ascesa di quella Saudita, portarono come conseguenza lo stabilirsi nel cuore dei luoghi sacri musulmani (Medina, La Mecca) di quella variante fondamentalista della dottrina islamica nota come il Wahabismo: anche questa un’eredità, tra le tante, di quell’evento davvero cruciale che fu la caduta dell’impero Ottomano.

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