De pondo vocis populi

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DE PONDO VOCIS POPULI

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- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Tesi magistrale in storia romana di età arcaiaca e repubblicana

– DE PONDO VOCIS POPULI – - Studio dei processi di rappresentanza popolare nella Roma arcaica e repubblicana Dalle origini al terzo secolo avanti Cristo

Christiaan Vermorken Matricola 0000443018

Università di Bologna Professore G. Brizzi - relatore Professore G. Giorgini – corelatore

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Ch. VERMORKEN

Indice

I.

Introduzione.....................................................................................................................5

II.

Problematica e metodologia......................................................................................8

III.

Osservazioni introduttive sull’oligarchia............................................................11 1. Introduzione....................................................................................................11 2. Le teorie sull’oligarchia fino ad oggi.............................................................12 3. Oligarchi ed oligarchia...................................................................................17 4. Le basi materiali del potere............................................................................21 5. Ultime considerazioni.....................................................................................24

IV.

L’origine delle istituzioni sociali e politiche romane.......................................31 1. Le origini della città di Roma : terra e popoli..............................................31 A. L’Italia dell’era arcaica...........................................................................31 B. I popoli dell’Italia arcaica.......................................................................35 C. Gli Etruschi.............................................................................................37 D. I Greci.....................................................................................................43

2. Lazio e Roma fino alla fine dell’età monarchica..........................................47 A. Lazio.......................................................................................................47 B. Roma.......................................................................................................52 C. La dinastia etrusca..................................................................................57

3. I corpi dei cittadini dalle sue origini alla Repubblica..................................68 A. L’organizzazione gentilizia.....................................................................68 B. I clan e la cittadinanza............................................................................72 C. Il patriziato..............................................................................................76 D. Patres et conscripti, populus plebique....................................................82

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V.

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La voce del popolo dalla monarchia alla fine del conflitto degli ordini....94 1. La costituzione romana fino allo stabilimento della Repubblica................94 A. Osservazioni a margine...........................................................................94 B. La cittadinanza curiata............................................................................98 C. La costituzione della monarchia etrusca...............................................103

2. Le assemblee del popolo nell’organizzazione curiata................................110 A. Comitia curiata...................................................................................110 B. Comitia calata....................................................................................117 C. Emergere dell’organizzazione curiata................................................118

3. La costituzione della Repubblica romana...................................................124 A. Emergere del regime repubblicano.....................................................124 B. Emergere della plebe..........................................................................131

4. Le assemblee del popolo nell’organizzazione centuriata...........................136 A. Comitia centuriata..............................................................................136 B. Comitia tributa e concilium plebis.....................................................147 C. Evoluzione delle assemblee tra il V e il II secolo..............................149

5. Il conflitto degli ordini e il consolidamento della Repubblica...................152 A. B. C. D. E.

Osservazioni introduttive sulla natura del conflitto degli ordini........152 Fase I : dalla prima secessione alle Dodici Tavole............................157 Fase II : il consolidamento dell’ordine plebeo...................................167 Fase III : L’apertura delle cariche magistrali alla plebe.....................175 Schema della costituzione repubblicana del II secolo........................188

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VI.

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Analisi lessicometrica delle fonti principali......................................................189 1. Metodologia..................................................................................................189 2.

Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso : opera e contesto..............................194

3. Ipotesi e preparazione del corpus...............................................................199

4. Analisilessicometrica....................................................................................202 A. B. C. D. E.

Le 30 prime forme piene del corpus....................................................205 I segmenti ripetuti nell’Ab urbe condita di Tito Livio.......................206 I segmenti ripetuti nelle Antichità Romane di Dionigi d’Alicarnasso.........207 Analisi fattoriale delle corrispondenze................................................210 Sepcificità positive e negative.............................................................213

5. Conclusioni....................................................................................................216 6. Allegati..........................................................................................................218

VII.

Conclusioni...................................................................................................................221

VIII.

Bibliografia..................................................................................................................228

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I.

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Introduzione

Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi ea memoria rerum veterum cum superiorum aetate contexitur?

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« Non sapere quanto è avvenuto prima della propria nascita, significa restare per sempre bambini. Che cosa infatti può significare l’epoca di un uomo se non è intrecciata con il ricordo dei fatti antichi di un’epoca superiore ? »2.

Queste parole, che Cicerone pronunciò nel 46 a.C., rendono evidente una realtà profonda che determina tanto la nostra percezione del presente quanto la nostra visione del futuro: è indispensabile intrecciare lo studio delle condizioni attuali con lo studio delle condizioni storiche al fine di raggiungere una comprensione completa delle prime. Vi sono evidentemente innumerevoli differenze tra la civiltà europea del ventunesimo secolo e la civiltà del mondo romano del primo secolo. Le differenze più ovvie che saltano all’occhio non devono tuttavia distogliere lo sguardo dai numerosi punti in comune. Il diritto romano resta il nucleo del diritto privato in moltissimi Paesi del mondo e i fondamenti giuridici dello Stato tali come sviluppati dai Romani costituirono le fondamenta indispensabili alla costituzione dell’edificio dello stato moderno attraverso gli ultimi cinque secoli di storia. Proprio come un gran numero di principi giuridici alla base dell diritto pubblico e privato degli stati occidentali sono stati sviluppati dai giuristi del medioevo – tra i quali quelli di Bologna erano i primi ed anche i più illustri – il diritto svillupato nel medioevo fu erede a sua volta di tantissimi principi giuridici risalenti ai iurisconsultes del mondo romano.

1 2

Cic.ad M. Brutum, XXXIV, 120; http://www.thelatinlibrary.com/cicero/orator.shtml#120 Traduzione personale

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È impossibile creare un indice esaustivo dei contributi romani alla nostra attuale civiltà. È invece possibile – e, secondo Cicerone, indispensabile – riferirsi al passato per analizzare il presente. È in questo modo possibile provare a identificare l’evoluzione delle istituzioni romane e portare alla luce del sole le relazioni di potere tra le classi dominanti e le classi inferiori e ritracciare l’evoluzione giuridica del diritto privato e pubblico. L’obiettivo principale di questo studio è dunque di effettuare un’analisi del sistema di rappresentanza popolare romana al fine di poter chiarire la nostra comprensione della realtà attuale alla luce delle esperienze dei nostri antenati- spirituali quantomeno- dell’antichità romana. La struttura di governo romana è largamente conosciuta; tutti sanno più o meno di cosa si sta parlando quando ci si riferisce ai consoli, ai pretori, ai tribuni della plebe, al Senato, alle assemblee popolari e così via. Sono davvero in pochi invece a sapere che questa struttura-tipo delle istituzioni della Repubblica romana si applica propriamente solamente ai due ultimi secoli e mezzo della storia repubblicana e che le funzioni di console e pretore corrispondono alla definizione classica solo a partire dal 367-366 a.c.3, per non parlare dell’esatto significato della dicotomia classica che oppone la plebe al patriziato. La struttura costitutiva romana è il frutto di una lunga e lenta evoluzione che attraversa più di quattro secoli della sua storia.4 ; un’evoluzione che continua anche dopo la stabilizzazione delle istituzioni repubblicane in seguito alla fine del conflitto degli ordini nel 287 a. C.5 Il potere dei tribuni vedrà allo stesso modo una notevole evoluzione tra la sua istituzione – secondo la tradizione nell’anno 494 (vedi infra) – e l’instaurazione del Principato nell’anno ventisette. Lo sviluppo del tribunato della plebe è una nozione funzionale alla comprensione

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B. NICHOLAS (dir.), E. METZGER, An Introduction to Roman Law, Oxford University Press, 1975, p.4 Se si prende come punto di partenza la data canonica del753 a.c.; bisogna comunque tenere in conto che si tratta di una stabilità relativa in seguito ad un’evoluzione che non dovrebbe indurci a parlare nè di inizio nè di fine, essendo la struttura dello Stato in costante evoluzione e superando per forza di cose il quadro temporale studiato. 5 La data tradizionale della fine del celebre “Conflitto degli Ordini” è l’anno 287, quando fu promulgata la Lex Hortensia, legge che abolì le ultime tracce del controllo del Senato sulle norme votata nell’assemblea plebea, accordando così al consiglio della plebe una posizione di sovranità alla pari con l’assemblea centuriata. Plin. Hist. Nat. XVIII.3; T. MOMMSEN, Römische Geschichte, 1856, Buch II, p. 240. ,Project Gutenberg, 2005 4

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delle modifiche costituzionali che portarono alla creazione di un potere legislativo plebiscitario autonomo al di là di ogni controllo senatoriale e perfino patrizio. Lo stato romano ebbe una struttura molto più fluida nei primi cinque secoli della sua storia di quanto potrebbe far pensare il racconto tradizionale di Tito Livio o di Dionigi d’Alicarnasso. Uno dei problemi principali di tali fonti è che a volte danno una visione anacronistica del primo periodo della storia sociale e istituzionale della città in quanto hanno tendenza a proiettare le realtà sociali e politiche della tarda repubblica sulla narrazione della Repubblica nascente. In tal modo questi autori commisero costantemente l’errore di fare della plebe un sinonimo del proletariato e del patriziato un sinonimo dell’alta nobiltà privilegiata con tutte le conseguenze di natura sociale ed economica che ne derivano, benché questa realtà non fosse in alcun modo applicabile agli inizi dell’era repubblicana.6 La tradizione ci dà l’impressione che la Repubblica sia uscita dalle ombre dell’epoca monarchica dotata di una struttura costitutiva essenzialmente identica a quella che si ritrova tre secoli più tardi– eccezion fatta per qualche nuova magistratura di cui si ripercorre la supposta origine- benché ancora una volta si trattasse di strutture sociali e politiche diverse da quelle dei due ultimi secoli dell’era repubblicana. L’evoluzione costitutiva romana di questi secoli non si limita all’elencazione di nuove funzioni create per piegare la crescente opposizione di una plebe privata della sua funzione davanti ad un’aristocrazia esclusivista e gelosa del suo potere né alle proteste della plebe per la ridistribuzione delle terre pubbliche davanti all’opposizione del patriziato senatoriale latifondista. Tali elementi furono di certo presenti, tra gli altri, nella lunga evoluzione che ebbe luogo tra la fondazione della Repubblica e la fine del conflitto degli ordini, ma non furono certamente le sole forze ad alimentarla. I conflitti sociali, politici ed economici dei primi secoli della Repubblica furono di tutt’altra natura di una semplice lotta tra l’aristocrazia e la plebe dell’era di Gracco che Tito Livio e

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M.-A. LEVI, Le gentes a Roma e le XII Tavole, Dialogues d’histoire ancienne (DHA), 21.1, 1995, pp. 131-132

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Dionigi d’Alicarnasso hanno tendenza a proiettare sulla narrazione anteriore. È per queste ragioni che soltanto una vista globale dell’interezza dei cambiamenti sociali, politici, economici, religiosi e giuridici di questa lunga evoluzione permetterà di analizzare in maniera utile le strutture socio-politiche di una società lontana dalla nostra quanto quella della Repubblica romana.

II.

Problematica e metodologia

Oggetto di tale studio è l’analisi comparata di un aspetto primordiale tanto nella struttura costitutiva e sociale romana che in quella belga: ovvero il peso della voce del popolo nella gestione della res publica attraverso dei procedimenti di partecipazione popolare. Lo studio dell’evoluzione delle istituzioni romane presenta una serie di difficoltà particolari in ragione del carattere oscuro dell’origine di un gran numero d’istituzioni romane. Le grandi incertezze che caratterizzano fino ai giorni nostri lo studio dell’epoca arcaica della città di Roma, portano a escludere delle risposte definitive su un certo numero d’interrogativi legati alle origini delle sue strutture sociali e politiche. Sfortunatamente, le fonti principali di cui si dispone in materia non sono gli annalisti Fabius Pictor, Cincius Alimentus o Catone il censore – autori del terzo secolo a.C. dei quali la gran parte delle opere non ci è pervenuta – ma Diodorus Siculus, Dionigi d’Alicarnasso e Tito-Livio, autori della fine del primo secolo a.C. i cui scritti risalgono dunque a più di sette secoli dopo la data tradizionale di fondazione dell’urbe nel 753. Il corpus delle opere di questi autori, integrato da ciò che ci è pervenuto attraverso alcuni testi di oratori, di poeti e di storici dell’antichità, costituisce una fonte relativamente abbondante e ricca di dettagli su numerosi soggetti riguardanti la nostra analisi.

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Il problema non risiede nel volume delle fonti scritte ma nella mancanza di affidabilità del loro contenuto.7 Poiché la tradizione letteraria riguardante l’epoca arcaica di cui si dispone oggi fu scritta solo alla fine del primo secolo a.C., una certa quantità di dettagli che ci offrono i loro autori sono senza dubbio aggiunte o abbellimenti.8 Tuttavia, i discorsi fittizi e i dettagli aneddotici aggiunti a questi racconti non inficiano i loro fondamenti reali. Al pari di Cornell 9, siamo dell’idea che ci siano stati dei limiti a ciò che gli storici e annalisti poterono e non poterono aggiungere alla narrazione storica. Era tradizione riempire le lacune della tradizione attraverso dettagli nati dall’immaginazione del loro autore; non era tuttavia né comune, né permesso aggiungere fatti del tutto inesistenti che avessero per effetto di modificare un punto importante della tradizione storica qual era nell’immaginario collettivo romano. Il passato giocò un ruolo a Roma che non è facile da comprendere al giorno d’oggi. La società romana fu estremamente conservatrice e l’esperienza accumulata delle epoche passate costituì un corpus di usanze ataviche – il mos majorum – che fu la base giuridica sulla quale veniva giudicata ogni azione morale e politica.10 Inoltre, le famiglie più influenti della città giustificarono invariabilmente la loro ascendenza attraverso i successi politici e militari dei loro antenati, facendo della storia un’importante fonte di legittimazione sociale nelle mani delle classi dominanti. È quasi del tutto escluso in tali circostanze che delle narrazioni storiche interamente fittizie siano potute essere accettate dai loro lettori ovvero dagli storici delle generazioni successive. Anche se una sovrastruttura parzialmente immaginaria fu aggiunta alla tradizione da Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso, questi avevano innegabilmente a loro disposizione un gran numero di fonti di cui noi siamo totalmente privi. Così, essi disposero 7

T. J. CORNELL, The Value of the Literary Tradition Concerning Archaic Rome, pp.1-5, dans K. A. RAAFLAUB (dir.), Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 47 8 T. J. CORNELL, The Value of the Literary Tradition Concerning Archaic Rome, p.3, dans K. A. RAAFLAUB (dir.), Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 50 9 Ibid., p.48 10 Ibid, p.50

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non solamente di fonti di tipo giuridico ed epigrafico, ma anche degli Annales Maximi (una cronaca arcaica degli avvenimenti storici stabilita dal Pontifex Maximus, dei quali in fin dei conti conosciamo solo pochi dettagli.11), i fasti (le liste che stabilirono i giorni fasti e posero in essere i consolati e i trionfi), per non parlare delle opere annalistiche di Q. Fabius Pictor, Catone il Censore e L. Calpurnius Piso Frugi, fonti di cui ci è pervenuta solo una minima parte. In breve, sarebbe tanto sbagliato prendere una posizione ipercritica sulla tradizione quanto prenderla alla lettera; poiché il rigore scientifico impone una visione sfumata nella quale la veridicità degli avvenimenti principali deve essere accettata nel momento in cui questi sono confermati da fonti indipendenti e scientificamente valide. La tradizione deve dunque sistematicamente essere rimessa in discussione e analizzata alla luce dei reperti archeologici e di ogni altra fonte di cui si dispone. Così facendo, diventa possibile analizzare l’origine delle istituzioni romane con una certa precisione e senza cadere nella piaga dell’astoricità.

La grande complessità della società romana e l’assoluta necessità di comprenderne le origini, se si spera di ottenere una visione chiara e comprensibile delle sue strutture rappresentative, rendono inevitabile uno studio approfondito di almeno certi aspetti più storici che giuridici. Trattandosi di una civiltà separata dalla nostra epoca da più di venti secoli di storia, è doverosa una certa attenzione al dettaglio al fine di permettere al lettore di comprendere non soltanto le strutture rappresentative romane in termini astratti, ma anche di comprendere il loro funzionamento pratico oltre che la mentalità dei diversi gruppi in seno al loro elettorato. Inizieremo perciò con una spiegazione sommaria dell’origine dello stato romano, della sua struttura sociale e politica e delle mutazioni sociali che determinarono il suo sviluppo istituzionale a partire dalla sua nascita fino al costituirsi della Repubblica.

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Ibid. p.50

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III.

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Osservazioni introduttive sull’oligarchia

1. Introduzione

Questo studio è principalmente un’analisi del sistema costituzionale romano come si presentava durante l’era arcaica e l’inizio dell’era repubblicana. Più in particolare, ci siamo proposti di analizzare le tendenze politiche dell’aristocrazia patrizia e le origini del carattere oligarchico dello Stato romano. A tal fine è necessario non soltanto studiare il sistema politico e costituzionale delle origini della civitas romana ma anche di analizzare le varie strutture di potere messe in piedi dalla sua classe dirigente al fine di assicurarsi l’ascendenza politica, economica e militare. Il primo interrogativo che bisogna perciò porsi, riguarda il tipo di sistema politico forgiato dalla classe dirigente romana alle sue origini, e in quale momento si può affermare che questo sia diventato indubitabilmente oligarchico. Prima di tutto è comunque indispensabile definire chiaramente che cosa sia un’oligarchia e quali siano le condizioni materiali che ne determinano il carattere. La prima osservazione da fare è che il termine oligarchia è stato largamente utilizzato dalla storiografia nel corso dei secoli ma si tratta di un concetto che resta scarsamente teorizzato12. In secondo luogo, dalla sua prima teorizzazione per opera della Grecia classica di Platone e Aristotele, tale concetto ha ricevuto una connotazione morale negativa13 dotandosi di un’accezione più polemica che scientifica. Parlare di un’oligarchia è immediatamente percepito come una condanna pronunciata contro un governo che si ritiene essere plutocratico ed elitista14. Questa tendenza è ingiustificabile da

12

J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, p. 1 N. BIOBBIO (dir.), N. MATTEUCCI, G. PASQUINO, Dizionario di Politica, UTET, Torino, 1976 14 Ibid. 13

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un punto di vista scientifico ed è importante a nostro avviso utilizzarla con un’accezione neutra, alla luce della definizione che ne daremo, come ogni altra struttura di potere teorizzata dalla filosofia politica. In terzo luogo, come osserva J.A. Winters, siamo dell’idea che sia necessario definire in primo luogo l’oligarchia individuale per poter poi definire il sistema politico che costituisce l’oligarchia. Prima di giungere alla definizione propriamente detta di oligarca e oligarchia, è necessario dare una breve visione d’insieme delle varie teorie dell’oligarchia formulate fino ad oggi.

2. Le teorie dell’oligarchia fino ai giorni nostri

Il termine oligarchia deriva dalla combinazione di due parole del greco antico : ὀλίγος (oligos) « alcune,poche persone »15 e ἄρχω (archo) « governo,comando »16 che vanno a formare la parola composta ὀλιγαρχία, (oligarkhía) : che si traduce generalmente con “il governo di un numero ristretto di persone”. La Repubblica di Platone è la prima fonte esistente in cui l’oligarchia riceve una definizione, precisamente nel libro VIII, capitolo IV. Platone la definisce come: « Le gouvernement, [...] où les riches commandent, et où le pauvre ne participe point au pouvoir. »17. Secondo Platone, il governo in cui la virtù e l’onore sono le qualità necessarie per parteciparvi, la timocrazia, si corrompe con l’influenza nefasta dell’arrichimento personale e dell’amore per il denaro e per la richezza. In seguito a tale evoluzione, questo governo diviene un’oligarchia: il

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H. G. LIDDELL, R. SCOTT, A Greek-English Lexicon, Ninth revised edition, Oxford University Press, Oxford, 1995, sub. ὀλιγαρχία 16 Ibid. 17 Platon, La République, VIII, 550c, Traduzione francese tratta da : http://remacle.org/bloodwolf/philosophes/platon/rep8.htm, consultato il 1 giugno 2012

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governo in cui solo la ricchezza personale è presa in considerazione per poter partecipare al governo della città e in cui le qualità morali non contano più nulla. Così Platone scriveva :

« […] Ne dirons-nous pas d'abord comment on passe de la timocratie à l'oligarchie? Si. En vérité, un aveugle même verrait comment se fait ce passage. Comment? Ce trésor, dis-je, que chacun emplit d'or, perd la timocratie; d'abord les citoyens se découvrent des sujets de dépense et, pour y pourvoir, ils tournent la loi et lui désobéissent, eux et leurs femmes. C'est vraisemblable. Ensuite, j'imagine, l'un voyant l'autre et s'empressant de l'imiter, la masse finit par leur ressembler. Cela doit être. A partir de ce point, repris-je, leur passion du gain fait de rapides progrès, et plus ils ont d'estime pour la richesse, moins ils en ont pour la vertu. N'y at-il pas en effet entre la richesse et la vertu cette différence que, placées l'une et l'autre sur les plateaux d'une balance, elles prennent toujours une direction contraire? Si, certainement. Donc, quand la richesse et les riches sont honorés dans une cité, la vertu et les hommes vertueux y sont tenus en moindre estime. C'est évident. Or, on s'adonne à ce qui est honoré, et l'on néglige ce qui est dédaigné. Oui. Ainsi, d'amoureux qu'ils étaient de la victoire et des honneurs, les citoyens finissent par devenir avares et cupides; ils louent le riche, l'admirent, et le portent au pouvoir, et ils méprisent le pauvre. C'est vrai. Alors ils établissent une loi qui est le trait distinctif de l'oligarchie : ils fixent un cens, d'autant plus élevé que l'oligarchie est plus forte, d'autant plus bas qu'elle est plus faible, et ils interdisent l'accès des charges publiques à ceux dont la fortune n'atteint pas le cens fixé. Ils font passer cette loi par la force des armes, ou bien, sans en arriver là, imposent par l'intimidation ce genre de gouvernement. N'est-ce pas ainsi que les choses ont lieu? Si. ».18

18 Ibid.

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Aristotele allo stesso modo pone l’oligarchia tra le forme di governo alla deriva, definendola come un « gouvernement dans l’intérêt des riches »19, o ancora afferma che ci sarà un oligarchia « quand le contrôle du gouvernement est aux mains de ceux qui détiennent les propriétés »20. L’oligarchia è illustrata nel suo senso negativo come la corruzione della sua controparte sana, la timocrazia, che Platone definisce come « gouvernement de l’honneur »21, laddove il governo è affidato ai migliori uomini della collettività.

Aristotele22, dal canto suo, sottolinea la convergenza trai concetti di aristocrazia ed oligarchia. La sua concezione dell’aristocrazia non è del resto da intendere come la si intende oggi, essendo invece più vicina alla timocrazia e non avendo per fondamento l’ereditarietà del potere e delle responsabilità di governo. Tuttavia, nella concezione attuale del termine aristocrazia, è innegabile che storicamente i due fenomeni di aristocrazia e di oligarchia furono spesso accavallati per costituire una sola casta di governo, che giustificava la propria ascendenza sociale non solo per ricchezza ma anche per gli antecedenti immemorabili dei suoi avi e del loro controllo del governo. Per Aristotele, il governo dei migliori, l’aristocrazia, degenera per divenire un governo dei ricchi nel loro esclusivo interesse. La relazione tra oligarchia e concentrazione di ricchezza è evidentemente il punto fondamentale di ogni oligarchia al governo. É comunque necessario ammettere che l’oligarchia copre un vasto numero di meccanismi di controllo sociale al di là del solo controllo dell’apparato statale. Inoltre, la timocrazia nel senso che le danno i filosofi classici, è una costruzione teorica sprovvista di esempi storici mentre- a nostro parere19

ARISTOTE, La Politique, Livre III, section 1279b, http://www.perseus.tufts.edu/hopper/text?doc=Perseus%3Atext%3A1999.01.0058%3Abook%3D3%3Asection% 3D1279b, consultato il 1 giugno 2012 20 Ibid. 21 Platon, La République, VIII, 545e, traduzione francese tratta da : http://remacle.org/bloodwolf/philosophes/platon/rep8.htm, consultato in data 1 giugno 2012 22 Per quanto riguarda la teoria classica di oligarchia e democrazia, in particolare per quanto riguarda Aristotele e Senofonte, si veda : J. M. MOORE (dir.), Aristotle and Xenophon on democracy and oligarchy, University of California Press, Berkely, 1986

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l’oligarchia si è rivelata il sistema di controllo più adattabile e più resistente conosciuto dall’uomo attraverso la storia. C’è comunque un’osservazione da fare sul legame che fanno certi autori come Michels, Mosca e Pareto tra oligarchia ed elitismo nella corrente chiamata la « critica elitista della democrazia ».23 Robert Michels ne fu trai capofila e stabilì la famosa « loi d’airain de l’oligarchie ». Secondo tale legge, ogni organizzazoine ha la tendenza a costituire al suo interno un’oligarchia di governo, tagliata fuori dal controllo del suo elettorato. Nella sua opera Les Partis Politiques, Essai sur les tendances oligarchiques des démocraties, Michels definisce tale concetto nel seguente modo :

« [...] Qui dit organisation dit tendance à l’oligarchie. Dans chaque organisation, qu’il s’agisse d’un parti, d’une union de métier, etc., le penchant aristocratique se manifeste d’une façon très prononcée. Le mécanisme de l’organisation, en même temps qu’il donne à celle-ci une structure solide, provoque dans la masse organisée de graves changements. Il intervertit complètement les positions respectives des chefs et de la masse. L’organisation a pour effet de diviser tout parti ou tout syndicat professionnel en une minorité dirigeante et une majorité dirigée ».24

La teoria di Michels è molto interessante per lo studio di certi aspetti dei vari sistemi oligarchici benchè in realtà non si tratti di uno studio dell’oligarchia ma piuttosto di un’« analyse de comment les élites finissent par dominer toute organisation complexe »25. Come sottolinea J. A. Winters, la maggior parte della società, ma non tutte, sono oligarchiche,

23

Per quanto riguarda la teoria delle élites riguardo l’Italia contemporanea si veda: C. CARBONI, Élite e classi dirigenti in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2007 24 R. MICHELS, Les Partis Politiques, Essai sur les tendances oligarchiques des démocraties, (tradotto da Jankélévitch), Flammarion, Paris, 1914, pp 23-24 25 J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, p. 2

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ma non per le ragioni che Michels mette in enfasi26. Secondo questo stesso autore, la definizione di oligarchia è talmente incorente che praticamente ogni sistema o comunità politica in cui non esista la partecpiazione diretta e costante di tutti i suoi membri, ha delle tendenze che potrebbero essere definite come oligarchiche: egli scrive: « […] A Soviet-style nomenklatura is an oligarchy, but so is the executive committee of the local ParentTeacher Association or an influential group of elders in a commune. Russian billionaires are oligarchs, but so are Cardinals in the Catholic Church. The internal authority structures of corporate boards of directors are oligarchical (when they are not dictatorial), and even representative democracies in which the few are chosen by the many to set policy have been criticized as oligarchies. Meanwhile, figures of every stripe who wield exaggerated power, whether in or out of government, have been called oligarchs. Missing from this jumble of interpretations is the recognition that not all forms of minority power, influence or rule are the same. It is meaningless to label as oligarchies every tiny subset of people exercising influence grossly out of proportion to their numbers. What matters is how they do so and especially through what power resources

»27

Questo studio si focalizzerà principalmente sulle tendenze oligarchiche a livello statale, pur commentando le sottostrutture oligarchiche presenti nella società romana quando la loro influenza ne renda necessaria la tenuta in conto. Al fine di poter giungere ad una qualche conclusione coerente per quanto riguarda il peso della voce del popolo romano davanti all’aristocrazia patrizia a tendenza oligarchica, è indispensabile ritracciare nel dettaglio l’evoluzione delle strutture di rappresentazione popolare a Roma durante l’era arcaica ed i due primi secoli di storia repubblicana. Bisogna tuttavia prima di tutto stabilire le premesse teoriche per quanto riguarda l’oligarchia se ci aspettiamo in seguito di poter individuare e mettere alla luce le tendenze oligarchiche che si manifestano attraverso questa storia. È dunque importante a questo punto presentare la definizione di oligarchia che noi utilizzeremo all’interno del nostro studio.

26 27

Ibid. J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, p. 3

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3. Oligarchi ed oligarchia

Al pari di Winters, siamo dell’idea che è importante in primo luogo distinguere due elementi inerenti l’oligarchia che ne determinano il carattere al fine di definire poi l’oligarca e l’oligarchia. In primo luogo si tratta della base materiale del potere oligarchico. Ogni forma di coercizione di un gruppo maggioritario da parte di un gruppo minoritario si basa su una concentrazione di potere nelle mani di quest’ultimo gruppo ed è annullata da una dispersione radicale di tale potere. Il potere oligarchico si distingue giustamente dalle altre forme di potere per il fatto che la fonte di tale potere è estremamente resistente e concentrata nelle mani di un’effettiva minoranza, cosa che permette una concentrazione di potere estrema a vantaggio di questa minoranza. La base materiale del potere può variare e non è che ogni oligarchia degna di questo nome è fondata sulla stessa base di potere materiale. Ad ogni modo, l’estrema resistenza del concetto di proprietà privata, elevato dai Romani a rango di diritto assoluto attorniato da un vasto arsenale giuridico destinato alla sua protezione, fa della concentrazione estrema di ricchezza materiale, di proprietà privata, il punto centrale di ogni oligarchia. In secondo luogo, è importante tenere in conto lo spettro materiale su cui si diffonde il potere coercitivo del sistema oligarchico allo studio. Se questo è per esempio una struttura che non si estende al di là di un quartiere di una città, è chiaro che la semplice migrazione permette all’individuo di sfuggire al potere dell’oligarchia. L’oligarchia propriamente detta si differenzia proprio per il fatto che è quasi impossibile sfuggire allo spettro del suo potere sia materialmente che finanziariamente.28

28

J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, p. 4

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L’oligarchia come noi la intendiamo in questo studio è dunque un sistema di governo minoritario fondato su una base materiale resistente ai tentativi di dispersione ed il cui potere copre uno spettro territoriale o comunitario a cui è quasi impossible sfuggire.

Come scrive Emile de Laveleye : « […] Les philosophes, les politiques, les législateurs de l'antiquité voulaient la même chose, à savoir que chaque citoyen eût une part de la propriété foncière, et que la loi empêchât une trop grande inégalité »29. Il punto centrale emerge chiaramente ; la distribuzione ineguale della proprietà, e durante l’antichità soprattutto della proprietà terriera, è il punto di partenza del potere oligarchico. « Dans l’étude de la politique, l’équation entre argent et pouvoir est presque axiomatique »30 scrive Winters. Sul base di questa affermazione con cui siamo in linea di principio d’accordo, è innegabile che qualunque sia il sistema di governo in essere, che si tratti di una democrazia o meno, le grandi ineguaglianze e concentrazioni di ricchezza personale, costituiscono delle vaste ineguaglianze e concentrazioni di potere politico. Quali sono allora i fattori precisi che definiscono l’oligarchia e come avviene che un gruppo minoritario composto da oligarchi si prenda il controllo di vaste strutture di governo? In primo luogo l’oligarca è sempre un individuo, persona fisica, mai una corporazione o conglomerato di persone fisiche o morali. Il Consiglio di Amministrazione di una grande banca che agisce come l’organo di tale persona morale e la rappresenta di conseguenza nelle sue decisioni agisce per la persona morale ma a vantaggio della sua propria persona fisica visto che egli dipende finanziariamente dal suo salario, dal corso delle sue azioni in tale banca, o da una combinazione delle due. Analogamente, i senatori e i magistrati romani anche più disinteressati erano comunque parzialmente motivati da un desiderio di amplificare il

29

E. DE LAVELEYE, De la Propriété et de ses Formes Primitives, Paris, 1891

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J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, p. 5

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nome e la popolarità della famiglia- un investimento generalmente molto redditizio- oltre che della loro influenza nella storia grazie agli edifici che essi eressero, e le buone opere che intrapresero. Infine, il lavoro spesso coscienzioso che fecero i legislatori attraverso i secoli è, a parte la loro reale preoccupazione per la prosperità della collettività, allo stesso modo basato sul fatto che senza prosperità nella collettività sotto il loro controllo, i loro propri interessi non avanzerebbero affatto. Ne deriva il secondo aspetto: questi individui mobilitano la loro ricchezza personale per farla fruttificare, principalmente nel loro proprio interesse, e non nell’interesse di un gruppo o di una comunità. Gli atti o spese fatte dagli oligarchi a vantaggio di una collettività sono generalmente basati su motivazioni accessorie o degli obblighi come i mores, le usanze o il vasto arsenale di misure populiste che costituiscono solo alcune pedine nel grande gioco di difesa della ricchezza che attuano gli oligarchi. In terzo luogo, la definizione che noi diamo di oligarca è costante attraverso la storia e non cambia a seconda dei vari sistemi politici od economici in cui si manifesta. Così, l’oligarca si definisce come l’individuo dotato di vaste risorse di potere estremamente resistenti ai tentativi di dispersione che provocano un notevole squilibrio di potere tra quest’individuo e la gran parte della comunità, che mobilita tali risorse nell’obiettivo di difenderle ed incrementarne i frutti e di sostenere la sua crescita personale e quella dei suoi successori nella comunità. Che dire dunque dei sistemi di governo che questi individui stabiliscono e come questi si perpetuano ? La definizione data di oligarca nasconde in una sola parola il punto centrale nella costituzione del sistema oligarca che è l’inevitabile risultato della concentrazione di risorse finanziarie al di là di ogni misura nelle mani di uno o più individui. La parola è “successori”. In un’oligarchia primitiva e interamente armata, la successione è un punto di contesa continua nella vita di una comunità. Laddove è stabilito che nessuna successione è

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possibile e che ogni proprietà privata verrà divisa trai membri della collettività alla morte del suo proprietario, nessuna oligarchia può esistere poichè vi sarebbe una dispersione automatica delle risorse concentrate nell’oligarca, mettendo rapidamente fine a qualsiasi squilibrio finanziario e politico. Al contrario, se si stabilisce che la totalità o parte degli averi di un defunto de cujus successione agitur sia ripartita soltanto tra certi membri della comunità, la concentrazione delle risorse comincia la sua lenta ma certa ascesa verso l’iperconcentrazione delle ricchezze che definisce l’oligarca e di conseguenza l’oligarchia. I mezzi impiegati dagli oligarchi come dalle persone che possiedono delle risorse più modeste è ciò che J. A. Winters denomina « wealth défence » e « income defence », che si potrebbero tradurre rispettivamente con « difesa della proprietà » e « difesa degli introiti ». Gli oligarchi si distinguono dagli altri attori di una collettività per i mezzi che sono capaci di impiegare nella difesa della loro proprietà e dei frutti che questa produce. Laddove un semplice cittadino possiede nel migliore dei casi un semplice diritto di voto, l’oligarca possiede le risorse finanziarie che gli permettono di influenzare il voto ovvero di dettare la politica della collettività e questo, nel suo proprio interesse e, inevitabilmente nell’interesse degli altri oligarchi. È quest’ultimo aspetto che ci porta finalmente all’immagine completa dell’oligarchia e ad una definizione esauriente di questa: L’oligarchia consiste in un gruppo di individui che rispondono alla definizione di oligarca di cui supra, che si coalizza con il fine di assicurarsi la difesa della sua proprietà, dei frutti di quest’ultima e della sicurezza dell’utilizzo di tali risorse a vantaggio della loro ascendenza.

Restano da spendere alcune parole sul tema del legame tra lo studio dell’oligarchia ed il Marxismo. Nella teoria marxista, l’enfasi è posta sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e dunque sul potere delle classi che detengono la proprietà ed il potere di

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investire all’interno di esse31. La nostra definizione di oligarchia e la teoria dell’oligarchia che utilizzeremo durante questo studio non è per niente conflittuale nei confronti della teoria economica come intesa negli studi marxisti ma copre un campo di applicazione molto più vasto. Nel marxismo delle risorse finanziarie sono mobilitate nel campo economico e provocano degli effetti politici. Nello studio dell’oligarchia, delle risorse familiari al di fuori di ogni proporzione comparabile con la media di una collettività, sono mobilitate nel campo politico per creare degli effetti economici. Nello studio dell’oligarchia la questione che si pone non è specificamente quella dell’origine della ricchezza come è il caso nella teoria del valore marxista, che si basa interamente sul lavoro, attraverso alcuni correttivi come la teoria dell’utilità marginale e quella del lavoro socialmente necessario. L’enfasi è posta sull’accumulazione di risorse finanziarie e la difesa di queste che causa un gran numero di effetti sia economici, politici che sociologici per mezzo dell’impiego di queste stesse risorse nella sfera di goveno di una collettività. Lo studio dell’oligarchia è quindi lo studio della difesa e della perpetuazione delle ingeguaglianze materiali estreme tanto attraverso le sue cause che attraverso i suoi risultati.

4. Le basi materiali del potere

È inutile ed impossibile tentare una classificazione di ogni tipo di potere sociale esistente, che va dal potere che il guru detiene sui propri adepti superstiziosi a quello che un monarca assoluto, dotato di un grande apparato repressivo, detiene sui suoi sudditi. Sarà sufficiente per noi classificarne cinque tipi diversi che comprendono la maggior parte dei vari tipi di potere

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J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, p. 9

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all’origine dei sistemi oligarchici. Le cinque categorie che propone J. A. Winters ci sembrano le più appropriate ovvero :

1. I diritti politici. 2. Le funzioni pubbliche. 3. Il potere coercitivo. 4. Il potere di mobilitazione. 5. Il potere materiale.

I diritti politici comprendono tutti i diritti legati al diritto di voto ed al diritto all’eleggibilitá. Le funzioni pubbliche riguardano i diritti legati all’occupazione di una funzione pubblica e le condizioni di accesso a quest’ultima. Il potere coercitivo comprende il diritto relativo all’uso dei mezzi di costrizione e di pressione di cui lo Stato dispone, con un’attenzione particolare a chi dispone del controllo di questi mezzi, quando possono essere impiegati e quali sono i mezzi di difesa di coloro contro i quali sono utilizzati. Il potere di mobilitazione è costituito dai vari diritti afferenti alle organizzazioni di persone fisiche come le corporazioni, i sindacati e i partiti politici. Infine, il potere materiale, costituito dai diritti relativi alla detenzione della proprietà privata ed alla sua devoluzione per successione. Queste cinque differenti categorie di potere hanno la tendenza ad accumularsi nelle mani degli stessi individui che costituiscono con questa concentrazione un governo di e per gli oligarchi. Lo scenario è spesso quello desritto da J. Brinton nella sua « History of the Middle-Ages »32 sul tema del re mercante francese Jacques Cœur (†1456) : « Il utilisa la richesse personnelle pour accéder aux offices publics, et les offices publics pour accumuler sa richesse personnelle ». Un’oligarchia può comunque esistere solo quando nessun membro

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C. BRINTON, J. CHRISTOPHER, R. WOLFF, A History of The Middle-Ages, AC. Co. 1964, capitolo II

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dell’oligarchia è autorizzato a detenere una parte di esercizio dei poteri più grande di quella degli altri oligarchi. È questo principio che provoca spesso instabilità nei regimi oligarchici. L’ambizione di un oligarca desideroso di stabilire la sua supremazia personale o di ingrandire la sua influenza a vantaggio di quella di un altro oligarca rivale, provocano degli attacchi laterali all’interno della casta oligarchica che possono persino portare allo scoppio di guerre civili. Tuttavia, le lotte intestine all’oligarchia portano solo raramente, per non dire mai ad un vero e proprio cambiamento di sistema di governo. Di certo gli oligarchi al potere si fanno a volte neutralizzare, espropriare o giustiziare ma sono sempre sostituiti da altri che si basano o sulla stessa o su un’altra base di potere che però perpetua il principio di potere oligarchico.

Il principio oligarchico in quanto tale non è quasi mai rimesso in discussione ed i tentativi di dispersione del potere di un gruppo oligarchico è generalmente coronato dal successo solo nel caso in cui un gruppo di individui sufficientemente potenti appoggi il movimento. Così, il potere sconfitto e neutralizzato di un gruppo oligarchico è generalmente ricostiuito nelle mani di un nuovo gruppo, che lo rimpiazza quasi a tutti gli effetti. La tenacia delle strutture di potere oligarchico può essere legata a multipli strumenti di coercizione sociale come la pretesa origine divina dell’ordinamento sociale, il costume ancestrale e gli innumerevoli altri sistemi di legittimazione giuridica di cui, fino a un certo punto, persino il concetto di “stato di diritto” fa parte. L’immunità relativa del sistema oligarchico è in funzione diretta della capacità di resistenza alle forze dispersive che minacciano la sua base di potere. Di nuovo, è importante mettere in luce l’estrema resistenza del diritto di proprietà e dunque del potere materiale tra gli altri fondamenti possibili del potere oligarchico, come la storia ha ampiamente dimostrato.

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5. Ultime considerazioni

In ragione, tra le altre, dell’immagine negativa legata al concetto di oligarchia che si ha avuto l’occasione di menzionare supra, lo studio dell’oligarchia comporterà sempre e inevitabilmente un aspetto polemico. É importante dunque affrontare questo studio con una certa criticità affinchè i nostri propositi non siano percepiti come una denuncia. Il presente studio ha per obiettivo lo studio critico del sistema oligarchico come era prevalente a Roma durante i primi cinque secoli della sua storia al di là di ogni giudizio morale. Noi non siamo dell’opinione, come ritenevano i filosofi dell’età classica, che l’oligarchia costuisca una corruzione o una degenerazione di un altro sistema sano. L’oligarchia è un sistema politico, una disposizione di strutture di potere all’apice di una comunità e si manifesta sotto diverse forme attraverso la storia. Winters definisce quattro tipi di oligarchia nella sua opera già citata, ovvero le oligarchie guerriere, le oligarchie governanti, le oligarchie sultanesche, le oligarchie civili e infine, le eccezioni che assumono alcune forme ibride. Per oligarchie guerriere si intendono le oligarchie costituite da capi guerrieri completamente armati che si ritrovano sia nelle varie comunitá dell’eta del ferro che nell’Europa feudale tra il nono ed il quattordicesimo secolo. Con oligarchi regnanti o governanti si intendono le associazioni di Mafia, le oligarchie greco romane e le oligarchie delle città-stato italiane di cui Venezia e Siena costiuiscono gli esempi più completi. Le oligarchie sultanesche comprendono tutte le oligarchie in cui la supremazia di un solo oligarca, che garantisce la difesa di proprietà ed introiti per gli altri oligarchi, è unita al disarmo totale o alla coercizione totale di questi ultimi. Gli esempi di questo tipo di oligarchia sono numerosi e vanno dal regime imperiale romano fino alla Francia monarchica o ancora il regime del presidente Suharto33 in Indonesia. Infine, le oligarchie civili si

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J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, cap. 4

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distingunono da tutti gli altri tipi poichè gli oligarchi di tale sistema sono completamente disarmati e il governo statale non è direttamente affare degli oligarchi : anche quando occupano una carica politica occupano non è mai « en tant qu’oligarque ou pour les oligarques »34. Il governo è costituito da strutture burocratiche impersonali e la difesa di proprietà ed introiti è garantita dall’apparato coercitivo dello Stato che è il solo autorizzato ad utilizzare la forza. L’oligarchia si è sviluppata parallelamente allo Stato ma non al suo interno poichè, nelle oligarchie civili, la proprietà degli oligarchi non è più difesa dalla forza pura e semplice, dalla forza parzialmente istituzionalizzata nelle mani di un oligarca al governo o anche dalla forza interamente centralizzata di un oligarca sultanesco. Al contrario, ciò che negli altri regimi rappresenta delle semplici « pretese » sulla proprietà, vulnerabili a delle predazioni orizzontali e verticali, sono qui garantiti come diritti assoluti e difesi dallo stato « di diritto ». Gli oligarchi si sottomettono alle leggi di uno Stato centrale in cambio di una protezione incondizionata dei diritti di proprietà da parte di quest’ultimo, il solo capace ed autorizzato ad usare la forza. Non essendo più costretti a partecipare direttamente alla violenza e alle cariche politiche con il solo fine di difendere la loro proprietà, gli oligarchi di un’oligarchia civile possono devolvere la totalitá della loro attività a varie sfide legate alla difesa dei propri beni, ovvero tanto contro la tassazione che contro i tentativi di ridistribuzione delle richezze provenienti dallo Stato centrale35. Questo tipo di oligarchie è prevalente nel mondo occidentale oggi. L’oligarchia civile è la ultima e più grande innovazione nella storia delle oligarchie e non è toccata dal nostro studio, che si focalizzerà principalmente sui tre primi tipi di oligarchia già citati. Il seguente schema illustra le quattro principali varietà del sistema oligarchico riguardo alla loro base di potere ed il grado d violenza che essi impiegano per la difesa di ricchezza e dei beni. 34 35

J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, p. 208 Ibid.

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Sotto il regime repubblicano certamente a partire dal terzo secolo a.C., Roma fu governata da un’oligarchia al governo. L’oligarchia governante presenta un certo numero di particolarità che conviene spiegare. In primis, questo tipo di oligarchia si basa sulla presenza di un gruppo di oligarchi a capo dell’apparato di governo per assicurare la difesa di proprietà e ricchezze per l’intera classe oligarchica. Non è necessario che ogni oligarca vi partecipi, ma un numero sufficiente a proteggere gli interessi della totalità della classe contro le predazioni orizzontali ovvero quelle portate avanti dagli oligarchi « ribelli » e le predazioni verticali, ovvero quelle che derivano da coalizioni di cittadini comuni che vogliono migliorare la propria condizione

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J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, 2011, p. 34

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materiale. Inoltre, si tratta di una variante semiarmata dell’oligarchia. Laddove l’oligarchia guerriera è estremamente instabile e violenta, in ragione di un armamento totale di ogni singolo oligarca, l’oligarchia governante è possibile solo attraverso un disarmo parziale degli oligarchi, che permette un utilizzo centralizzato della violenza su iniziativa comune degli oligarchi. In effeti la differenza tra l’oligarchia di guerra e l’oligarchia governante è che nella prima ipotesi ogni oligarchia difende i propri interessi personalmente attraverso le sue proprie forze coercitive mentre nella seconda, gli oligarchi si coalizzano per assicurare la difesa della proprietà in forma collettiva. Ad ogni modo, questo tipo di organizzazione collettiva funziona solo se gli oligarchi accettano di disarmarsi fino ad un grado accettabile per tutti e di sottomettersi alle decisioni collettive senza ricorrere ai loro propri mezzi coercitivi. Tale disarmo è comunque solo parziale e, sia sui grandi possedimenti dominati dalle gentes patrizie, sia nella città di Roma, gli oligarchi avevano accesso ad un gran numero di « dipendenti » schiavi o uomini liberi, che garantivano ai padroni la possibilità di intervenire con dei mezzi coercitivi non appena i loro interessi collettivi o individuali fossero messi in pericolo. Un intervento personale per la difesa di interessi personali al di là della presa di decisione collettiva era evidentemente estremamente pericoloso per il suo autore e di certo sarebbe finito con una vendetta della collettività oligarchica contro colui che non avesse rispettato le regole del gioco dell’oligarchia governante. La vasta quantità di schiavi o uomini liberi in una condizione sociale quasi servile impiegati nei possedimenti della periferia della città richiedeva una presenza costante di forze di coercizione pronte a ristabilire l’ordine in caso di disordini. Ogni gens disponeva così di una forza privata che assicurava l’ordine sulle proprietà agropastorali che si trovavano sotto il loro controllo. Parimenti, gli oligarchi disponevano di grandi gruppi di « clienti » all’interno della città capaci di essere mobilitati in breve tempo con il fine di reprimere gli scontri sociali contrari ai loro interessi. In questo tipo di ipotesi, di cui la coalizione formata sotto Scipio

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Nasica per l’uccisione di T. Gracchus è un esempio celebre, gli stemmi dello Stato furono aperti ai dipendenti degli oligarchi con il fine di « ristabilire l’ordine ». Si trattava di un meccanismo di prestito di forze private inviate dall’oligarchia ad agire nei loro interessi collettivi e che venivano sciolte una volta raggiunto l’obiettivo. Molti esempi nella storiografia romana provano l’esistenza di eserciti privati tra cui il più celebre è l’esercito organizzato dalla gens Fabia e dai suoi clienti inviato a combattere le forze della città di Veii e che fu totalmente distrutto durante la battaglia del fiume Cremera nel 477 a.C.37 Abbiamo dunque a che fare nel caso di Roma con un’oligarchia i cui membri furono parzialmente armati e direttamente impegnati nel governo della città con il fine di garantire collettivamente la protezione dei loro averi e ricchezze. Il disarmo parziale dell’oligarchia romana trova senza dubbio la sua spiegazione principale nell’interdizione assoluta per dei soldati sotto le armi di entrare entro i confini sacri della città, il pomoerium. La ragione di tale divieto è chiara, mai l’oligarchia avrebbe potuto permettere che delle forze armate e l’oligarca investito della loro guida, l’imperium, fossero contemporaneamente nella città per timore che un giorno un oligarca ambizioso le utilizzasse contro i suoi rivali e nemici all’interno dell’oligarchia.

L’esercito pubblico dello Stato fu una forza molto più potente delle forze private sotto il controllo delle varie famiglie oligarchice. A parte il divieto di entrare nella città che si è appena menzionato, questa forza aveva diverse particolarità su cui si tornerà più nel dettaglio infra. In primo luogo era interamente composta da uomini liberi che si procuravano il loro armamento e, perlomeno nei primi due secoli di esistenza della città, servivano come soldati senza essere pagati, rifacendosi delle loro perdite e spese sul bottino estorto al nemico sconfitto. Tale forza era anche una forza politica poichè tanto durante la monarchia che

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Liv. II, 48-50

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durante la repubblica, ebbe una voce in capitolo rilevante per quanto riguarda le dichiarazioni di guerra e vari altri temi. Il fatto che gli eserciti della città di Roma fossero stati degli eserciti cittadini di uomini liberi fu il segreto del funzionamento dell’oligarchia romana in modo pressapoco inalterato durante quasi sette secoli. Inoltre, l’esercito condivideva una lealtá comune verso ciò che si potrebbe chiamare lo Stato romano ma in alcun modo verso un particolare oligarca. Inoltre, l’esistenza di una classe relativamente numerosa di piccoli contadini capaci di procurarsi il loro proprio equipaggiamento militare fu un fattore che rallentò la costituzioni d iperconcentrazioni di proprietà che caratterizzerà l’ultimo secolo dell’era repubblicana. Vi fu chiaramente una disparità enorme tra ricchi e poveri già a partire dai primi anni della storia romana ma l’esistenza di una certa classe media dotata di interessi materiali divergenti da quelli dell’oligarchia diede a quest’ultima il costante compito di mantenere l’ordine ed una certa armonia civica all’interno dello Stato, rendendo meno frequenti di quanto avrebbero potuto essere, le predazioni intraoligarchiche. È con la scomparsa della classe dei cittadinisoldati-agricoltori che aumenta la frequenza ed il carattere pernicioso dei tentativi di predazioni intra-oligarchiche. Una volta che i soldati-contadini divennero l’eccezione piuttosto che la regola e che la massa degli eserciti furono composti da proletari urbani la cui lealtà era naturalmente rivolta verso il generale che garantiva loro salario e bottino, le principali forze coercitive dello Stato si spostarono rapidamente dal loro obiettivo iniziale per servire gli interessi di oligarchi ambiziosi piuttosto che di garantire gli interessi collettivi dell’oligarchia governante. Il secolo di guerre civili che separa l’era dei Gracchi dallo stabilimento di un’oligarchia sultanesca sotto un oligarca onnipotente hanno per causa questa sparizione della classe media dei soldati-agricoltori, assieme ad una rapida ascesa di ideali individualisti emersi dal cosiddetto ellenismo “decadente” con cui la Repubblica entrò in contatto a partire dal terzo

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secolo a.C.. Ora che le premesse teoriche sull’oligarchia in generale e sulla variante romana sono state sufficientemente chiarite, è tempo di volgersi verso la storia propriamente detta dello Stato romano e della sua oligarchia governante, cominciando con la posizione dell’ Urbs tra gli altri popoli della penisola italiana per concentrarci in seguito sulla sua organizzazione sociale e sullo sviluppo delle sue istituzioni politiche.

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IV.

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L’origine delle istituzioni sociali e politiche romane

1. Le origini della città romana: terra e popoli

A. L’Italia dell’era arcaica

Ogni studio sull’origine della città di Roma che, forse più di nessun’altra città nella storia, ispirò l’immaginario delle generazioni future, deve cominciare per forza di cose con un breve accenno alla sua situazione geografica e demografica. Roma è in primo luogo situata nell’Italia centrale, essendo l’Italia una penisola che si sporge fino al cuore del mar mediterraneo. Parlare dell’Italia, significa parlare degli Appennini poiché la penisola italiana è caratterizzata da questa catena montuosa che copre la gran parte del suo territorio da nord a sud. Questa formazione montagnosa è di estrema importanza poiché non è un dettaglio della geografia italiana, è l’Italia stessa. Attraversando la totalità della sua lunghezza e percorrendo più della metà della sua larghezza da costa a costa, la catena degli Appennini fu un fattore determinante nello sviluppo storico dei popoli della penisola. L’Italia antica cominciava, geograficamente parlando all’inizio della catena degli Appennini, al sud della pianura del Po. Le moderne regioni della Lombardia, Piemonte, Liguria, la Val d’Aosta, Il Veneto e il FriuliVenezia-Giulia assieme a Emilia-Romagna e le Marche, non ne facevano parte. L’Italia transpadana fu dominata in successione da una moltitudine di popoli, che vanno dagli Etruschi ai Galli, per essere definitivamente assoggettata alla Repubblica romana solamente nei decenni successivi alla disfatta di Annibale nella Seconda Guerra punica nel 201 a. C.38 Le tribù celtiche dell’oltre Po furono definitivamente pacificate e integrate nell’apparato di

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G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 202

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governo della Repubblica a partire dal 191 a.C.39 quando la Gallia Cisalpina fu riorganizzata e controllata da Roma. Gli Appennini si alzano gradualmente ad est della penisola a partire dal sud del Veneto per raggiungere la loro altezza massima in Abruzzo da dove continuano senza soluzione di continuità verso sud per dividersi in un ramo che continua verso sud e un altro verso sud -est. Quasi ogni storico dell’antichità, parlando delle origini di Roma, ha evidenziato la differenza topografica tra la Grecia e l’Italia. A differenza della Grecia, dove rare erano le fertili pianure, l’Italia non solo disponeva delle fertili terre della Toscana, della pianura latina e della pianura campana, ma anche di numerose e fertili valli di montagna perfettamente adatte agli insediamenti umani, alla pastorizia e all’agricoltura40. La Grecia a confronto era più arida e più ondulata, meno adatta alla coltura del frumento che a quella della vite e dell’olivo, oppure alla pastorizia. Inoltre, la miriade di piccole isole del mar Egeo e i numerosi porti naturali della Grecia portarono i suoi abitanti a essere molto presto impegnati nel commercio marittimo; l’Italia al contrario, non avendo che pochi porti naturali, conobbe uno sviluppo commerciale più tardivo. In Grecia come in Italia, un gran numero di città-stato apparvero gradualmente ma, contrariamente a quanto avvenne in Italia, il traffico commerciale in cui le città greche furono impegnate, le mise molto presto in contatto con le civiltà più antiche del Mediterraneo orientale. In più, le città-Stato italiane si diressero principalmente verso il Mediterraneo occidentale, una zona molto più giovane per cultura rispetto all’Oriente del Mediterraneo, visto che i pochi porti naturali che si trovano in Italia sono quasi tutti situati sul litorale occidentale. Così, è stato osservato da Mommsen41 che le città portuali della costa orientale italiana ebbero una sorte simile a quella delle città portuali dell’est e dell’ovest della Grecia, quelle dell’Epiro

39

Ibid. p.231 T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY (ed.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 2 41 Ibid. 40

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e dell’Acarnania, destinate a giocare un ruolo marginale nella storia delle loro rispettive penisole. Così, benchè scambi commerciali e culturali ebbero certamente luogo a una scala relativamente grande durante l’era monarchica attraverso l’intermediazione etrusca e delle colonie greche del Mediterraneo occidentale, Roma fu messa in contatto con la civiltà ellenica relativamente tardi nel corso della sua storia. Si è detto, certamente non a torto, che in un’epoca in cui i filosofi classici greci si posero trai più profondi interrogativi che siano mai stati posti, l’Urbs non aveva prodotto alcuna reale letteratura42 o un suo proprio stile artistico. L’evoluzione intellettuale dei Romani giunse allora dai contatti con i popoli più avventurieri sul piano commerciale come gli Etruschi a nord, i Greci della Magna Graecia e della Sicilia oltre che i Fenici di Canaan e di Cartagine. La cultura ellenistica si fece sentire completamente a Roma e nel suo impero italiano non greco solamente in un’epoca in cui non aveva quasi più rivali nel mondo mediterraneo, essendo stata definitivamente sconfitta Cartagine ed essendo stata svelata la debolezza dei Diadochi43d’oriente. Questa relativa lentezza con cui Roma si volse verso Oriente, è un fattore di prima importanza nel suo sviluppo sociale e politico su cui si avrà l’occasione di tornare con più dettagli infra. Per il momento è sufficiente evidenziare l’origine comune dei popoli greci e italiani, entrambi derivanti dalla famiglia indo-germanica. Della loro origine si è detto che « les Italiens sont frères des grecs et cousins des Celtes, Germains et Slavons »44. Lo studio filologico delle lingue greche e italiane dell’era arcaica ha permesso di determinare in via definitiva che questi due popoli furono uno solo nell’epoca in cui adottarono delle tecniche sedentarie come l’agricoltura e la costruzione di borghi fortificati. Le parole per indicare l’aratro, il campo, il giardino, il vino etc. sono identiche nelle due famiglie

42

C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, p. 208 Si tratta degli stati che succedettero all’impero di Alessandro Magno in Macedonia, Egitto, l’Asia Minore e Siria. 44 T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 3 43

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linguistiche e provano che esse si sono dovute separare solo dopo essere passate dallo stadio pastorale allo stadio agricolo45. Il loro sviluppo successivo fu invece straordinariamente diverso. Nei due casi, i gruppi di famiglie che avevano in comune un antenato e un’origine comune costituirono dei clan (in latino gentes) e i gruppi di clan costituirono progressivamente delle città-stato. Non di meno, laddove i Greci misero l’accento sull’individualismo, gli italiani, lo misero sul collettivismo. La civiltà greca produsse gradualmente un sistema educativo destinato a dare una formazione che permettesse all’individuo di cercare la bellezza e la perfezione tanto in ambito fisico che intellettuale. I Romani invece focalizzarono l’educazione sul collettivismo, la gerarchia e soprattutto sul rispetto dell’insieme dei costumi atavici, il mos maiorum, di cui la pietas, il rispetto per i genitori e per la famiglia fu il punto cardine. Invece di cercare la bellezza artistica, gli Italiani si concentrarono sull’utilità pratica migliorando ciò che già esisteva, piuttosto che dedicarsi all’innovazione. Torneremo sullo sviluppo parallelo dei popoli dell’Ellade e dell’Italia visto che la storia della Grecia in particolare è ricca d’interesse nell’ambito dei metodi comparativi di ricerca storica come quelli definiti Raaflaub46 che permettono una migliore comprensione di alcuni degli aspetti più oscuri della storia romana. Per il momento è necessario considerare brevemente i differenti gruppi da cui fu costituito il popolamento dell’Italia in epoca arcaica.

45

Ibid. pp. 3-5; T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch I-V & VIII, 1854-1856, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005, pp. 21-26 46 K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005 pp.1-46

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B. I popoli dell’Italia arcaica

Le fonti di cui si dispone sono estremamente lacunose per ciò che concerne i primissimi abitanti della penisola italiana, un popolo che è stato nominato come Iapigi. Le somiglianze linguistiche tra la lingua iapigia e il greco oltre che la loro posizione geografica in Italiaoccupavano l’estremo sud della penisola- portano alla conclusione che gli Iapigi furono i primi abitanti dell’Italia. Non opponendo una grande resistenza ai successivi popoli invasori (Italici, Etruschi, Elleni) furono progressivamente spinti verso sud in Puglia per poi essere rapidamente ellenizzati dai coloni greci venuti a installarsi in Magna Graecia a partire dalla seconda metà del settimo secolo a.C.47.

Gli abitanti della penisola attorno al XIVº secolo a.C. si dividono allora in tre grandi famiglie: gli Iapigi, gli Etruschi e gli Italiani. Di questi tre gruppi, il gruppo italiano può a sua volta essere suddiviso in due gruppi: i Latini e gli Umbro-Sanniti. Il gruppo Umbro-Sannita o Umbro-Sabella fu costituito dai popoli che parlavano i dialetti degli Umbri, Marsi¸Volsci e Samnites. La posizione geografica di questi vari popoli suggerisce che gli Iapigi furono i primi abitanti della penisola; che i Latini li spinsero in seguito verso sud, principalmente verso la Puglia dove furono ellenizzati e in seguito assorbiti dalla cultura superiore importata in Italia dai coloni greci dalla metà del settimo secolo a. C.. I Latini furono con ogni probabilità il secondo popolo a insediarsi, costringendo i popoli presenti a spostarsi o ad essere assimilati dalla popolazione latina. Sembrerebbe che i Latini si siano sparpagliati nei tempi primitivi molto più lontano della sola pianura latina. Progressivamente si sarebbero appropriati della pianura latina, della pianura campana, della Lucania e della metà orientale della Sicilia48.

47

T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 3 48 T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 7

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Questi tre ultimi gruppi di latini, gli Ausones, gli Itali e i Siculi rispettivamente, essendosi installati nella metà meridionale dell’Italia, entrarono molto presto in contatto con la cultura greca che, proprio come per gli Iapigi, fu talmente superiore che essi non poterono resistervi e furono o completamente ellenizzati, o talmente indeboliti da divenire facile preda per gli Etruschi e per i Sanniti quando questi ultimi estesero successivamente il loro dominio verso il sud della penisola. Ad ogni modo, le origini latine di questi tre gruppi latini meridionali sparirono nei meandri della storia tanto che è impossibile provare quest’affermazione in modo definitivo. In seguito alle incursioni dei Latini, vennero i popolamenti Umbro-Sabelli. Il fatto che queste popolazioni dovettero accontentarsi di terre molto meno favorevoli rispetto ai Latini delle pianure, in questo caso le terre mediamente elevate degli Appennini o delle larghe vallate permettevano l’agricoltura e la pastorizia, suggerisce che al loro arrivo in Italia le fertili pianure erano già state occupate.49 Soltanto nella piana latina i Latini riuscirono a mantenersi saldi e a resistere alle incursioni delle bande Umbro-Sabelle e, sucessivamente, delle falangi etrusche.50 Ancora una volta il successo di resistenza dei Latini fu spiegato tra gli altri da alcuni fattori geografici. Il Lazio di quest’epoca precoce era meno esteso del Lazio di oggi. Era la terra concentrata attorno ai due fiumi Tevere e Aniene; il Tevere costituiva dunque la frontiera settentrionale del Lazio. L’area d’influenza dei Volsci a sud era separata dalla catena principale degli Appennini, a est della città dal territorio degli Hernici. La frontiera orientale del Lazio era costituita dalla dorsale principale degli Appennini che continuava fino alla pianura della Puglia nell’estremo sud del tallone dello stivale italiano. La zona appenninica a est del Lazio era abitata dai Sabini e dagli Aequi. Un ultimo gruppo delle razze Umbro-Sabelle che bisogna menzionare vista la loro importanza successiva nella storia romana è quella dei Samnites, che occupavano le alte vallate degli 49

C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, p.6 G. FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, From Prehistory to the First Punic War, University of California Press, London, 2005, pp. 114-115 50

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Appennini a sud-est di Roma. Il popolo sannita si separò dal resto delle tribù Umbro-sabelle attorno all’inizio del sesto secolo a.C. per stabilirsi infine nel sud-est dell’Abruzzo. Il carattere ostile delle terre che occupavano, formate da valli molto elevate e di difficile accesso, provocò un isolamento marcato delle varie tribù sannite; esse erano isolate le une dalle altre e isolate dagli altri popoli italiani in generale. In tal modo, le tribù sannite svilupparono dialetti marcatamente distinti e non adottarono mai una qualche unità nazionale duratura. La loro unione si limitò a una lega federale la cui principale prerogativa fu l’elezione di un comandante federale supremo in caso di estrema necessità.51 Il declino del potere degli Etruschi permise ai Sanniti di intervenire nella pianura campana a partire dalla metà del quarto secolo, provocando per forza di cose un conflitto con Roma che in questa stessa epoca cominciò a estendersi verso sud e verso la ricca pianura della Campania in particolare. Torneremo in seguito sullo sviluppo dei Latini del Lazio e sulle loro relazioni con i vari popoli Umbro-Sabelli infra. I due ultimi raggruppamenti di una qualche importanza presenti in Italia durante l’era arcaica furono gli Etruschi a nord e in Campania e i Greci del litorale meridionale e della Sicilia.

C. Gli Etruschi

Gli Etruschi sono i primi a richiamare la nostra attenzione non soltanto perché influirono sullo sviluppo storico di Roma a partire da un’epoca molto più precoce rispetto ai Greci, ma anche perché la loro influenza sembra essere stata di una tale forza che Roma e le altre città latine furono per un certo tempo assoggettate a delle monarchie etrusche. Gli Etruschi sono sempre stati una sorta di mistero per gli storici e gli etnologi per quanto riguarda la loro origine. Due teorie sono state proposte per spiegare l’origine di questo popolo unico per il fatto che non 51

Come il celebre Gaius Pontius, comandante supremo delle forze sannite all’epoca della disfatta romana nella battaglia delle Forche Caudine nel 321 a.c. (vedasi Liv. IX, 2-6)

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parlasse una lingua che può essere definita indo-europea. Secondo una prima tesi- al giorno d’oggi maggioritaria- gli etruschi costituirono una civiltà che fu lo sviluppo della vecchia città villanoviana, che a sua volta fu il frutto dello sviluppo della cultura Terramare. La cosiddetta civiltà Terramare si situa nel cuore dell’età del bronzo europea (3200-600 a.C.) ovvero approssimativamente tra il secondo e terzo millennio a. C.. Questa cedette progressivamente il passo a uno stadio di sviluppo più avanzato conosciuto con il nome di cultura villanoviana a partire dall’undicesimo secolo a.C. L’era villanoviana si divide in due epoche: il periodo protovillanoviano che va dal11º al 9º secolo, e il periodo villanoviano vero e proprio che va dal 9º al 7º secolo a.C.. Fu durante questa seconda epoca che furono costruite con ogni probabilità le prime borgate fortificate che furono così caratteristiche della civiltà etrusca. Questa civiltà, costruttrice di vere e proprie città per la prima volta in Italia, sarebbe dunque apparsa attorno all’ottavo secolo a.C., epoca in cui nel resto d’Italia non vi erano che villaggi di varie dimensioni.52 Durante questi stessi due secoli le popolazioni villanoviane cominciarono probabilmente a entrare in contatto con i commercianti greci dell’Adriatico e cominciarono a praticare essi stessi delle attività commerciali dirette verso l’Italia centrale e le sue popolazioni meno sviluppate costituite dai Latini e dagli Umbro-Sabelli. Quando gli etruschi si affermarono come l’etnia più potente della penisola attorno al settimo secolo, avevano già sviluppato e consolidato una vasta rete commerciale diretta verso l’interno dell’Italia, principalmente impegnata nella vendita di metalli come il rame e lo stagno oltre che altri beni di produzione propri o ottenuti grazie ai rapporti commerciali con l’Ellade. Gli Etruschi fecero, in mancanza di un’altra spiegazione soddisfacente, parte della grande famiglia indo-europea, pur costituendo un gruppo a parte e isolato. Il fatto che le più antiche città etrusche non fossero

52

G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 23

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mai poste sul litorale53 sembra indicare che la loro migrazione fu terrestre e non marittima. Inoltre, il fatto che la popolazione della Rezia parlasse l’etrusco fino a tempi storici54 indica che il popolo etrusco fu con ogni probabilità originario di tale zona, legame che è confermato dalla somiglianza etimologica tra il nome di Raetia e quello di Rasna o Rasenna, nome con cui gli Etruschi si definivano. Esiste una seconda teoria sul tema dell’origine degli Etruschi e, benché questa sia largamente superata al giorno d’oggi, non può essere neppure categoricamente esclusa. Secondo Erodoto, (I, 94), che scrisse sul tema degli Etruschi, questi sarebbero giunti dalla Lidia in Asia Minore, portando con sé delle usanze orientali come l’aruspicina (la divinazione per mezzo delle interiora di animali sacrificati tra cui il fegato in particolare). L’aruspicina è, in effetti, una pratica tipicamente orientale che trova origine nelle civiltà Ittite e Babilonesi; è tuttavia possibile che il contatto tra mondo greco e l’Asia Minore abbia funto da intermediario per il trasferimento di pratiche orientali verso il nord dell’Adriatico. Niente ci permette di confermare né di escludere il legame tra gli Etruschi e il Medio-Oriente, ci si limiterà dunque a menzionare questa seconda ipotesi senza poter dare una risposta definitiva sull’origine precisa degli Etruschi e di alcuni dei loro costumi che distinguono così nettamente questo popolo dagli altri gruppi etnici dell’Italia arcaica. All’inizio del 7º secolo gli Etruschi occuparono sia la riva sinistra sia la riva destra del fiume Po, essendo limitati dai Veneti a est, dai Liguri a ovest e dai Celti a nord. Le incursioni dei Celti li costrinsero molto presto ad abbandonare le loro posizioni attorno al Po e di conseguenza il distretto in cui la loro civiltà si svilupperà principalmente, si situerà a sud di quest’ultima nel distretto il cui nome prende origine da essi: la Toscana.55 Grazie alle loro abilità a livello di commercio marittimo, estesero rapidamente la loro influenza verso sud;

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T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 30 54 Ibid. p. 31 55 Ibid. p. 32

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prima fino alla vasta foresta conosciuta con il nome Silva Ciminia che si estendeva dal mar Tirreno fino agli Appennini a nord del Tevere, e in seguito fino allo stesso Tevere. Le loro imprese commerciali li portarono a opporsi all’espansione greca verso nord e a conquistare l’Isola d’Elba, ricca di rame56. Successivamente, estesero la loro influenza verso la pianura campana e la pianura latina, incontrando solo una debole resistenza in Campania e una resistenza più ardita nel Lazio. Stabilirono così una comunità di dodici città in Campania, dove il loro potere durerà fino al primo terzo del quinto secolo e alla loro disfatta a Cumae per opera di Gerone di Siracusa nel 474 a.C. La loro influenza in Lazio e nello specifico sulla città di Roma è testimoniata dalle numerose pratiche etrusche assimilate dai Romani oltre che dal semplice fatto che una dinastia di origine etrusca regnò sulla città tra la fine del settimo secolo e la rivoluzione repubblicana del 509 a. C.. L’espulsione di Tarquinio il Superbo ed il fallito tentativo di Lars Porsenna re di Clusium di riempire il vuoto di potere successivo alla rivoluzione a Roma, segnò la fine dell’espansione etrusca a sud del Tevere. Porsenna riuscì probabilmente a occupare militarmente la città di Roma per un periodo di circa un anno tra il 509 e il 508, fatto che spiegherebbe il mancato intervento delle forze romane durante la battaglia d’Aricia nel 508 durante la quale le forze di Aricia risultarono vittoriose grazie all’assistenza della Lega latina e, in ultimis, grazie ad un contingente greco della città di Cumae sotto il comando di Aristodemos, futuro tiranno della città.57 La distruzione delle forze del re di Clusium nell’anno 508 portò a un’espulsione quasi definitiva degli Etruschi dal sud del Tevere. Torneremo in seguito sulle implicazioni della caduta della monarchia e la fine della dominazione etrusca del Lazio infra (capitoli IV, 1, A-C). Gli Etruschi furono ammirevoli assimilatori di tecniche e di pratiche apprese dalle civiltà superiori con le quali entrarono in contatto come i Greci e i Fenici. Sembra che fossero

56 57

C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, p. 12 G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p.47

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numericamente inferiori alle popolazioni autoctone che dominarono,58 ma, al contrario di queste ultime, erano dotati di una grande energia e di uno spirito commerciale audace. La struttura politica che misero in essere fu una blanda confederazione senza alcun capo supremo, se non di nome. Ogni principe etrusco regnava per suo conto sui suoi domini, lasciando privi di potere e d’influenza certi membri delle famiglie reali allargate che, come i vichinghi del 9º e 10º secolo d.C., cercarono di fondare i loro propri principati al di fuori dei territori già conquistati. La dominazione etrusca in Toscana fu annientata sotto la doppia influenza delle incursioni celtiche dell’inizio del quinto secolo e l’espansione romana verso Nord tra il quarto e terzo secolo per sparire alla fine completamente in quanto unità politica autonoma con la conquista dei Volsinii da parte dei Romani nel 264 a.C.59. Ritorneremo in seguito sul come e sul perché dell’indebolimento etrusco; per il momento ci limiteremo all’epoca del loro massimo potere che va dal sesto al quarto secolo a.C. . La destrezza commerciale degli Etruschi li spinse alla costituzione di centri urbani prima di qualsiasi altro popolo italiano e la città di Caere è la prima città italiana a essere menzionata nelle fonti storiche greche60. Costituirono una confederazione estremamente blanda i cui membri formarono delle federazioni di un numero di comunità di villaggi (spesso dodici)61 di cui una città capitale da cui regnavano dei principi. La loro organizzazione sociale fu fortemente stratificata con una distinzione estremamente rigida tra nobili e gente comune. Nelle parole di C. Robinson, i re etruschi regnavano sui loro domini come dei baroni feudali nel Medioevo, riscuotendo imposte e corvées dalle popolazioni rurali che vivevano in una

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C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, p. 12 J. F. HALL, Etruscan Italy: Etruscan Influences on the Civilizations of Italy from Antiquity to the Modern Era, Birmingham Young University, 1996, pp. 198-200; Cfr. M. PALLOTTINO, Rasenna: storia e civiltà degli Etruschi, University of Michigan Press, Ann Arbor, Michigan, 1986; M. TORELLI, Storia degli Etruschi, Laterza Editore, Bari, 2005 60 T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 32 61 Ibid. 59

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condizione legale simile a quella dei servi62. Grazie a queste corvées, fecero costruire delle imponenti fortezze sulla cima di colline altamente funzionali alla difesa. I loro artigiani produssero degli oggetti d’arte e di metallurgia di una qualità eccezionale per l’epoca e le loro comunità marittime si dedicarono al commercio e alla pirateria con identico successo e dedizione. Il loro stile artistico assomigliava fortemente a quello dell’Attica precoce ma ebbe un’evoluzione minima dal periodo della sua prima comparsa. La civiltà etrusca non ebbe, in effetti, uno stile artisticamente originale secondo alcuni63, ciononostante, le loro realizzazioni nel campo dell’architettura e della metallurgia furono di prim’ordine. La loro religione fu profondamente differente da quelle degli altri popoli italiani, basata su un tetro misticismo oltre che sulla divinazione attraverso l’interpretazione di ogni tipo di presagio. Tra questi il fulmine e le interiora furono gli strumenti di divinazione più importanti. La divinazione attraverso gli auspici (dal latino avispex: colui che osserva gli uccelli, cioè la divinazione attraverso il volo degli uccelli che include anche ogni altro fenomeno naturale come il fulmine) e l’aruspicina (dal latino haruspex : la divinazione attraverso l’osservazione delle interiora di una vittima sacrificale) furono entrambi ripresi dai Latini e dai Romani benché sia difficile affermare con certezza se queste usanze derivarono realmente dagli Etruschi o se furono delle usanze comuni a Etruschi e Latini. Cicerone osserva certe differenze tra la divinazione nel sistema romano per quanto riguarda gli auspici 64 elemento che potrebbe o far pensare a un’adozione molto precoce di quest’arte da parte romana, o invece al fatto che la pratica fosse comune sin dall’inizio. L’istituzione degli aruspici sembra comunque essere una chiara importazione etrusca e gli autori antichi 65 si riferiscono in generale agli Etruschi come gli inventori dell’arte della divinazione attraverso l’ispezione delle interiora.

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C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, pp.12-13 T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 32 64 Cic. De Divinatione, I, 41 65 Tac. Ann. XI, 15 63

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D. I Greci

I primi Greci ad aver esplorato le acque attorno all’Italia meridionale sembrano essere stati degli esploratori provenienti dalla costa ionica in Anatolia. Il nome di « mar Ionio » e « golfo ionico » che utilizzavano i greci per designare rispettivamente il mare tra Epiro, Sicilia e mare Adriatico, sembra indicare l’origine ionica di questi primi esploratori. 66 Questi furono con ogni probabilità seguiti molto presto da altri coloni greci provenienti sia dall’Anatolia sia dalla Grecia propriamente detta. Le due prime colonie della Magna Graecia furono Pithecusa, situata sull’isola d’Ischia nel golfo di Napoli e Cumae (chiamata anche Kyme) a quattordici chilometri da Ischia sulla terra ferma di questa stessa baia. Le rispettive date di fondazione non sono conosciute con esattezza. È comunque probabile che Pithecusa sia stata fondata prima di Cumae attorno all’anno 750 a.C. oppure in una data ancora precedente67. Il sito di Cumae fu probabilmente scelto per la conoscenza della città etrusca di Capua, a quaranta chilometri a nord, con la quale devono essere esistiti dei contatti commerciali precedenti la fondazione delle colonie greche in Italia.68 Sarebbe proprio da Cumae che si sarebbe originato l’alfabeto adattato prima dagli Etruschi e in seguito dai Romani. Da questi due primi insediamenti, la colonizzazione greca non soltanto della costa campana ma di tutta la Magna Graecia e della Sicilia avanzerà rapidamente. La prima colonia greca in Sicilia fu Naxus, che secondo Tucidide fu fondata nel 734 a.C., sotto l’egida dell’eubeo Theocles.69 Questo stesso Theocles è ritenuto fondatore della vicina città di Leontini cinque anni dopo, nel 729. In seguito, la costa ionica fu allo stesso modo colonizzata con la

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T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 36 67 J. BOARDMAN, N. G. L. HAMMOND, Cambridge Ancient History Volume 03 Part 3 The Expansion of the Greek World, Eighth to Sixth Centuries BC¸ Cambridge University Press, Cambridge, 2008, pp. 101-102 68 J. BOARDMAN, N. G. L. HAMMOND, Cambridge Ancient History Volume 03 Part 3 The Expansion of the Greek World, Eighth to Sixth Centuries BC¸ Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p.103 69 J. BOARDMAN, N. G. L. HAMMOND, Cambridge Ancient History Volume 03 Part 3 The Expansion of the Greek World, Eighth to Sixth Centuries BC¸ Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p.103

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fondazione delle città di Sybaris da parte degli Achei e Tarentum (Taras) da parte dei Dorici di Sparta rispettivamente nel 721 e 708 a.C.70. I Greci della Magna Graecia restarono sempre popolazioni separate dal resto degli abitanti dell’Italia e allo stesso tempo furono divise al loro interno. Ogni colonia greca manteneva un contatto molto frequente con la propria città-madre e, come queste ultime, fu fortemente attaccata alla propria indipendenza tanto che non si unì mai in una qualche forma di unità o lega propria dei Greci dell’Italia o della Sicilia. Nondimeno, esse furono strumentalizzate durante l’espansione della civiltà ellenica trai popoli che colonizzarono e i popoli con i quali erano in contatto commerciale. Inoltre, furono le città greche a introdurre l’economia basata sull’argento invece del bronzo prima di ogni altro popolo della penisola; ebbero perciò delle grandi ripercussioni a livello dello sviluppo economico dell’Italia. Sembrerebbe comunque che la produzione culturale dei Greci della Magna Graecia e della Sicilia fu un po più limitata in confronto a quella dei loro compatrioti della Grecia propriamente detta71. Le ragioni per questa differenza sono multiple e differenti a seconda delle varie comunità tanto che sarebbe inutile provare a catalogarne le cause. Va comunque detto che le colonie di origine achea raggiunsero molto rapidamente un alto livello di prosperità grazie all’eccezionale fertilità delle terre che si scelsero per la loro colonizzazione (specialmente Syabris, Croton et Metapontum); portando secondo alcuni a un’indolenza poco propizia all’innovazione culturale.72 Gli altri Greci scelsero i siti delle loro colonie piuttosto per la qualità dei porti naturali (per esempio Cumae e Tarentum) ma praticarono anche l’agricoltura che permise loro di raggiungere una grande prosperità. Tarentum era nello specifico posta in ottima posizione, occupando il miglior porto della costa meridionale della

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T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 36 71 T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 38 72 Ibid.

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Puglia, ed essa dominava completamente il commercio greco dell’Adriatico non avendo che Corinto e Corcyra come rivali73. L’espansione coloniale greca verso l’occidente raggiunse il suo limite con la fondazione di Massalia, l’attuale Marsiglia sul delta del Rodano, attorno al 600 a.C..74 In seguito a questa data, altri siti furono ancora colonizzati ma mai più a ovest di Marsiglia. La ragione principale per questa interruzione relativamente improvvisa dell’espansione greca verso il bacino del Mediterraneo occidentale è dovuta all’ostilità accordata da parte dei Fenici e degli Etruschi, soprattutto dopo la rapida espansione della città fenicia di Cartagine sulla costa tunisina. Un tentativo greco di stabilire un banco à Lilybaeum fu inficiato da una manovra di Fenici e Siciliani indigeni nel 579 a.C., in seguito una manovra navale tra Cartaginesi ed Etruschi rese loro definitivamente inaccessibile la Corsica nel 537. Si chiuderà così il periodo di espansione greca verso l’occidente del mondo mediterraneo. In seguito alla fondazione di Agrigentum nel 580 a.C., non guadagnarono più territori pur continuando a giocare un ruolo politico, militare e commerciale di più o meno grande ampiezza fino alla sottomissione dell’intero bacino mediterraneo da part dei Romani tra la fine della Seconda Guerra punica e l’istituzione del Principato. La mappa sottostante mostra i principali gruppi di popolazioni presenti in Italia a metà del 7º secolo a.C.

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T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 37 74 J. BOARDMAN, N. G. L. HAMMOND, Cambridge Ancient History Volume 03 Part 3 The Expansion of the Greek World, Eighth to Sixth Centuries BC¸ Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p.140

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http://www.thamesandhudsonusa.com/web/ancientrome/resources/ch1resources.html

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2. Il Lazio e Roma fino alla fine dell’età monarchica

A. Il Lazio

La topografia della piana latina è piuttosto irregolare, caratterizzata da una serie di colline di media altezza e da profonde fessurazioni del suolo adatte a divenire dei laghi in inverno a causa dell’afflusso di acque piovane in assenza d’interventi idrografici. In queste zone paludose la malaria si diffondeva d’estate e rendeva le terre della pianura latina meno attraenti agli insediamenti umani rispetto alle terre più elevate. Le famiglie delle varie comunità latine formavano dei gruppi di tipo clanico detti gentes o clan. Questi gruppi sociali costituivano il legame tra le famiglie, i villaggi e i cantoni. I raggruppamenti politici che furono gli antesignani delle città-stato dell’epoca arcaica erano con ogni probabilità una combinazione di vari cantoni76, unitisi per le necessità religiose, militari e di scambio. I cantoni furono dunque costruiti attorno all’unità di base delle gentes claniche che si riunivano in villaggi, mentre più villaggi costituivano a loro volta un cantone. La cultura laziale è una variante della più grande famiglia conosciuta sotto il nome di cultura villanoviana (circa 1100 – 700 a.C.). La cultura laziale trova allo stesso modo la sua origine durante la fine dell’età del bronzo e il suo sviluppo è oggetto di una classificazione in sei fasi il cui uso è divenuto prassi nella storiografia interessata al periodo. Come si può osservare nello schema sottostante, la nascita della cultura laziale è attestata tra la fine del XIº e l’inizio del Xª a.C. È durante il periodo II B (830-770 a.C.) che i primi raggruppamenti di villaggi cominciarono a consolidarsi in formazioni proto-urbane. Il processo di aggregazione di diverse popolazioni locali sparpagliate sulla pianura latina in città-stato – la tradizione ci parla di trenta città-stato 76

T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, p. 9

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latine formanti la “lega latina” verso l’inizio del settimo secolo– durò diversi secoli e solamente nella fase IV A (730-630 a.C.) apparvero delle città nel senso proprio del termine. Questo periodo di circa due secoli conobbe comunque un’organizzazione sociale complessa, che doveva quasi certamente somigliare allo schema che ci presentano le varie fonti antiche a riguardo. Lo schema sottostante mette in evidenza la classificazione della cultura laziale tradizionale alla quale faremo riferimento quando necessario.77

Va osservato che un margine di +/- 25 anni è da tenere in conto nelle date di tale classificazione.78

I primissimi villaggi latini furono probabilmente situati attorno al monte Albano che domina la pianura latina e offriva dei vantaggi naturali sia per la difesa sia per il deflusso dell’acqua piovana in eccesso. Era naturale per queste comunità di piccoli villaggi sparpagliati di stabilire un centro comune situato nel luogo più difendibile del cantone dove essi erigevano la fortificazione, il tempio e il mercato comune. Attorno a questi monti fortificati detti capitolia o arces, furono in seguito costruite delle abitazioni a costituire dei nuclei urbani. La crescita della popolazione richiese infine l’erezione di una linea di cumuli di terra oppure di una palizzata di legno attorno all’Urbs, la sacra « cintura » attorno alla citta che segnava l’inizio della periferia posseduta dalla città detta agger (campo). I centri meglio posizionati attiravano

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C. J. SMITH, Early Rome and Latium: Economy and Society c. 1000 to 500 BC., Oxford University Press, 1996, p. xii, http://en.wikipedia.org/wiki/Latial_culture#cite_note-4 78 C. J. SMITH, Early Rome and Latium: Economy and Society c. 1000 to 500 BC., Oxford University Press, 1996, p. 50

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molto rapidamente degli emigranti per effetto congiunto del sinecismo (cioè la crescita di più villaggi in direzione di un punto centrale nel lungo periodo) e della crescita nucleare (ovvero l’espansione di un centro urbano a discapito delle comunità vicine che si trovano inglobate al nucleo centrale per il fenomeno dell’immigrazione).79 Questo processo di concentrazione urbana richiese più secoli, estendendosi secondo alcuni su un periodo che va dal nono al sesto secolo (II A à IV B).80 Molto si è scritto sull’espansione della popolazione di Roma e sulle tre tribù originarie, i Ramnes, i Tities e i Luceres di cui i Tities sarebbero di origine sabina e non latina. L’anno di fondazione supposto della città, 753 a.C., non è dimostrabile. Ciò che è invece chiaro in queste due narrazioni provenienti dalla tradizione è che i Romani si attribuirono una volontà di aggregazione e d’inclusione dei popoli vicini sin dalle origini. In più, essendo essi stessi fondatori delle città- nell’ambito delle colonie- e osservando dei riti di fondazione proprio come gli Etruschi, fu impossibile per gli storici romani l’idea che Roma non sia stata a sua volta fondata in una data specifica e nel rispetto di tali riti.81 Che Roma sia stata fondata o no, per i Romani tale fondazione fu una necessità intellettuale e religiosa al contempo.

Il periodo conosciuto storicamente come quello della cultura villanoviana (circa. 1100 – 700 a.C.) vide una rapida espansione delle comunità preurbane e poi proto urbane nel Lazio portando a una maggiore prosperità e a un’intensificazione della coltura delle terre. La quantità di terre arabili messa sotto coltura nel Lazio tra il settimo e il sesto secolo e soprattutto il lavoro investito nel loro miglioramento attraverso l’irrigazione e l’idrografia, è testimone di una grandissima densità di popolazione per quest’epoca. Come prova tra le altre 79

F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 35 80 Ibid. p. 35 81 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 82

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vi è il sistema di gallerie detti cuniculi82 scoperto nella periferia del sito di Velitrae83 – gallerie destinate a limitare l’erosione e a favorire il deflusso delle acque non a discapito della terra arabile– il Lazio dell’inizio del sesto secolo fu a tal punto sovrappopolato che divenne conveniente investire quantità di lavoro inaudite per rendere coltivabile qualche ettaro di terra in più. In breve la terra arabile divenne estremamente preziosa e la sfera sociale, economica e politica fu naturalmente dominata da coloro che ne detenevano il diritto di proprietà. Le numerose tracce di lavori la cui grandezza non può che essere maggiore delle capacità economiche di un contadino o di un gruppo di contadini medi, fanno pensare all’esistenza di un’aristocrazia di grandi proprietari terrieri già a partire da un’età preurbana.84 Furono proprio le gentes di questi grandi proprietari a diventare in seguito le gentes patrizie, l’aristocrazia che sorse dai meandri della storia all’epoca dell’espulsione dei Tarquinii (vedasi infra). L’espansione demografica e l’intensificazione dello sfruttamento del suolo andavano di pari passo con una grande mobilità demografica. Fu un’epoca di migrazioni continue su varie scale, che poteva andare da un capo banda che si installava altrove con la sua cerchia in forma pacifica– come il famoso Atta Clausus, fondatore della gens Claudia – alla conquista di un’intera comunità da parte di questo tipo di capo. Si è visto come gli Etruschi conoscessero da molto tempo il fenomeno dei capi di guerra che si lanciavano alla conquista dei territori vicini per stabilirvi dei nuovi principati. Lo stesso fenomeno esisteva evidentemente anche nel Lazio e numerosi sono gli esempi che ci offre la tradizione. Non va dimenticato che Romolo stesso sarebbe stato in realtà un capo banda indipendente, che la maggior parte dei re di cui ci

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I cunculi furono delle gallerie scavate nella tuffa a un metro di profondità e misuravano all’incirca un metro per mezzo metro, generalmente sull’orlo di burroni. Servivano a favorire il deflusso delle acque senza erodere le terre coltivabili e evitando la comparsa di acquitrini a valle delle colline. 83 T. FRANK, An Economic History of Rome, second revised edition, Batoche Books, 2004, p. 9; DAREMBERG & SAGLIO, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, Librairie Hachette et Cie., Paris 1877-1919, cunculi 84 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 98-104

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parla la tradizione furono degli stranieri, allo stesso modo dei fondatori di alcune famiglie tra le più illustri della storia repubblicana. Alla luce di queste considerazioni si può concludere che il Lazio dell’età finale del bronzo fu occupato da una popolazione numerosa che coltivava la terra, possedeva delle piccole tenute (la tenuta media, detta heredium, non superava generalmente i due jugera cioè 0.6 ettari)85 e una classe di grandi proprietari. Una relazione di tipo patronale, sulla quale avremo modo di ritornare infra, legava le masse di contadini-coltivatori ai capi clan, che formavano un’aristocrazia di proprietari terrieri. La classe dominante fu evidentemente strumentale al mantenimento delle strutture di difesa, l’armamento dei loro dipendenti, il regolamento dei conflitti politici e l’osservanza dei riti religiosi ed ebbe la tendenza col tempo a stabilire un monopolio su certi privilegi e determinate attività. Infine, degli elementi stranieri apparivano in modo intermittente, essendo di norma assimilati se la loro migrazione non era di tipo ostile. Due esempi-tipo sono il Re Tarquinio l’Anziano e suo padre Demarato di Corinto. Secondo una tradizione che sembra essere relativamente affidabile, alla luce delle insurrezioni civili che Corinto conobbe durante questo periodo, verso il 655 a.C., il padre del futuro re sarebbe fuggito da Corinto e si sarebbe installato nella città di Tarquinii, da qui suo figlio sarebbe andato successivamente a Roma con il suo seguito nell’anno 616.86 In breve, le città latine furono il frutto di uno sviluppo preurbano e poi proto urbano, periodo attraverso il quale tanto la crescita demografica delle popolazioni autoctone, quanto l’immigrazione pacifica e ostile provocò il fiorire delle città. Una di queste giovani città fu localizzata all’altezza del primo guado del Tevere, attorno a sette colline e in una posizione strategicamente incomparabile. Il nome di questa città era Roma.

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T. FRANK, An Economic History of Rome, second revised edition, Batoche Books, 2004, p 11 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 261 86

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B. Roma

La città di Roma ha origine con ogni probabilità nell’età finale del bronzo, dal momento che sono stati ritrovati frammenti di ceramica domestica sul Campidoglio che corrisponde a quest’epoca87 (attorno all’undicesimo secolo a.C.). È del resto molto probabile che questo sia stato il solo villaggio nel sito di Roma a quell’epoca, e che, malgrado la tesi tradizionale che sostenne Mommsen, non c’era un villaggio sul Palatino quando il Campidoglio fu abitato per la prima volta. Anche se il Palatino divenne successivamente il cuore della città arcaica, non fu probabilmente abitato prima del nono secolo a.C.. I Romani del Campidoglio hanno dunque probabilmente esteso lentamente la loro zona d’insediamento verso la piana del Foro88 e il Palatino. Non va comunque dimenticato che il Foro era ancora una zona acquitrinosa attraversata da dei corsi d’acqua; solamente con l’avvento della monarchia etrusca il Foro sarà completamente bonificato. Come detto supra, le necessità legate alla difesa e l’idrografia, portarono gli abitanti della pianura a stabilirsi sulle colline, ragione per la quale le sette colline di Roma e il Campidoglio in particolare devono aver attratto un gran numero di coloni.

Molti altri fattori resero eccezionale il sito di Roma. In primo luogo la vicinanza del Tevere che fu una via di comunicazione primordiale che permetteva il trasporto dei beni dalla sua foce a Ostie fino alle zone montagnose della catena degli Appennini abitata dai Sabini. Il sale, merce preziosa e indispensabile all’epoca, era trasportato dalle saline di Ostia attraverso la via Campana che seguiva la riva destra del Tevere per prendere il nome di via Salaria dopo la

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D. BRIQUEL, La lente genèse d’une cité, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, pp. 47-48 88 Ibid.

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città, lungo la riva sinistra89. Roma fu situata sul primo guado del Tevere, rendendo di tale sito un nodo commerciale naturale attraverso cui passava ogni mercanzia che venisse da Ostia, dalle montagne sabine, da nord o da sud. A parte il traffico commerciale, le relazioni a lunga distanza trai popoli del nord e del sud della penisola, passarono per forza di cose attraverso questo punto di passaggio inevitabile costituito dalla città, soprattutto dopo la costruzione del primo ponte sul Tevere.90 Roma fu in breve tempo, in un’epoca molto antica, un centro di scambio primordiale del Lazio attraverso il quale passava sia il commercio terrestre sia fluviale. Tra il decimo e l’ottavo secolo, la superficie abitata del sito di Roma si estese considerevolmente. Come confermano le fonti archeologiche, dopo il primo villaggio del Campidoglio altri villaggi si svilupparono sulle colline vicine come il Palatino e la Velia. Ciascuno di questi piccoli villaggi ebbe la propria necropoli ed è la scomparsa di queste necropoli attraverso un processo che comportò il loro graduale trasferimento verso la periferia, che ci permette di attestare archeologicamente la lenta espansione della zona abitata91. Bisogna aggiungere che il Septimontium di quest’epoca non corrisponde al Septimontium classico92 ma a una zona ben più ristretta che comprende il Palatino, la Velia, la Fugutal, la Subura, il Germal, il Celio, l’Oppio e il Cispio.93

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D. BRIQUEL, La lente genèse d’une cité, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p. 50 90 Si attribuisce la costruzione del primo ponte sul Tevere al re Anco Marzio(640-616 a.c.). Tale data non è verificabile ma è comunque probabile che risalga alla fine del sesto secolo. 91 D. BRIQUEL, La lente genèse d’une cité, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p. 60 92 Il Septimontium classico comprende l’Aventino, il Celio, il Campidoglio, l’Esquilino, il Palatino, il Quirinale e il Viminale. D. BRIQUEL, La lente genèse d’une cité, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, pp. 60-62

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Il Septimontium -

Così, attorno al VIIIº secolo la zona destinata all’uso urbano, cioè la zona da cui furono escluse le sepolture, occupava più di 150 ettari95. Queste notevoli dimensioni fanno di Roma una delle città più grandi dell’Italia dell’epoca la cui taglia superava già quella delle più grandi città etrusche come Tarquinii e Caere che all’epoca della loro più grande espansione misuravano rispettivamente soltanto 121 e 140 ettari. La fase II B della civiltà laziale, dall’830 al 770 a.C., conobbe così una grandissima estensione della popolazione dal sito di Roma attraverso un processo di sinecismo e di crescita nucleare. Sembrerebbe poi che la rapida crescita della città sia dovuta al relativo spopolamento che la zona del massiccio albano visse durante questo stesso periodo. La terza fase della cultura laziale (LCIII) apre le porte a un periodo di profondi cambiamenti sociopolitici all’interno dei vari popoli della penisola italiana. L’arrivo dei primi coloni greci a Pythecusa e Cumae, rispettivamente nel 775 e 750 96

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Ibid., p.59 Ibid., p.59 96 D. BRIQUEL, La lente genèse d’une cité, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p.64 95

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oltre che l’estensione del potere etrusco verso la pianura della Campania, fu l’inizio di una maggiore apertura dell’Italia sul mondo mediterraneo in generale e sul mondo greco in particolare. L’influenza culturale greca può essere vista nell’evoluzione delle tombe, che divengono via via più ricche e nell’aumento dei prodotti d’importazione. Ancor’più importante fu senza dubbio la lenta adozione del sistema militare oplitico sia da parte degli Etruschi sia da parte dei Latini, tecnica che s’impose definitivamente negli ultimi trent’anni del VIIº secolo a.C..97 Il complicarsi delle relazioni sociali dovuto all’espansione della popolazione e all’adattamento di un’organizzazione militare complessa che va al di là della banda clanica costituita da un capo e dai suoi sodales (compagni) incrementò l’aumento del potere dei capi dei clan aristocratici. Lo stesso processo portò gradualmente a una cooperazione più stretta, a una lenta fusione trai vari gruppi che popolavano il sito di Roma. Anche se la storia tradizionale della fondazione della città nel 753 attraverso il tracciato del perimetro sacro da parte di Romolo deve essere letta come una leggenda che poco ha a che fare con la storia, è certo che la città poteva già contare su strutture difensive in quell’epoca. Degli scavi sul versante nord del Palatino hanno permesso di ritrovare delle tracce di un muraglione risalente alla metà del VIIIº secolo.98 Tali fatti ci mostrano chiaramente che il Septimontium di quest’epoca si era già evoluto al di là dello stadio di comunità di piccoli villaggi sparpagliati sulle varie colline. A partire dalla seconda metà del VIIº secolo, Roma può essere già considerata come una vera città nascente. È anche verso questo periodo, verso l’anno 630, che la ceramica decorata di stile pre-corinzio comincia a diffondersi a Roma sotto l’influenza

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F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 35 98 Gli scavi in questione furono diretti da A. Cardini ; F D. BRIQUEL, La lente genèse d’une cité, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p.66

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delle città etrusche di Caere e Veii, grandi centri di produzione di ceramica all’epoca99. Inoltre, la fine del settimo secolo vede apparire delle vere e proprie « cittadelle » nel Lazio oltre che un importante sviluppo degli scambi, sia commerciali sia culturali, tra queste giovani città e le civiltà più avanzate del mondo greco ed etrusco. Con quest’apertura crescente delle città latine alle influenze esterne, per forza di cose crebbe l’insediamento pacifico d’immigranti greci ed etruschi verso le fiorenti città latine. La presenza di elementi stranieri a Roma in particolare risale senza dubbio a molto prima del settimo secolo. L’emergere di un lignaggio reale di origine etrusca è probabilmente legato a questa immigrazione benché essa non ne costituisca in alcun modo la causa. La tesi secondo cui Roma stessa sarebbe una fondazione etrusca è oggi largamente superata. Vero è che alla fine del settimo secolo- a partire dall’anno 616 a.C. secondo la tradizione100 – un monarca etrusco salì al trono dell’Urbs e inaugurò un periodo di grande crescita che sarà consolidato e continuato dai suoi successori. L’era etrusca della monarchia romana segna la comparsa di personaggi e avvenimenti la cui storicità è molto più sicura rispetto a quelli dell’era precedente. La storicità dei re Lucius, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo è quasi innegabile alla luce delle fonti storiche di cui si dispone oggi101. Inoltre, la cronologia delle cronache storiografiche romane diviene sempre più sicura a partire dall’emergere della dinastia etrusca. Bisogna comunque restare prudenti riguardo all’accettazione pura e semplice della cronologia come ci perviene dalla storiografia classica, non essendo questa infine verificabile al di là di ogni dubbio.102 Ad ogni modo, questo periodo segna l’inizio di una nuova era a Roma, un’era di espansione militare e di riorganizzazione delle strutture sociali emerse dall’epoca precedente.

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D. BRIQUEL, Des rois venus du nord, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p.89 100 Liv., I, 34-35 101 D. BRIQUEL, Des rois venus du nord, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p.91 102 Ibid., p. 91

Le

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strutture sociali, politiche ed economiche prevalenti all’inizio dell’era repubblicana furono il frutto della lunga evoluzione che le città conobbero durante l’era monarchica e come si è visto supra, Roma divenne una vera e propria città prima dell’emergere della dinastia etrusca. Concluderemo dunque questa prima parte della nostra ricerca tracciando l’evoluzione dello Stato romano tra la fine del settimo secolo e lo stabilirsi della Repubblica attorno al 509 a.C. al fine di completare il quadro storico necessario all’analisi delle strutture del potere politico a Roma.

C. La dinastia etrusca

Roma contava alcuni elementi stranieri trai suoi abitanti da molto prima dell’arrivo di Lucumone, il futuro re Tarquinio Prisco. Degli artigiani e commercianti di origine greca, etrusca, latina o italiana in generale furono senza dubbio già presenti a Roma a partire dal settimo secolo, se non prima. La comparsa della dinastia etrusca ha senza dubbio favorito i contatti con le altre città vicine ma niente indica, contrariamente a quanto si pensava un tempo, che l’influenza etrusca fu decisiva nella storia romana. I re etruschi furono certamente sovrani competenti ed energici ma malgrado le loro origini, la città sulla quale regnarono non divenne mai una città etrusca ma restò nella sostanza una città latina. 103 La veridicità della narrazione che ci presenta l’annalistica romana è impossibile da verificare. Una buona parte è senza dubbio un’estensione più tarda della storia, nella forma in cui essa è entrata nella tradizione, trasmessa in primo luogo in forma orale e scritta solamente secoli dopo.

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D. BRIQUEL, Des rois venus du nord, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p.88

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Nonostante l’impossibilità di confermare l’esattezza dei tre regni di questa dinastia, è innegabile che questa fosse etrusca e che il suo fondatore veniva da Tarquinia.104 La storicità di Servius Tullius proprio come quella di una rivoluzione patrizia che portò all’abolizione della monarchia attorno all’inizio del quinto secolo, sono state stabilite al di là di ogni ragionevole dubbio. È inoltre chiaro che almeno una dinastia dei Tarquini ha regnato su Roma, nonostante l’annalistica abbia dimenticato i nomi e il numero esatto dei re di questa dinastia. Le varie narrazioni che ci sono giunte sono cronologicamente inattendibili e si contraddicono attribuendo a volte delle opere o delle azioni a re differenti. L’esatta cronologia delle varie opere politiche, militari ed economiche che la città visse durante i 110 anni di dinastia etrusca non è di prima importanza nell’ambito di tale lavoro e di conseguenza ci limiteremo a presentare questi aspetti senza fare inutili speculazioni sull’identità dei loro autori. Si ritiene che il primo Tarquinio abbia cominciato un gran numero di opere pubbliche tra cui la cloaca maxima e il tempio di Iupiter Capitolinus. Avrebbe anche completato i lavori di pianificazione del Foro. Sul piano militare la fine del sesto secolo vede l’estensione dell’influenza romana verso le saline di Ostia. L’origine del primo Tarquinio, la città portuale di Tarquinia, rende verosimile l’ipotesi per cui l’interesse romano nel commercio marittimo risalga a quest’epoca. La fondazione del porto di Ostia, attribuita ad Anco Marzio, risale più verosimilmente all’epoca che corrisponde al periodo che va dal regno di Tarquinio Prisco, a quello di Tarquinio Prisco. Al regno di questo stesso Lucumone-Tarquinio si attribuisce l’esistenza di una comunità di artigiani tirrenici che abitavano il vicus tuscus, il quartiere degli Etruschi. É comunque probabile che la presenza di artigiani etruschi e greci risalga a prima dell’arrivo di un re etrusco a capo degli interessi romani, proprio come i lavori di pianificazione del foro che sembrerebbero piuttosto risalire al supposto regno di Anco Marzio (640-616 a.C.).

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Ibid., p.94

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Con la crescente penetrazione di uomini e d’idee di origine orientale, il modello tirannico greco si diffonde attraverso l’Italia centrale. I re della dinastia etrusca portarono con quelli dell’Etruria una concezione del potere reale che assomigliava più al modello greco e che traeva origine dalle città greche del mondo orientale. L’istituzione dei littori con i loro fasci, temibile simbolo del potere arbitrario dei re di punire e giustiziare- si tornerà su questo aspetto- risale senza dubbio a questo periodo. I simboli regali relativi alla carica reale, lo scettro, la corona e la toga assieme all’istituzione del trionfo, risalgono a questa stessa epoca in cui il potere personale del re fu avvicinato ideologicamente al potere divino. In effetti, durante il trionfo il re triumphator si recava al tempio di Iupiter Capitolinus con il volto dipinto di rosso e indossando la toga picta, entrambi attributi propri della divinità suprema nella sua rappresentazione. Il rafforzamento del potere reale non poteva evidentemente essere effettuato senza un corrispondente indebolimento delle altre due istituzioni politiche dell’assetto arcaico: il Senato e l’assemblea dei curiati. L’antagonismo del Senato era esplicato dalle cronache tradizionali che ponevano l’auguro Attus Navius in opposizione a Tarquinio Prisco quando quest’ultimo volle raddoppiare le centurie della cavalleria da tre a sei anni. Essendo la cavalleria appannaggio esclusivo dell’aristocrazia, cioè delle classi superiori della città, il loro aumento implicava un rimettere in discussione le istituzioni ataviche e un aumento del numero di famiglie che poteva anelare a un rango sociale superiore.

La cavalleria era

immensamente più costosa da mantenere rispetto alla fanteria e tali spese potevano essere sostenute solamente dalle famiglie più ricche della città. Le centurie equestri diedero inoltre accesso alle distinzioni civili e militari perché era tra questi uomini che si sceglievano di norma gli ufficiali superiori dell’esercito cittadino. Sin dal tempo della monarchia gli ufficiali dell’arma ebbero evidentemente una posizione sociale veramente importante e l’estensione del numero di famiglie che aveva un accesso privilegiato a queste funzioni deve aver creato

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dei risentimenti presso la vecchia aristocrazia originaria. L’opera di riforma sociale e militare fu completata dal successore di Tarquinio, Servio Tullio, che è ritenuto l’autore della messa in atto di un assetto incredibilmente resistente in cui una posizione predominante fu accordata al ceto più agiato della città attraverso un’organizzazione sociale parallela allo schema militare oplitico in cui fu rifondato il corpo dei cittadini.

La dinastia etrusca sembra aver conosciuto un’interruzione, che si produsse immediatamente dopo il primo regno o immediatamente prima dell’ultimo; poiché l’annalistica non è affidabile circa il numero e la durata dei regni, non è possibile dire con esattezza quando ebbe luogo il regno di Servio Tullio. Ci atterremo per ragioni pratiche alla cronologia che ci giunge dalla tradizione, cioè che Tullius regnò dal 578 al 535 a.C.. La sacralizzazione del potere reale continuò il suo corso durante questo periodo, trovando degli esempi pratici nella costruzione del santuario di Sant’ Omobono dedicato a Fortuna e a Mater Matuta, che mostra il legame tra il re e le dee protettrici nello spirito degli dei greci come Héraklès.105 In più, si osserva un rafforzamento della tradizione romoliana con Servo Tullio che si propone come una sorta di secondo fondatore della città, visto che la tradizione riguardo al suo regno contiene dei parallelismi impressionanti con le gesta di Romolo106. Del resto, Tullius fece costruire un nuovo tempio dedicato alla dea Diana sull’Aventino con la chiara volontà di soppiantare l’ultimo sito religioso di carattere federale della lega latina, il tempio di Diana sul lago di Nemi107.

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D. BRIQUEL, Des rois venus du nord, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p. 113 106 Ibid., p. 105 107 Il tempio di Diana sul lago di Nemi è interessante soprattuto per quanto rigurda il suo officiante, detto il rex nemorensis, il re di Nemi, che ottenne la carica assassinando l’incaricato precedente, e la mantenne fino a che non fu a sua volta eliminato da un rivale più forte.

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Come già menzionato, la storicità di Tullius sembra assicurata. L’identità di Tullius prima di ricoprire la carica di re è stata quella di Mastarna, uno dei sodales o compagni del condottiero etrusco Caelius Vibenna.108 Va ricordato che il Lazio di tale epoca fu una terra coltivata in modo estremamente intensivo al fine di nutrire una popolazione in piena crescita. Se si può credere alle cifre consegnateci dalla tradizione, il numero di abitanti dell’Urbs sarebbe passato da 80.000 a 130.000 durante il regno di Servio Tullio. Una tale crescita demografica mette evidentemente in contrapposizione due interessi in una società composta in gran parte da contadini-agricoltori: i diritti di successione dei figli maschi e il mantenimento senza divisioni delle terre di famiglia affinché queste fossero allargate per mantenere l’intera famiglia. Proprio come nel caso di altre epoche storiche – come ad esempio le circostanze economiche della Scandinavia che portarono alle invasioni dei Vichinghi nel IXº secolo a.C. – per i figli in eccesso una delle soluzioni fu di unirsi e costituire delle bande di mercenari sotto il comando di un capo, offrendo i loro servizi al primo arrivato. Mastarna fu con ogni probabilità uno di questi mercenari giunto a Roma sotto il comando di un certo Caelius Vibenna, che secondo la tradizione, diede il suo nome alla collina che porta ancor'oggi tale nome. Si attribuiscono a Servio Tullio varie grandi imprese tra cui le più importanti sono senza dubbio la costruzione della muraglia Serviana e la riforma costituzionale che introdusse la logica del censimento dei cittadini e del sistema di voto censitario nell’assemblea centuriata che egli introdusse per soppiantare la vecchia assemblea curiata. La muraglia serviana è interessante poiché testimonia l’enorme estensione che la città occupava già a quest’epoca. In confronto alle altre città del Lazio, Roma era immensamente più grande, occupando una superficie di 427 ettari (di cui 248 almeno erano occupati dalle quattro tribù urbane che istituì Servio Tullio, sostituendo le tre tribù « genetiche » della città romoliana) rispetto alle più grandi città

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D. BRIQUEL, Des rois venus du nord, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p. 102

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etrusche come Tarquinia, Cerveteri e Veio che non occupavano rispettivamente che 121, 148 e 194 ettari.109 La riforma costituzionale di Servio Tullio sembra essere stata necessaria sia sul piano civile sia militare. Il suo obiettivo era di rifondare il corpo dei cittadini in una nuova unità più omogenea rispetto a quella che era risultata dal mescolamento di elementi locali e stranieri durante i primi secoli della storia della città. La divisione della popolazione romana in una classe di grandi proprietari patrizi e una classe immensamente più numerosa di clienti dipendenti dai primi, fu troppo primitiva per permettere l’introduzione delle nuove tecniche militari che i re etruschi vollero introdurre a Roma. In primo luogo, l’aristocrazia sembra essere stata, almeno all’origine, il solo gruppo d’individui investiti della totalità dei diritti cittadini legati alla sovranità e comunque, obbligati al pagamento dell’imposta di guerra e a effettuare il servizio militare nelle legioni cittadine, accompagnati dai loro clienti. L’introduzione del sistema oplitico richiese l’introduzione di un sistema di censimento della proprietà e l’inclusione di tutti gli abitanti permanenti e liberi della città in uno statuto comune, obbligando questi ultimi agli stessi tipi di pagamenti pubblici e dando loro voce nell’assemblea cittadina. Ciò non implicava comunque che essi furono obbligati agli stessi doveri pubblici poiché la contribuzione fiscale e le responsabilità militari relative furono proporzionali alla ricchezza di ciascun cittadino, obbligando i più ricchi a munirsi dell’equipaggiamento più costoso. Il censimento che egli introdusse fu con ogni probabilità organizzato sulla base della stima di valore in capi di bestiame– la parola pecunia (denaro)110, che deriva da pecus (bestiame)111, mostra chiaramente che il bestiame fu il primo modo di recensire la ricchezza trai romani- dal momento che i mezzi di scambio in metallo erano stati introdotti a Roma molto recentemente-

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D. BRIQUEL, Des rois venus du nord, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000. 119-120 110 F. GAFFIOT, Dictionnaire latin-français, Hachette, Paris, 1934, pecunia, p.1131 111 F. GAFFIOT, Dictionnaire latin-français, Hachette, Paris, 1934, pecus, p. 1131

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. Il bronzo fu il metallo prediletto per gli scambi commerciali a quell’epoca, mentre il baratto era ancora il mezzo più utilizzato. A Servio Tullio si attribuisce l’introduzione della prima moneta pubblica sotto forma dell’aes signatum (ovvero il bronzo in lingotti marchiati), che sostituì gradualmente la sua forma più primitiva, l’aes rude ( cioè lingotti di bronzo allo stato grezzo con valore al peso). Questa non era chiaramente una moneta ufficiale in senso stretto ma è certamente un indicatore del fatto che le transazioni in denaro cominciavano a fare la loro lenta comparsa a Roma. Il fatto che nessuna innovazione fu più introdotta nel sistema monetario romano fino a circa la metà del quarto secolo a.C.112 – quando Roma fece coniare le sue prime monete d’argento attraverso la Moneta di Capua – prova che a seguito dell’espulsione dei principi etruschi Roma si ritirò gradualmente dal commercio per concentrarsi quasi esclusivamente sull’agricoltura e le guerre di espansione in Lazio. Spiegheremo i dettagli dei cambiamenti dell’assetto economico introdotti dalla riforma di Tullius nel capitolo dedicato alle strutture sociali e politiche dell’era arcaica: basterà qui dire che il nuovo assetto sociale fu particolarmente adatto a una società guerriera e rese possibile il grande compito di conquista e di unificazione cui si dedicarono gli ultimi re della dinastia etrusca.

Il regno di Servius Tullius sarebbe terminato con l’assassinio di quest’ultimo per opera di suo genero, Lucio Tarquinio il Superbo che sarebbe il figlio di Lucio Tarquinio Prisco. Nuovamente, la cronologia che ci offrono le varie fonti annalistiche è causa di dubbi e non è possibile verificare se l’ultimo dei re Tarquini sia stato realmente il figlio del primo o se invece il marito di una figlia di Servio Tullio. Lo stesso Tito Livio afferma di non poter dichiarare con certezza se il Superbo fu un figlio o un nipote di Tarquinio Prisco.113 Conviene dunque limitarsi ai fatti storicamente provati che sono in primo luogo il fatto che la dinastia 112 113

T. FRANK, An Economic History of Rome, second revised edition, Batoche Books, 2004, p 41 Liv. I, 46, 4

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etrusca fu interrotta e in secondo luogo il fatto che questa fu ristabilita da parte di un erede della casa reale dopo la morte di Mastarna – Servio Tullio, il cui assassinio non è certamente ancora escludibile. Le date del regno oltre che l’identità di Tarquinio il Superbo sono storicamente abbastanza plausibili. Allo stesso modo sembrano plausibili le varie campagne militare che avrebbe intrapreso, in perfetta continuità col suo predecessore, con l’obiettivo di soggiogare una volta per tutte la pianura latina e di stabilire Roma come capo assoluto della lega dei trenta popoli latini. La tradizione vuole che egli sia stato un tiranno114, -avendo inaugurato il suo regno con il sangue avrebbe soppiantato Servio Tullio con un colpo di stato nel corso del quale il vecchio re fu assassinato sotto i suoi ordini115 – e regnato nel sangue facendosi odiare quanto dai comuni cittadini (a causa di continue corvées si dice) tanto dal Senato (non avendo riempito i posti vacanti al Senato e volendo ridurre considerevolmente l’influenza dei patres che vi sedevano). Va per forza osservato che non fu un cattivo generale116 ; la tradizione si conferma con l’indubitabile egemonia che l’ultimo Tarquinio riuscì a stabilire sul Lazio e su una parte delle terre sabine. Il trattato che la giovane Repubblica concluse con Cartagine nell’anno 509 a.C. che ci è pervenuto grazie agli scritti di Polibio (3, 1, 22)117 rende più che plausibile la tesi della dominazione romana nella maggior parte del Lazio. Il trattato escluse i commercianti romani dal Mediterraneo occidentale ma sembra ammettere una vera e propria egemonia mediterranea sulla pianura latina. La data della sua conclusione da luogo ad alcune ambiguità visto che è difficile determinare se questo – favorevole come fu a Cartagine – sia stato concluso per la volontà cartaginese di riaffermare i rapporti esistenti con il nuovo governo o se fu imposto a Roma sotto la costrizione della perdita di varie comunità latine in seguito all’abolizione della monarchia. Probabilmente entrambi i fattori sono presenti: da una parte, la 114

Liv., I, 53 Liv., I, 48 116 Liv., I, 53 117 Citato in: D. BRIQUEL, Des rois venus du nord, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, pp. 127-128 ; 115

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Repubblica era costretta ad accettare di sacrificare i suoi interessi meno diretti (come le restrizioni commerciali che le impose Cartagine) con il fine di difendere la sua egemonia latina che rischiava di essere minacciata. D’altra parte Cartagine non poté far altro che accettare sia l’egemonia romana sul Lazio sia l’accesso delle navi romane ai porti mediterranei. Roma era in realtà già una potenza riconosciuta al momento dell’abolizione della monarchia. Cartagine, la prima potenza marittima del mediterraneo occidentale, riconobbe la sua posizione dominante in Italia centrale pur escludendola gelosamente dal suo bacino commerciale, Il fatto è che nel periodo dell’espulsione di Tarquinio il Superbo, il potere etrusco era in lenta ma certa decrescita e ciò permise, nonostante le coalizioni etrusche dalle quali dovette difendersi la giovane Repubblica, alle armate romane di cominciare la loro lunga marcia verso l’unificazione della penisola. Il regno di Lucio Tarquinio il Superbo fu allora un periodo di espansione del potere romano, non solamente in Italia centrale, ma anche nella sua attività commerciale nel mar Tirreno. Varie opere pubbliche cominciate da Tarquinio Prisco sono ritenute essere state portate a termine durante il regno dell’ultimo sovrano etrusco. Il tempio dedicato a Iupiter Optimus Maximus sul Campidoglio, un edificio di vaste dimensioni per l’epoca, fu completato durante questo regno118 anche se fu consacrato solamente nell’anno 509. Dopo la rivoluzione repubblicana. Questo tempio fu di eccezionale importanza poiché andò a sostituire definitivamente il tempio di Giove sul monte Albano, l’antico centro religioso comune ai popoli latini. Furono inoltre completate la cloaca maxima (il sistema fognario centrale della città) e il circus maximus (l’ippodromo).L’ultimo regno etrusco a Roma vide anche gli inizi di un lungo conflitto intrapreso con i Volsci, che dimostra ancora una volta come il Lazio in quanto tale era già stato in gran parte soggiogato e come l’influenza dell’urbs si estendesse ormai fino ai confini delle terre più elevate a sud della pianura latina.

118

Liv., I, 55-56

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Al giorno d’oggi è ampiamente riconosciuto che i due ultimi regni di Roma introdussero una politica favorevole ai contadini liberi che, dopo le riforme serviane, erano divenuti assolutamente indispensabili in quanto opliti. Evidentemente non tutti i contadini liberi esercitavano la funzione di opliti, solo coloro che possedevano una fortuna sufficiente a sostenere il costo elevato legato all’acquisto e al mantenimento dell’equipaggiamento oplitico non essendo più utili come soldati. La distribuzione delle porzioni di terra arabile che avrebbe intrapreso Servio Tullio, la prima volta in cui le terre confiscate ai nemici furono consegnate in lotti alla “plebe” secondo le nostre fonti119, fu con ogni probabilità una manovra di natura sia militare sia economica. Una volta introdotto il sistema oplitico, era necessario renderlo stabile costituendo una base di uomini liberi sufficientemente grande per soddisfare i bisogni militari dello Stato. La qual cosa presupponeva evidentemente un grande gruppo di tenutari liberi che avessero abbastanza mezzi da poter accumulare il surplus necessario all’acquisto e al mantenimento dell’equipaggiamento militare richiesto. Nonostante l’avidità a tratti cieca dei grandi proprietari patrizi, questi ultimi non persero mai di vista questa necessità economica e militare di base e durante tutto i primi secoli della Repubblica s’intrapresero delle lottizzazioni della terra attraverso la distribuzione di parcelle di terra e lo stabilimento di colonie strategiche su terre confiscate ai nemici sconfitti. La comprensione di queste necessità non andava tuttavia così lontano da portarli alla volontà di innalzare le condizioni materiali dei non-patrizi ma semplicemente ad assicurarsi la loro capacità di fornire il numero di legionari richiesti.

I diritti dei non patrizi erano allora molto limitati all’inizio dell’era repubblicana, essendo essi dei cives non optimo iure, traducibile con l’espressione « cittadini di seconda categoria », cioè

119

Liv., I, 46

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coloro che sono soggetti ai doveri pubblici senza avere accesso ai privilegi pubblici come il diritto di essere eletto alle magistrature, di essere scelto per gli offici sacerdotali... Un’ultima breve considerazione merita di essere fatta prima di ritornare sulla nascita delle istituzioni repubblicane attraverso uno studio delle strutture sociali e politiche prevalenti a Roma all’inizio del quinto secolo: la natura della rivoluzione repubblicana. È conveniente dimenticare l’immagine di un popolo oppresso dagli atteggiamenti tirannici di un re crudele, spinto infine alla rivolta a seguito del rapimento di una nobile fanciulla romana da parte di Tarquinio il Superbo. La rivoluzione repubblicana fu una rivoluzione patrizia, una rivoluzione condotta e istigata da degli elementi aristocratici che cercavano di mettere fine ai tentativi dell’ultimo re di minare il loro potere e la loro influenza nello Stato. È importante a questo punto concentrarsi su che cosa rappresentavano il patriarcato, il populus e la plebe al momento dell’espulsione dei re al fine di comprendere la divisione interna della società all’inizio della Repubblica oltre che le cause e le conseguenze del conflitto degli ordini.

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3. Il corpo dei cittadini dalle sue origini alla Repubblica

A. L’organizzazione gentilizia

L’organizzazione sociale prevalente a Roma all’inizio del quinto secolo fu il frutto di un processo di aggregazione di più gruppi sociali molto differenti tra loro, uniti infine da una sorta di statuto comune sotto la forma del diritto di cittadinanza, ma comunque differenti e persino autonomi gli uni dagli altri. Per ripercorrere l’origine delle differenze sociali a Roma conviene risalire almeno all’epoca protovillanoviana che è la prima fase della cultura laziale, attorno al Xº secolo a.C., in cui i concetti di cittadinanza e di territorialità non esistevano ancora. I popoli dell’Italia di quest’epoca erano suddivisi sulla base di un’organizzazione gentilizia o clanica.120 I clan, denominati gentes in latino, non furono dei consorzi, né delle famiglie, né delle nazioni o tribù. L’unità del clan era basata sulla convinzione dei suoi membri di essere i discendenti di uno stesso antenato che aveva dato nome al clan – il sistema onomastico romano fu basato sul nomen gentile, il nome del clan, che fu il nome supposto del fondatore del lignaggio – e la loro osservanza dei riti (sacra) tenuti in comune come il rito del focolare domestico (Vesta) e il rito dei morti (i Manes).121 L’origine dei clan è senza dubbio legata alla tenacità con la quale fu conservata l’unità familiare attraverso le generazioni; in una famiglia era relativamente facile identificare le tappe successive della discendenza legittima (agnatio) a partire dall’antenato che aveva fondato la famiglia fino alla propria generazione. Di contro, nel corso delle generazioni il legame tra questo fondatore originario e i suoi discendenti più lontani aveva tendenza a disperdersi e a divenire sempre meno facile da rintracciare. Nasce così la gens: un raggruppamento di famiglie unite dalla coscienza di tutti di condividere un 120 121

M.-A. LEVI, Le gentes a Roma e le XII Tavole, Dialogues d’histoire ancienne (DHA), 21.1, 1995, p. 134 BRIZZI, op. cit. p.51

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antenato comune senza essere più capace di risalire di generazione in generazione all’antenato in questione.122 La struttura gentilizia non fu limitata al solo mondo latino e sembra anche possibile che sia stata condivisa dall’insieme dei popoli dell’Italia arcaica.123 Nessun limite spaziale confinava le attività dei clan, il territorio « nazionale » della città e le limitazioni che esso implica fecero infatti parte di un concetto giuridico più tardo: il diritto di cittadinanza. Fino all’emergere delle città e delle loro istituzioni di diritto pubblico, le gentes migravano – sia pacificamente sia organizzate in bande armate – attraverso le pianure perseguendo le loro attività agricole, nomadi o e pastorali. Il carattere universale dell’organizzazione gentilizia nell’Italia preurbana è confermato dallo sviluppo del « diritto delle genti », chiamato ius gentium, che divenne progressivamente la base del diritto internazionale pubblico comune alla maggior parte dei popoli dell’Italia arcaica. La definizione che diede Gaius124 del diritto civile e del diritto naturale (cioè lo ius gentium) nelle Institutes è la seguente:

« [I. De iure civili et naturali.] 1. Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur: Nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium est vocaturque ius civile, quasi ius proprium civitatis; quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. […] ».

122

125

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, 1856, Buch I, p. 53-54, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 123 BRIZZI, op. cit. p.50 124 Gaius, giurista di era imperiale che scrisse un manuale delle istituzioni giuridiche romane dette Institutes attorno all’anno 161 a.c. ; si veda a queso proposito A. BERGER, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, The American Philosophical Society, 1953, p. 504 125 Gaius, Institutes, I, 1

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Il diritto civile, scrive, è il diritto particolare proprio di ogni singola città.126 Lo ius gentium è invece il diritto comune di più popoli, un diritto naturale che non deriva da un qualche legislatore ma che è fondato sulla naturalis ratio.127 Chiaramente i costumi (mores) legati all’organizzazione clanica furono a tal punto comparabili presso i vari popoli dell’Italia arcaica che costituirono una base sufficiente per lo sviluppo di usanze universali anche dopo che l’emergere delle città portò alla comparsa di sistemi giuridici statali propri di ogni civitas. L’esistenza di questo corpo tradizionale proprio del sistema clanico spiega anche la facilità con cui certi clan aristocratici stranieri poterono migrare da una zona all’altra mantenendo il loro status aristocratico. Così, il clan di Atta Clausus128, un capo aristocratico della Sabinia, fu ammesso al patriziato romano (inter patres lectus)129 sotto il nome di gens Claudia due secoli e mezzo dopo la data supposta di fondazione della città. La sola spiegazione veritiera che si presenta è dunque che le usanze legate all’aristocrazia gentilizia erano condivise da tutti i popoli che avessero un’organizzazione clanica.

Ogni clan aveva un gran numero di clienti, degli uomini liberi (infatti, nonostante la loro dipendenza socioeconomica non si trattava di schiavi) legati ai differenti patres familiae del clan in uno stato di subordinazione giuridica e materiale vicina a quella dei servi del sistema demaniale.130 Lo status di cliens implicava una relazione di protezione tra un protettore e un protetto, dove il protettore (patronus) assicurava una protezione di tipo patronale al suo cliente; l’etimologia

126

A questo proposito si veda anche Cicerone che dichiara anche che lo ius civile è il diritto particolare a ciascuno Stato (Cic. de Orat., I, 44) 127 Gaius, Institutes, I, 189 128 Anche conosciuto con il nome di Appius Claudius Inregillensis, di origine sabina, che emigrò verso l’agger romanus con i 5000 clienti della sua gens nel 504 a.c. (si veda la nota 111) 129 M.-A. LEVI, Le gentes a Roma e le XII Tavole, Dialogues d’histoire ancienne (DHA), 21.1, 1995, p. 132 130 M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana : istituzioni, diritto, religione, p.12, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, pp. 424-425

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della parola patronus, proveniente da pater proprio come la parola patrizio o patricius, dimostra l’intimo legame tra patriziato e patronato. Inoltre, i clienti furono anche detti liberi, un termine che fu anche utilizzato per definire i figli.131 La relazione implicava dei diritti e degli obblighi reciproci tra cliente e padrone anche se queste era quest’ultimo a ricoprire la posizione sociale e giuridica dominante all’interno della relazione. Gli obblighi reciproci del padrone e del cliente sono descritti da Dionigi di Alicarnasso132, secondo il quale il padrone doveva al suo cliente il consiglio giuridico, il sostegno morale e finanziario in caso di problemi legali o di altro tipo e una benevolenza paterna per gli interessi del cliente. Da parte sua, il cliente assicurava al proprio padrone il proprio voto alle elezioni (se aveva diritto di voto o suffragium), contribuiva se necessario alla dote di matrimonio delle figlie del padrone attraverso doni volontari, pagava il riscatto del padrone e dei suoi figli, pagava le perdite del padrone nelle cause private o derivanti da condanne penali, lo aiutava ad aumentare il suo prestigio sociale (più importanza si aveva, più clienti si possedevano) e, infine, doveva assistenza al suo patronus in caso di guerra. Alcuni di questi diritti e obbligazioni appartengono probabilmente a un’epoca più tarda ma la protezione finanziaria e legale da parte del padrone relativamente al servizio militare, il riscatto e la dote da parte del cliente, sono degli esempi tipici di relazioni personali nella forma in cui sorsero prima e non dopo la comparsa del potere centrale della città o dello Stato. In più, i vasti lavori idrografici che furono intrapresi nel Lazio nel settimo e sesto secolo

133

,

dimostrano da parte loro che i grandi proprietari terrieri latini ebbero accesso a grandi quantità di mano d’opera che furono costrette a effettuare delle corvées per essi nell’ambito di una relazione patronale.134 Questa struttura sociale, molto differente sotto molti aspetti, mostra

131

M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana : istituzioni, diritto, religione, p.12, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, p. 467-520. 132 Dion. Hal., Ant. Rom., II, 10, 1 133 Infra, p. 19 134 T. FRANK, An Economic History of Rome, second revised edition, Batoche Books, 2004, p. 11

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una certa somiglianza con la servitù del sistema demaniale che si diffuse in Europa occidentale tra il nono e il dodicesimo secolo d.C.135

B. I clan e la cittadinanza

Con la progressiva sedentarizzazione provocata dall’intensificazione della coltura del frumento e una diminuzione delle attività di tipo nomade, furono fondati alcuni villaggi permanenti che avevano tendenza ad aggregarsi e a volte a divenire delle vere e proprie città in virtù della crescita della popolazione, del sinecismo e della crescita nucleare. L’emergere delle città portò alla delimitazione di un territorio a esse appartenenti- agger della città- nel quale i gruppi gentilizi non poterono da quel momento agire più in via autonoma se non per ottenere il diritto di cittadinanza attraverso la conquista o l’integrazione volontaria. È così che inizia una lenta sovrapposizione delle due strutture di diritto pubblico profondamente differenti: il sistema gentilizio e il diritto di cittadinanza. In primo luogo vi erano tutte le famiglie dei discendenti dei fondatori dei lignaggi gentilizi che costituivano il clan strictu sensu. Intimamente legato a questo gruppo di clan patrizi vi era la massa dei loro clienti, che costituiva una parte dell’esercito cittadino, il popolus. Infine vi era il corpo dei cittadini, uniti da legami di civitas e non di clan. La grande varietà della popolazione urbana che si costituì a Roma tra l’VIIIº e il Vº secolo, che poteva contare su schiavi, affrancati, artigiani e commercianti originari dell’Italia, della Grecia, della Toscana o delle città fenicie, favorì un processo di aggregazione nazionale nelle città stato. Molto progressivamente, sorse una nuova forma chiave di organizzazione sociale: la cittadinanza.

135

Ibid. p. 11

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Il diritto di cittadinanza e la monarchia, entrambi degli effetti dello stabilirsi di un nuovo potere centrale a partire dall’epoca proto-urbana (IV A, ovvero 730-630 a.C.) che si associa nella tradizione alla “fondazione” dell’Urbs da parte di Romolo, portarono alla comparsa di un gruppo sociale per il quale il sistema gentilizio non aveva alcun significato. Un gran numero di artigiani immigrati, soprattutto stranieri, Greci o altri, non aveva il loro spazio nell’organizzazione gentilizia dei Romani e in più, alcuni tra loro erano ora protetti dal re del quale erano divenuti clienti. Il sistema patronale continuava dunque a esistere ma non fu più indissolubilmente legato al sistema militare gentilizio di cui era stato il principale strumento di dominazione sociale prima dell’epoca serviana. Due realtà sociopolitiche si distinguevano così a Roma all’epoca della dinastia etrusca: quello della città e quello della sua campagna; una dicotomia che si ritrova nell’opposizione tra le quattro tribù urbane e le dieci tribù rurali nelle quali Servio Tullio avrebbe diviso il territorio romano per facilitare la levata alle armi e l’imposta di guerra.136 Nella zona urbana all’interno del pomoerium (dal latino post moerium, il limite sacro della città), la popolazione si dedicava principalmente ad attività come il commercio, l’artigianato, la costruzione e la decorazione dei templi, delle case, etc. e i legami di clan esistevano solamente nella figura del capo delle gentes patrizie che si erano installate in città. Nella zona rurale invece, si trovavano i clan di grandi proprietari agropastorali che erano quasi indipendenti e in tutto i meno autonomi dal potere centrale della città. I grandi clan patrizi e i loro clienti o liberi137 erano impegnati nella produzione di generi alimentari, di lana, di formaggio e di ogni altro prodotto agropastorale di cui la città aveva bisogno. Vendevano cosi i loro surplus di produzione ai mercanti della città, cosa che generava progressivamente dei profitti per questi clan, che poterono trasformare in proprietà di terre arabili nella periferia 136

Au sujet du tributum voyez : C. NICOLET, Censeurs et publicains – Economie et fiscalité dans la Rome antique, Fayard, Paris, 2000, chapitre II : Aperçus sur la fiscalité à Rome sous la République, pp.71-79 137 M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana: istituzioni, diritto, religione, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, p. 424.

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della città, rafforzando ancora la loro posizione economica.138 Le tribù rurali (cioè i distretti amministrativi del territorio romano al di là del pomoerium) avevano anticamente i nomi dei clan patrizi, come la tribù claudia, dove il clan dei Claudii ricevette il diritto di installarsi nel 504 a.C. assieme ad un vero e proprio esercito di 5000 loro clienti.139 Si vede dunque facilmente quale fu il ruolo e quale la posizione giuridica di questi clan patrizi durante l’era monarchica: furono in un primo tempo i grandi proprietari agropastorali della periferia della città a produrre generi alimentari e materie prime di cui la città aveva bisogno. Inoltre, assicurarono una forza di difesa alla città dal momento che i clan e i suoi dipendenti fornivano dei contingenti armati all’esercito cittadino, il popolus. Certi clan patrizi sono conosciuti per aver posseduto degli eserciti veri e proprio e per aver condotto delle guerre come l’esercito composto unicamente dalla gens Fabia e dai suoi clienti. Questo esercito fu inviato a combattere le forze della città di Veii nel 477 a.C. e fu interamente distrutta durante la battaglia del fiume Cremera.140 La lunga scomparsa della gens Fabia dai Fasti (le liste dei magistrati romani) dopo l’anno 477 rende indubitabile la storicità dell’episodio. Vi furono dunque delle differenze enormi trai commercianti e gli artigiani urbani e i grandi proprietari agricoli della periferia della grande Roma dei Tarquini.141 Nell’ambito dell’organizzazione sociale dell’era arcaica, i clan dei grandi proprietari poterono arrogarsi un’importanza religiosa, militare e politica che è difficile da sottovalutare. Le materie prime indispensabili alla sopravvivenza di una densa popolazione urbana- e la Roma della monarchia etrusca fu senza dubbio un grande centro urbano- vengono per forza di cose dalla campagna, essendo solo in seguito lavorati e venduti a profitto dagli artigiani e dai commercianti risiedenti nella 138

M.-A. LEVI, Le gentes a Roma e le XII Tavole, Dialogues d’histoire ancienne (DHA), 21.1, 1995, pp.123-125 M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana : istituzioni, diritto, religione, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, p. 424 140 Liv. II, 48-50 141 La grande Roma dei Tarquini e la Roma del tempo della dinastia etrusca (dal 616 al 509 a.c.) in cui le attività commerciali furono spesso più importanti rispetto alla Roma dell’inizio della Repubblica. La perdita dei contatti con l’Etruria e la rivolta delle città sorelle della lega latina causò un ripiegamento su se stessa ed un ritorno in auge dell’agricoltura a discapito del commercio, dell’artigianato e delle costruzioni monumentali che Roma conobbe durante l’epoca precedente. 139

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città. Secondo alcuni furono perciò142 i clan rurali che erano principalmente impegnati nella produzione di vaste quantità di cibo e di materie prime necessarie al mantenimento della popolazione urbana a occupare progressivamente una posizione economica e militare estremamente influente pur restando in qualche modo distinti e autonomi dalla città. I clan che avevano avuto più successo, ebbero evidentemente tendenza a ottenere le proprietà dei loro vicini meno fortunati, fenomeno che portò all’accumulazione progressiva delle terre possedute dai clan più potenti. Infine, queste gentes patrizie furono autonome dalla città non soltanto per il fatto di possedere delle forze militari private, ma soprattutto poiché disponevano di grandi quantità di clienti alle loro dipendenze che costituivano la loro mano d’opera agropastorale in cambio del diritto di sfruttare dei lotti di terra per uso personale. Va aggiunto che non è assolutamente detto che questi clienti vivessero nelle stesse condizioni materiali miserabili di quelle associate ai servi del Xº secolo d.C.. Proprio al contrario invece, come vedremo infra, furono, con ogni probabilità relativamente prosperi dal momento che in certi casi furono capaci di dotarsi della panoplia oplitica necessaria al compimento del servizio militare per i loro capi aristocratici.143 Solamente tra il quarto e il quinto secolo le forze militari private di questi capi aristocratici locali furono trasformate in un vero e proprio esercito cittadino, subordinata in primo luogo allo Stato piuttosto che ai capi aristocratici144, e reclutata per intero tra i corpi dei cittadini secondo una logica di censo.

142

Voyez à ce sujet M.-A. LEVI, Le gentes a Roma e le XII Tavole, Dialogues d’histoire ancienne (DHA), 21.1, 1995 143 A. MOMIGLIANO, The Rise of the plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p.176 144 R. E. MITCHELL, The Definition of patres and plebs, dans: A. MOMIGLIANO, The Rise of the plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 152

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C. Il patriziato

Si percepisce così un’evoluzione diversa e molto più complessa rispetto a quella della storia tradizionale in cui Romolo scelse cento patres, i capi dei clan più potenti, per formare il suo consiglio di Stato, e i discendenti dei primi cento senatori per farli divenire la classe patrizia. Il senato romano, in quanto istituzione pubblica, trova la sua origine in un’istituzione privata che è tipica dello schema patriarcale italiano145. Proprio come all’interno della famiglia era usanza che il capo famiglia facesse ricorso a un consiglio costituito dagli altri membri del clan familiare nell’ambito delle sue funzioni di giudice familiare, il re, parallelamente al capo famiglia, nella sua qualità di pater patriae, padre di famiglia di tutta la comunità romana, faceva ricorso ad un consiglio scelto di cittadini romani. I patres del Senato trovano dunque verosimilmente la loro origine nella composizione originaria del consiglio reale della nascente monarchia. Tale consiglio era composto, secondo la tradizione, dai cento migliori uomini scelti da Romolo tra le curiae.146 Le curie erano la primissima suddivisione a carattere amministrativo istituita a Roma. La tradizione ci racconta che Romolo divise le tre tribù arcaiche dei Ramnes , Tities e Luceres in una totale di trenta curiae, dieci curie per tribù. Le tre tribù sembrano essersi unite prima della « fondazione » stessa di Roma, dotandosi probabilmente di un centro religioso, di un mercato e di una fortificazione comune situata sul Palatino.147 Il numero tre per le tribù primitive (a volte

145

C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, cap. 2 A tal proposito è interessante citare la lex Ovinia, una legge non datata in modo certo ma che si ritiene risalire tra il 339 ed il 318 a.c. (T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 - 264 BC, Routledge, London, 1995, pp. 369-370) e nella quale si precisa che i senatori devono essere scelti curiatim, tra le curie, e sembra così chiaro che il numero teorico dei seggi al senato sia basato sulle trenta curie, anche se è improbabile che il Senato avesse sempre 300 membri. (146 R. E. MITCHELL, The Definition of patres and plebs, dans: A. MOMIGLIANO, The Rise of the plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 130) 147 T. MOMMSEN, Römische Geschichte, 1856, Buch I, pp. 71-72, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 146

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chiamate genetiche148 per distinguerle dalle tribù puramente territoriali dei tempi successivi) è con ogni probabilità corretto come dimostrano le numerose prove etimologiche e istituzionali: le parole latine tribus, tibuere, tribunus etc.… vengono tutte dalla radice latina tres, il numero tre. La parola « attribuire », in latino tribuere, voleva dire letteralmente « dividere in tre » ovvero « distribuire tra le tribù ».149 prima di aver perso questo specifico significato; in altri termini, “ripartire tra le tre comunità primitive”. In più, i più antichi collegi religiosi ufficiali erano sempre composti da un numero divisibile per tre, essendo attribuito un numero uguale di seggi a ciascuna comunità primitiva. I patres furono dunque membri del Senato provenienti dai clan rurali aristocratici dei quali la « principale occupazione », come afferma Sir Moses Finley150, fu la guerra. Questi furono capi aristocratici rurali che, da una parte, nutrivano e approvvigionavano la città attraverso il surplus di prodotti dei loro grandi possedimenti. D’altra parte, costituirono un’aristocrazia militare unita da un certo “esprit de corps” dovuto alla loro osservanza dei riti e costumi legati al sistema gentilizio in un’epoca in cui l’appartenenza ad un clan aveva perduto quasi ogni tipo di importanza per i cittadini urbani. I clan patrizi furono dunque delle entità sociopolitiche differenti della città e il suo corpo di cittadini in quanto ai loro membri fu senza dubbio un corpo di cittadini ma furono i soli ad avere conservato la struttura gentilizia e i sacra che ne costituivano la chiave di volta. Questo aspetto religioso dei clan patrizi ci porta a una seconda caratteristica del patriziato: all’origine i patres del Senato furono anche dei sacerdoti, e i loro discendenti e successori riuscirono a quasi monopolizzare i principali offici sacerdotali. Il carattere religioso dell’organizzazione gentilizia era primordiale in quest’epoca in cui il diritto (i costumi degli antichi o mos majorum) aveva sempre nell’essenza un’ origine, un sistema sanzionatorio e

148

G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 17 O. PIANGIANI, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, “ tributo”; http://www.etimo.it/?term=tributo&find=Cerca 150 M. I. FINLEY, Ancient History: Evidence and Models, Viking Adult, New York, 1986, p.75 149

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delle regole di procedura religiosa. Come osserva Mitchell151, le prove autentiche di cui si dispone ci portano alla conclusione che la distinzione tra patres e plebs ebbe una natura legale e religiosa piuttosto che esclusivamente socioeconomica. Va in primo luogo tenuto conto che la struttura sociale romana dell’epoca preurbana era certamente basata su un sistema gentilizio, ma che all’interno delle gentes si trovava una struttura antichissima e che, successivamente prevalse anche al di là dello schema clanico: la famiglia patriarcale. La società romana trova la sua genesi nell’evoluzione del sistema patriarcale che costituisce il nocciolo duro delle relazioni sociali dell’era arcaica. La società romana fu, attraverso la sua storia completamente improntata da quest’organizzazione ancestrale di cui l’autorità assoluta del pater familias costituiva la chiave di volta. Il paterfamilias era il capo supremo della famiglia, e univa le funzioni di giudice familiare, di grande sacerdote e di comandante del contingente familiare in tempi di guerra. La sua autorità si esercitava su tutti i membri della famiglia e questa includeva il diritto di vita e di morte (ius vitae necisque) nella sua funzione di magistrato familiare. Inoltre, la familia romana non corrispondeva al nucleo familiare odierno ma includeva tutti coloro che erano sottomessi all’autorità (patria potestas per i figli e le figlie, dominica potestas per gli schiavi) del pater familias, ivi inclusi anche gli schiavi e gli altri dipendenti della famiglia. L’autorità di padre famiglia, la patria potestas, era assoluta, eterna e incondizionata, dal momento che tecnicamente sia la demenza sia l’eccesso o abuso da parte di un capo famiglia non permettevano in alcun modo di privarlo della sua autorità.152 In origine questa poteva derivare soltanto da un matrimonio secondo l’antica tradizione, conosciuto sotto il nome di confarreatio, cioè il matrimonio secondo le più antiche leggi ancestrali osservato trai Romani delle origini. Va osservato che le implicazioni giuridiche della qualità di paterfamilias erano strettamente uguali tra cittadini patrizi e non patrizi 151

R. E. MITCHELL, The Definition of patres and plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 129 152 T. MOMMSEN, Römische Geschichte, 1856, Buch I, p. 51-54, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005

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attraverso le epoche successive e dipendevano soltanto dall’esistenza di un legame di autorità per nascita legittima o per adozione. L’autorità del capo famiglia derivava da una nozione ambivalente, che includeva sia la dominica potestas, l’autorità del padrone sui suoi schiavi, sia la potestas (un termine traducibile con “autorità”) di un magistrato, che fu denominato imperium. Il potere di quest’autorità non era in alcun modo uniforme, dipendendo dalla carica pubblica o dalla relazione familiare che legava il cittadino investito dell’autorità a coloro che dovevano subirne l’influenza. In questo modo, la patria potestas di un padre di famiglia sui propri figli benché fosse quasi totalmente uguale alla dominica potestas di un padrone sui propri schiavi, era addolcita dal legame di parentela e dalle usanze, facendo dei figli di famiglia dei quasipartners nella gestione degli affari familiari.153 Va sempre ricordato che la società romana fu prima di tutto una società di agricoltori-soldati, con uno scarso senso dell’immaginazione, e rigidamente attaccati ai loro antichi costumi. Per i Romani precedenti all’arrivo dell’ellenismo nel secolo successivo alla Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.), il tacito assenso e il rispetto per l’autorità paterna era quasi parte della natura umana. La religione dello Stato come la religione di ogni nucleo familiare era ancorata nella più pura delle tradizioni patriarcali di lealtà e di devozione all’interesse comune, quello della res publica, proprio come a quello della familia. Non è dunque sorprendente che Virgilio scelga la pietas, la devozione alla famiglia e agli dei immortali, come principale qualità di Enea, l’eroe della sua epopea, l’Eneide. Anche se in teoria il filius familias poteva acquistare solo tramite suo padre e non poteva ottenere alcun diritto di proprietà puramente personale mentre suo padre era in vita o prima di un'eventuale emancipazione, egli avrebbe in teoria recuperato i suoi propri averi alla morte del padre. Stando così le cose, una certa libertà di manovra finanziaria fu progressivamente concessa ai figli di famiglia riguardo alla loro 153J.

MURRAY, A Dictionary of Greek and Roman Antiquities, London, 1875, « Patria Potestas » (http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/secondary/SMIGRA*/Patria_Potestas.html)

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propria quota nei beni della famiglia, pur mantenendosi il principio dell’ineluttabile controllo da parte del patriarca investito della potestas.

Come osservato, il pater familias fu sempre il grande sacerdote della famiglia, che eseguiva i riti del culto familiare per assicurare alla famiglia la benevolenza divina. Lo stesso principio si applicava all’intera comunità in cui i patres del Senato erano un collegio di sacerdoti della comunità sotto l’autorità dell’unico grande sacerdote, il re. Numerose istituzioni arcaiche come l’auctoritas patrum e l’interregnum attestano tale funzione religiosa. L’auctoritas patrum era un diritto di veto religioso collettivo nelle mani dei membri del Senato che erano i patres. In altre parole, i senatori che avevano ricevuto il loro seggio in virtù delle loro funzioni sacerdotali avevano un’autorità morale e religiosa che permetteva loro di decidere se una legge proposta da un magistrato e votata dai comizi curiati (la più antica assemblea popolare romana) fosse conforme o meno al mos maiorum. La definizione di mos che si trova nei Saturnalia di Macrobius mostra chiaramente l’aspetto religioso del diritto tradizionale romano: « […] Mos est, inquit, institutum patrium, pertinens a religiones cerimoniasque maiorum […] ».154 ; « Il mos è, dice, ciò che i padri hanno istituito relativamente alle regole religiose e cerimoniali degli antenati».155 Il mos, la principale fonte a valore legislativo che si conosca riguardo all’epoca arcaica, consiste dunque in un diritto tradizionale di natura tanto religiosa quanto giuridica, visto che questi due aspetti non furono a quell’epoca reciprocamente esclusivi. L’interregnum è anche testimone del carattere dei patres. Era un’istituzione destinata a ricoprire il vuoto di autorità politica e religiosa tra la morte di un re e l’elezione ed investitura del suo successore. L’origine dell’istituzione dell’interregno risale secondo la tradizione al periodo immediatamente successivo alla morte del primo re. Dopo la morte di Romolo 154 155

Macrob. Sat., III, 8, 9 Traduzione personale

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(secondo il mito che già Tito Livio affermava non essere da tutti condiviso156, questo sarebbe stato fatto salire al cielo da Jupiter Optimus Maximus), il Senato non riuscì ad accordarsi su un successore al trono. Fu presa allora la decisione di scegliere dieci decurioni trai cento membri del Senato affinché questi dieci senatori esercitassero in seguito i poteri reali durante un periodo di cinque giorni. In seguito ad un anno di interregno, sembra che i senatori abbiano nominato uno straniero, Numa Pompilio, poiché non riuscirono a mettersi d’accordo su un candidato proveniente dalle loro fila. Così si osserva che dalla morte supposta del primo re – e perciò storicamente parlando molto presto nella storia della monarchia romana – il Senato si è accaparrato un monopolio in tema d’interregno oltre che la nomina dei candidati alla funzione reale. Il fatto che Tito Livio insista sull’incapacità del Senato di decidersi su un candidato romano, ci mostra che la logica oligarchica – sempre attenta a non investire un individuo di poteri superiori ai suoi pari- condizionava già lo sviluppo dell’assetto romano. Non va comunque dimenticato che non era raro a quest’epoca nominare alla carica reale un capo banda straniero. Ci si ricordi del caso di Mastarna, un dipendente del capo banda Caelius Vibenna, che fu eletto a essere successore del primo Tarquinio sotto il nome di Servio Tullio.157 Al tempo della Repubblica non tutti i senatori potevano divenire degli interreges, solo i patres del Senato (contrariamente ai conscripti) erano capaci di ricoprire questa carica visto il suo carattere eminentemente religioso. Solamente una parte dei membri del Senato furono dei patres, essendo i rimanenti dei conscripti (cioè scritti sulla lista dei Senatori, mentre i patres vi sedevano di pieno diritto)158. Solo i patres del Senato erano eleggibili come interreges visto che solo i sacerdoti del Senato, coloro che appartenevano alle maiores et minores gentes che monopolizzavano le più importanti funzioni religiose dello Stato, avevano

156

Liv. I, 16, 5 F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p. 100 158 R. E. MITCHELL, The Definition of patres and plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, pp. 145-456 157

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l’autorità religiosa necessaria per essere o scegliere i capi temporanei dello Stato. La religione di stato romana fu in questo periodo ancora in piena espansione, frutto di un processo plurisecolare di assimilazione sincretica nel quale i sacra delle varie gentes convergevano nelle dottrine che erano sempre più comunemente accettate.159 In un tale processo i sacra dei più potenti e antichi clan ebbero senza dubbio la tendenza ad imporsi rispetto agli altri cittadini in generale, rafforzando l’ascendenza sociale dei sacerdoti gentilizi che li presiedevano.

D. Patres et conscripti, populus plebique

È ora necessario mettere in evidenza l’ultima distinzione tra le varie componenti del corpo dei cittadini romani: quella tra patres e conscripti, classici e infra classem, adsidui e proletari, populus e plebs. Fatta luce sull’origine, la posizione sociale, militare e giuridica dei patres, è ora necessario distinguere questi ultimi dalla seconda componente del Senato romano: i conscripti. Durante l’epoca repubblicana i patres e i conscripti divennero assieme un solo corpo di senatori conosciuto sotto il nome di patres conscripti. Il termine conscriptus non è un aggettivo che qualifica i patres ma piuttosto un nome antitetico al primo. La loro origine separata è testimoniata da una formula di Tito Livio160 : « […] qui patres, qui conscripti estis ». I patres furono evidentemente i membri dei clan aristocratici come definiti supra, combinando una funzione sacerdotale con quella di senatore e facendo derivare da quest’ aspetto il diritto di eleggere e di servire nella funzione di interrex quando nessun magistrato curule (cioè un

159 160

G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 18 Liv. II, 1, 11

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magistrato investito dell’imperium e dunque capace di avere degli auspici)161 era disponibile per presiedere i comizi. I conscripti sono stati variamente interpretati da numerose fonti storiche eminenti. La visione tradizionale che è data da Verrius Flaccus e Tito Livio afferma che i conscripti erano scelti tra l’élite della plebe.162 La sola chiave di lettura che ci sembra soddisfacente per quanto riguarda i conscripti è che essi furono senza dubbio dei non-patrizi, ma che il dibattito sulla loro vera origine resti in gran parte aperto alla speculazione e alla congettura. Nonostante la difficoltà legata al compito di definire positivamente il gruppo senatoriale dei conscripti, è certamente possibile scegliere tra le ipotesi possibili quella che sembra la più plausibile alla luce delle fonti antiche e della storiografia moderna. Se si ammette che il Senato delle origini era composto interamente da patrizi, cioè i membri dell’aristocrazia dell’età monarchica, bisogna ammettere al tempo stesso che il corpo dei senatori non era una casta chiusa durante l’era monarchica. Tito Livio fa menzione dell’estensione del Senato sotto Tarquinio Prisco, quando cento patres furono aggiunti al Senato, dando luogo alla comparsa delle minores gentes, cioè un raggruppamento di gentes elevata al rango del patriziato anche se sotto un appellativo onorifico inferiore dovuto alla loro elevazione più tarda.163 Siamo comunque dell’idea che la distinzione tra minores e majores gentes è probabilmente più indicativa della posizione di potere e di monopolio su certe funzioni sacerdotali accaparrate dai più potenti clan patrizi nel corso del secolo a cavallo tra l’epoca monarchica e repubblicana. Il fatto che la gens Claudia fece parte dei majores gentes benchè fosse ammessa al patriziato e alla cittadinanza solamente nel 504, cioè sei anni dopo la rivoluzione repubblicana, prova quantomeno che i ranghi delle gentes majores non furono totalmente chiusi dopo la presunta

161

I magistrati curuli della Repubblica si elencavano come segue secondo il loro imperium : dictator, capo della cavalleria, console, pretore, edile curule. 162 J.-C. RICHARD, Patricians and Plebians, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, pp.115-116 163 Liv. I, 35, 6: « […] centum in patres legit qui deinde minorum gentium sunt appellati ».

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apparizione delle gentes minores. Resta il fatto che l’ordine senatoriale, come verrà chiamato verso la fine dell’era repubblicana, fu ancora una volta allargato, questa volta all’alba dell’instaurazione del regime repubblicano nel 509 a.C..164 Tale estensione portò il numero dei senatori a 300 grazie all’inclusione di cento nuovi senatori, provenienti secondo Tito Livio, dall’ordine equestre, cioè le dodici centurie di cavalieri che pagavano un’imposta superiore a 100.000 aes secondo la sua definizione del sistema censorio. Tale versione dell’adlectio dei conscripti nel 509 ha comunque suscitato numerose critiche da parte degli storici dell’antichità contemporanei visto che si basa su una definizione dell’ordine equestre che appartiene più all’epoca successiva ai Gracchi che a quella della nascita della Repubblica. Dionigi d’Alicarnasso ci offre un’altra versione, facendo dei conscripti dei plebei che dovettero essere ammessi al patriziato prima di poter raggiungere i ranghi dei senatori. 165 Le centurie di cavalleria legionaria furono senza il minimo dubbio tra quelle positivamente toccate dagli sforzi sociali della Repubblica nel 509 e i nuovi senatori ammessi al Senato non furono senza dubbio patrizi ma le due versioni differenti che ci presenta la tradizione non sono né l’una né l’altra interamente soddisfacenti. La cavalleria non patrizia – se in effetti vi fu a quest’epoca una componente della cavalleria non emersa dai contingenti dei clan patrizi e dai loro clienti– non fu in alcun modo un ordo come lo sarà a partire dall’era dei Gracchi. La stessa obiezione si presenta riguardo alla versione di Dionigi d’Alicarnasso, perché nemmeno la plebe era ancora un’entità sociopolitica chiaramente definita all’epoca.166 In realtà, l’adlectio senatoriale del 509 fu il primo assetto in cui dei non patrizi (cioè degli aristocrati forrestieri ammessi al Senato dagli ultimi re di Roma) furono ammessi a partecipare alle decisioni di un senato fino a quel momento interamente patrizio. L’inferiorità di rango dei nuovi ammessi, sia per quanto riguarda il diritto degli auspici sia l’auctoritas 164

Liv. II, 1, 8 Dion. Hal., Ant, Rom, V, 13, 2 166 J.-C. RICHARD, Patricians and Plebeians, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 116 165

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patrum, è prova che i conscripti non furono dei capi e sacerdoti gentilizi come i patrizi, anche se non è da escludere che furono socialmente vicini o alle dipendenze di questi ultimi. All’inizio dell’era repubblicana167, i conscripti ricoprirono una posizione secondaria rispetto ai senatori patrizi che avevano monopolizzato fino ad allora gli scranni del senato. Essi erano naturalmente designati con un altro nome rispetto ai patres, non avevano l’auctoritas patrum né il diritto di eleggere o di essere eletti come interreges, e non avevano il diritto di voto al Senato, dove dovevano limitarsi a unirsi ai ranghi del partito che sostenevano dopo un voto per divisione. Erano gli ultimi a essere consultati e non potevano portare il segno distintivo dei patres: gli stivali in cuoio rosso168. Il problema della definizione dei conscripti è sempre stato intimamente legato a quello dei nomi gentilizi plebei nei fasti consulares tra gli anni 509 e 451 a.C.169 La visione tradizionale era che questi consoli non-patrizi erano dei plebei dei ranghi dei conscripti170, oppure che questi nomi furono delle interpolazioni successive fatte con il fine di aumentare il prestigio di certe famiglie senatoriali. Del resto, alcuni come Momigliano171, sono dell’opinione che i conscripti emersero da un gruppo intermedio tra patrizi e plebei, e altri ancora leggono in questi misteriosi consoli dai nomi plebei del primo secolo della Repubblica i membri di clan patrizi passati al rango della plebe o semplicemente scomparsi. Noi crediamo in una visione più larga di questa problematica, seguendo fino a un certo punto le conclusioni di Richard Mitchell172. I conscripti molto probabilmente non erano dei patrizi. Sarebbe allo stesso tempo difficile qualificarli come plebei, poiché la plebe non era ancora un’entità sociopolitica chiaramente definita prima della secessione sul Monte sacro del 494 a.C. e la conseguente creazione del tribunato della plebe e dell’assemblea plebea. I 167

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, 1856, Buch II,p.204, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 168 Ibid, p.204 169 Richard ; dans Raaflaub, op. cit., p.116 170 Mommsen in particolare fu dell’idea che i les conscripti erano dei plebei equestri ( si veda la nota 140). Questa visione segue troppo da vicinio la tradizione liviana perchè la si possa accettare per intero. 171 Momigliano ; dans Raaflaub, op. cit. p.177 172 Mitchell; dans Raaflaub, op. cit. p. 148

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conscripti furono dei non patrizi che erano in un certo senso presi in partenariato 173 con il Senato patrizio potendo assistere alle sue deliberazioni pur essendo confinati a un ruolo marginale nel suo funzionamento. Questi erano dei capi famiglia non patrizi e non plebei abbastanza importanti perché il patriziato romano sentisse il bisogno di assicurarsi la loro collaborazione in seguito all’espulsione dei re. L’esistenza di tre gruppi174 di consoli non patrizi distinti nei fasti consulares per gli anni 502497, 493-486 e 462-451, rende quest’ affermazione abbastanza probabile per la seguente ragione: tali intervalli corrispondono nei tre casi a degli anni chiave per lo stabilimento della Repubblica che furono caratterizzati da conflitti interni ed esterni. Corrisponderebbero rispettivamente al periodo in cui la Repubblica rischiò di perdere la sua egemonia latina a seguito della disaffezione di Latini ed Etruschi. La vittoria del lago Regillum nel 499175 fu la fine di questo primo periodo turbolento in cui alcuni conscripti furono chiamati per la prima volta a servire nella doppia magistratura suprema dei praetores176 dall’inizio della Repubblica. Il secondo periodo menzionato corrisponde ai tormentati anni immediatamente successivi alla prima secessione e all’istituzione dei magistrati plebei; occasione in cui la componente plebea della società divenne un gruppo sociopolitico coeso e, fino a un certo punto, autonomo dal patriziato. Infine, gli anni 462-451 corrisposero al periodo caratterizzato dalla rogatio Terentilia177 e l’agitazione per la redazione del diritto tradizionale che portò all’istituzione delle Leggi delle dodici Tavole. A ogni ripresa si tratta di turbamenti interni ed esterni che

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A. MOMIGLIANO, Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Ed. di Storia e Letteratura, 1969, p.448 174 Richard, dans Raaflaub, op. cit, p. 116 175 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 216; si osservi che la data della battaglia del lago Regillum non è verificabile e che altre date oltre quella del 496 a.c. sono state proposte. Per la data del 496 si veda : M. GRANT, History of Rome, Prentice Hall, 1978, p. 37 176 M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana : istituzioni, diritto, religione, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, pp. 427-428 177 Richard, dans Raaflaub, op. cit, p. 116

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avrebbero portato così, in maniera plausibile il patriziato alla necessità di estendere la loro base di sostegno; si trattava di accettare la collaborazione con degli elementi stranieri al fine di rendere più stabile il potere patrizio nel nuovo regime. La progressiva accentuazione delle prerogative esclusive dei senatori patrizi, ovvero la capacità di avere gli auspici e di essere investito dell’imperium, avrebbe in seguito portato a una chiusura totale dei ranghi patrizi, un fenomeno che il celebre Gaetano De Sanctis ha battezzato come la « serrata del patriziato »178. È questa chiusura dei ranghi patrizi durante la prima metà del quinto secolo che costituisce il punto a partire dal quale il patriziato romano divenne una casta chiusa alla quale d’ora in poi sarebbe stato virtualmente impossibile accedere. Prima di questa data, come illustra l’esempio dei Claudii, fu ancora perfettamente possibile per dei Romani oppure degli stranieri essere elevati al rango del patriziato. Nondimeno, la chiusura dei loro ranghi non permise loro di mantenere indefinitamente il proprio monopolio sulle funzioni magistrali dello Stato, portando infine a un partenariato patrizio-plebeo dal quale emerse l’aristocrazia patrizio-plebea dei due ultimi secoli della Repubblica.

Conviene a questo punto volgersi verso altre due dicotomie ben conosciute, che assieme ai patres e ai conscripti, ci permetteranno di dare una visione chiara e coerente della struttura sociale romana dell’inizio dell’era repubblicana. Queste sono due dicotomie sociali intimamente legate tra loro poiché, proprio come per il patriziato, esse sono inscindibili dall’organizzazione militare prevalente nella Roma dell’epoca. Il significato antico del termine populus non è quello di « popoli » come si potrebbe essere portati a credere, ma quello di esercito. Certe formulazioni arcaiche – come quella delle carmina Marciana che ci

178

G. DE SANCTIS, a cura di S. ACCAME, Storia dei Romani 1, Roma dalle origini alla monarchia, nuova edizione stabilita sugli inediti, La Nuova Italia, Firenze, 1980, p.241

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riporta Tito Livio179 sul tema del pretore – provano che populus e plebs non furono sinonimi all’inizio dell’era repubblicana e, di conseguenza non lo furono nemmeno in seguito. L’espressione populus plebique continua ad esistere negli scritti di Cicerone180 e ci dimostra che in una certa epoca, la plebe non fu lo stesso che l’esercito o, che in altri termini, l’esercito cittadino non includeva tecnicamente la plebe. Momigliano ne ricava una conclusione che ci sembra perfettamente coerente con il ruolo militare dell’aristocrazia oltre che con la struttura dell’esercito romano dell’epoca arcaica, ovvero che la plebe fu in origine la popolazione urbana tecnicamente non inclusa nello schema militare gentilizio, composto dai capi dei clan e dai loro clienti.181 È generalmente riconosciuto che le riforme dell’era monarchica attribuite a Servio Tullio introdussero una logica di censo per il reclutamento della falange cittadina detta la classis (dal latino calo, avi, atum, are; chiamare, convocare cioè l’esercito chiamato alle armi)182, i cittadini incapaci di procurarsi la panoplia oplitica formavano invece il gruppo dei cittadini infra classem. La descrizione dell’esercito serviano che si trova negli scritti di Tito Livio è chiaramente un metacronismo, dal momento che la fanteria cittadina era composta solamente da una sola classe a quell’epoca e non dai cinque che egli descrive. Ad ogni modo, questa versione dei fatti ha per lungo tempo esercitato una sfortunata influenza sulla storiografia, portando numerosi storici dell’antichità verso la conclusione che i cittadini infra classem erano dei proletari, cioè dei cittadini non degni di servire nell’esercito perché come sola fonte di ricchezza possedevano la loro progenitura, ed erano perciò incapaci di procurarsi un qualche tipo di equipaggiamento militare.

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Liv. XXV, 12, 10: « […] praetor is qui ius populo plebique dabit summum ». Cic. Pro Murena, I, 1: « […] ut ea res…populo plebique Romanae bene atque feliciter eveniret » 181 A. MOMIGLIANO, The Rise of the plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p.176 182 F. GAFFIOT, Dictionnaire latin-français, Hachette, Paris, 1934,1 calo, p. 247 180

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Questa interpretazione del ruolo degli infra classem è molto improbabile e, dal punto di vista dei comandanti delle forze armate romane dell’epoca, è del tutto contraria a ciò che A. Burne definisce come la « probabilité militaire inhérente » in ragione dell’innegabile debolezza della falange sui lati e sul retro. Nessun comandante di un esercito oplitico avrebbe osato condurre questo in battaglia senza una forza adeguata di fanteria leggera e di schermagliatori capaci di offrire la protezione indispensabile dei lati e del retro della falange. Il metodo comparativo come definito da Raaflaub183 rende questa interpretazione ancor più verosimile, dal momento che Erodoto afferma che il contingente spartano capeggiato da Pausania durante la battaglia Plataea era composto di 5000 opliti, ognuno di essi accompagnato da sei iloti dall’armamento leggero.184 L’esercito romano dell’epoca monarchica, composto da 3000 e poi da 6000 opliti185, fu perciò senza dubbio accompagnato da un contingente più o meno numeroso di fanteria leggera e di schermagliatori. Senza volere formulare ipotesi sul loro numero, è chiaro che questo contingente fu infra classem, cioè incapace di procurarsi la panoplia oplitica, ma fu comunque indispensabile alla struttura militare della falange dell’inizio della Repubblica.

L’espressione infra classem vuole del resto dire letteralmente « color che sono al di sotto della classis ». Gli infra classem non facevano dunque parte della classis ma niente in questa formula ci dice che non facevano parte dell’esercito. Va da sé di costatare che infra classem cioè “al di sotto di coloro che erano chiamati alle armi” non significa extra classem, al di fuori di coloro che erano chiamati alle armi. Infra classem può, secondo noi, significare due cose diverse: cioè che questo fu un gruppo di cittadini incapaci di oltrepassare la soglia di censo che permetteva di servire in qualità di opliti, essendo per questa ragione inferiori per importanza sociale e militare alla classis, e da qui verrebbe la qualità di “al di là (sotto) della classe”. 183

Raaflaub, op. cit. pp.14-23 Herod. IX, 10, 1 185 Momigliano ; dans Raaflaub, op. cit., p.175 184

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Letteralmente significava « coloro che si trovavano dietro la classis » cioè quelli che procedevano dietro la falange nell’ordine di battaglia, la qual cosa sarebbe più che logica visto che il loro principale ruolo era quello di proteggere il retro e i lati della falange. A nostro parere, questi due significati sono entrambi validi poiché le infra classem erano chiaramente inferiori in importanza civica agli opliti e ai cavalieri e formavano senza dubbio la retroguardia e gli schermagliatori della legione oplitica. Gli infra classem marciavano dunque, secondo noi, con l’esercito cittadino benché il loro numero fosse variabile, dipendendo dalle necessità militari del momento. Così gli infra classem si rivelano come i contingenti leggeri dell’armata romana reclutati trai cittadini non patrizi incapaci di procurarsi la panoplia oplitica. Quest’ultima considerazione ci conduce alla dicotomia tra adsidui e proletari. I proletari, come si afferma supra, erano dei cittadini talmente poveri da non potersi procurare il minimo armamento. La qualifica di adsidui invece era un nome collettivo dato a tutti i contadini liberi, che fossero dei clienti di capi patrizi o meno, che possedevano una parcella di terra e che di conseguenza servivano o nella classis o nei contingenti infra classem.186

La dicotomia tra populus e plebs si riassume dunque nei seguenti termini: il populus era l’esercito romano, che comprendeva sia la cavalleria patrizia sia la fanteria oplitica composta tanto dai patrizi quanto dai loro clienti non patrizi abbastanza ricchi da permettersi l’equipaggiamento oplitico. La plebe invece era il gruppo di cittadini urbani e non patrizi. E perciò non inclusi nello schema militare della clientela rurale del patriziato- che forniva i contingenti di fanteria leggera e gli schermagliatori. Nonostante queste ultime considerazioni non va comunque dimenticato che la « plebe » non era ancora un gruppo sociopolitico definito all’epoca della caduta della monarchia e che i non patrizi abbastanza ricchi da potersi permettere l’acquisto della panoplia oplitica- clienti o meno- fecero senza dubbio parte della

186

Richard ; dans Raaflaub, op. cit., p.118

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falange di opliti ed anche del populus dell’epoca. Nondimeno, il fatto di servire nella legione oplitica pur essendo legalmente impossibilitati ad avere gli auspici o l’imperium ed anche di ricoprire qualunque carica solenne deve aver molto rapidamente disincantato i più ricchi trai non patrizi, di cui i famosi conscripti di cui si è parlato supra fecero senza dubbio parte. Così, i conscripti, disillusi da una collaborazione non avvenuta con il patriziato, furono spinti a sposare la causa della plebe. Varie osservazioni e gli sviluppi del periodo che è definito conflitto degli ordini (494-366 a.C.) confermano questa visione dei fatti. In primo luogo, rinomati storici dell’antichità come Mommsen e Momigliano187 fissano il numero dei clan aristocratici patrizi a circa 130188 oppure a 150189. Un patriziato di 130 clan non avrebbe di certo potuto costituire da solo la fanteria legionaria composta di 3000 o 6000 opliti oltre ad un decimo della suddetta cifra in cavalleria, ovvero 300 o 600 cavalieri (equites)190 e dunque una grande parte dell’esercito doveva essere composta da non patrizi. È un dato di fatto che la cavalleria fu in origine appannaggio esclusivo dei clan patrizi mentre la fanteria includeva sia dei patrizi sia dei plebei. È difficile capire come, se la natura umana non è cambiata da allora, la plebe avrebbe potuto acconsentire ad una sua completa esclusione dalle solenni funzioni, dalle funzioni sacerdotali e dal Senato se il loro gruppo costituiva di fatto la fetta più grande dell’esercito cittadino contro cui i contingenti del patriziato non avrebbero potuto opporsi con successo. La visione tradizionale dell’esercito all’inizio della Repubblica, composta da una cavalleria patrizia e da una fanteria interamente plebea non sembra dunque corrispondere alla realtà dei fatti. Inoltre, la tradizione riguardante le varie secessioni plebee parla di un vero e proprio sciopero militare senza che si sia mai arrivati ad una guerra civile e senza che ne sia stata disputata una sola battaglia. La conclusione logica è che la plebe fu un gruppo sociale che normalmente non faceva parte del populus, cioè

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Momigliano ; dans Raaflaub, op. cit., p.175 Momigliano ; dans Raaflaub, op. cit., p.175 189 Mitchell ; dans Raaflaub, op. cit., p.134 190 Momigliano ; dans Raaflaub, op. cit., p.175-177 188

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dell’esercito cittadino, ma che poteva essere chiamato alle armi in tempi di crisi 191, e poteva dunque seriamente mettere in difficoltà il patriziato senza tuttavia avere le capacità per affrontarlo in battaglia. Resta allora un’ultima domanda: chi furono questi altri opliti che non erano né patrizi né plebei? La risposta ci porta verso la serie di dicotomie già menzionate e che ha per molto tempo messo in difficoltà gli storici: quella tra patres e conscripti, tra patres e plebs, tra populus e plebs, tra classici e infra classem, tra cliens e patronus etc. L’analisi del significato e del ruolo di tali dicotomie ben note, ci porta alla conclusione che è necessario differenziare tra un totale di tre gruppi sociali principali nello Stato romano dell’inizio del quinto secolo. I patres furono certamente dei capi famiglia provenienti dai 130 o 150 clan aristocratici, che avevano i loro seggi al Senato ex-officio per via delle posizioni sacerdotali quasi ereditarie che occupavano. I senatori non patrizi erano i conscripti, cioè coloro che erano stati aggiunti alla lista (adlectio) dai magistrati in carica del censorato.192 I patrizi costituivano una comunità a parte, che viveva eventualmente nella città, ma la cui attività economica principale, la produzione agropastorale, era situata interamente al di là dello spazio urbano. Erano ancora completamente organizzati sulla base dei clan o gente, aspetto che li dotava di propri riti (come i Lupercalia, un grande evento religioso per tutto il popolo dell’epoca ma che fu all’origine di una festa religiosa propria della gens Fabia e della gens Quinctia, due gentes patrizie)193, una storia genealogica propria, oltre che delle regole giuridiche di diritto privato e pubblico che si applicavano solamente ad essi. Furono gli unici cittadini capaci di prendere gli auspici, di fornire ed eleggere l’interrex, o di sanzionare un atto delle assemblee del popolo attraverso l’auctoritas patrum, ed infine di occupare le funzioni sacerdotali nella maggior parte dei culti derivati dal periodo monarchico. Fornivano la cavalleria e, aspetto ancor più 191

Momigliano; in Raaflaub, op. cit p.175 Cioè il re, poi i pretori ( la loro funzione diverrà quella dei consoli nel 366 a..c) e infine i censori. 193 M.-A. LEVI, Le gentes a Roma e le XII Tavole, Dialogues d’histoire ancienne (DHA), 21.1, 1995, pp.128 ; sul tema dei Lupercalia des Fabii et Quinctii – Liv. I, 5, 1-2; Dion. Hal., Ant. Rom., I, 32; 79 et s.; Plut. Rom. 20 - 21; Val. Max. II, 2, 9; Verg. Aen. VIII, 343. 192

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importante, erano a capo delle strutture militari dello Stato come officiali e padroni del secondo gruppo di cittadini, i clienti dei patrizi. La clientela dei clan patrizi forniva il resto degli uomini liberi della falange romana, la classis, formante il populus, l’esercito, assieme ai contingenti patrizi. È importante sottolineare che il primo significato della parola populus fu quello di esercito, come testimonia la sua origine etimologica, che deriva dal verbo populor che significa l’azione di razziare.194 In più, il dictator romano fu chiamato anticamente il magister populi, il comandante della fanteria, che aveva come primo subalterno il magister equitum, comandante della cavalleria. Il populus includeva così dei clienti dei patrizi che furono gradualmente assimilati alla plebe, la massa, che forniva i contingenti infra classem dei fanti leggeri. Classici e infra classem furono così due gruppi non patrizi trai quali coloro che possedevano una piena proprietà e capaci di procurarsi o la panoplia oplitica o delle armi più leggere, facevano parte della categoria degli adsidui. La parola latina adsiduus, l’assiduo, il domiciliato o contribuente, era un cittadino iscritto in una delle classi di censo in opposizione ai proletari.195 Questi ultimi non possedevano abbastanza proprietà per pagare il censo e a parte la loro marcata inferiorità elettorale nel sistema centuriato, erano completamente esenti dal servizio militare.

194

A. MOMIGLIANO, The Rise of the plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p.174 195 F. GAFFIOT, Dictionnaire latin-français, Hachette, Paris, 1934, adsiduus, p.56

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V.

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La voce del popolo dalla monarchia alla fine del conflitto degli ordini

1. La costituzione romana fino allo stabilirsi della Repubblica

A. Osservazioni a margine

È davvero difficile applicare il termine costituzione alle norme fondamentali che reggevano l’organizzazione di governo della città romana del tempo della monarchia. Utilizzeremo dunque quest’espressione dotandola prima di cominciare di alcune precisazioni a margine. In primo luogo, il diritto di quest’epoca fu principalmente di natura tradizionale e non scritta. L’efficacia normativa di una disposizione del costume ancestrale (mos majorum) risiedeva dunque nel suo carattere eterno, garantito dalla continuità della sua osservanza attraverso le generazioni. Prima della sua redazione progressiva a partire dalla pubblicazione della Legge delle Dodici Tavole nel 449 a.C.196, la conoscenza di questo diritto era per forza di cose limitata ad una sola parte del corpo dei cittadini, tra cui i sacerdoti in particolare. Come abbiamo avuto occasione di menzionare supra, la linea di demarcazione tra il sacro e il secolare, soprattutto nel campo del diritto, era estremamente vaga e fluida in quest’epoca. Come osserva Alberto Della Rosa circa i fondamenti religiosi delle solenni funzioni repubblicane: « […] In definitiva era il dio a creare il magistrato, non il popolo: la sfera

196

La Legge delle Dodici Tavole fu redatta tra il 451 ed il 450 a.c. sotto l’egida di un nuovo sistema magistrale esecutivo composto da dieci decemviri, dieci uomini nominati per la redazione delle leggi (legibus scribundis). La tradizione vuole que questo collegio esclusivo, sotto l’egida di Appius Claudius, si spinse allo stabilimento di una tirannia permanente rifiutando di dimettersi a seguito del compimento del loro mandato dopo la redazione delle due ultime tavole di leggi nell’anno 450. La tradizione vuole che la plebe fu spinta ad una seconda secessione nel 449 in seguito alla quale ottenne l’abolizione del regime dei decemviri e la proclamazione della Legge delle Dodici Tavole sotto il nome delle Leggi Valerio-Oraziane. L’abuso di potere del capo delle fila dei decemviri, Appius Claudius fu probabilmente all’origine della rivolta plebea. La storia dell’affidamento come schiava di Virginia, una nobile fanciulla romana, a un cliente di Claudius che desiderava divenirne padrone, il conseguente intervento del padre della fanciulla, che brandì un coltello conficcandolo nel cuore della sua stessa figlia, è conosciutissimo. La storicità di questo episodio è chiaramente impossibile da provare. Su questo tema si veda : Liv. II, 33 e seguenti ; http://www.thelatinlibrary.com/livy/liv.3.shtml

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politica e quella religiosa della città erano profondamente intrecciate e indissolubili. […] »197 E come dice Momigliano, l’autorità religiosa è sempre stata « […] la prima e la più facile da monopolizzare perché sottointende conoscenze specifiche, tempo libero, e la rispettabilità che gli aristocrati hanno sempre […] »198. I sacerdoti dei clan aristocratici, gruppo che si consolidò lentamente divenendo il patriziato dell’inizio della Repubblica, monopolizzarono così ciò che fu definito l’apparato giudiziario dello Stato romano a partire da un’epoca molto precoce. La struttura, le funzioni e l’origine della sovrastruttura di governo della Roma monarchia era allora essenzialmente ibrida, combinando elementi religiosi, elementi laici, elementi militari ed elementi civili intrecciati gli uni con gli altri. Lo sviluppo istituzionale dello Stato romano, durante il periodo di più di due secoli in cui dei monarchi regnavano su una comunità composta da numerosi sotto-gruppi sociali diversi e legati tra loro da rapporti di varia natura, è dunque di grande complessità. Tutti i vari elementi di cui era composto il corpo dei cittadini romano dell’età monarchica era tenuto assieme da un delicato equilibrio tra forze di integrazione e dispersione sociale. Tra queste, l’élite di governo che divenne progressivamente l’aristocrazia cosiddetta patrizia fu inizialmente il solo gruppo dotato di una vera e propria coscienza di classe. In effetti, è largamente condivisa l’idea che un gruppo sociale possa essere definito classe solo se possiede un senso di identità che lo distingua da quello dei membri della collettività.

Si è

dunque detto che nel mondo mediterraneo antico, salvo alcune eccezioni come Atene, nessun gruppo sociale aveva tale coscienza di classe eccetto l’élite di governo e l’aristocrazia.199 Da parte nostra, conviene aggiungere Roma alla lista delle eccezioni poiché la plebe vi acquisì 197

A. DELLA ROSA, Ductu auspicioque - Per una riflessione sui fondamenti religiosi del potere magistratuale fino all’epoca augustea, dans: Studi Classici e Orientali' 49 (2003), p.188 : « […] In definitiva era il dio a creare il magistrato, non il popolo: la sfera politica e quella religiosa della città erano profondamente intrecciate e indissolubili. Ogni atto di rilevanza pubblica compiuto dai consoli si apriva innanzitutto con la presa degli auspici per garantire a se stessi e allo stato l’approvazione della divinità riguardo a quello che avrebbero fatto come rappresentanti della res publica (per questo si parla di auspicia publica) […] » 198 A. MOMIGLIANO, An interim report on the origins of Rome, JRS 53, pp. 95-121, Society for the Promotion of Roman Studies, 1963, p.118 199 N. CANTOR, The Civilization of the Middle Ages, Harper Collins Publishers, New York, 1993, pp. 7-8

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molto gradualmente un senso d’identità propria e finì per essere un gruppo sociale dotato di una certa autonomia rispetto al governo centrale dei magistrati e del Senato aristocratici attraverso la creazione di un’assemblea e di solenni funzioni riservate ai soli plebei e votata alla protezione e difesa dei loro interessi in quanto gruppo. Ad ogni modo, si trattava di un senso d’identità fragile che sorse lentamente verso la metà del quinto secolo a.C., definito negativamente sin dal principio e che includeva naturalmente tutti i cittadini che non erano aristocratici, aspetto che fece della plebe un gruppo estremamente diversificato dagli interessi a volte divergenti. Prima di ciò, durante i due secoli e mezzo del regime monarchico, l’aristocrazia aveva già un reale senso di classe, anche se il « patriziato » in quanto gruppo definito, era ancora in fase di gestazione. La « costituzione » dell’epoca monarchica fu dunque in costante evoluzione nel corso di questo periodo sotto l’influenza combinata di attori interni ed esterni. Sul piano interno, i re e l’aristocrazia erano i principali motori dell’evoluzione sociopolitica ma erano anch’essi sottomessi alle influenze esterne cioèl’immigrazione pacifica o ostile di gruppi e individui stranieri, che apportò nuovi elementi sia all’aristocrazia sia al restante corpo civico. Il re era la principale forza integrante durante l’era monarchica; il ruolo unificante del re è un tema centrale della tradizione anche se, come si è visto, la storia canonica circa la genesi delle istituzioni civili e religiose della città possiede un valore estremamente variabile, poiché contiene dei metacronismi e degli anacronismi oltre che delle lacune e delle invenzioni prodotti di fantasia.200 Ne risulta comunque chiaramente una serie di dati variabili, incrociati con la tradizione annalistica, sul fatto che i re ricoprirono un ruolo di prima importanza nell’unificazione del culto statale, nell’unificazione del corpo civico e che ebbero una funzione di barriera super partes tra l’aristocrazia e il corpo di cittadini non aristocratici. Il

200

Si veda sul tema: T. J. CORNELL, The Value of the Literary Tradition Concerning Archaic Rome, in K. A. RAAFLAUB (dir.), Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, pp. 47-74, e J. VON UNGERN-STERNBERG, The Formation of the “Annalistic Tradition” : The Example of the Decemvirate, in: Raaflaub, op. cit. pp.75-97

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patriziato fu a nostro avviso, la principale forza sociale dispersiva; opinione largamente condivisa dalla comunità accademica contemporanea.201 La posizione dominante che l’aristocrazia occupava in virtù del suo potere militare, economico e sacerdotale fu lentamente ma sicuramente minacciata dalla crescita della città e dal numero di cittadini liberi non inclusi nello schema militare gentilizio. Una divisione interna apparve e rese sempre più precario l’equilibrio tra il mondo extra-urbano dominato dall’aristocrazia clanica e il mondo intraurbano essenzialmente dominato dal re che deteneva una posizione di sovranità di efficacia variabile sui capi dei clan patrizi. La grande opera unificatrice di epoca etrusca, la costituzione attribuita a Servio Tullio, testimonia chiaramente il bisogno degli ultimi monarchi romani di rifondare il corpo dei cittadini in una nuova forma, che permettesse di legare più direttamente l’intero corpo di cittadini, senza però intervenire direttamente nella sfera delle relazioni di potere trai clan rurali ed i loro clienti. Senza toccare la complessa serie di doveri ed obbligazioni che legavano i capi militari ai loro clienti, questa riforma ebbe per effetto di sottomettere l’intero corpo dei cittadini ad una struttura militare basata sul censo, che permise la coscrizione del numero massimo di cavalieri, di opliti e di fanti leggeri nelle centurie : delle unità (nominali) di cento uomini che ricoprivano la doppia funzione di squadriglia militare e di gruppo elettorale in una nuova assemblea, l’assemblea centuriata.202 Ne deriva chiaramente che è quasi impossibile definire la struttura normativa fondamentale del regno romano dalla « costituzione » e che le sue regole fondamentali erano in costante evoluzione durante l’epoca monarchica. Dal momento che descrivere in maniera esaustiva

201

Le opinioni sono variabili circa l’importanza del carattere centrifugo del potere patrizio sul corpo dei cittadini, che andava dall’idea di una coesistenza inter-urbana dei due gruppi sociopolitici sovrani ed indipendenti (il patriziato e la sua clientela vs la plebe) in « M.-A. LEVI, Le gentes a Roma e le XII Tavole, Dialogues d’histoire ancienne (DHA), 21.1, 1995, pp. 121-147», a quella di un’aristocrazia gentilizia patrizia socialmente dominante in virtù del suo monopolio su alcune prerogative religiose e militari, come ipotizzato da Richard, Momigliano e Raaflaub in « K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, pp. 107-222 » 202 L’evoluzione dettagliata delle assemblee popolari sarà oggetto di un sotto capitolo (Capitolo V,2) con il fine di poter dare una visione chiara e comprensibile del peso della voce del popolo attraverso la storia della repubblica..

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l’evoluzione costituzionale della monarchica romana richiederebbe la redazione di una tesi intera, ci limiteremo a descriverla a grandi linee ed a trattare- forse in modo un po’ artificiosoil sistema normativa fondamentale della monarchia come se si trattasse di una vera costituzione. A questo fine tenderemo a descriverla nella sua struttura finale : una caratterizzazione che si applica propriamente solamente alla costituzione romana di età etrusca.

B. La cittadinanza curiata

Il concetto di cittadinanza fu un’evoluzione più tarda rispetto a quello di appartenenza ad un « popolo » come quello dei Latini, Volsci, Sabini, o Etruschi oppure a uno schema gentilizio che costituiva una suddivisione di questi popoli in clan, essendo questi ultimi ramificati in seguito in famiglie. La cittadinanza emerse solamente dopo una lenta comparsa di cittàborgate nel Lazio durante il periodo IV B della cultura laziale (630-580 a.C.) che si sovrappose progressivamente alle forme di organizzazione sociale che precedevano il concetto di cittadinanza. Resta difficile sia di datare con precisione il momento della comparsa della cittadinanza tra gli abitanti delle prime città-borgata sia di caratterizzare con precisione le forme di comunità arcaica che precedevano la comparsa del diritto di cittadinanza. Comunque, è praticamente certo che questo concetto sia emerso in forma parallela all’emersione delle prime borgate attorniata di fossi e bastioni, poiché la comparsa di limiti fisici allo spazio occupato da una comunità, oltre agli ovvi vantaggi di difesa, non poté che favorire la comparsa di uno statuto comune che separava una comunità dai suoi vicini. L’emergere di limiti fisici segna la comparsa di un nuovo stile di vita, dello stile di vita « civilizzato » con una rottura rispetto allo schema di vita pastorale precedente. La storia tradizionale della fondazione della città di Roma è simbolica a questo proposito poiché

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attribuisce al suo fondatore Romolo il tracciato del solco che determina il perimetro sacro della città, separando gli occupanti di questo spazio dal resto dei Latini e consacrando dunque questi limiti con il sangue di un fratricida. L’eliminazione fisica di Remo simbolizza la fine dell’era pastorale non civilizzata precedente l’era urbana e l’atto di sfida di Remo che oltrepassa il limite tracciato da suo fratello, è simbolo dell’incapacità del suddetto di integrarsi nel nuovo modello di vita civilizzato. È attraverso la morte del vecchio modello di vita che poté nascere il nuovo. La leggenda della fondazione dell’urbs mostra chiaramente questo cambiamento radicale dalla precultura alla cultura. Essa segue nella sua narrazione la classificazione gerarchizzata del mondo umano e divino tipica dei popoli indoeuropei in tre funzioni, come definite da Dumézil203 e può essere legata alla triade arcaica deli dei Giove, Marte e Quirino. La prima funzione è quella della sovranità, presieduta da Giove, che include ogni fatto politico, religioso e giuridico, simbolizzata nella narrazione tradizionale dalla presa degli auspici da parte di Romolo e dal tracciato del solco fondatore del perimetro sacro della città204, e attraverso lo stabilimento della prima organizzazione sociale della città con la divisione del popolo in trenta curie. In seguito vi è la funzione guerriera legata al dio Marte, simbolizzata nella narrazione dalla lotta trai due fratelli che porta alla morte di Remo e che segna l’eliminazione definitiva del modello di vita preurbano non civilizzato. Infine, vi è il vasto ambito delle risorse, tanto umane quanto naturali, che include nella sua sfera la fecondità, l’abbondanza, la ricchezza, etc., rappresentata dal dio Quirino che, come indica il suo nome è il dio della massa dei cittadini, i Quirites.205

203

D. BRIQUEL, Le sillon fondateur, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, pp. 16-17 204 Ibid. p. 17; Liv. I, 7, 3 205 D. BRIQUEL, Le sillon fondateur, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p. 17 ; per quanto riguarda il termine Quirites, questo deriva probabilmente dalla stessa radice di curia, proveniente da coviria, associazione di uomini, di guerrieri (si veda a tal proposito: M.CORTELLAZZO (dir.), M. A. CORTELLAZZO, P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 2004 : « curia») ; Tito Livio (Liv. I, 13, 5) ci offre un’altra spiegazione circa l’etimologia del termine Quirites, affermando che deriva dal nome della città di

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La narrazione tradizionale fa intervenire simbolicamente questa terza funzione attraverso l’episodio dell’Asylum istituito da Romolo sul sito della città appena fondata- permettendo a ogni individuo, qualunque sia il suo passato, di venire a installarsi in libertà nella nuova cittàe quello del ratto delle Sabine, che dotò la città di donne e garantì in questo modo una continuità attraverso le generazioni.206 La cittadinanza introduce dei limiti fino ad allora inesistenti, imponendo degli ostacoli religiosi, giuridici e fisici alla libera migrazione praticata dall’alba dei tempi. Non vi era di certo un « diritto alla migrazione » a quest’epoca, tale diritto faceva semplicemente parte della legge del più forte che aveva determinato la divisione dell’Italia trai vari popoli italici che si sono menzionati supra.207 L’episodio dei negoziati tra Romani e Galli prima del sacco di Roma da parte di questi ultimi (390 a.C.)208 come raccontato da Tito Livio, è una buona illustrazione di tale principio. Domandando con che diritto i Galli pretendessero una cessione di territorio da parte dei Clusiani, alleati dei Romani, minacciando la guerra in caso di rifiuto e domandando inoltre che cosa venissero a cercare questi Galli in Etruria, i Romani ottennero una risposta feroce: il diritto dei Galli, dissero questi, risiedeva nelle loro armi, poiché ogni cosa è proprietà dei più audaci.209 Il diritto di cittadinanza portò all’applicazione di un diritto di proprietà collettivo alla terra occupata da una comunità come entità astratta. Così la comparsa delle città-borgate portò progressivamente ad una concezione territoriale del potere che si sovrapponeva alla più antica logica personale di potere. I diritti e doveri reciproci tra i patres familias e i loro dipendenti non furono modificati in quanto tali ma queste relazioni di potere bilaterali e temporali divennero progressivamente triangolari, avendo per apice l’entità

Cures da cui sarebbero giunti i Sabini fusisi coi Romani a seguito del ratto delle Sabine. Tale spiegazione è comunque poco probabile, e il termine deriva con ogni probabilità da co-viria, proprio come il termine curia ed il nome del Quirinus. 206 D. BRIQUEL, in F.Hinard, op. cit. p. 17; Liv. I, 9-13 207 Vedasi il capitolo III, 1, B del presente lavoro. 208 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 305 209 Liv. V, 36, 4

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astratta e perpetua della città. È impossibile determinare un momento specifico in cui emersero i concetti di città e di cittadino. Si sa comunque che la primissima volta in cui il concetto apparse nella narrazione tradizionale è nel momento del sinecismo tra Romani e Sabini in seguito al famoso ratto delle Sabine,210 quando la stessa giovane città divenne una doppia monarchia romano-sabina sotto l’egida di due re: Romolo e il sabino Tito Tazio. I membri di questa doppia comunità si chiamavano Quirites, un appellativo derivante dalla stessa radice di curia211, che designa dunque la totalità dei membri della curia e dunque i cittadini. È fortemente significativo che la cittadinanza compaia nella tradizione nel momento della prima fusione tra Romani e stranieri, poiché il principio del sinecismo e l’inclusione continua di allogeni nella struttura civica romana fu una delle caratteristiche principali della politica estera romana dalla sua origine. Inoltre, il legame etimologico tra la parola “curia” e il più antico vocabolo per cittadini (Quirites)

sembra

indicare

che

la

cittadinanza

romana

sia

stata

un’evoluzione

dell’appartenenza alle curie romane, e che si trattava dunque di una vera e propria “cittadinanza curiata”. La cittadinanza romana è inoltre molto legata ai valori familiari e dell’ospitalità e così, secondo É. Benveniste212, l’etimologia della parola civis (cittadino) si riporta a delle parole indoeuropee relative all’« idée de famille, d’hôte admis dans la famille, d’ami »213. Il termine civis sarebbe un termine di confraternita, che significa più « concittadino » che « cittadino ».214 In breve, il sinecismo divenne molto presto un aspetto

210

Liv. I, 9-13; C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Gallimard, Paris, 1976, pp. 37-38 M.CORTELLAZZO (dir.), M. A. CORTELLAZZO, P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 2004 : « curia». « […] CURIA de COVIRIA (CO = COM insieme et VIR uomo, dal sanscrito VIRA eroe, guerriero,forte, potente), ovvero riunione di uomini , di guerrieri, [non potendo, come osserva il Letterato, essere separata da CENTURIA = CENTUM-VIRIA] […] » 212 É. BENVENISTE, Vocabulaire des institutions indo-européennes, Les Éditions de Minuit, Paris, 1969, I, pp. 334-335 213 C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Gallimard, Paris, 1976, p.38 214 Ibid. p.38 211

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cardinale della struttura sociale romana e lo stato di cittadino fu indissolubilmente legato alla struttura familiare gentilizia che aveva preceduto la nascita della città. Una buona illustrazione di questo principio è il fatto che nessuna adozione poteva aver luogo senza la ratificazione di questa attraverso il voto dei comizi curiati, cioè l’assemblea della totalità delle curie e non soltanto l’assemblea o le curie cui appartenevano le gentes dell’adottato e dell’adottante. L’adozione era un atto di diritto pubblico di competenza dell’assemblea dell’intero popolo. Un altro esempio impressionante riguarda l’affrancamento degli schiavi, in quanto l’affrancato diveniva sempre membro della gens del suo antico padrone e adottava il suo nomen gentile. Lo schiavo affrancato rientrava così in qualche modo nella famiglia o meglio nel clan del suo antico maestro con lo status di cliente, la qual cosa creava dei legami di diritti e obblighi reciproci tra affrancato-cliente e l’ex padrone divenuto patronus di quest’ultimo. È su una simile organizzazione civica che fu in seguito innestato il sistema centuriato, caratterizzato dal censimento che portò alla formalizzazione dell’uguaglianza giuridica dei singoli cittadini, legata a un’ineguaglianza sociale e politica in una struttura simile a dei « cercles concentriques »215 che costituiscono le varie classi di censo. La cittadinanza romana nel sistema curiato, come la sua evoluzione centuriata, fu caratterizzata da una dicotomia tra l’uguaglianza perfetta dello stato di cittadino nel diritto civile e, anche dopo il conflitto degli ordini, l’inuguaglianza di fatto delle varie classi sociali in diritto pubblico. Un frammento di un discorso sconosciuto che ci fu trasmesso da Festus (408, 33 L) lo illustra molto bene:

« En ce qui concerne le droit, la loi, la liberté, la chose publique, il convient que nous en jouissions tous en commun également ; mais pour ce qui est de la gloire et des honneurs, à chacun de se les procurer comme il peut.».216

215

Ibid. P. 71 Festus, 408, 33 L, traduzione francese di C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Gallimard, Paris, 1976, p.72 216

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C. La costituzione romana della monarchia etrusca

La costituzione della monarchia romana era in gran parte un adattamento dello schema patriarcale che univa l’organizzazione clanica alla sfera politica. Così, come la famiglia era dotata di un solo pater familias, lo Stato era dotato di un solo capo, il re (rex) che assumeva per la collettività le funzioni che i padri di famiglia assumevano nelle singole famiglie. La monarchia romana era una funzione elettiva, a vita e senza specifiche condizioni di eleggibilità, non essendoci una qualche famiglia specificamente indicata per ricoprire la carica reale. Evidentemente, i discendenti di famiglie illustri e i figli dei re precedenti avevano più possibilità di essere eletti rispetto al resto del popolo ma virtualmente chiunque- persino uno straniero- poteva essere scelto. In tal modo, il secondo re, Numa Pompilio, era ritenuto essere un Sabino scelto per la sua reputazione di saggio e il quinto re, Lucio Tarquinio Prisco era ritenuto essere non solo un etrusco e quindi straniero ma in aggiunta figlio di un greco chiamato Demerato di Corinto. È solo con l’avvento della dinastia etrusca e la comparsa del modello di governo tirannico di origine greca a Roma a partire dall’inizio del sesto secolo che una logica dinastica venne applicata alla funzione reale. Attraverso l’epoca della monarchia romana, la maggior parte dei sette re e che nomina la tradizione fu di origine straniera e nessun re eccetto Romolo sembrerebbe derivare dal lignaggio dei cento patres che sarebbero in teoria all’origine della classe patrizia. L’elezione del re si faceva all’interno dei comizi curiati (si ritornerà sulla loro origine e funzionamento nel capitolo V, 2, A) su proposta di un candidato da parte del senato. Il senato patrizio della prima parte dell’epoca monarchica sembra molto presto essersi accaparrato un monopolio sull’interregno e la scelta dei candidati alla carica reale217, un’evoluzione relativamente logica se si pensa che i membri del senato combinavano all’epoca i ruoli di

217

Si veda a riguardo il capitolo III, 3

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sacerdoti, di capi militari e di consiglieri reali. Una volta eletto, il re non ricopriva immediatamente le sue funzioni. Prima si prendevano gli auguri al fine di verificare la ratifica divina dell’eletto, indispensabile dal momento che il re era il grande sacerdote dello Stato romano. In seguito, in caso di auspici favorevoli, bisognava che i comizi curiati investissero il re di una Lex curiata de imperio, una legge che conferisse l’imperium218, l’autorità assoluta dell’ufficio reale al nuovo eletto. Da questo momento il re era grande sacerdote, unica fonte di legislazione oltre che giudice supremo in quanto protettore e interprete del mos majorum, comandante in capo dell’esercito, e capo del potere esecutivo dello Stato romano. Il re aveva un luogotenente immediatamente subordinatogli detto tribunus celerum. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il tribunus celerum era l’ufficiale superiore che comandava le guardie del corpo del re.219 È impossibile determinare se quest’ufficiale fosse eletto dai comizi in rappresentanza del re o se fosse direttamente eletto dal re. Dato che aveva apparentemente il diritto di convocare i comizi e di presiederli, è probabile che fosse investito dell’imperium di un grado immediatamente inferiore a quello del re, e in tal caso sarebbe logico che invece dell’elezione reale, i comizi curiati avessero perlomeno una funzione d’investitura tramite una lex curiata de imperio. È comunque impossibile verificare tali affermazioni. Infine, la tradizione parla di un secondo ufficiale reale, il custos urbis, guardiano della città, che era il rappresentante del re in ogni materia di carattere civile all’interno della città in caso di assenza del re. Quest’ufficiale avrebbe avuto il diritto di convocare e presiedere il Senato, di convocare i comizi curiati e di esercitare la forza in caso di necessità. Secondo la tradizione

218

F. GAFFIOT, Dictionnaire latin-français, Hachette, Paris, 1934, p.781, imperium, ii, n. (imperio), ¶ 1 commandement, ordre : praetoris imperio parere, Cic. Verr. 4, 76, obéir à l’ordre du préteur ; ¶ 2 pouvoir de donner des ordres, autorité, pouvoir : imperium in suos tenere, Cic. CM 37, maintenir son autorité sur les siens ; ¶ 3 [officiellement] pouvoir suprême [attribué à certains magistrats ou confié en dehors de la magistrature, c'està-dire, délégation de la souveraineté de l’Etat et comportant le commandement militaire et la juridiction] : imperium permittere, prorogare, Liv. XXVI, 2, 9 ; XXVI, 1, 6, confier, proroger le pouvoir suprême ; ¶ 4 [en part.] commandement militaire ; ¶ 5 [quelque fois au pluriel, sens concret] autorités, magistrats ou comandants, généraux : Cic. Leg. 3, 9 ; Caes. C. 1, 31, 1 ; 3, 32, 4 ; ¶ 6 [en général] souveraineté, domination, hégémonie : imperium populi Romani Cic. Verr. 5, 8, la domination du peuple romain ; ¶ 7 empire, gouvernement impérial : imperium recipere, Suet. Tib. recevoir l’empire, cf. Suet. Cal. 12 ; 16 ; etc. 219 Dion. Hal. Ant. Rom. II, 13

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un tale ufficiale fu nominato solo quattro volte: durante il regno di Romolo220, di Tullio Ostilio221 e di Tarquinio il Superbo222. Nell’ambito delle sue funzioni, il re gestiva il tesoro dello Stato, si occupava di giustizia in ogni suo ambito sia privato che pubblico, militare e civile, ed era il solo abilitato a proporre delle nuove leggi.223 Se il re aveva un potere quasi autocratico, questo non era senza limiti. In primo luogo non poteva mai opporsi ai precetti religiosi di cui, in quanto gran sacerdote della comunità, era tenuto ad assicurare il rispetto e l’osservanza e su tale tema l’opinione dei patres ebbe senza dubbio una grande influenza. In più, in quanto protettore del mos majorum, non poteva arbitrariamente interpretare la legge come meglio gli pareva poiché la sua interpretazione doveva essere conforme alle precedenti dei suoi predecessori. Benché potesse proporre nuove leggi (leges regiae) queste dovevano essere approvate dai comizi curiati (e in seguito centuriati) che avevano anche la possibilità di rifiutarle. Lo stesso principio si applicava per la decisione di intraprendere delle guerre di aggressione224 e, in seguito ad una riforma secondo la tradizione attribuita a Tullio Ostilio225, per le condanne a morte dei cittadini romani al di là del diritto marziale, istituendo così un doppio grado di giurisdizione nel quadro delle infrazioni, portando la pena capitale nella sfera civile. In più, in ogni epoca il re fu subordinato alla legge, mai superiore a essa e il cittadino gli doveva un’obbedienza assoluta senza tuttavia sentirsi socialmente inferiore, proprio com’era il caso dei figli di famiglia contro il proprio padre.226 A quest’epoca del resto, non vi era una distinzione netta tra la legge (lex), disposizione dei costumi atavici, e l’editto (edictum), una

220

Romolo avrebbe nominato Denter Romulius ; voyez : Tac. Ann.VI, 11, 1 Tullio Ostilio avrebbe nominato Numa Marcius ; voyez : Tac. Ann.VI, 11, 1 222 Tarquinio il superbo avrebbe nominato Spurius Lucretius ; voyez : Liv. I, 59, 12 ; Tac. Ann.VI, 11, 1 223 T. MOMMSEN, Römische Geschichte, 1856, Buch I, p.56, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 224 Liv. I, 32, 12; Gell. Noct. Att., XVI, 4, 1-2; Dion. Hal., Ant. Rom. VIII, 91, 7, IX, 69, 4 225 Liv. I, 26, 8-12, VIII, 33, 3; Dion. Hal. Ant. Rom. III, 22, 6 226 T. MOMMSEN, Römische Geschichte, 1856, Buch I, p.57, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 221

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decisione promossa da un magistrato (in questo caso il re) che aveva forza di legge solo durante il mandato di tale magistrato. Ciò si spiega con il mandato a vita della funzione reale, che fa sì che gli editti reali si distinguessero appena dai costumi ancestrali, del resto non ancora scritti. Nell’amministrazione della giustizia, il re era assistito dai quaestores parricidii incaricati di punire gli omicidi di uomini liberi, oltre che da due duoviri perduellionis, scelti personalmente dal re per trattare gli affari che riguardavano un’accusa di alto tradimento.227 Il senato, già elemento più importante della sfera politica, non era ancora evoluto al di là del suo stato iniziale di consiglio onorario ed era perciò abilitato a consigliare il re ma non poteva legalmente bloccare i suoi atti. È comunque certo che in virtù delle loro funzioni militari e sacerdotali, i re furono portati a fare attenzione a mantenere una base di sostegno solido trai senatori e più in generale tra gli aristocratici. Durante l’epoca reale, il re era di certo il più potente delle tre maggiori istituzioni statali che si è appena menzionato (la carica reale, il senato e le assemblee popolari). La carica reale (anche dopo essere stata trasformata nell’ufficio dei pretori, in seguito dei consoli, sotto la Repubblica) fu destinata a restare la più potente delle istituzioni romane fino alla fine del quarto secolo, quando il senato s’impose progressivamente come forza principale che si muoveva dietro le azioni dello Stato sia in pace sia in guerra. I capifamiglia che costituivano il senato nell’epoca reale furono dei membri molto influenti nella comunità, sia sul piano finanziario sia politico e militare. Non bisogna mai dimenticare che il re era in primo luogo proposto dal senato e, dalla sua elezione, era largamente dipendente dal sostegno dei grandi dello Stato, in altre parole l’aristocrazia patrizia. Già all’epoca della monarchia le prime famiglie patrizie in termini di proprietà terriera furono per forza di cose i principali strumenti di governo per il re poiché erano essi che controllavano una buona parte del surplus agricolo che costituiva la principale

227

G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 59

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fonte di arricchimento in un’epoca in cui l’economia monetaria non esisteva. Inoltre, i re erano riconoscenti per la loro elezione nei confronti dei grandi capi famiglia del senato che, non solo avevano permesso la loro elezione, ma garantivano con il loro sostegno la stabilità del trono che questi re occupavano. Sia Romolo sia Tullio Ostilio morirono in circostanze piuttosto sospette, poiché il primo fu « elevato al cielo » dopo essere stato avvolto da nebbia e fulmini di una tempesta durante un’assemblea del popolo228 ; il secondo, colpito nella sua dimora dopo aver commesso un presunto sacrilegio durante il compimento di un sacrificio a Iupiter Elicius229. Lucio Tarquinio Prisco e anche Servio Tullio, suo successore e figlio adottivo, furono assassinati da alcuni membri della famiglia dei loro predecessori, che si sentivano privati del loro diritto alla corona.230 Benché sia evidente che i due primi esempi suggeriscono una morte tutt’altro che naturale- la narrazione di Tito Livio dice del resto che tale opinione era già diffusa subito dopo la morte di Romolo231 – la verità sulla loro morte non si potrà mai conoscere. In ogni caso, questa versione dei fatti rafforza la veridicità dei due esempi successivi che costituiscono due veri e propri omicidi dei due re di Roma per opera dei membri di famiglie aristocratiche veramente potenti. Questi fatti ci mostrano l’enorme potere dell’aristocrazia patrizia a Roma prima che la Repubblica fosse stabilita oltre che l’esistenza di violente rappresaglie intra-oligarchiche all’interno di questa.232 Con il fine di rendere più chiara e comprensibile la struttura costituzionale dello Stato romano di era monarchica, come spiegato attraverso gli ultimi 228

Liv. I, 16, 1 Liv. I, 31, 9 230 Liv. I, 40, 2 et I, 47, 11-14 rispettivamente. È interessante osservare come le pretese per il trono dei discendenti di Anco Marzio costituiscono il primo esempio dell’invocazione del diritto ereditario per quanto concerne la carica reale romano nella narrazione tradizionale . Tale fatto conferma comunque parizalmente la tesi della comparsa del principio ereditario alla fine del settimo secolo quando l’influenza greca ed etrusca sulle istituzioni romane divenne estremamente importante, specialmente con l’adattamento del modello tirannico di tipo greco orientale in Italia durante il sesto secolo. Si veda a questo proposito : F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, pp. 108-115 231 Liv. I, 16, 4 232 Per quanto riguarda la definizione di rappresaglie intra-oligarchice che sarà condotta in questo scritto, si veda J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, Cambridge, 2011, pp. 1-38, avremo l’occasione di ritornare su questo punto infra. 229

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capitoli, abbiamo stabilito uno schema nella pagina che segue che riprende a grandi linee le prerogative e funzioni delle varie istituzioni di diritto pubblico che prevalsero durante la dinastia etrusca.233 Per quanto riguarda lo schema militare del corpo civico ripreso da questa struttura, ricordiamo al lettore che le quattro categorie in cui abbiamo suddiviso quest’ultima, in altre parole la cavalleria patrizia, la fanteria oplitica, la fanteria leggera, gli schermagliatori infra classem, e infine proletari esenti dal servizio militare, non erano delle categorie impermeabili e vi fu una certa mobilità tra queste. In più, l’appartenenza dei cavalieri e degli opliti al popolo è una certezza, laddove la non appartenenza degli infra classem al popolo è veramente difficile da provare in via definitiva. Inoltre, la plebe divenne un’entità sociopolitica definita solamente a partire dal secondo decennio della Repubblica, cosa che rende la nostra qualificazione di « plebe » per gli infra classem e i proletari un po’ artificiosa; L’abbiamo inclusa al fine di permettere al lettore di distinguere tra populus e plebs come definiti in questo studio. Fu soltanto dopo la chiusura dei ranghi dei patrizi nel corso dei cinque primi decenni del regime repubblicano che emerse lentamente la suddivisione globale del corpo civico in due gruppi: i patrizi e i non patrizi, che divennero collettivamente la plebe. Comunque, sia prima sia dopo la serrata del patriziato, i proletarii non formarono la maggior parte della plebe romana: la maggioranza dei cittadini romani era inclusa nelle due categorie di cittadini eleggibili al servizio militare, in altre parole, la classis clipeata e, in forma minore, i contingenti infra classem.

233

Il est à noter que ce schéma n’est évidemment pas exhaustif et qu’il représente notre vision de la structure constitutionnelle romaine de l’ère de la dynastie étrusque telle que nous l’avons comprise à travers notre étude en la matière.

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2. Le assemblee del popolo nell’organizzazione curiata

A. Comitia Curiata

Le due prime assemblee dell’era monarchica erano i comizi curiati e i comizi calati. Tali comizi furono fondati inizialmente sull’organizzazione clanica della Roma arcaica, le gentes, organizzate in un totale di trenta gruppi detti curiae. Si è già avuta l’occasione di menzionare l’esistenza delle curie ma è ora necessario soffermarsi un po’ sul loro significato preciso, specialmente poiché l’organizzazione curiata e la struttura dell’esercito, sulla quale fu basata l’assemblea centuriata, erano estremamente legate all’inizio della Repubblica. Secondo la tradizione, le tre tribù « genetiche »234 dei Tities, Ramnes e Luceres furono divise da Romolo in dieci curie ciascuna, dando come risultato un totale di trenta curie che rappresentavano parallelamente le forze armate e il corpo civico. Ogni tribù disponeva così di dieci centurie di fanteria, un ufficiale legionario superiore (tribunus militum)235, e un centurio di cavalleria, formando così l’esercito di età monarchica composto da 3000 fanti sotto tre tribuni della milizia, e 300 cavalieri sotto un tribuno della cavalleria (tribunus celerum). Un numero variabile di reclute in sovrannumero con armamento leggero o non armati accompagnava probabilmente questa prima legione romana. La totalità di queste forze fu posta sotto il comando supremo del re. Per quanto riguarda il tribunus celerum, non è chiaro se questa carica fu assegnata sotto prerogativa reale, come sembra indicare Dionigi d’Alicarnasso236, o se fu solamente proposto dal re ed eletto dai comizi curiati. Non è domanda di poco conto poiché si trattava di una carica militare e solenne che dava a colui che

234

G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 15 Varr. De Ling. Lat. V, 81: « […] Tribuni militum, quod terni tribus tribubus Ramnium, Lucerum, Titium olim ad exercitum mittebantur.[…] » 236 J. MURRAY, A Dictionary of Greek and Roman Antiquities, London, 1875, « Tribunus » 235

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la occupava la prerogativa di convocare i comizi curiati in nome del re237, di commandare le guardie del corpo de re, e di comandare i contingenti di cavalleria.

Le trenta curie furono allo stesso tempo le unità di voto nella più antica delle assemblee popolari, i comizi curiati. Anche dopo l’istituzione delle riforme serviane e le tribù territoriali, la struttura delle tribù genetiche di origine continuò a ricoprire un ruolo nell’ordinamento sociale e militare romano.238 Le curie furono delle associazioni di un certo numero di gentes che si riunivano in luoghi specifici (chiamati anch’essi curiae) dove, sotto la presidenza di un capo curia (curio) e di un sacerdote curiale (flamen) osservavano i sacra comuni239 e condividevano dei pasti comuni.240 Vi sono anche indicazioni che le curiae possedessero delle terre in comune (Dion. Hal. Ant. Rom. II, 7, 4), ma non è certo. Le trenta curie furono presiedute da un curio maximus, capo del collegio dei curiones, una carica che si sa essere stata occupata esclusivamente da patrizi durante i primi anni della Repubblica. Nell'ambito delle loro competenze costituzionali, le trenta curie si riunivano nel Comitium, situato nella parte inferiore del Senato in cui sedeva la Curia Hostilia, che andava a costituire i comizi curiati. Il funzionamento interno di queste assemblee seguiva la logica del voto per gruppi, con un solo voto per ciascun membro individuale del gruppo (cioè di una curia individuale), mentre il voto della totalità della curia era determinato da una maggioranza semplice dei suoi membri. I curiones erano incaricati dell’organizzazione interna dei suffragi delle loro curie e del mantenimento della disciplina nello svolgimento dello scrutinio, sotto la presidenza generale del curio maximus. I comizi curiati erano convocati dal re, attorniato dai

237

Liv, I, 59: « […] Quo simul ventum est, praeco ad tribunum celerum, in quo tum magistratu forte Brutus erat, populum advocavit.[...] » 238 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 105 239 Dion. Hal. Ant. Rom. II, 64, 1-2 240 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 105

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suoi dodici littori recanti i fasci. I fasci erano delle verghe di betulla o di olmo, simbolizzanti il diritto al castigo corporale, che avevano tra essi delle asce di bronzo (secures), simbolizzanti il diritto di vita e di morte di cui era investito il detentore supremo dell’imperium. Il tutto era tenuto insieme da alcune coregge di cuoio che, simbolizzavano la stretta con cui il potere coercitivo doveva essere utilizzato dal magistrato, proprio come il loro scioglimento su ordine del magistrato simbolizzava che i limiti della stretta erano stati raggiunti e la violenza che ne poteva risultare.241 Il fascio nel suo insieme simbolizzava infine l’unità del regime collettivo. I littori erano degli ufficiali reali (e in seguito magistrati) che combinavano funzioni di guardia del corpo e di polizia. L’etimologia di lictores indica la loro funzione, venendo dal latino ligare, legare, dato che su ordine del re e in seguito dei magistrati superiori avevano il diritto di arrestare, legare e flagellare chiunque con le verghe dei loro fasci.242 I comizi potevano anche essere riuniti su ordine del tribunus celerum. Nell’ambito dell’elezione del re o, se nessun magistrato superiore era presente per presiedere i comizi per l’elezione dei pretores (dopo l'abolizione della monarchia), era un inter-re, scelto dal senato trai senatori patrizi243 per un periodo di cinque giorni, a convocare e presiedere le assemblee delle curie. Procedendo al voto, le trenta curie votavano l’una dopo l’altra, in ordine che non era apparentemente regolato. Si sa comunque che la prima delle trenta curie a votare era estratta a sorte e che era detta la curia principium.244 È sorprendente che il numero totale delle curie sia stato fissato a trenta, un numero pari che rende certamente più difficile, ottenere una maggioranza semplice. Humm245 interpretò quest’anomalia come segnale di un ruolo

241

Voyez J. A. WINTERS, Oligarchy, Cambridge University Press, Cambridge, 2011, p. 101 G. FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, From Prehistory to the First Punic War, University of California Press, London, 2005, p.150 243 K. A. RAAFLAUB (dir.), Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 47 244 Liv. IX. 38, 13 245 HUMM, I fondamenti della repubblica romana : istituzioni, diritto, religione, p.12, in: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Salerno editrice, Roma, 2008, p. 427 242

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costituzionale estremamente circoscritto per i comizi curiati delle origini, limitato all’acclamazione dei re e magistrati eletti dopo che essi avevano già ottenuto gli auspici e l’imperium attraverso la renuntiatio solenne del predecessore, l’interrex.246 Una tale spiegazione del ruolo della lex curiata de imperio ha certamente alcuni meriti, soprattutto perché si applica perfettamente allo sviluppo successivo, dopo il trasferimento delle competenze elettorali delle curie ai comizi centuriati, dal momento che fu mantenuta la necessità formale di procedere, dopo un’elezione, a una proclamazione solenne davanti all’assemblea delle trenta curie, sostituita poi da trenta littori a rappresentare le curie. Non vanno comunque dimenticate le altre competenze dell’assemblea curiata spiegate supra, e da parte nostra si giungerà a una visione più mitigata, lasciando una voce limitata al popolo degli inizi, ma che non era nemmeno relegata alla semplice acclamazione. Il numero delle trenta curie fu sempre mantenuto anche se il numero delle centurie di fanteria e di cavalleria che rappresentavano fu incrementato a più riprese. Le centurie della cavalleria di Romolo, le 300 celeres247 contando una centuria per ciascuna tribù genetica, cioè dieci uomini per curia, continuarono a portare i loro nomi di Ramnes, Tites et Luceres fino alla tarda Repubblica.248 Il loro numero fu raddoppiato da L. Tarquinio,249 segnando la comparsa delle tre centurie priores e delle tre centuries posteriores, una da ciascuna tribù, per distinguere il primo gruppo di cavalieri gentilizi dal secondo.250 Secondo la visione di P. Fraccaro, la riforma serviana, attorno al 550 a.C., avrebbe avuto come risultato il raddoppiamento delle centurie di fanterie, ormai composte largamente da opliti, e avrebbe

246

Ibid. p. 427 Liv. I, 15, 10 248 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 104 249 Liv, I, 36, 1-12 250 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 104 247

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portato a una classis clipeata251 di 6000 uomini. Tale numero è relativamente plausibile alla luce dei 35.000 abitanti che contava la popolazione romana della città nell’epoca serviana.252 L’esercito contava così un totale di circa 9000 uomini, di cui 6000 opliti, 2400 fanti leggeri e schermagliatori infra classem, e 600 cavalieri di origine patrizia.253 Il fatto che la classis dell’esercito cittadino era composta da 60 centurie di fanteria oplitica attiva254 fino alla tarda Repubblica, è un indicatore della grande influenza delle trenta curie romoliane sullo sviluppo delle strutture militari e civili o direttamente o attraverso la duplicazione e riadattamento delle strutture esistenti.255 Lo stesso vale anche per le prerogative dell’assemblea curiata; è in effetti possibile che, da una funzione originaria di semplice acclamazione popolare che portava alla ratificazione del diritto di comando militare (imperium) e della funzione di intermediario tra il divino e la comunità (auspicia), l’assemblea curiata abbia in seguito ricevuto delle nuove responsabilità come l’elezione dei quaestores ed il diritto di ratificare le leges regiae e le dichiarazioni di guerra. Fino all’epoca attuale resta sfortunatamente impossibile di rispondere a tale quesito in forma definitiva. Comunque, alla luce del gran numero di pubblicazioni in materia, ci è possibile tracciare in modo relativamente preciso i diritti del popolo che si riuniva nei comizi curiati. L’assemblea curiata era all’origine la sola istituzione capace di conferire il potere supremo (l’imperium) al rex e in seguito ai praetores. Soltanto dopo questo voto di potere supremo sul sovrano, e in seguito sul dittatore, console o pretore, fu investito della pienezza dei suoi poteri, divenendo a partire da questo voto di investitura ciò che si definiva come magistratus

251

Cioè il corpo di fanteria oplitica dal latino clipeus, scudo, che corrisponde al greco hoplon. T. CORNELL, The beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 BC), Routledge, London & New-York, 1995, pp. 204-207 253 Ibid. pp. 204-207 254 Sesanta centurie di fanteria pesante su modello oplitico composta da 40 centurie di iuniores della prima classe più le dieci centurie di iuniores di ciascuna delle seconde e terze classi, senza poter escludere una leggera differenza nella qualità dell’equipaggiamento delle tre classi. Si veda a questo proposito: G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 33 255 F. W. WALBANK (dir.), A. E. ASTIN, M. W. FREDRIKSEN, R. M. OGILVIE, A. DRUMOND, Cambridge Ancient History Volume 07 Part 2 The Rise of Rome to 220 BC, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 104 252

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optima lege (cioè un magistrato investito dei pieni poteri e prerogative della sua funzione). L’assemblea curiata non aveva inizialmente nessun potere autonomo, essendo limitata all’accettazione o rifiuto di una proposta derivante dal re. Sembrerebbe che la sola decisione autonoma che prendeva riguardava l’elezione dei questori. I questori dell’era monarchica erano divisi in due collegi, quello dei quastores classici256, incaricato della gestione delle risorse reali, e quella dei quastores parricidii257, incaricata del perseguimento e della repressione degli atti di omicidio commessi contro uomini liberi. Essi erano i primi assistenti del re dopo il tribuno di cavalleria (tribunus celerum), il capo delle sue guardie del corpo, e si trattava di una funzione simile a quella del maestro della cavalleria, magister equitum, che era l’aggiunto del dittatore durante l’era repubblicana. Tanto il tribunus celerum quanto il guardiano della città, custos urbi, in carica delle funzioni del re durante l’assenza di quest’ultimo, erano probabilmente nominati per volontà del re, anche se il tribunus celerum fu probabilmente investito dell’imperium da parte di comizi curiati. A partire dalla metà del sesto secolo a.C., i comizi curiati ricevettero secondo la tradizione il diritto di giudicare in appello (provocatio) i cittadini condannati a morte sotto la giustizia reale (judicia de capite civis Romani). Non è comunque certo se il diritto di appello esistesse già durante l’era monarchica o se fu introdotto soltanto nell’anno 509 con la lex Valeria de provocatione.258 In seguito erano i comizi coriati che votavano le leggi proposte dal re, o durante i primi dieci anni della repubblica dai praetores, includendo ogni modifica proposta del mos maiorum oltre che le dichiarazioni di guerre di aggressione. In seguito, in ragione della sua origine, i comizi curiati erano responsabili dell’approvazione di ogni misura concernente l’organizzazione clanica, cioè le adozioni e le elevazioni o l’abbassamento di persone o famiglie

256

J. MURRAY (dir.), A Dictionary of Greek and Roman Antiquities, London, 1875, “quaestor”; Dig. 1 tit. 2 s2 § 22, 23 257 G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 59 258 Ibid. p. 60

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rispettivamente verso lo status patrizio o plebeo.259 Il potere legislativo dei comizi curiati per quanto riguarda l’organizzazione gentilizia resterà suo appannaggio esclusivo attraverso la storia repubblicana. Sarano i comizi curiati che nel 44 a.C., ratificheranno il testamento di Giulio Cesare e attraverso tale atto l’adozione di suo nipote Gaius Octavius Thurinus, futuro imperatore Augusto, in quanto figlio legittimo e unico erede di Giulio Cesare.

I comizi curiati formavano un’assemblea dominata dai cittadini patrizi, che erano i capi delle curie. Ciascuna delle trenta curie era un’unità elettorale unica che possedeva un solo voto. Voto curiale che era ottenuto con maggioranza semplice trai membri della curia secondo una logica di suffragio universale di uomini liberi e cittadini.260 Con la lenta comparsa e lo sviluppo di una componente civica non patrizia e la lenta scomparsa dell’organizzazione gentilizia a favore dell’organizzazione centuriata nel secolo a cavallo tra era monarchica e repubblicana, le curie divennero sempre meno rappresentative del corpo civico nella sua interezza. È così che durante il quinto secolo a.C. i comizi curiati furono istituiti dando un potere di decisione a un’assemblea che includeva almeno nominalmente la totalità degli uomini che costituivano l’esercito romano. I comizi curiati restarono in vigore fino a oltre l’inizio dell’era imperiale. Ad ogni modo, poco dopo la creazione dell’assemblea centuriata, la gran parte dei poteri delle curie fu trasferita all’assemblea delle centurie. L’assemblea curiata conservò solo il potere nominale di votare l’ultima approvazione di ciò che era già stato deciso de facto dalle centurie benché teoricamente non de jure. In più, sembrerebbe che nel secolo che segue la creazione delle assemblee centuriate e dei tribuni, la plebe fu portata a integrarsi con gli altri gruppi non patrizi, divenendo infine una parte integrante del populus Romanus fino a che il populus e la plebs divennero termini quasi sinonimi nella tarda Repubblica. Non è chiaro se la totalità della 259

Si veda a questo proposito l’episodio dell’adozione di Publius Claudius Pulcher – membro della gens patrizia dei Claudii– di P. Fonteius en 59 av. J.-C. perchè potesse essere eletto al tribunato della plebe. 260 Liv. I, 43, 12; Dion. Hal. Ant. Rom., II, 14, 3

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popolazione non patrizia era ammessa ai comizi curiati o se essa ottenne (o fece uso) dell’organizzazione in gentes. L’intimo legame tra la struttura gentilizia e il patriziato repubblicano, del quale i costumi e sacra legati all’organizzazione clanica divennero un simbolo di grande orgoglio identitario261, ci porta comunque a rispondere negativamente a tale quesito e a pensare che la struttura gentilizia fu l’appannaggio esclusivo del patriziato. L’assemblea dei comizi curiati, lentamente svuotata della sua sostanza e dei suoi poteri politici, sparì poco a poco dalla luce della storia. A partire dagli anni 220 a.C. le trenta curie furono sostituite dai trenta littori che si occupavano di voti legalmente necessari anche se svuotati di ogni sostanza

262

poiché, dall’inizio del quinto secolo a.C. l’assemblea delle curie

fu soppiantata dai comizi centuriati, l’assemblea popolare più potente nello schema costitutivo romano fino a molto dopo la fine del Conflitto degli Ordini.

B. Comitia Calata

I comizi calati, contrariamente ai comizi curiati, continuarono ad esistere per molto più tempo essendo organizzati anche dall’imperatore Augusto in virtù della loro importanza religiosa. Tale assemblea era organizzata in modo identico ai comizi curiati a parte per il fatto che era presieduta dal collegio dei pontefici sotto il pontifex maximus. Nessuna questione politica era decisa da tale assemblea. Essa si occupava principalmente di questioni religiose come l’insediamento nelle loro funzioni di certi sacerdoti (il Rex sacrorum per esempio in seguito all’abolizione della monarchia, oltre che i Flamines e le vergini vestali

263

) e di questioni di

natura religiosa riguardanti le curie come l’atto di sancire in via ufficiale i testamenti. In effetti, in quest’ultimo caso il populus agiva come testimone collettivo degli atti che lo

261

G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 54 MARCUS TULLIUS CICERO, De lege agraria oratio secunda contra P. Servilium Rullum, Tr. Pleb. In Senatu, 12 263 A. LINTOTT, The Constitution of the Roman Republic, Clarendon Press Oxford, Oxford 1999, p. 42 262

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richiedevano. I testamenti in particolar modo sembrano essere stati letti pubblicamente davanti a quest’assemblea, probabilmente in virtù dello scarso tasso di alfabetizzazione durante l’era arcaica, che richiedeva una prova formale alquanto rigorosa. In più, dato che il pater familias era il sacerdote familiare e che il suo successore ereditava le sue prerogative, le implicazioni religiose di un tale passaggio richiedevano la ratifica dei testamenti da parte di quest’assemblea incaricata del mantenimento dei sacra pubblici e privati.264

C. Emergere dell’organizzazione centuriata

Ogni studio di una certa importanza del peso della voce del popolo durante l’era repubblicana deve per forza di cose cominciare con una breve spiegazione del sistema di censo che fu introdotto dalle riforme attribuite a Servio Tullio.265 Il termine census, censimento, designa due cose presso i Romani: in primo luogo il conteggio dei cittadini che formano il corpo civico, e in secondo luogo la classificazione dei cittadini nelle varie categorie o classi all’interno del corpo civico, con la particolarità che le varie classi erano al contempo egalitarie e gerarchiche.266 Egualitarie poiché teoricamente il diritto di cittadinanza romano, la civitas romana, era uno statuto giuridico uguale per tutti quantomeno dopo la redazione delle Leggi delle dodici Tavole, il diritto romano privato era strettamente uguale per ciascun cittadino. Nel diritto pubblico invece esistono grandi differenze tra l’aristocrazia patrizia e la massa dei cittadini non patrizi. Si ricordi che alla fondazione della Repubblica, la plebe fu esclusa da

264

Ibid. p. 41 Liv. I, 42, 4-5 : « (Le roi Servius Tullius) passe aux yeux de la postérité pour avoir établi dans notre cité les distinctions et toutes les classifications qui créent une différence entre les divers degrés de la dignité et da la fortune. Il a en effet créé le cens, institution très heureuse pour la grandeur future de l’Empire, et qui répartissait les charges civiles et militaires non plus par tête, comme auparavant, mais d’après la richesse ; il établit alors cette organisation des classes et des centuries, déduite du census, aussi admirable dans la paix que dans la guerre.» Traduzione francese di C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Gallimard, Paris, 1976 266 C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Gallimard, Paris, 1976, p. 71 265

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tutte le cariche solenni e sacerdotali dello Stato. Per più di due secoli dopo l’abolizione della monarchia, i diritti politici e religiosi dei cittadini furono condizionati dal predominio politico, religioso e militare dell’aristocrazia che risultò dal fenomeno che è definito come la serrata del patriziato. Fu soltanto dopo la lunga lotta del conflitto degli ordini (494-287 a.C.) che si acquisisce un’eguaglianza completa a livello di diritti politici a vantaggio della plebe. Il monopolio politico che il patriziato riuscì ad attribuirsi immediatamente dopo l’abolizione della carica reale presentò di certo un’opposizione e la storiografia contemporanea è quasi unanime nel considerare che l’aristocrazia patrizia fosse emersa di recente come forza politica alla fine del sesto secolo, seguita poco dopo dall’emergere della plebe come gruppo socio politico. Ad ogni modo, il sistema centuriato e il principio del censimento stabilito dai monarchi etruschi furono mantenuti senza modifiche dopo il 509, e il sistema costituzionale si dimostrò particolarmente adatto al modello di governo di tipo oligarchico messo in piedi dall’aristocrazia. Nel sistema elettorale, tutti i cittadini erano nominalmente inclusi nelle unità di voto, ma il peso elettorale delle centurie variava. In effetti, l’aspetto egalitario del sistema censorio aveva un versante gerarchico e inegualitario, caratterizzato dalle classi in cui il corpo civico era suddiviso. Ogni classe corrispondeva a un grado di onore, d’importanza civica e di contribuzione militare differente, determinando l’armamento che i suoi membri dovevano procurarsi a proprie spese. Al periodo delle riforme serviane però sembra più probabile che non vi era più di una classe unica, quella degli opliti. Inoltre, lo stato censorio di una persona corrispondeva all’influenza politica che poteva aspettarsi di raggiungere, ma uscire dal proprio stato sociale di origine era quasi impossibile. Per i Romani, la natura stessa si opponeva all’uguaglianza socio-politica proprio come la natura presupponeva un’uguaglianza di diritto. L’aristocrazia era naturalmente condotta a seguire l’esempio dei proprio antenati risalenti a tempi immemori e di intraprendere una carriera focalizzata sul servizio militare, la gestione delle attività

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agricole, la pratica del diritto nei tribunali e infine, la carriera politica Secondo la stessa logica le centurie distinguevano i giovani dai vecchi e i ricchi dai poveri poiché nessuno poteva pretendere che delle categorie di persone diverse fossero tenute a ricoprire esattamente le stesse responsabilità. Per quanto riguarda il diritto privato, i cittadini furono sottomessi a un diritto che era lo stesso per tutti, ma per quanto riguarda il diritto pubblico invece, i diritti e le responsabilità dei cittadini erano, con le parole di Claude Nicolet267, ripartiti in forma decrescente in cerchi concentrici, che andavano dall’aristocrazia politicamente dominante alle masse di proletari. Il sistema centuriato aveva dunque per caratteristica di determinare le cariche dei cittadini in funzione della ricchezza e di proporzionare gli onori alla carica, dando potere politico ai più ricchi, che erano quelli con più incarichi.268 Il libro II del De Republica di Cicerone (II, 39) esprime bene l’ideologia fondante del sistema centuriata attribuito a Servio Tullio:

« Il répartit le reste des citoyens en cinq classes et distingua les plus âgés des plus jeunes ; il les subdivisa de manière que les votations dépendissent non de la multitude, mais des riches propriétaires ; bref, il prit soin, d’après le principe qu’il faut toujours respecter en politique, que le plus grand nombre ne disposât pas de la plus grande puissance. »269

Si tornerà in modo dettagliato sul funzionamento dell’assemblea centuriata infra, ma è già chiaro che il sistema messo in piedi con l’introduzione del censimento centuriata era un sistema a più facce, che conteneva elementi democratici progressisti accanto ad elementi aristocratici inegualitari.

267

C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Gallimard, Paris, 1976, pp. 71-72 C. NICOLET, Censeurs et publicains – Economie et fiscalité dans la Rome antique, Fayard, Paris, 2000, p. 50 269 Traduzione al francese estrapolata da C. NICOLET, Censeurs et publicains – Economie et fiscalité dans la Rome antique, Fayard, Paris, 2000, p. 52 268

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Non si trattava del resto di un sistema senza logica in un’epoca in cui la semplice sopravvivenza di una città dipendeva dalla classe di tenutari liberi che ricoprivano il ruolo di contadini-soldati. Non tutti gli agricoltori avevano la stessa quantità di terra ed alcuni erano più fortunati d’altri, di modo che esisteva una sorta di classe media tra le masse dei proletari e schiavi e l’aristocrazia patrizia a capo della collettività. Il sistema serviano mise in essere un effettivo sistema d’imposte progressive per fasce con la particolarità che la progressività non si limitava all’ammontare del censo da versare da parte di ciascun cittadino. Il popolo romano fu diviso in 193 centurie censitarie e le 193 centurie furono ordinate in cinque classi. Ad ogni modo, le classi corrispondevano a fasce d’imposizione fiscale e non tenevano in alcun modo conto del reale numero di cittadini corrispondenti a tale grado di ricchezza facendo sì che ciascuna delle 193 centurie potesse contenere un numero altamente variabile di cittadini. Nel sistema centuriato la progressione si applicava sia alla contribuzione individuale per censo, sia ai diritti e ai doveri che derivavano dalla posizione nei « cerchi concentrici » di potere nello Stato. Così, i più ricchi pagavano non solo il censo più elevato ma erano anche sottomessi al più pesante servizio militare e dovevano equipaggiarsi con il materiale più costoso. A loro vantaggio, il peso elettorale dei gruppi più ricchi era superiore agli altri, ed erano generalmente in una posizione più favorevole per divenire ufficiali superiori e beneficiavano di un grado di prestigio sociale superiore alle altre classi. Il principio d’ineguaglianza sociale unito a un’uguaglianza di diritto privato fu dunque ratificato per sempre con la comparsa del sistema per censo in cui ogni cittadino era teoricamente sottomesso allo stesso regime fiscale, militare e politico ma secondo differenti gradi. Il passaggio che segue di Dionigi di Alicarnasso270 illustra bene la ripartizione ineguale dei diritti e responsabilità del sistema censitario e il suo funzionamento nella pratica: 270

Dion. Hal. IV, 19, 1-2

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« Par exemple, chaque fois qu’il voulait lever 20.000 hommes ou 10.000, il diviserait [ou il répartirait] ce nombre parmi les 193 centuries et ordonnerait à chaque centurie de fournir le nombre d’hommes qui lui revenait. En ce qui concerne les dépenses […] il calculerait d’abord combien d’argent serait nécessaire et, répartissant de la même manière cette somme entre les 193 centuries, il ordonnait à chacun de payer sa part en proportion du cens. Ainsi, il adviendrait que ceux qui avaient les plus grandes fortunes, étant moins nombreux mais distribués en un plus grand nombre de centuries, étaient obligés de servir plus souvent et sans interruption, et de payer des impôts plus importants que ceux qui avaient des fortunes moyennes et petites, etc. […] Et il ne fit pas cela sans raison : mais il était persuadé que les hommes considèrent leurs propriétés comme l’enjeu des guerres, et que c’est pour leur salut qu’ils acceptent de courir des dangers… [il faut donc proportionner les dangers aux propriétés] de telle sorte que ceux qui n’avaient pas de pertes à redouter [les pauvres] ne souffrent pas de dangers mais soient exempts d’impôts en raison de leur pauvreté, et de service parce qu’ils sont exempts d’impôts. […] il ne pensait pas convenable […] que ceux qui ne payent pas d’impôts soient entretenus sous les armes, comme des mercenaires, aux frais des autres. »271

Il sistema centuriato aveva dunque messo in piedi una preponderanza costituzionale a vantaggio dei più ricchi cittadini trai cui i patrizi combinavano la ricchezza personale e lo status aristocratico. Come visto supra, il patriziato divenne un’aristocrazia completamente chiusa solamente dalla metà del quarto secolo a.C. essendo inizialmente costretto ad accettare l’inclusione di conscripti non-patrizi trai ranghi del Senato. Al contrario, una volta che il regime repubblicano si fu ben insediato, l’aristocrazia chiuse i suoi ranghi e interruppe ogni forma di collaborazione con la plebe, divenuta nel frattempo un vero e proprio gruppo sociopolitico capace di fare fronte comune contro il dominio 271

Dion. Hal. IV, 19, 1-2, traduzione francese da C. NICOLET, Censeurs et publicains – Economie et fiscalité dans la Rome antique, Fayard, Paris, 2000, p. 53

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aristocratico. La lotta che ne risultò, il conflitto degli ordini, durò fino al 287 a.C. e fece emergere un nuovo equilibrio sociopolitico in cui lo stesso principio di preponderanza politica delle classi più agiate, e dell’aristocrazia in particolare, fu mantenuto. La sola reale differenza riguardò il fatto che le magistrature e la gran parte delle cariche sacerdotali furono d’ora in poi aperte alla plebe e i più ricchi trai plebei poterono esigere uno status equivalente o quasi a quello dell’aristocrazia patrizia. Il patriziato restò il patriziato, e il suo status non era aperto alla plebe, ma esso fu costretto ad aprire i suoi ranghi ai non patrizi in quanto aristocrazia, con il risultato di un’aristocrazia mista patrizio-plebea. L’emergere di questa nuova aristocrazia era il frutto di più di due secoli di disordini sociali ed è impossibile comprendere la sua struttura costitutiva della Repubblica del terzo secolo senza avere una conoscenza globale dell’evoluzione delle istituzioni romane nel corso dei due secoli chiave nello sviluppo del diritto pubblico romano che separano l’abolizione della monarchia dalla fine del conflitto degli ordini. Per tale ragione, è a questo punto necessario concentrarsi sull’emersione delle istituzioni repubblicane, sull’emergere della plebe come forza politica, e infine sull’evoluzione che risultò dalla conquista di una parte del potere politico da parte della plebe tra il 509 ed il 287 a.C.

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3. La costituzione della Repubblica romana

A. Emergere del regime repubblicano

L’espulsione di Tarquinio il Superbo, secondo la tradizione nel 509 a.C. ovvero nell’anno 244 ab urbe condita, segna il punto di partenza del regime repubblicano a Roma. È evidente che né la data del 509, né il numero di esattamente sette re dalla fondazione della città alla repubblica possano essere presi come fatti storici innegabili. Le fonti principali di cui si dispone per la storia della monarchia e l’inizio della Repubblica sono La storia dalla fondazione di Roma (ab urbe condita libri) di Tito Livio, probabilmente scritta tra il 27 ed il 25 a.C. e le Antichità Romane di Dionigi d’Alicarnasso che fu attivo a Roma a partire dal 29 a.C.. Il fatto che tali opere furono scritte qualche secolo dopo lo svolgimento dei fatti da cui iniziano la narrazione storica, ha per effetto che molte affermazioni e contenuti sono oggi inverificabili e con ogni probabilità lo erano già quando furono messi su papiro. Ciononostante, il fatto che numerosi dettagli che ci sono forniti nell’ab urbe condita e nelle Antichità Romane, e le altre fonti annalistiche, sono probabilmente in gran parte delle leggende popolari trasmesse per via orale attraverso varie generazioni prima di essere redatte per iscritto, non significa che tali fonti siano interamente inutili o inutilizzabili, ma proprio il contrario. Vi è un certo numero di fatti certi, che si possono verificare per mezzo dei reperti archeologici oltre che incrociandoli con altre fonti che derivano dall’era arcaica. Vi fu senza dubbio una monarchia a Roma, la cui « costituzione » ovvero il corpo di costumi che reggevano i diritti riguardanti la carica di re, allo Stato e dalle persone private, assomiglia con ogni probabilità

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molto all’immagine che ci presenta Tito Livio, di una monarchia assoluta ed elettiva, un senato e un'assemblea del popolo. É poi un fatto innegabile che in una qualche data attorno al quinto secolo a.C.- non essendo il 509 del resto una data improbabile- la monarchia dell’ultimo erede della dinastia etrusca fu rovesciata da una ribellione delle classi dominanti- non essendo la classe patrizia ancora interamente chiusa a quest’epoca272 – e sostituita da un regime oligarchico di governo collettivo nelle mani delle famiglie aristocratiche più potenti della città. La tradizione vuole che due principi reali siano stati posti a capo della rivoluzione che avrebbe abolito la monarchia e instaurato la Repubblica: tali Lucius Junius Brutus e Lucius Tarquinius Collatinus. Questi due patrizi di sangue reali furono in seguito trai primi « praetores » (tale termine deriva secondo Cicerone dal verbo praeire, precedere, guidare), la magistratura suprema dello Stato. La carica dei pretori fu ribattezzata carica dei consules cioè « colleghi »273 nel 367 a.C., con l’elezione (inizialmente) di un solo pretore (subordinato ai consoli) incaricato principalmente dell’amministrazione della giustizia. È con questa presa di potere della classe patrizia che comincia l’epoca in cui questa classe della società romana, pur costituendo solo una piccola parte dei cittadini romani, gode di un dominio politico assoluto. Questo stato di cose non restò senza opposizione da parte della parte più ricca della popolazione non patrizia- i conscripti non patrizi e la fanteria oplitica di cui si è parlato suprama comunque l’uguaglianza giuridica tra patrizi e plebei si farà attendere fino alla fine del conflitto degli ordini del 287 a.C.. La carica reale fu abolita di certo nel 509, ma analizzando le sue prerogative, non fu apportato alcun cambiamento effettivo; la carica in quanto potere reale fu raddoppiata per creare una sorta di doppia monarchia annuale a rotazione trai capi delle famiglie patrizie. I poteri

272

K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p.223-238 273 G. FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, From Prehistory to the First Punic War, University of California Press, London, 2005, p.151

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religiosi, esecutivi, militari e giudiziari, oltre che le insignia et regalia274 della carica reale- a parte i fasci che erano portati da un solo console all’inizio dell’era repubblicana- furono raddoppiati e attribuiti a due patrizi275. Questi ultimi erano eletti dai comizi centuriati e investiti dell’imperium tramite una lex curiata de imperio da parte dei comizi curiati, per un anno a partire dal primo gennaio di ogni anno. Le prerogative religiose della carica reale furono solo parzialmente trasferite ai consoli. Pur rappresentando il popolo e lo Stato durante i sacrifici ufficiali, la carica di grande sacerdote dello Stato fu attribuita al pontifex maximus, il nuovo sacerdote supremo dello Stato. I sacrifici in sé erano eseguiti dal rex sacrorum (re per i sacrifici) affinché gli dei eterni potessero continuare a ricevere il loro conforto da parte di colui che, per il sacrificio, era il re di Roma. Al rex sacrorum era comunque proibito di ricoprire un qualunque posto civile o militari affinché il detentore di questa carica religiosa primordiale non potesse abusarne per ristabilire l’ordine monarchico. In più, visto il suo legame intimo con il diritto agli auspici (un diritto esclusivo del patriziato) tale carica poteva essere ricoperta solamente da patrizi, figli di genitori sposati secondo la cerimonia arcaica della confarreatio e che erano essi stessi sposati secondo questo stesso rito.276 La tesi tradizionale secondo cui l’ufficio consolare fu introdotto immediatamente dopo l’abolizione della monarchia è stata per molto tempo dominante tra gli storici dell’antichità. Sembra comunque fortemente improbabile che la funzione consolare, identica a quella della Repubblica, consolidata un secolo e mezzo più tardi, sia scaturita dai meandri della storia completamente formata, nelle parole di Brizzi277 come Minerva che esce armata dalla testa di Giove... La tendenza contemporanea è dunque di rimettere in discussione tale visione dei fatti per considerare che la funzione consolare fu un’innovazione più tarda e che la magistratura 274

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 207, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 275 Sul tema della questione dei nomi gentilizi plebei presenti nei fasti consulares durante i primi cinque decenni della Repubblica si veda il capitolo III, 3, D, pp. 48-57 276 Sul tema del matrimonio per confarreatio si veda: J. LINDKERSKI, Religious Aspects of the Conflict of the Orders: The Case of confarreatio, in: 277 G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p.49

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suprema sia restata unica per quanto riguarda l’imperium durante più di un secolo a seguito dell’abolizione della monarchia nel 509 a.C..278 Vari fatti condizionarono la lenta formazione della carica pretoriana (che si ricorda, fu il primo nome con cui la magistratura suprema della Repubblica fu definita) dagli anni cardine del 510-509 a.C. In primo luogo va ricordata la natura della rivoluzione repubblicana; questa fu molto probabilmente una rivoluzione di palazzo, avente per fine l’espulsione di Tarquinio ma non per forza l’abolizione del sistema monarchico. Il fatto che la tradizione ci nomini due discendenti illustri della casa reale, L. Tarquinius Collatinus, un cugino del ramo cadetto della famiglia reale, e L. Iunius Brutus, un nipote del re, che occupava la carica di tribunus celerum durante la rivoluzione, rende probabile se non inconfutabile questa tesi. In più, Tarquinio il Superbo, l’ultimo re, ebbe una posizione di potere relativamente solida nel Lazio grazie ad alcune alleanze e legami di amicizia con certe città etrusche dell’oltre-Tevere a oltre alla posizione di suo figlio, che sembra che sia divenuto padrone della città latina di Gabii279 durante il regno di suo padre. In seguito alla rivoluzione, la città di Roma si trovava così isolata a seguito dell’ostilità di alcune città etrusche come Clusium e l’aperta inimicizia delle città delle Lega Latina. Questa lega era stata nominata da Roma sotto l’ultimo re etrusco ma sembra aver preso vantaggio dal vuoto di potere che seguì alla rivolta per sottrarsi al potere dominante di Roma. Secondo un’iscrizione di Porcius Cato Maior che ci è pervenuta, la Lega Latina comprendeva le città di Tusculum, Aricia, Lanuvium, Lavinium, Cora, Tibur, Pometia e Ardea280 ; certamente una combinazione pericolosa per l’urbs, soprattutto assieme all’avanzata degli Etruschi di Clusium sotto il loro re Lars Porsenna.

278 278

M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana : istituzioni, diritto, religione, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, pp. 426-428 279 Liv, I, 53, 5-9 280 T. CORNELL, The City-State in Latium, dans: M. HERMAN HANSEN, A Comparative Study of Thirty Citystate Cultures, Kgl. Danske Videnskabernes Selskab, Copenhagen, 2000, p. 213

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La storia tradizionale vuole che Porsenna sia venuto in aiuto a Tarquinio esiliato per tentare di riportarlo sul trono.281 Tale versione dei fatti sembra comunque essere erronea alla luce dell’antagonismo incessante che sembra caratterizzare la relazione trai due monarchi.282 E’ perciò probabile che Porsenna volesse in realtà riempire il vuoto di potere che la caduta del Superbo aveva provocato, e così estendere ancor di più l’influenza etrusca a sud del Tevere, specialmente se si pensa all’ascesa delle città greche come Cumae in Italia meridionale che minacciavano le postazioni etrusche in Campania. La città di Roma fu occupata militarmente da Porsenna per un periodo di almeno un anno a partire dal 509 a.C., fatto che è attestato da Tacito

283

oltre che da Tito Livio284. In seguito al fallito tentativo di Porsenna di conquistare

la città di Aricia

285

nel 508, che fu aiutato in questo conflitto dalla Lega Latina e dai

contingenti greci della città di Cumae sotto Aristodemo, le forze etrusche di Clusium furono talmente indebolite che l’occupazione di Roma non poté durare a lungo. È perciò estremamente probabile che la rivolta repubblicana fu molto presto sostenuta e in qualche modo monopolizzata dall’aristocrazia patrizia che, se si può credere alla storia tradizionale, era stata umiliata e spogliata di una parte della sua influenza dall’ultimo re etrusco. I due capofila della rivolta, Collatinus e Brutus, sparirono molto presto dalla scena, essendo il primo o esiliato in ragione della sua origine troppo vicina alla famiglia reale, anche se sembra probabile che egli sia stato semplicemente respinto ed esiliato dall’aristocrazia; il secondo morì durante la battaglia di Silva Arsia nel 509.286 In seguito all’occupazione della città, la sua aristocrazia perse gli ultimi resti del controllo sul Lazio al di là dell’ ager Romanus, anch’esso occupato.

281

Liv. II, 3-7 G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p.47 283 Tac. Hist. III, 72, 1, e Tac. nat. hist.XXXIV, 139, che implica che l’uso di armi e strumenti in ferro fu proibito agli abitanti dell’urbs come una delle condizioni del trattato con gli Etruschi. 284 Liv. II, 13,6 e seguenti. Tito Livio sembra ammettere principalmente che la città si sia arresa con l’episodio della cessione di ostaggi al Re etrusco di Clusium. 285 G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p.47 286 Liv. II, 6, 12-15 282

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L’aristocrazia di origine etrusca sembra dunque essere rimasta al potere durante ancora un qualche tempo, come sembrano testimoniare i numerosi nomi gentilizi di origine etrusca (come quelli dei Larcii, Herminii, Manlii, Vetusii, Aquilii, Cominii, Verginii)287 che figurano nei Fasti repubblicani fino a che persero288 gradualmente la loro influenza a seguito della vittoria romana sulla Lega Latina in rivolta nella battaglia del lago Regillo nel 499.289 Con la riorganizzazione della Lega Latina che ne conseguì, Roma ottenne una posizione relativamente privilegiata, essendo posta in posizione di totale uguaglianza con il resto della Lega, cosa che permise una tregua temporanea che rese possibile la stabilizzazione del nuovo regime. Inoltre, l’arrivo dei potenti clan sabini dei Valerii e dei Claudii, ammessi al patriziato alla fine del quinto secolo, ridiede il potere d’iniziativa all’aristocrazia, capace di occupare in forma decisiva il governo della città. Il periodo di disordini dell’inizio della Repubblica vide dunque lo sviluppo di una nuova magistratura, emersa dalla necessità e dal compromesso trai diversi gruppi di potere della città che sembra essersi accordata perlomeno sul fatto di non poter eleggere dei monarchi nella città.

Il governo quotidiano della città fu dunque con ogni probabilità affidato ad un gran numero di magistrati, i praetores¸ di cui solamente uno fu investito della totalità dell’imperium. La tradizione di alternanza del possesso dei fasci, simbolo per antonomasia del potere di comando dell’imperium, oltre alla formula arcaica di praetor maximus290 che evocano le nostre fonti, indicano chiaramente che vi furono numerosi praetores (secondo Humm291, l’utilizzo del superlativo maximus implicherebbe che ve ne fossero almeno due) di cui uno solo deteneva a rotazione con un secondo la totalità del potere di comando. I due praetores 287

G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p.48 Ibid., p.48 289 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 216; si veda la nota 150 290 Liv. VII, 3, 4 291 M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana : istituzioni, diritto, religione, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, p.427 288

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scelti a sorte per detenere a turno i fasci alternavano il possesso di ciò che in seguito si chiamerà l’imperium domi (il potere di comando civile) di mese in mese, e l’imperium militiae (il potere di comando militare) di giorno in giorno.292Il titolo di praetor era all’inizio comunque solo un termine generico per indicare un capo militare.293 L’espressione praetor maximus si avvicina così molto a quella di magister populi, un titolo in parte sinonimo di dittatore in un’epoca successiva e da cui sarebbe originato il nome di Mastarna, il capo militare etrusco che divenne in seguito re di Roma sotto il nome di Servio Tullio.294 Il fatto che il magister populi fu inoltre sempre anche capo della fanteria, del pilumnus populus295, conferma ancora una volta la tesi della necessità del nuovo governo di allargare il senato attraverso l’ammissione di conscripti emersi dagli strati superiori della fanteria oplitica. Il solo patriziato non ha mai potuto essere così numeroso da dominare sia la totalità dei clienti e altri non patrizi della classis clipeata¸ che i contingenti infra classem ed i proletari che costituivano i tre altri grandi gruppi del corpo civico. Durante l’anno cardine del 509, di fronte all’invasione armata e il disamore delle città latine, i patrizi dovettero per forza di cose assicurarsi il sostegno leale del corpo oplitico con l’espediente di una promozione di alcuni trai migliori uomini di tale corpo al Senato. Integrati nella lista del senato nel 509, l’influenza di questi nuovi membri non patrizi sulla politica del Senato e della Repubblica sarà comunque effimera, concludendosi con la scomparsa totale per più di un secolo di nomi gentilizi non patrizi dai Fasti dopo il 451.

Ad ogni modo, l’emergere dei Conscripti e la

presenza di nomi gentilizi non patrizi nei fasti consulares dell’inizio della Repubblica prova almeno che, anche se la rivoluzione repubblicana non riguardò la totalità del popolo, la gran

292

Ibid. p.427 Ibid, p.427 294 G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p.49 295 Letteralmente « l’armata di lancieri ». 293

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parte del popolo ha dovuto accettare il cambiamento di regime nel momento dell’abolizione della monarchia.296 L’ammissione al senato non sottointendeva la promozione al patriziato, come prova l’inclusione dei Claudii nelle gentes patrizie nel 504, cinque anni dopo l’aggiunta dei conscripti non patrizi ai ruoli senatoriali. La distinzione tra comuni cittadini ed aristocrazia fu semplicemente molto simile a Roma che in gran parte dell’Italia centrale, facendo sì che furono ammessi al patriziato gli stranieri che erano a loro volta aristocratici secondo il proprio diritto. Non è poi improbabile che l’ammissione al patriziato di gentes estremamente potenti come i Valerii e i Claudii, seguiti dai loro clienti e schiavi, abbia in qualche modo ridotto il bisogno dell’aristocrazia romana di ripiegare sugli strati inferiori del corpo civico in seguito alla pacificazione relativa del Lazio dopo il 499 e la vittoria romana sul Laco Regillo.297 Tale aspetto spiegherebbe l’innegabile ascesa del patriziato in seguito a tale anno oltre che la crescita di una voce d’opposizione tra le componenti del popolo meno intimamente legate al patriziato, le centurie di cittadini urbani infra classem e i proletari.298 Tale voce di opposizione, di cui studieremo le cause nella parte che segue, portò nel 494 all’emersione di una nuova forza sociopolitica a Roma, la plebe299, che si dotò in qualche decennio di una struttura di auto-governo rivoluzionaria a tutti gli effetti. È con l’emergere della plebe e il suo sistema di governo rivoluzionario che furono introdotte nella vita pubblica romana i cambiamenti che permisero l’evoluzione delle cariche governative patrizie dotate di imperium che caratterizzeranno la costituzione repubblicana fino alla fine della Repubblica. Per tale ragione è ora necessario concentrarsi sull’emergere della plebe e quindi dell’evoluzione delle 296

D. BRIQUEL, Les difficiles débuts de la liberté, in F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p. 153 297 Si tratta qui di una deduzione puramente personale, basata sull’incrocio delle fonti a cui si fa principalmente riferimento. 298 A questo proposito si veda il cap. III, 3, D 299 MANLIO CORTELLAZZO (dir.), MICHELE A. CORTELLAZZO, PAOLO ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 2004, : « plebs », dalla radice proto-indo-europeae « ple » : riempimento ovvero moltitudine

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varie assemblee del popolo, con il fine di potere capire meglio le cause e gli effetti del conflitto degli ordini che si concluse con l'emergere della oligarchia senatoria nelle mani dell'aristocrazia Patrizio-plebea.

B. L’emergere della plebe

L’abolizione della monarchia ebbe un effetto destabilizzante sul delicato equilibrio trai differenti gruppi sociali e portò anche ad un relativo ripiegamento su se stessa dell’economia romana. Ad ogni modo, il periodo di crisi economica che segue alla caduta della monarchia di cui si è discusso spesso nella storiografia, non sembra aver colpito seriamente l’economia romana fino almeno all’anno 480 a.C. Il fervore con cui furono costruiti dei grandi templi dopo la consacrazione del tempio di Iupiter Optiumus Maximus sul Campidoglio nel 509, anno della rivoluzione, ci testimonia la presenza di un gran numero di artigiani specializzati300, d’architetti, di operai di vario genere e l’influsso dei materiali da costruzione necessari alla costruzione di grandi edifici, la qual cosa smentisce l’insorgere di una vera crisi economica durante questi anni chiave per la nascente Repubblica. In appena venticinque anni furono costruiti quattro templi: il tempio di saturno fu edificato nel 497, seguito di poco da quello di Mercurio nel 495, da quello di Cerere nel 493 e infine quello di Castore e Polluce nel 484 a.C..301 Immense somme di capitale furono evidentemente necessarie per queste costruzioni monumentali ma la provenienza di tali fondi resta fino ad oggi davvero difficile da spiegare a meno che non si ammetta l’esistenza di una componente sociale non patrizia molto prospera e che dava prova di grande vitalità. La plebe cominciò a emergere lentamente, dotandosi in

300

A. MOMIGLIANO, The Rise of the plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p.178 301 Ibid. p. 178

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qualche decennio di un proprio centro religioso, il santuario dedicato alla triade di Cerere, Libero e Libera sull’Avventino, che imitava la triade capitolina di Giove, Giunone e Minerva, propria dell’apparato statale patrizio.302 La prima secessio del 494 fu un vero e proprio sciopero militare istigato da alcuni contingenti non patrizi e probabilmente sotto il comando dei loro tribuni militum, gli ufficiali legionari legati alle antiche tribù genetiche. Le rimostranze di questi soldati erano molte, e andavano dalla relativa povertà all’esclusione politica totale dell’enorme maggioranza dei non patrizi e al ultra indebitamento di molti piccoli contadini verso i grandi proprietari. I debiti di questo tipo furono detti nexi, obblighi di prestito a un tasso d’interesse molto alto, che imponevano al debitore di rimborsare il capitale oltre all’interesse stipulato sotto il fenus unicarium, un tasso d’interesse mensile uguale a un dodicesimo del capitale, cioè un tasso d’interesse annuo uguale al capitale prestato.303 Inoltre, se il debitore non aveva altre garanzie da fornire, il nexum poteva risultare nel trasferimento della proprietà dalla persona del debitore (ovvero lui e la sua famiglia) al fenerator (creditore) come effettiva garanzia del rimborso dei capitali più gli interessi. In altri termini, il debitore del nexum metteva in pegno la sua libertà personale e quella di tutta la sua famiglia (in quanto pater familias aveva il diritto di disporre di tutti gli individui sottomessi alla sua autorità) per garantire il rimborso del suo prestito. Nel caso in cui egli non poteva rimborsare, le persone messe in pegno divenivano gli schiavi dei creditori fino al totale rimborso del prestito con interessi. Inoltre, il nexum era un pegno un po’ particolare poiché conteneva sempre una sorta di patto commissorio: il creditore poteva legalmente decidere di non attendere il termine ultimo per il rimborso del credito e procedere immediatamente all’esecuzione del suo pegno chiedendo a un giudice (patrizio) che la persona del debitore gli fosse attribuita.

302

Ibid. p. 178 J.-C. RICHARD, Patricians and Plebeians, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, pp.118-119 303

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La sola garanzia contro un tale abuso era la fides304, la buona fede del creditore. Il fatto che il diritto era appannaggio esclusivo dei sacerdoti patrizi in quest’epoca, che detenevano un monopolio sulla conoscenza e l’applicazione del diritto tradizionale e sulle sue procedure, rendeva ancora più odiosa e arbitraria la dominazione socioeconomica dell’aristocrazia. La plebe non era però ancora pronta per una qualche partecipazione al potere magistrale supremo dello Stato o a un acceso alle funzioni sacerdotali, e questo tipo di richiesta non fu del resto avanzato durante la secessione. La primissima fase del conflitto degli ordini non fu dominata dalla questione delle magistrature e delle cariche sacerdotali e va ricordato che la plebe divenne un gruppo sociopolitico progressivamente e solamente dopo le conseguenze degli avvenimenti del 494. Così la plebe fu creata dal conflitto e non il conflitto dalla plebe. Ne derivò un’organizzazione non patrizia informale il cui solo fondamento legale era l’istituzione arcaica della lex sacrata. Tale processo religioso solenne era proprio a numerosi popoli italici di quell’epoca305 e consisteva nella formazione di un esercito sacro i cui membri erano legati da un giuramento (lex sacrata) che rendeva sacer (cioè devoto agli dei degli inferi e perciò passibile di essere ucciso impunemente da qualunque individuo) chiunque rinnegasse il giuramento di obbedienza e di lealtà alla banda. Le cariche dei tribuni plebis e degli aediles plebis che furono allora create non erano delle cariche solenni e i loro occupanti non erano eletti dall’assemblea del populus (i comizi curiati, soppiantati definitivamente nei decessi successivi, dai comizi centuriati) ma da un’assemblea unicamente plebea, il concilium plebis, organizzata sulla base delle tribù territoriali. Inoltre, le loro funzioni furono all’origine, di natura strettamente difensiva, votate unicamente alla protezione dei non patrizi contro gli abusi di potere dei patrizi e dei loro magistrati.306 Sembra che il numero dei tribuni sia stato fissato a due all’inizio per imitare i praetores che si 304

305

F. GAFFIOT, Dictionnaire latin-français, Hachette, Paris, 1934, fides, p.665

K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p.194 306 Ibid. pp.194-195

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alternavano l’imperium; numero che sarà rapidamente alzato a cinque, secondo la tradizione perchè vi fosse un tribuno della plebe per ciascuna delle cinque classi di censo307. Nel 457 a.C. il loro numero fu infine aumentato a dieci, due per classe; numero che resterà invariato fino alla fine dell’impero. La sola protezione di cui godevano i due primi tribuni era la lex sacrata e la solidarietà risoluta della popolazione non patrizia. In pratica, i tribuni erano dichiarati sacrosanti, combinando la santità, l’inviolabilità con il concetto di sacer, condannando la persona che non rispettava l’inviolabilità dei tribuni agli dei degli inferi. Secondo Raaflaub308, il carattere inviolabile dei tribuni non fu tacitamente accettato dal patriziato, essendo tale accettazione il frutto di un periodo durante il quale la plebe mostrò di essere risoluta nel pretendere che i suoi magistrati fossero protetti dalle garanzie che avevano stabilito linciando i violatori della sacrosanctitas, episodi che la tradizione ci ha fatto pervenire sotto la forma di processi ufficiali davanti al concilio della plebe. Tale visione è condivisa da Cornell309 e bisogna ammettere che è del tutto concepibile che il potere dei tribuni sia il frutto di uno sviluppo costante nel corso dei primi cinque anni del quinto secolo fino al momento in cui il loro numero fu fissato a dieci nell’anno 457 secondo Tito Livio310, e che i loro poteri furono formalmente riconosciuti dal senato. Il processo di chiusura dei ranghi dell’aristocrazia nel corso dei primi cinque decenni della Repubblica che De Sanctis battezzò la serrata del patriziato311 ebbe per effetto di avvicinare la classis alla moltitudine degli infra classem e dei proletari, soprattutto dopo che questa si dotò di strutture di governo sociale quasi autonome. Tali strutture erano fondate su una nuova solidarietà di classe tra gli elementi non patrizi che si riunivano in una sotto assemblea dei comizi tributi, assemblea che fu a sua volta un’innovazione relativamente recente non potendo 307

Dion. Hal. Ant. Rom., VI, 89 K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p.195 309 T. CORNELL, The beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 BC), Routledge, London & New-York, 1995, pp. 258-260 310 Liv. III, 30, 7 311 G. DE SANCTIS, a cura di S. ACCAME, Storia dei Romani 1, Roma dalle origini alla monarchia, nuova edizione stabilita sugli inediti, La Nuova Italia, Firenze, 1980, p.241 308

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collocarsi che dopo l’istituzione delle tribù territoriali nate per sostituire le tre tribù genetiche durante le riforme serviane. La secessione del 494, il primo episodio di sfiducia collettiva di una plebe nascente e poco delineabile verso l’aristocrazia e i suoi partigiani, fu il punto di partenza di un periodo di lotte sociali che durò più di due secoli e in cui si ridisegnò completamente lo schema costitutivo romano. I comizi centuriati, e di conseguenza anche i comizi tributi, furono l’unico luogo di espressione della volontà del popolo romano tutto, fatta eccezione del carattere unicamente plebeo del concilio della plebe. É per questa ragione e in virtù del loro carattere sovrano che queste due assemblee furono degli strumenti molto performanti per l’introduzione di riforme costituzionali, nonostante la resistenza dimostrata dall’aristocrazia e dai suoi dipendenti. É perciò indispensabile analizzare le prerogative e il funzionamento di queste assemblee prima di volgerci verso il conflitto degli ordini e l’emergere dell’aristocrazia patrizio-plebea.

4. Le assemblee del popolo nell’organizzazione centuriata

A. Comitia centuriata

La tradizione ci racconta che l’assemblea dei comizi centuriati fu creazione del prolifico sesto re di Roma, Servio Tullio. La sua intenzione era probabilmente di unire tutti gli elementi di cui il popolo romano era composto in una nuova assemblea che avrebbe permesso di dare una voce (dal peso variabile) alla totalità dei membri liberi del corpo civico non in funzione della posizione occupata nella struttura gentilizia, ma in funzione di quella occupata nell’esercito cittadino che era determinato secondo una logica di censo. Una tale riforma fu inevitabile per adattare la struttura sociale e soprattutto fiscale della comunità alle nuove realtà dell’età oplitica. La vecchia assemblea curiata non fu allora abolita, ma progressivamente svuotata delle sue funzioni a vantaggio di una nuova assemblea

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popolare e militare che presentava alcune caratteristiche nuove rispetto ai comizi curiati. In primo luogo, ogni uomo libero cittadino romano, aveva teoricamente voce nell’assemblea centuriata di modo che, quanto meno tecnicamente, il principio del suffragio universale maschile vi era in vigore.312 L’inegualità di censo alla base del funzionamento centuriata non prevedeva l’esclusione di certi cittadini dall’elettorato e, tecnicamente parlando, anche il più povero trai cittadini vi aveva voce. Ad ogni modo, praticamente la metà delle centurie solo raramente era chiamata ad esprimersi, e la centuria capite censorum, che raggruppava tutti i cittadini esenti dal censo per insufficienza di patrimonio, non era quasi mai chiamata a votare. L’origine di tale anomalia risiede nella struttura interna dei comizi centuriati, che come il loro nome indica, costituivano un’assemblea fondata sulla riunione delle centurie, cioè le unità militari di base che corrispondevano pressappoco alle compagnie di oggi e che nella loro funzione militare contavano nominalmente cento uomini. In opposizione alle centurie militari, in cui il numero di cento resterà nonostante tutto relativamente vicino al numero di soldati facenti parte della centuria, nelle centurie politiche il numero di cittadini rappresentati era a quanto pare ripartito in maniera ineguale dalla creazione dei comizi centuriati. Così, sulla totalità di 193 centurie313 I proletarii o capite censi, che possedevano un patrimonio personale sotto il limite minimo richiesto per il servizio militare e che erano completamente esenti da quest’ultimo, furono riuniti in una sola centuria su 193, concedendo loro un peso elettorale collettivo del tutto sproporzionato rispetto al numero di cittadini che essi rappresentavano e dunque, quasi inesistente. I comizi centuriati praticavano una forma di democrazia diretta com’era stato il caso dell’organizzazione curiata. Proprio come quest’ultima inoltre, i suffragi erano divisi in due

312

Liv. I, 43, 10 ; Dion. Hal. IV, 20, 2 La classificazione di Dionigi di Alicarnasso contiene un totale di 193 centurie, quella di Tito Livio 194, noi ci allineamo a questo proposito al consenso accademico che sembra porsi sulla posizione di Dionigi di Alicarnasso piuttosto che su quella di Tito Livio. 313

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livelli dal meccanismo delle unità elettorali, le centurie. Così, ciascun cittadino aveva un voto di egual valore ai suffragi all’interno della sua propria centuria, ma l’assemblea in sé votava sulla base di una maggioranza di centurie, indipendentemente da quante persone queste centurie andavano a rappresentare. La maggioranza semplice del 50% delle centurie più una non era osservata e di conseguenza la maggioranza era raggiunta quando 97 centurie su 193 avevano emesso un suffragio centuriato positivo. Nella presentazione « canonica » dei comizi centuriati nelle pagine di Cicerone314, Tito Livio315 e Dionigi di Alicarnasso316 le 193 centurie erano divise in sei (o sette) categorie di censo che davano una preponderanza di peso elettorale all’aristocrazia e agli strati più ricchi della popolazione. Così, delle 193 centurie, le 18 centurie di cavalleria (in gran parte di estrazione aristocratica) più le 80 centurie di fanteria della prima classe raggiungevano già la maggioranza semplice, rappresentando 98 centurie. Inoltre, l’ordine di voto non era casuale, ma cominciava dalla cavalleria (le sei centurie di cavalleria patrizia dette le sex suffragia votavano prima di tutte) per poi fare appello al resto delle centurie per classe dalla prima alla sesta. Le categorie di censo come descritte da Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso non appartengono di certo all’epoca cui si attribuiscono, cioè il sesto secolo a.C. comunque, il sistema di censo in quanto tale è molto probabilmente un frutto del sesto secolo, anche se le sue categorie di censo erano molto meno complesse rispetto a quelle dello schema tradizionale, proprio come l’introduzione del sistema oplitico317 di cui esso era il prerequisito essenziale. Solamente nel corso dei tre secoli successivi all’introduzione del censo le nuove categorie della classis si sarebbero aggiunte per stabilizzarsi infine attorno al terzo secolo sotto la forma di sei (o sette) classi di centurie che ci presenta Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso.318

314

Cic. De Republica, II, 39 Liv. I, 43 316 Dion. Hal. IV, 20 317 N. FIELDS, Early Roman Warrior 753-321 Bc, Osprey Publishing, Oxford, 2011, p. 29 318 Si veda a questo proposito lo schema alla fine della sezione dedicata ai comizi curiati 315

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All’epoca della riforma attribuita al re Servio Tullio, la seconda metà del sesto secolo a.C.319, il censimento quinquennale ripartiva il popolo romano in tre grandi categorie di censo: la cavalleria aristocratica, i cittadini capaci di pagare un qualche tipo di armamento (gli adsidui trai quali vi era la classis oplitica e i fanti infra classem)320, e i capite censi o proletarii, esenti dal censo, esclusi dal servizio militare e relegati ad una sola centuria elettorale, chiamata ad esprimersi per ultima. Il numero totale di 193 risale probabilmente a un’epoca più tarda e gli infra classem di cui si è parlato con dovizia di particolari supra, furono probabilmente relegati ad una posizione di molto inferiore all’inizio della Repubblica. Secondo Cornell, è del resto probabile che gli infra classem diventarono successivamente la quarta e la quinta classe di censo, e che il gruppo che fu inizialmente il nocciolo duro della plebe fu giustamente il gruppo dei contadini liberi che non prestavano servizio nella classis di fanteria oplitica ma nei contingenti di fanteria leggera infra classem.321 La nostra spiegazione della struttura interna dei comizi centuriati corrisponde quindi alla realtà di un’epoca posteriore alle riforme serviane, quando il numero totale delle centurie fu fissato a 193, delle quali 18 erano composte da cavalieri e 175 da fanti. L’esistenza di 18 centurie di cavallerie non può risalire a un’epoca precedente. Inoltre, fino alla sostituzione dello schema oplitico con quello che risultò dalle Guerre Sannite, il sistema della legione manipolare, le centurie di fanteria delle prime tre classi furono senza dubbio tutti opliti, armati in modo molto simile, anche se delle differenze tra più categorie di fanteria pesante (le classi da I a III per esempio) non sono da escludere.322 Il resto dei fanti furono degli schermagliatori e soprannumerari infra classem che

319

T. CORNELL, The beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 BC), Routledge, London & New-York, 1995, pp. 204-207 320 Ibid., p. 289 321 Ibid., p. 289 322 N. FIELDS, Early Roman Warrior 753-321 Bc, Osprey Publishing, Oxford, 2011, pp. 38-40

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divennero in seguito la quarta e la quinta classe. All’inizio della repubblica, solo la cavalleria e la fanteria pesante costituivano dunque la classis, l’esercito sollevato, riunito.323

i.

La cavalleria: equites

I membri della nobiltà patrizia servivano sempre nella cavalleria, a parte quelli che venivano eletti ufficiali superiori della fanteria legionaria, che gli obbligava a servire a piedi. Essa era divisa in diciotto centurie di cavalieri, di cui le prime sei erano apparentemente puramente aristocratiche, dette le sex suffragia. L’esistenza di queste sei cavallerie particolari è dovuta al fatto che la cavalleria era composta in origine da tre centurie soltanto (Ramnes, Tities e Luceres), ma queste furono in seguito raddoppiate per diventare sei centurie ripartite tra le tre tribù genetiche con l’aggiunta di una centuria di cavalieri posteriores per tribù. Ciò avvenne apparentemente attorno al 403 a.C.324, durante l’assedio di Veio, che le dodici centurie addizionali furono introdotte. Queste si fecero chiamare le centurie degli « equites equo publico» poiché avevano diritto a un equus publicus, un cavallo a spese dello stato.325 Il livello di ricchezza per accedere alla classe dei cavalieri non è conosciuto con esattezza per la Repubblica nei suoi primi anni ma è certo che si trattava senza dubbio di parecchie volte il livello della prima classe di fanteria visto gli enormi costi legati al mantenimento delle forze di cavallerie, che tra l’altro ne fecero un gruppo probabilmente in gran parte di estrazione aristocratica. Concretamente, i cavalieri avevano un capitale totale superiore al livello massimo della prima classe di fanteria che, alla fine del terzo secolo 326, fu fissato a 100.000327 , rappresentando una ricchezza di più di nove volte superiore al livello dell’ultima classe 323

F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, p. 123 324 Liv. V, 5, 6; N. FIELDS, Early Roman Warrior 753-321 Bc, Osprey Publishing, Oxford, 2011, p. 8 325 G. FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, From Prehistory to the First Punic War, University of California Press, London, 2005, p. 109 326 Ibid. p. 112 327 Liv. I, 43; Dion. Hal. IV, 16–18; Polyb. VI, 22–23; Cic. De Re Pub. II, 39–40

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fanteria. È del resto possibile che le dodici nuove centurie di cavalleria che furono create verso l’inizio del quarto secolo furono anche aperte ai non patrizi, dando luogo a delle nuove opportunità di distinzione e di ascendenza sociale per la plebe. Nel corso dei secoli il principio di censo permise anche a dei non patrizi di accedere alla riserva tradizionale dell’aristocrazia, dando luogo all’emergere di una piccola nobiltà intermedia tra l’aristocrazia divenuta patrizio-plebea e la generalità dei plebei. Con la creazione delle dodici centurie d’equites equo publico è comunque possibile che quelle non siano emerse esclusivamente dal patriziato e che dei non patrizi sufficientemente ricchi abbiano avuto il permesso di farsi nominare cavalieri, cosa che portava senza dubbio a una certa elevazione sociale. Esteriormente questi nuovi cavalieri possedevano quasi tutto ciò che possedevano i patrizi, a parte che non godevano dei diritti sovrani cui solo il sangue patrizio poteva dare accesso. Nel corso del terzo e secondo secolo, la distinzione sociale tra plebei di massa e plebei cavalieri portò all’emergere di una « piccola nobiltà » che la storiografia chiama generalmente la classe dei cavalieri per distinguerli dalla cavalleria in quanto tale. La cavalleria non è inclusa nello schema delle classi di censo di pag. 100 ma i loro membri costituiscono in qualche modo una sesta o settima classe di censo a seconda che si segua Tito Livio o Dionigi di Alicarnasso. Visto che la logica di censo della riforma di Servio Tullio non fu mai messa in discussione, gli elementi più facoltosi della plebe poterono progressivamente integrarsi nella « vera » nobiltà, ovvero il circolo oligarchico formato da coloro che occupavano – o meglio il circolo i cui antenati occupavano. Delle cariche esecutive di prim’ordine e dei seggi nel Senato. Sono stati necessari più di tre secoli a partire dallo stabilimento della repubblica perché la « Nobiltà plebea » raggiunga una posizione costituzionalmente uguale all’ordine patrizio. Nel corso di tale periodo, delle concessioni furono fatte a cominciare dalla creazione del tribunato della plebe e terminando con l’apertura del consolato e la gran parte degli incarichi pubblici alla plebe.

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Da ultimo, il sistema di censo ancora in vigore permise la costituzione di una borghesia equestre, una sorta di nuova nobiltà di seconda fascia, una volta che l’aristocrazia plebea fu completamente integrata nella nobiltà patrizia. Tale gruppo era composto dai cittadini plebei non appartenenti ancora al circolo delle famiglie nobili ma che possedevano comunque una ricchezza uguale o superiore ai 400.000 sesterzi (100.000 as) e furono occupati principalmente nel settore delle finanze e dei contratti pubblici. Durante il tribunato di G. Gracchus (123-122 a.C.) l’ordine equestre o ordo equester ricevette un vero status nel diritto pubblico in seguito alla sua riforma giudiziaria che diede all’ordine equestre il diritto esclusivo di comporre i giurì negli affari di estorsione (pecuniae repetundae) sotto la Lex Acilia328. L’ordine equestre divenne una vera e propria borghesia “capitalista” tra la metà del secondo e il primo secolo a.C., destinata a destabilizzare con sforzi concreti l’oligarchia al governo.

ii.

La fanteria: pedites

La fanteria legionaria, di gran lunga più numerosa della cavalleria, fu ripartita, secondo lo schema tradizionale che corrisponde alla realtà della fine del terzo secolo329 – in sei classi diverse: cinque classi di fanti che formavano un totale di 174 centurie legionarie ed una centuria di cittadini di sesta classe, che non possedendo abbastanza patrimonio per acquistare un qualche armamento, servivano nelle legioni come ausiliari non armati o come marinai. In quest’organizzazione vi erano 80 centurie di cittadini di prima classe, di cui 40 di uomini giovani (iuniores, di età compresa tra 17 e 46) e 40 di veterani (seniores, a partire dai 46). La differenza tra le due categorie era in primo luogo l’ordine in cui le loro centurie votavano,

328

T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, pp. 236-238 329 G. FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, From Prehistory to the First Punic War, University of California Press, London, 2005, p. 112

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essendo i seniores sempre i primi, e in secondo luogo il fatto che gli iuniores servivano in campagna attiva mentre i seniores formavano in generale la riserva e costituivano in ogni caso la guarnigione della città quando le legioni partivano per una campagna. Inoltre, la seconda classe era composta da venti centurie (dieci di seniores e dieci di iuniores) più due centurie di fabbri (centuriae fabrum, ancora una iunior ed una senior). La terza classe era composta da 20 centurie, di nuovo divise a metà in funzione dell’età, o, in altri termini, 10 centurie di juniores e 10 centurie di seniores. La quarta classe comportava di nuovo dieci centurie juniores e dieci centurie seniores ma anche due centurie di musicisti marziali (i centuriae cornicinum et tubicinum). Inoltre l’ultima e quinta classe di legionari era composta da 30 centurie di soli seniores. La sesta e ultimissima classe, pur fornendo una centuria nell’assemblea centuriata non forniva dei legionari poiché tale classe era composta di cittadini troppo poveri per potersi permettere un qualche armamento. La centuria detta dei capite censorum dava allora eventualmente degli ausiliari non armati330. Essi costituivano una sola centuria all’assemblea indipendentemente da quanti cittadini questa classe conteneva e non era quasi mai chiamata a votare vista la loro insignificanza sul piano elettorale. Si è qui ripresa la classificazione data da Dionigi di Alicarnasso nella sua opera intitolata Antichità romane, che è riconosciuta come più affidabile rispetto a Tito Livio dell’Ab urbe condita libri. Va notato che Tito Livio arriva ad un totale di 194 centurie, che è pressoché impossibile poiché tale numero pari renderebbe impossibile una maggioranza assoluta nei comitia centuriata. Come già affermato, le 18 centurie di nobili servivano tutte come cavalleria legionaria. Le 174 centurie plebee servivano nella fanteria legionaria benché fossero tenute a dotarsi di armamenti diversi in funzione della ricchezza o benché fossero sic et simpliciter esenti dal servizio militare. La prima classe forniva la fanteria pesante, armata come gli opliti greci ed etruschi della stessa epoca. La seconda classe poi, dietro la prima in

330

Dion. Hal. IV, 16 ; VII, 59 ; http://remacle.org/bloodwolf/historiens/denys/index.htm

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ordine di battaglia, era armata in modo simile ma dotata di un’armatura più leggera, senza protezione pettorale e con uno scudo ovale e non rotondo. La terza e quarta classe erano poi disposte dietro la seconda ed erano armate in modo ancor più leggero, portando solo lance e giavellotti. I cittadini della quinta e dell’ultima classe non avevano una posizione strettamente stabilita nell’ordine di battaglia e ricoprivano il ruolo di schermagliatori leggeri e di soprannumerari. L’armamento dei legionari oltre che l’ordine di battaglia cambierà dal sistema oplitico greco-etrusco verso il sistema manipolare che fu possibilmente di ispirazione sannita, creando un nuovo ordinamento in hastati-principes-triarii-velites.331 Tale sistema fu adottato dai Romani nella seconda meta del quarto secolo, e puo darsi che la sua introduzione dati proprio del periodo difficile della Seconda Guerra Sannita (326-304 a.C.) durante il quale le legioni furono sconfitte in varie battaglie maggiori. La parte degli cittadini infra classem che venivano chiamati proletari erano generalmente esenti dal servizio militare a quest’epoca e possedevano solo un voto collettivo all’assemblea centuriata. I comizi centuriati ricevettero dalla loro creazione una prerogativa di grande importanza: il voto per l’approvazione della guerra332. Le prerogative dell’assemblea centuriata saranno aumentate per includere la vasta maggioranza dei poteri dei comizi curiati dopo l’instaurazione della repubblica. Tali prerogative includevano l’elezione dei magistrati ordinari superiori (consoli, tribuni consolari333, pretori e censori), il voto delle leggi, la conclusione di trattati, e la dichiarazione di guerra. Infine i comizi centuriati ricoprivano il ruolo di corte suprema che giudicava in ultimo appello (dopo l’invocazione del diritto di appello o provocatio) le cause dei cittadini accusati di crimini contro lo stato oltre che ogni altra infrazione che prevedeva la pena capitale.

331

Sul tema vedasi : Polyb. VI, 21; http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Polybius/6*.html T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, chapitre I, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 333 I tirbuni consolari (tribuni militum consulari potestate) erano dei magistrati equivalenti ai consoli eletti durante il Conflitto degli Ordini, creati con il fine di accogliere dei plebei a questo rango senza doverli eleggere alla carica consolare. 332

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Tutti gli atti dei comizi centuriati a parte quelli posti come corte suprema richiedevano prima un senatus consultum o parere del senato, che indicava l’approvazione del senato del trattato o della legge che doveva essere proposta, o la lista dei candidati proposti per le elezioni magistrali. A parte questa importante formalità obbligatoria, le decisioni dei comizi centuriati dovevano ancora essere ratificate dai comizi curiati che all’alba dell’era repubblicana avevano ancora il rango di assemblea sovrana del popolo romano, anche se la sostanza dei poteri sovrani fu rapidamente ripresa dai comizi centuriati. Lo schema sottostante334 mostra le due classificazioni già nominate con le loro qualifiche di proprietà. Si noti che i membri della classe equestre, non riportata in questo schema, avevano un capitale minimo di 4000 sesterzi (1.000.000). Si suppone che i senatori dovevano anche avere come minimo 800.000 sesterzi (2.000.000 as) essendo dunque degli equestri per diritto di censo ma potendo al caso essere anche patrizi per diritto ereditario. Durante l’era repubblicana, il censo non stabiliva un minimo specifico per la classe senatoriale. Sarà solo a partire dal Regno di Augusto che un limite minimo di capitale sarà imposto a quella che diverrà la « classe senatoriale » o ordo senatorius.

334

J. MURRAY (dir.), A Dictionary of Greek and Roman Antiquities, London, 1875, “comitia centuriata”, (http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/secondary/SMIGRA*/Comitia.html)

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B. Comitia tributa e concilium plebis

È ancora al re Servio Tullio che è attribuita la riorganizzazione delle tribù romane, verso la metà del quinto secolo a.C. La riforma aveva per fine di adattare i metodi di reclutamento e la ricezione del tributum (l’imposta di guerra) alla nuova realtà sociale provocata dall’estensione territoriale della città e dalle necessità legate al reclutamento e al mantenimento di una milizia militare. Tale riorganizzazione permise lo sviluppo di una nuova assemblea, destinata a condividere la sovranità con l’assemblea centuriata in un’epoca successiva; si tornerà in seguito su questo punto. Con ogni probabilità, la creazione delle assemblee plebee non è mai stata intenzione dell’autore di questa riforma. Le tribù romane erano tre all’epoca della fondazione della città, i Ramnes, Tities e Luceres che costituivano insieme le trenta curie romane. Con l’obiettivo di includere la totalità dei cittadini in un solo sistema rappresentativo destinato al governo locale, Servio Tullio spostò il pomoerium (dal latino post moerium il limite sacro della città) al fine di includervi la totalità delle Sette colline di Roma. Tale territorio fu da lui suddiviso in quattro tribù urbane, dividendo il restante territorio romano al di là del pomoerium in dieci tribù rurali. I comizi tributi erano basati su questa nuova ripartizione geografica dei cittadini romani, che includeva tutti i residenti della città fatta esclusione per gli schiavi e i vagabondi o metoeci che non furono inclusi nelle liste dei cittadini. All’inizio tali organizzazioni puramente locali non erano di grande importanza nella gestione degli affari pubblici. Tuttavia con il passare del tempo le

assemblee delle varie tribù costituirono un’unione politica, diventando in seguito una reale minaccia per la supremazia nelle mani dei comizi centuriati. Non è del tutto chiaro se i patrizi fossero all’inizio considerati come membri delle tribù e se di conseguenza non potessero partecipare ai voti dei comizi tributi. Certo è che Tito Livio (Liv. II. 56, 3) afferma che né i patrizi né i loro clienti erano membri dei comizi tributi e che tentarono di disturbare la

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sessione quando il tribuno Publilius Volero propose l’ufficializzazione di un consiglio plebeo sulla base delle tribù. Va detto che il primissimo consiglio plebeo era informale, senza vere e proprie prerogative politiche e organizzato sulla base delle curie la qual cosa lo rendeva dipendente dai patrones patrizi, capi della maggior parte dei clan. Ad ogni modo, dalla codifica della legge romana sotto forma della Legge delle Dodici Tavole, i patrizi sembrano aver sempre partecipato ai comizi tributi ma non al concilium plebis, il concilio della plebe, che era un’assemblea tributa composta esclusivamente da plebei e presieduta dai tribuni o edili plebei. Durante il restante periodo dell’età monarchica i comizi tributi furono principalmente impiegati a fini di coscrizione dell’esercito cittadino, per l’incasso dell’imposta di guerra (tributum) oltre che per la gestione degli affari d’interesse locale nelle varie zone che costituivano le tribù335. Anche la gestione delle acque e delle vie di comunicazione erano di responsabilità delle assemblee delle varie tribù. Ogni tribù, già al tempo in cui esistevano solamente tre re, eleggeva un tribuno con il fine di rappresentare la tribù in ogni affare civile, militare e religioso. In seguito, dopo lo stabilirsi della repubblica e la secessione della classe plebea verso il Monte Sacro che annunciò la sua intenzione di fondarvi una nuova città, la plebe romana ricevette il diritto di eleggere un nuovo tipo di tribuno, non più militare ma esclusivamente civile nelle sue competenze: i tribuni plebis ricevettero due aediles per essere assistiti nei loro compiti di protezione della plebe. Questi magistrati plebei erano eletti nella loro propria assemblea- il concilium plebis – a cui il patriziato non era ammesso. Progressivamente, l’assemblea tributa divenne sotto ogni aspetto uguale al concilio della plebe, eccetto per quanto riguarda il diritto di voto patrizio visto che questi ultimi votavano all’assemblea tributa ma non al concilio della plebe.

335

Dion. Hal., IV, 14

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C. Evoluzione delle assemblee tra il quinto e il secondo secolo

Le assemblee popolari evidentemente non restarono esattamente uguali tra il momento della loro istituzione e il secondo secolo a.C. Come si è visto, i comizi curiati furono consegnati lentamente all’oblio della storia e le curie furono sostituite da trenta littori che incarnavano l’obsoleta organizzazione delle trenta curie sovrane capaci solamente di validare il potere supremo dei magistrati superiori. I comizi centuriati diventarono l’unica assemblea realmente sovrana del regime repubblicano, il comitatus maximus336, anche se l’assemblea tributa raggiunse una posizione quasi equivalente tra il secondo secolo e l’epoca dei Gracchi. Il voto della famosa lex Hortensia nel 287 a.C. rese obbligatoria erga omnes la legislazione plebiscitaria del concilio della plebe, obbligando dunque anche il patriziato che aveva fino allora cercato di mantenere il vecchio principio secondo il quale solo una legge votata da un’assemblea del popolus tutto poteva essere efficace sia da parte della plebe che del patriziato. Da questo punto in poi la grande maggioranza delle leggi sarà votata dai comizi tributi oppure dal concilio della plebe.337 La distinzione tra queste due assemblee ebbe una tendenza ad assottigliarsi per andare infine a designare quasi la stessa cosa verso la fine della Repubblica. È comunque chiaro che non erano uguali, come il nome di « concilio » della plebe implica, visto che un concilio non è un comitium e che solo il comitium costituiva un’assemblea statale. Una differenza stava anche nel loro presidente: i comizi tributi, essendo una riunione plenaria di tutti i cittadini romani, erano convocati e presieduti da un magistrato investito dello ius agendi cum populo. Il concilio della plebe invece poteva essere convocato e presieduto solo da un magistrato plebeo, cioè un tribuno della plebe o edile plebeo, detentori dello ius agendi cum plebe.

336

A. MAGDELAIN, Praetor maximus et comitiatus maximus, in André Magdelain (dir.) et Yan Thomas, Jus imperium auctoritas : Études de droit romain, Rome, École française de Rome, coll. « Publications de l'École française de Rome » (no 133), 1990, 257-286 337 C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Gallimard, Paris, 1976, p. 304

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Per quanto riguarda i comizi centuriati, tale assemblea fu, a quanto sembra, parzialmente riorganizzata tra la fine del terzo secolo e l’inizio del secondo. La riforma riguardava la logica centuriata di un grado più vicina all’organizzazione tributa e offriva una più grande probabilità alle classi di censo inferiori di essere chiamate al voto. Come detto supra, la cavalleria e la fanteria di prima classe disponevano di 98 centurie, dando loro una maggioranza semplice quasi assicurata a queste due sole a meno che più centurie delle loro rispettive classi votavano contro. Così i comizi centuriati, principalmente incaricati dell’elezione dei magistrati superiori, avevano una tendenza estremamente conservatrice a causa di tale aspetto, esacerbato ancora dalla tradizione che voleva che le centurie dei seniores votassero prima dei loro concittadini iuniores della stessa classe. É dunque ai comizi tributi, dove né censo, né privilegi di anzianità o di nobiltà avevano la minima influenza, che si trova la vera espressione della volontà popolare del popolo romano.

Lo spostamento dell’ago della bilancia del potere dai comizi centuriati ai comizi tributi e il loro concilio plebeo resero necessaria una riforma leggermente progressista dei comizi centuriati; ed è proprio questa che verrà effettuata all’inizio del secondo secolo con l’applicazione della logica tributa all’assemblea centuriata. Tale modifica nell’organizzazione centuriata testimonia il relativo spirito di “democratizzazione” (i.e. un allargamento della base di sostegno popolare nell’assetto centuriato) che cominciò a comparire a Roma poco prima della Prima Guerra Punica. Il potere sociopolitico delle classi medie era in ascesa e grazie al loro spirito molto più temerario e incline al commercio rispetto a quello del patriziato, principalmente interessato al settore agropastorale, la Repubblica fu condotta a porre le fondamenta del suo vasto impero mediterraneo. Politicamente, gli strati superiori della plebe avevano raggiunto un’eguaglianza giuridica quasi-totale con l’aristocrazia patrizia e l’assemblea tributa, nella quale il patriziato e la prima classe non costituivano da soli una

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maggioranza, essendo divisi tra le 35 tribù, aveva raggiunto una posizione di dominazione totale nel settore legislativo. La sola cosa che restava era in breve una democratizzazione della struttura centuriata affinché una parte più consistente della plebe potesse avere un reale voto nell’elezione dei magistrati superiori. Tale riforma fu introdotta all’inizio del secondo secolo ma la data precisa resta ignota338 e gli storici esitano tra l’anno 220 e 179 a.C. Essa ebbe come risultato di allineare le 80 centurie di fanteria di prima classe con la struttura delle 35 tribù, riducendo il numero di centurie a 70 affinché ciascuna tribù fornisse due centurie, una junior e una senior. La riduzione delle centurie della prima classe fino a 70 privava il patriziato e la prima classe della loro maggioranza assoluta a 98 suffragi. Invece, erano necessarie le 18 centurie di cavalleria, le 70 centurie della prima classe, due centurie di carpentieri che, secondo Tito Livio339, furono inclusi nella prima classe, più ancora otto centurie della seconda classe per ottenere la maggioranza.340 Così, fu concessa una maggioranza leggermente più forte agli strati meno abbienti, anche se l’ordine di voto, dalla prima all’ultima classe, continuava a escludere in pratica la terza, quarta e quinta classe da un qualsiasi voto nella scelta dei consoli, pretori e censori. Infatti, una volta ottenuta la maggioranza, i suffragi si fermavano immediatamente e dunque se le centurie della cavalleria, della prima e della seconda classe votavano all’unanimità, le ultime classi non dovevano neppure esprimere il loro voto. Va comunque tenuto conto che l’assemblea tributa era a quell’epoca nella pratica l’assemblea principale, essendo il ruolo dei comizi limitato all’elezione dei magistrati superiori ed ai rarissimi casi di un processo per tradimento o altri crimini contro lo Stato.

338

C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Gallimard, Paris, 1976, p. 300 Si veda lo schema a pag. 28 340 Nicolet, op. cit., pp. 300-301 339

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5. Il conflitto degli ordini e il consolidamento della Repubblica

A. Nota introduttiva sulla natura del conflitto degli ordini

Gli avvenimenti del 494 a.C., conosciuti sotto il nome secessio plebis, sono il punto di partenza tradizionale della lotta sociale interna della Repubblica detta conflitto degli ordini e che attraverserà gli anni dal 494 al 287 a.C.. Si è avuta l’occasione di dimostrare nei capitoli precedenti che la versione dei fatti di questi anni che ci è offerta dalle due grandi cronache tradizionali, cioè quelle di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnasso, non presenta alcuna affidabilità se non parziale. Anche se le cronache antiche che ci sono pervenute offrono una visione abbastanza dettagliata e relativamente coerente di questa lotta epica tra ciò che gli autori presentano come un’aristocrazia oligarchica e la massa dei comuni cittadini destituita di potere, falliscono completamente nella loro interpretazione della lotta in questione e non permettono allo storico di ricostruire questa in modo sufficientemente credibile.341 Va ricordato che i due autori appena citati scrivono alla fine del primo secolo a.C. e che la causa che sta sotto gli avvenimenti che essi provano a descrivere come origine del conflitto degli ordini in quanto tale, era stata risolta e consegnata all’oblio da diversi secoli. Non vi fu storiografia romana durante il quinto e quarto secolo, ma solo le liste delle cariche solenni, i fasti, gli annuali tenuti dal pontefice massimo, gli annales maximi , oltre che la tradizione antica e delle eventuali fonti di cui non si è più a conoscenza, potrebbero servire da base per le cronache tradizionali riguardanti quest’epoca. Ne deriva una versione dei fatti che dispone di una vera base di avvenimenti e che ci apporta alcune informazioni di certo utilissime e spesso confermabili attraverso altre fonti, ma che non dà in alcun modo le informazioni socioeconomiche necessarie alla giusta interpretazione del conflitto che oppone l’aristocrazia 341

T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p.242

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alla plebe emergente. La versione dei fatti tradizionale ha la tendenza a proiettare la realtà politica e socioeconomica dei due ultimi secoli a.C. sulla situazione politica e socioeconomica dei primi secoli della storia repubblicana. Gli autori della tradizione non furono certamente spinti dalla volontà di falsare la storia342, e la loro narrazione oltre che i dettagli di abbellimento e le aggiunte artificiose che contengono sono giustificate dalla tradizione com’era vissuta nell’immaginario romano dell’epoca. Così, la dicotomia tra patriziato e plebe fu considerata risalire all’alba della storia della città, e sarebbe una distinzione consacrata da Romolo in persona. I capitoli precedenti hanno chiaramente dimostrato che l’origine del patriziato come definito classicamente può risalire solamente al quinto secolo, anche se deriva da un gruppo democratico aristocratico risalente alla monarchia, e che la plebe in quanto gruppo sociopolitico non è di certo potuta emergere prima del patriziato e dunque di certo non prima della prima secessione dell’anno 494. È dunque detto, a nostro parere non a torto, che l’emergere del patriziato e della plebe, anche se si influenzano mutualmente, non furono decisamente condizionati l’un l’altro o viceversa. Il patriziato emerse come casta aristocratica esclusiva in modo progressivo e solo dopo lo stabilirsi della Repubblica, per giungere a un’esclusione quasi-totale dei non patrizi dalla carica consolare a partire dall’anno 401 a.C. Durante questo stesso periodo, la plebe emerse ma non esclusivamente come forza di opposizione contro l’aristocrazia, e le sue prime aspirazioni non erano affatto quelle di ottenere una partecipazione equa agli incarichi pubblici.343 La presenza di nomi gentilizi non patrizi nei fasti consulares dell’inizio della Repubblica, di cui si è discusso supra (sotto III. 3, D), mostra una tendenza decrescente e marcata dall’anno 509 a.C., ma raggiunge il 99 % solamente un secolo più tardi, come illustra il seguente schema tratto dalle pagine di

342

Ibid, p. 242 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 244 343

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Cornell344, che riprende la percentuale di patrizi che occupavano la magistratura suprema tra il 509 ed il 401 a.C..

Questo schema dimostra ancora una volta la correttezza delle conclusioni di De Sanctis 345, cioè che vi fu un graduale processo di chiusura dei ranghi del patriziato, la serrata del patriziato, durante il primo secolo di storia repubblicana, che portò all’esclusione totale del restante corpo civico dalla sfera politica e religiosa di stato. Durante questo stesso periodo, l’organizzazione plebea cominciò a svilupparsi, ma non unicamente in opposizione all’aristocrazia in ascesa e nemmeno con il solo fine di privare l’aristocrazia del suo monopolio sulle cariche di stato. Si trattava in primo luogo di un’organizzazione di governo alternativa, che aveva per fine l’istituzione di meccanismi collettivi di « protezione e difesa ».346 Il patriziato e la plebe non furono dei gruppi opposti primordiali, risalenti agli inizi della Monarchia, ma delle strutture sociali tra le altre che si svilupparono parallelamente ma indipendentemente. Il patriziato e la plebe si trovavano agli opposti estremi di una gerarchia sociale complessa che prevedeva la presenza di altri gruppi intermedi che si accavallavano347,

344

Ibid. p. 254 G. DE SANCTIS, a cura di S. ACCAME, Storia dei Romani 1, Roma dalle origini alla monarchia, nuova edizione stabilita sugli inediti, La Nuova Italia, Firenze, 1980, p.241 346 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 254 347 Ibid, p. 258 345

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e trai quali vi era una certa mobilità perlomeno fino alla totale chiusura dei ranghi del patriziato alla fine del quinto secolo.348 La situazione di totale bipolarismo che ci è presentata dalla tradizione non è dunque concepibile in alcun modo prima della fine del quinto secolo. Fu la chiusura quasi completa dell’aristocrazia, in parallelo con il successo delle istituzioni plebee istituite progressivamente a partire dal 494, che portò nel corso del quinto secolo a una categorizzazione più esclusiva del corpo civico nei due gruppi antagonisti di patriziato e plebe. Durante questo primo secolo della storia repubblicana, il patriziato e la plebe furono semplicemente delle parti del corpo civico e la totalità di questo si divideva in altri gruppi ancora come i patres e i conscripti, gli equites e i pedites, la classis clipeata e gli infra classem, gli absidui e i proletari, e delle parti variabili di questi gruppi potevano affermare di aver fatto parte del patriziato o della plebe durante vari momenti di quest’epoca. Non vi è alcuna certezza se non sul fatto che l’aristocrazia patrizia fosse in maggioranza inclusa nella cavalleria349, mentre la plebe all’inizio formava una piccola parte della fanteria350, la qual cosa esclude l’adeguamento tra fanteria e plebe nella forma in cui esisteva un secolo più tardi. L’adeguamento della plebe ai soli infra classem ci sembra anche tenue, piuttosto bisognerebbe vedere nella plebe un gruppo eterogeneo di non patrizi, trai quali vi fu senza dubbio una grande partecipazione di infra classem, anche se questa includeva anche degli artigiani urbani, degli schiavi affrancati e altri elementi isolati che non ricadevano sotto la protezione della struttura gentilizia patrizia. Il patriziato era in quanto tale, un gruppo omogeneo composto esclusivamente da aristocratici, ma non bisogna neppure confondere i capi patrizi del movimento patrizio con la totalità dei suoi adepti. In realtà il gruppo sociopolitico patrizio non era composto unicamente da patrizi ma anche da non patrizi che avevano interesse al mantenimento dello status-quo, ovvero i

348

Si veda il cap. III. 3, C-D, oltre allo schema sulla pagina precedente. T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 245-251 350 Ibid. p. 257 349

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contadini mediamente abbienti che costituivano la falange oplitica oltre ai clienti direttamente legati ai clan patrizi e dipendenti dal loro sostegno e dalla loro protezione.351 Conviene dunque vedere il patriziato e la plebe come due « partiti » rivali, interdipendenti ma indipendenti l’uno dall’altro che rappresentavano e difendevano gli interessi politici, sociali ed economici dei vari sottogruppi del corpo civico durante tutto il corso del primo secolo di storia repubblicana. L’identità di questi due gruppi si formò progressivamente nel corso di questo periodo, per giungere alla dicotomia classica tra il patriziato, comprendente politicamente l’aristocrazia patrizia e i suoi adepti non patrizi, e la plebe, comprendente politicamente il corpo civico non patrizio e non legato al patriziato da legami di clientelismo, solamente a partire dalla seconda metà del quinto secolo e l’inizio dei disordini che seguirono la redazione della Legge delle Dodici Tavole. Chiamare la totalità del corpo civico non patrizio « plebe », dalla prima secessione del 494 sarebbe dunque del tutto sbagliato.352 In seguito a queste osservazioni preliminari sulla natura del conflitto degli ordini, è ora necessario ritracciare più dettagliatamente le differenti fasi di questo conflitto che conviene a nostro avviso suddividere in tre grandi parti. La prima fase copre il periodo che va dal primissimo manifestarsi della plebe come gruppo distinto nel corpo civico, in altre parole la prima secessione del 494 e la creazione delle istituzioni plebee, alla loro ufficializzazione353 dopo la seconda secessione della plebe che portò alla pubblicazione della Legge delle Dodici Tavole, votata nel 449 a.C.354 con il nome di leggi Valerio-Oraziane. La seconda fase che è necessario distinguere copre gli anni che vanno dalla pubblicazione della Legge delle Dodici Tavole ai disordini attorno alle cosiddette « rogazioni Licinio-Sestine » del 376355, che portarono nel 367 all’apertura della carica consolare oltre che di alcune funzioni sacerdotali 351

T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 258 352 Ibid. p. 258 353 J. CELS-SAINT-HILAIRE, L'enjeu des sécessions de la plèbe, in : Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité T. 102, N°2. 1990. pp. 723-765., p. 723 354 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 272 355 Ibid. p. 334

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alla plebe. Infine, la terza fase coprirebbe il periodo che va dal 367 e il voto della lex LiciniaSextia all’anno 287356 quando il voto della lex Hortensia abolì le ultime tracce del controllo del Senato patrizio sulla validità delle leggi o plebiscita votate all’interno del concilio della plebe, rendendole vincolanti erga omnes per la totalità del corpo civico senza la necessità della ratificazione da parte del senato.

B. Fase I: dalla prima secessione alla legge delle Dodici Tavole

É con la crisi degli anni 494-493 che comincia il conflitto degli ordini, un conflitto che, come si è visto non fu in origine incentrato attorno alla questione dell’accesso dei non patrizi alle magistrature ed alle cariche sacerdotali dello Stato. Quali erano allora le cause principali che, secondo le nostre fonti e alla luce della ricerca, portarono ad un vero e proprio sciopero dell’esercito da parte di una parte del corpo civico e alla comparsa del gruppo plebeo? La storiografia recente è fortunatamente unanime sul tema: le principali rimostranze della componente « plebea » dell’esercito cittadino furono il sovra indebitamento e la carestia.357 Il sovra indebitamento dei piccoli contadini che colpì la giovane repubblica fu causato in gran parte dalla recessione economica generale che colpì non solo Roma e il Lazio ma la totalità dell’Italia tirrenica.358 Inoltre, le devastazioni di continue guerre incrementarono ancora il caos economico delle classi sociali più deboli e portarono non di rado a carestie e pestilenze. In tali circostanze, due fattori principali differenziarono la sorte del gruppo plebeo dalle altre componenti del corpo civico: l’accesso alla terra arabile e l’accesso al prestito di capitali sotto il potere del nexum.

356

Ibid. p. 378 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 266 358 Ibid. p. 265 357

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A quest’epoca la terra e l’accesso alla terra erano ancora la principale fonte di ricchezza materiale dato che le transazioni mercantili e finanziarie raggiungevano un volume ed un' importanza di secondo grado rispetto alle attività agropastorali. Inoltre, a parte il baratto, i mezzi di scambio erano ancora limitati all’ aes signatum (cioè l’ottone standardizzato in lingotti recanti un marchio) e l’aes rude (cioè dei lingotti di rame allo stato grezzo con valore al peso), dal momento che l’adozione di esemplari di moneta fece la sua comparsa a Roma solo nella seconda metà del quarto secolo.359 Inoltre, il commercio che era esistito durante l’epoca etrusca fu interrotto bruscamente dai disordini interni e le numerose guerre esterne legate alla rivoluzione repubblicana e la recessione economica che ne conseguì portarono a un relativo ripiego su di sé della Repubblica nella sfera commerciale, come ci dimostra il trattato con Cartagine dell’anno 509.360 In breve, la terra arabile e il suo possesso furono al centro delle relazioni economiche della nascente Repubblica, e fu precisamente in relazione al possesso della terra che emerse la principale distinzione tra il patriziato e la sua clientela da un lato, e la plebe dall’altro. In questa distinzione, la chiave risiede nei due statuti giuridici differenti legati al suolo romano: quello di suolo pubblico, ager publicus, tecnicamente di proprietà dello stato, e quello del suolo di proprietà privata. Di questi, l’ager publicus sembra aver compreso la maggior parte del suolo romano ed i lotti privati sembrano essere stati di piccola dimensione.361 La dimensione media di un lotto privato sembrerebbe situarsi attorno ai 7 iugera (1 iugerum è pari a 0.25 ettari)362, ovvero meno della metà della superficie necessaria per mantenere una famiglia media con le tecniche agricole romane del quinto secolo.363 L’ager publicus era costituito e alimentato dalle terre conquistate ma queste acquisizioni divennero molto rapidamente prerogativa dei clan più potenti, cioè i clan 359

T. FRANK, An Economic History of Rome, second revised edition, Batoche Books, 2004, p 41 Polyb. 3. 1, 22; F. HINARD (dir.), D. BRIQUEL, G. BRIZZI, J-M. RODDAZ, Histoire romaine – Des origines à Auguste, Librarie Arthème Fayard, Paris, 2000, pp. 127-128 361 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, pp. 268-269 362 Ibid. p. 269 363 Ibid. p.269 360

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aristocratici che diventarono poi le gentes patrizie nel corso dell’era monarchica. Queste ultime stabilirono progressivamente un tacito diritto di occupazione su queste terre, che permise loro di pretendere delle forme di diritto privato su di esse e di affidarle ai loro clienti dipendenti sotto condizione di vari servizi personali e di lealtà verso il clan. Come si è visto, le gentes patrizie possedevano delle vaste superfici coltivabili nella periferia cittadina, coltivate da un gran numero di clienti legati ai capi patrizi da legami d'interdipendenza di natura sociale, militare ed economica. I vasti possedimenti patrizi corrispondevano spesso alle tribù rurali che furono create gradualmente nel corso dell’espansione dello Stato Romano e si vede per esempio che nel 495 furono creati due nuove tribù la Clustuminia e la Claudia. É molto probabile che la creazione di una tribù territoriale chiamata Claudia possa essere stata destinata a ufficializzare in qualche modo l’occupazione di una parte del suolo pubblico da parte della gens Claudia e i suoi 5000 clienti giunti a Roma nell’anno 504.364 Nelle relazioni tra patrizi e clienti regnava ancora la struttura gentilizia che permetteva all’aristocrazia di fare coltivare le terre claniche ai loro dipendenti, e dava a questi clientes un accesso alla terra coltivabile che permetteva loro di divenire abbastanza ricchi.365 Il patriziato e la loro clientela formavano così molto probabilmente la gran parte della cavalleria e della fanteria oplitica, affermazione resa ancor più verosimile alla luce di un passaggio di Dionigi di Alicarnasso366, da porsi cronologicamente nell’anno 493, in cui Appius Claudius dichiarò che i pericoli legati a una secessione della plebe erano trascurabili visto che la plebe apportava un contributo minimo alle forze armate e che il patriziato poteva facilmente fornire il numero di uomini necessari provenienti dal rango dei

364

M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana: istituzioni, diritto, religione, in: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, p. 424 365 A. MOMIGLIANO, The Rise of the plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p.176 366 Dion. Hal. VI. 63, 3

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loro clienti. Va ricordato anche l’episodio della battaglia di Cremera367, che attesta l’esistenza di un vero e proprio esercito privato composto di uomini della gens fabia e dai loro clienti nell’anno 477. La plebe era dunque un gruppo composto da altri cittadini, quelli non inclusi nello schema gentilizio, che avevano accesso alla terra solamente attraverso la piena proprietà di questa, una logica introdotta secondo le nostre fonti da Servio Tullio e la prima distribuzione delle terre conquistate che egli effettuò a vantaggio dei cittadini sprovvisti di terra.368 Questo tipo di lottizzazione fu tecnicamente conosciuto sotto il nome di assignatio virtana369, e la sua applicazione alle terre conquistate di recente fu già alla base delle agitazioni della plebe all’inizio dell’era repubblicana, e continuerà ad esserlo durante tutti i cinque secoli successivi. Nel corso del secolo che precede lo stabilimento della repubblica, il gruppo dei pieni proprietari del suolo si dev’essere diversificato, comprendendo non solo i piccoli contadini ma anche i membri della classis e più in generale tutti quelli che possedevano abbastanza terra da essere inclusi nel servizio militare ma che, allo stesso tempo, non facevano parte della rete sociale gentilizia dominata dal patriziato. Il contadino plebeo fu così in una certa misura comparabile ai piccoli proprietari terrieri del decimo secolo d.C., di fronte all’ineluttabile avanzate delle forze che tendevano a integrarei i pieni proprietari della terra in legami di dipendenza di tipo feudale sotto la dominazione dell’aristocrazia signorile. Le rimostranze della plebe non si limitavano a una mancanza di accesso alla terra pubblica coltivabile, vi fu anche il problema di accesso al capitale ed il sovra-indebitamento dei più deboli. L’eccesso di debiti risultava generalmente in una mancanza di protezione e di assistenza dei proprietari plebei; chiamato alle armi all’epoca e possedendo delle aziende agricole vulnerabili alle razzie, il piccolo proprietario terriero non protetto da un potente padrone correva il rischio di vedere venir meno il suo raccolto in virtù della sua assenza o di 367

Liv. II. 48-50 Liv. I. 46; J. CELS-SAINT-HILAIRE, L'enjeu des sécessions de la plèbe, in : Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité T. 102, N°2. 1990. pp. 723-765., p. 726 369 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 270 368

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vedere bruciata la sua fattoria da parte di forze nemiche. Una volta resosi concreto il rischio, non vi era altra soluzione che impegnarsi in un nexum, cioè di contrattare un prestito di capitale ai ricchi creditori con un tasso d’interesse annuale minimo di 12 % (il fenus unicarius) ma che poteva essere molto più alto, poiché dipendeva dalla debolezza del debitore. Nel diritto privato dell’epoca, dominato com’era dai giuristi/sacerdoti patrizi, i contratti che oggi si condannerebbero come caratterizzati da danno qualificato non solo erano legali e permessi, ma la loro esecuzione forzata si spingeva fino all’asservimento del debitore e dei membri della sua famiglia. La narrazione di Tito Livio insiste particolarmente sul flagello del ciclo interminabile di sovra- indebitamento, caratterizzato dalla pratica del nexum, che colpiva la plebe. É impressionante che la narrazione in questione370 citi un centurione cioè un cittadino che occupa una posizione relativamente elevata nella classis, come illustrazione della miseria dei nexi, volendo affermare che certi classici anche benestanti fecero parte della plebe afflitta dal problema agrario e dalla crisi dei debiti. In effetti, è difficile da concepire come la plebe riuscì a costituire un vero e proprio stato nello stato371 in appena mezzo secolo pur potendo contare solamente su una piccola parte della classis trai suoi adepti. In conclusione, la secessione del 494 fu un movimento composto di proprietari terrieri interamente indipendenti dallo schema gentilizio, la cui gran parte proveniva dai ranghi degli infra classem, ma che includeva senza dubbio anche alcuni classici, oltre che artigiani e commercianti urbani. Questo gruppo eterogeneo fu unito dalla sua opposizione unanime agli abusi di potere patrizi legati al possesso della terra e al sistema del nexus che divenivano sempre più intollerabili con l’avanzare della crisi economica e le devastazioni delle guerre di inizio quinto secolo. Sul piano delle cause e rivendicazioni, il conflitto degli ordini presenta anche più aspetti socioeconomici che politici o religiosi, e la rimessa in questione del

370

Liv. II. 23 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 258 371

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monopolio patrizio sulle magistrature e le cariche sacerdotali è uno sviluppo più tardo, probabilmente tributario dell’enorme successo dell’organizzazione plebea dalla sua creazione. Sul piano della sua composizione, la plebe si oppose ai capi patrizi e a tutti quelli che avevano un vantaggio dal mantenimento dello status-quo, ovvero il gruppo composto dall’aristocrazia gentilizia che costituiva la cavalleria e che forniva la maggior parte dei senatori, oltre che dei loro dipendenti o clienti che costituivano la massa della falange oplitica. Questa è, nel senso in cui noi la intendiamo, la composizione del « partito patrizio » e del « partito plebeo » all’alba del conflitto degli ordini, anche se va sempre tenuto in conto il carattere fluido di composizione di questi due « partiti » poiché, da una parte, il patriziato aveva tendenza a diventare sempre più esclusivo con la serrata del patriziato, pur mantenendo sempre una forte base di sostegno attraverso i suoi clienti e, d’altra parte, la plebe aveva tendenza a raggruppare sempre più cittadini che cercavano la loro salvezza nella nuova organizzazione plebea, piuttosto che nella vecchia rete gentilizia dominata da un patriziato sempre più orgoglioso e meno accomodante verso il resto del corpo civico. La prima secessione del 494 portò così alla creazione dell’organizzazione plebea, un’entità subordinata ma autonoma all’interno dello stato romano, che trovava la sua ragion essere nel carattere sacro della lex sacrata che l’aveva istituita. Questo episodio è un’ulteriore dimostrazione del carattere religioso del diritto di quest’epoca; non potendo agire attraverso l’unica fonte di potere religioso e politico riconosciuta che era lo stato patrizio, la plebe dovette rivolgersi direttamente verso gli dei attraverso la lex sacrata. Tale procedura religiosa arcaica come si è visto consisteva in una congiura che avrebbe affidato agli dei degli inferi chiunque avesse violato il carattere sacrosanto dei rappresentanti della plebe. La lex sacrata istituì un’organizzazione statale intera a parte, la plebe, che disponeva di un’assemblea popolare (il concilio della plebe) di due collegi di magistrati (i tribuni della plebe e gli edili plebei) e che si dotò molto rapidamente di un proprio centro religioso sull’Aventino. Ad ogni

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modo, la legalità dell’organizzazione plebea non fu accettata tacitamente dal patriziato e si stabilì in forma permanente solo alla fine dei turbolenti anni del decemvirato (451.449 a.C.).372 Fino alla sua integrazione nella costituzione, l’organizzazione plebea era un’entità extra-legale e il carattere vincolante delle sue decisioni fu garantito semplicemente dalla violenza, giustificata come giustizia divina derivante dalla lex sacrata.373

La prima grande conquista politica in seguito allo stabilimento dell’organizzazione plebea fu il voto della Lex Publilia nel 471 a.C.. Questa legge permise alla plebe di organizzare l’elezione dei tribuni della plebe sulla base della ripartizione tributa e dunque territoriale del corpo civico, rendendoli così indipendenti dal controllo che avevano i patrizi sulle curie, le circoscrizioni delle assemblee della plebe anteriori. I comizi tributi ed il concilio della plebe che ne costituiva una sotto-assemblea, divennero con questa legge delle vere e proprie assemblee popolari democratiche grazie a diversi fattori. In primo luogo, le tribù erano delle zone geografiche del territorio romano, oltre che delle circoscrizioni elettorali che riunivano l’insieme dei cittadini sotto un sistema di suffragio universale. In seguito, visto che né il sistema censitario centuriato né il sistema clanico delle curie esisteva nella logica delle tribù, la grande superiorità dei plebei delle tribù riduceva al minimo la preponderanza dei patrizi in questa assemblea. Tuttavia si trattava ancora di una nuova assemblea che aveva delle responsabilità strettamente locali e residue e che non poteva in alcun modo intraprendere delle misure che riguardassero lo Stato nella sua interezza. L’elezione dei tribuni della plebe aveva luogo nel concilium plebis, una sotto-assemblea dei comizi tributi composta dai soli plebei. Sembra che il numero dei tribuni sia stato fissato a due all’inizio e che sarebbe stato molto presto alzato a cinque probabilmente perché vi fosse un tribuno della plebe per ciascuna delle

372

T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 272 373 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 260

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cinque classi di censo374. Nel 457 a.C. il loro numero fu infine aumentato a dieci, due per classe; numero che resterà invariato fino alla fine dell’impero. Il diritto di eleggere dei magistrati plebei, che non erano del resto formalmente dei veri magistrati visto che erano eletti soltanto da una parte del populus e avevano a quest’epoca solo un diritto di veto e di assistenza (intercessio et auxilio), era lungi dall’essere sufficiente per concedere la protezione legale di cui aveva bisogno il nuovo gruppo plebeo. Nel 462 a.C. una prima agitazione d’importanza monumentale per lo sviluppo ulteriore del diritto romano, sarà iniziata da un tribuno della plebe dal nome di Gaius Terentilius Harsa. Questo tribuno, prendendo vantaggio dal fatto che i due consoli erano partiti in campagna militare, propose la codifica del mos maiorum, con il fine di dare al popolo i mezzi per sapere esattamente quali erano i loro diritti, nello specifico per quanto riguardava le prerogative dei consoli.375 Questa proposta di legge sarà un punto di gran contenzioso per più di nove anni, essendo violentemente contestato dal senato e dai magistrati patrizi. Nel 451 a.C. la proposta sarà accettata e una commissione di dieci uomini, detti i Decemviri Legibus Scribundis Consulari Imperio, « dieci uomini per la redazione delle leggi, all’imperium consolare ». Questi uomini non terminarono il loro lavoro durante il primo anno e chiesero un secondo mandato che fu loro concesso. Tuttavia, terminato il lavoro e scaduto il loro secondo mandato, i decemviri rifiutarono di spogliarsi della loro autorità e diedero la totale impressione di voler costituirsi in comitato di governo permanente. Il comportamento tirannico di Appius Claudius Crassus, figlio dell’Appius Claudius citato supra e un uomo dal temperamento ancor’ più violento di suo padre verso la plebe, era una delle principali cause dell’avversione del popolo al comitato dei dieci. In più, i fasci con le asce, simbolo che rappresentava l’antico potere di vita e di morte senza diritto di appello del re, che solo un dittatore era autorizzato a far portare dai suoi littori all’interno del pomoerium, erano portati 374 375

Dion. Hal. VI. 9 Liv. III. 9, 10

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da dodici littori per ciascuno dei dieci decemviri. Questa dimostrazione della loro straordinaria autorità da parte dei decemviri, attorniati dai loro centoventi littori, provocò un’enorme apprensione nella plebe, che si vedeva confrontata a dieci uomini investiti di poteri quasi regali. La tradizione vuole che Appius Claudius abbia abusato della propria autorità per fare degradare una giovane chiamata Virginia al livello di schiavitù perché potesse abusare di questa, costringendo suo padre a pugnalarla al cuore per risparmiarla dal disonore provocato da Appius376. Che sia stato davvero questo episodio di vile crudeltà tirannica o meno ad aver provocato la seconda secessione della plebe, questa volta verso il colle dell’Aventino, non è di grande importanza; è certo in ogni caso che nel 449 a.C., il decemvirato fu abolito e dei magistrati ordinari furono nuovamente eletti. Questi pubblicarono la Legge delle Dodici Tavole che costituirà la base per una gran parte dell’altro sviluppo del diritto romano. È chiaro che questa codifica non abbia sostanzialmente cambiato le disposizioni del diritto tradizionale che precedevano la Legge delle Dodici Tavole.377 In più, a parte una certa misura di laicizzazione del diritto, essendo gli atti religiosi solo raramente citati nella Legge delle Dodici Tavole378, la procedura era in gran parte omessa nelle leggi codificate e di conseguenza, restava nelle mani dei patrizi che, soli ne avevano conoscenza. Detto ciò, era senza il minimo dubbio di valore inestimabile per i cittadini romani comuni sapere esattamente quali erano i loro diritti e come farvi affidamento. Inoltre, in seguito, una nuova legge fu introdotta, conosciuta sotto il nome delle leggi Valerio-Oraziane, sotto i consoli L. Valerius Publicola e M. Horatius Barbatus. Questa legge permise ai comizi tributi e al consiglio della plebe di proporre qualsiasi misura legislativa a patto che ricevesse l’approvazione del senato e del popolus, uniti nei comizi curiati o comizi centuriati. In più, proclamò che nel futuro, ogni magistrato, il dictator incluso, sarebbe stato vincolato dal diritto

376

Liv. III, 48 C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, p. 41 378 M. CHRISTOL, D. NONY, Rome et son empire, des origines aux invasions barbares, Hachette, Paris, 2007, p.43 377

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di appello379. Il diritto di appello, che fu introdotto nel 508 a.C., era una limitazione importante dell’antica prerogativa reale, ereditata dai consoli che permetteva loro di infliggere sia la pena capitale sia qualsiasi tipo di punizione corporale in modo arbitrario.380 Dopo il 508, nessuna pena corporale o capitale poteva essere pronunciata da parte dei consoli all’interno del pomoerium senza la possibilità di un appello davanti all’assemblea del populus. Questa restrizione dei poteri giurisdizionali dei consoli e del dittatore contava solamente nella sfera civile e non militare, simbolizzata dalla rimozione delle asce dei fasci dei magistrati quando essi si trovavano all’interno del pomoerium381. Nel diritto marziale invece, le asce restavano al loro posto poiché nessun diritto di appello esisteva contro le decisioni del comandante militare supremo. L’innovazione delle leggi Valerio-Oraziane era di rendere l’appello un obbligo effettivo per ogni magistrato laddove nel passato questo era stato solamente un dovere morale. All’inizio della Repubblica regnava l’idea che i poteri del re non potessero essere limitati, anche se potevano essere ripartiti tra più cariche dello Stato. Il diritto di appello, limitando i poteri della carica di console, poteva soltanto essere un obbligo morale ma niente di più. Dall’entrata in vigore delle leggi Valerio-Oraziane, ogni magistrato, sia ordinario sia straordinario, sia console sia dittatore, fu per la prima volta limitato nell’esercizio dei poteri. L’abolizione della monarchia era una cosa, ma per il popolo, l’accettazione del nuovo regime repubblicano doveva per forza andare di pari passo con una certa limitazione del carattere arbitrario del potere dei magistrati supremi.

379

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 225,Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 380 Ibid. p. 199 381 Ibid. p. 199

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C. Fase II: il consolidamento dell’ordine plebeo

In seguito a questa vittoria per la causa plebea, la lotta tra gli ordini era comunque lontana dalla conclusione. Il matrimonio misto tra patrizi e plebei era formalmente proibito dalla Legge delle Dodici Tavole e l’accesso alle cariche magistrali superiori era ancora chiuso alla plebe. La successiva rivendicazione della plebe fu l’elezione dei questori e dei tribuni dei soldati (gli ufficiali di rango intermedio detti tribuni militum) da parte dei comizi tributi e, secondo Cicerone382, questa prerogativa fu accordata all’assemblea delle tribù nel 447 a.C. rientra in una serie di rivendicazioni analoghe che avrebbero per risultato finale che ogni carica magistrale inferiore oltre alle cariche pro-magistrali e le estensioni d’imperium per i magistrati già in funzione rientrassero nella sfera di autorità elettorale dei comizi tributi. La legge in questione sembrerebbe anche essere la primissima legge a essere votata nei comizi tributi del populus tutto o in altri termini, composti da tutti i cittadini inclusi nelle tribù territoriali, ed è da questo momento che i comizi tributi (composti da plebei e patrizi indistintamente) e il consiglio della plebe cominciarono ad essere due assemblee formalmente distinte. Benché i patrizi ed i loro clienti potessero da questo momento votare nei comizi tributi, quanto detto è comunque una gran vittoria plebea e questo per due ragioni principali. In primo luogo, i membri patrizi delle tribù erano notevolmente meno numerosi di quelli plebei. In secondo luogo, grazie a questa nuova misura, la plebe poté per la prima volta intraprendere delle misure legislative valide per ogni cittadino romano. Il divieto del matrimonio misto tra patrizi e plebei, una delle disposizioni più odiose della Legge delle Dodici Tavole per il partito popolare, fu abolita con la Lex Canuleia, proposta dal tribuno Gaius Canuleius ai comizi tributi nel 445. I comizi tributi cominciarono a partire da quest’epoca ad accaparrarsi poteri giudiziari su individui privati oltre che sui magistrati che avevano finito il loro mandato. I capi 382

Cic., Epistulae ad familiares, VII,30; Sallust., Bellum Jugurthinum, 63

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d’imputazione davanti ai comizi tributi andavano dall’offesa alla maestà del popolo romano, alla negligenza e alla cattiva condotta degli affari pubblici oltre che all’appropriazione indebita di fondi pubblici da parte di un magistrato (peculato) dopo la fine del suo mandato (actio de pecuniis repetundis). Una serie d’infrazioni commesse da persone private come la rottura della pubblica quiete, l’usura e l’adulterio erano anche di competenza dei comizi tributi. I comizi tributi non avevano invece competenze così vaste come i comizi centuriati che potevano da soli condannare delle persone a morte. I comizi tributi potevano imporre delle sanzioni patrimoniali sotto forma di ammende, e in alcuni casi la pene di morte dichiarando il colpevole un nemico pubblico, benché questo potesse scappare da questa pena scegliendo l’esilio volontario fino all’ultimo istante prima della pronuncia della condanna. La condanna in quanto nemico pubblico era tecnicamente conosciuta sotto il nome di « divieto dell’acqua e del fuoco » (interdictio aquae ignisque). Nel 445 a.C. la lotta plebea per l’ottenimento della carica consolare raggiunse i suoi primi risultati anche se la carica in se non fu riformata e nessun plebeo vi fu ancora ammesso. La lex Canuleia votata durante quest’anno, introdusse l’elezione di sei tribuni militari ai poteri consolari (tribuni militum consulari potestate) al posto dei due consoli patrizi.383 Questi avevano quasi gli stessi poteri che avevano avuto i consoli a parte qualche eccezione. In primo luogo, la carica consolare e i privilegi che essa implicava non furono affatto aboliti e ogni anno per settantacinque anni di fila il patriziato lottò per ottenere l’elezione dei consoli al posto dei tribuni consolari. Ci riuscirono a venticinque riprese, essendo eletti dei tribuni consolari cinquanta volte. Inoltre, i privilegi patrizi come il diritto di parola nel senato, il diritto al trionfo e lo ius immaginum384 non erano legati al tribunato consolare385. Per quanto riguardava il censimento quinquennale che i consoli avevano assicurato, questo fu 383

Liv. IV, 6, 9 Il ius immaginum era il diritto per i discendenti dei patrizi che avevano coperto la carica consolare di erigere i loro busti e maschere funerarie nei palazzi di famiglia e di esibirli in pubblico durante certe occasioni. 385 T. MOMMSEN, C. BRYANS (ED.), F. J. R. HENDY, A history of the Roman Republic, Scribner, New York, 1889, pp. 63-65 384

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gelosamente sottratto all’autorità dei tribuni consolari e affidato a due censori (censores). La carica di censore era aperta solamente agli ex consoli e dunque sottrattata di fatto alle mani dei plebei che non erano ancora ammessi all’ufficio di console con il risultato che gli eleggibili erano esclusivamente di classe patrizia. I poteri dei censori erano molto estesi, comprendevano, infatti, il controllo dei costumi (regimen morum), la gestione del ruolo dei membri del senato (questo attributo, la lectio senatus, fu loro attribuito a partire dal plebiscitum Ovinium attorno al 318, dal momento che i re e poi i consoli lo avevano tenuto fino ad allora)386, la gestione del ruolo dell’ordine equestre e del ruolo dei cittadini, lo stabilimento della lista dei lavori pubblici pianificati per i cinque anni del lustrum (il termine quinquennale) oltre alla conseguente attribuzione di questi lavori a degli imprenditori privati. Lentamente ma inesorabilmente, lo stato romano cederà la gran parte delle operazioni finanziarie complesse a dei liberi imprenditori, vendendole contro il pagamento di una somma lorda, e lasciando agli imprenditori privati la gestione dei loro investimenti. Il migliore esempio di questa pratica è evidentemente l’affitto fiscale; una pratica che comincerà dall’acquisizione della Sicilia in seguito alla Prima Guerra punica, che giocherà a favore degli imprenditori equestri e aiuterà quest’ordine a diventare una vera e propria borghesia capitalista.387 Sia la creazione della carica di tribuno consolare sia l’abolizione del divieto dell’matrimonio tra patrizi e plebei giocano un ruolo chiave nella comprensione dello sviluppo sociopolitico che si sviluppò a Roma durante questo decennio cruciale. È del resto presumibile che questi due sviluppi siano intimamente legati. La carica di tribunus militum consulari potestate fu un’unnovazione senza precedenti per cui i poteri consolari potevano da quel momento essere affidati legalmente ad un ufficiale plebeo. Allo stesso modo, va detto che la Lex Canuleia del 445 a.C.. permise il lascito di un patrimonio e dello status patrizio ad una discendenza mista. 386

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 246,Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 387 C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, pp. 214-217

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Nei due casi si tratta di meccanismi legali che avevano per principale fine di creare un’apertura legale per dei cittadini non patrizi – sia che fossero del tutto plebee , o, com’è più probabile, perchè lo status patrizio era in dubbio a causa di una discendenza parzialmente patrizia secondo il diritto romano in vigore – con il fine di permettere loro di godere legalmente di diriti strettamente riservati al patriziato dalla serrata del patriziato. L’abolizione dell’interdizione del matrimonio misto tra patrizi e plebei, proprio come la creazione della carica di tribuno consolare, ebbero per obiettivo di normalizzare le conseguenze della severità con cui il diritto pubblico e privato, come redatto nella Legge delle Dodici Tavole, separava il patriziato romano dal resto della popolazione romana o straniera. Come sottolineato supra lo schema gentilizio, che caratterizzava le reti di potere delle famiglie patrizie, sottointendeva delle alleanze strategiche sia a Roma che nell’intero Lazio. Il matrimonio fu evidentemente una delle procedure più efficaci per delle famiglie arisocratiche per tessere delle alleanze con altre famiglie aristocratiche il cui sostegno era socialmente, politicamente o militarmente interessante. L’aristocrazia patrizia fu inoltre capace di focalizzare le speranze ed i desideri degli aristocratici delle comunità vicine su delle alleanze matrimoniali con le loro gentes, di modo che assieme ai molteplici vantaggi giuridici legati alla cittadinanza romana, le élites del Latium e delle zone limitrofe furono inevitabilmente attirate verso il fulcro che Roma rappresentava.388 Oltre al matrimonio, la migrazione di intere gentes fu anch’essa un meccanismo per cui una comunità poteva attrarre il sostegno di potenti famiglie aristocratiche. Ad ogni modo, il successo tanto di un matrimonio che di un’aggiunta pacifica di nuovi gruppi allo status aristocratico della comunità dipendeva dalla situazione giuridica prevalente nella comunità di accoglienza. Più tale diritto era restrittivo, meno facile diventava per dei nuovi arrivati essere accettati mantenendo il loro status sociale di origine. Questo era anche il caso per la città di

388

Ibid, pp. 69-74

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Roma, dove le restritizioni il cui fine era di mantenere e chiarire la separazione tra la componente patrizia e plebea della città ebbero per effetto secondario di tagliare l’aristocrazia romana degli aristocratici locali dalle altre città latine, in modo che il patriziato si vide interamente tagliato fuori dal mondo esterno ed incapace di tessere delle alleanze esterne. I ranghi del patriziato erano stati aperti al momento dell’arrivo della gens Claudia nel 504 a.c.389 oltre che in altre occasioni tra la fondazione della Repubblica e la metà del V secolo. Dopo l’introduzione della Legge delle Dodici Tavole invece, solo una discendenza agnatica legittima di cittadini romani patrizi poteva ancora creare gli effetti giuridici necessari al mantenimento dello status patrizio. In tali condizioni, ogni matrimonio misto tra patrizi romani e aristocratici di altre comunità vicine divenne quasi impossibile. Tali restrizioni erano estremamente svantaggiose se non socialmente pericolose in un mondo in cui il matrimonio era un’istituzione in cui le considerazioni giuridiche e le strategie patrimoniali e sociali furono di gran lunga più importanti di un qualsiasi legame affettivo.390 Infine, va ricordato soprattutto che le gentes dell’Italia centrale di quest’epoca condividevano un gran numero di princípi giuridici che furono alla base del primo effettivo diritto internazionale: lo ius gentium. Quest’ultimo fu all’origine del diritto privato e pubblico di vari clan dell’Italia centrale, al di là di una qualsivoglia nozione di cittadinanza e di conseguenza, una qualsivoglia limitazione nella promiscuità tradizionale delle interazioni sociali tra i clan stabiliti nelle varie città. In questo senso, la chiusura dei ranghi del patriziato romano che si completò con la ratifica della Legge delle Dodici Tavole nel 449 a.C.391, fu una soluzione troppo radicale, tenuto conto delle realtà sociali nell’Italia sociale di quest’epoca392. Di 389

M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana: istituzioni, diritto, religione, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, p. 424. 390 M. BENABOU, Pratique matrimoniale et représentation philosophique : le crépuscule des stratégies. In: Annales. Économies, Sociétés, Civilisations. 42e année, N. 6, 1987. pp. 1255-1266. 391 M. CHRISTOL, D. NONY, Rome et son empire, des origines aux invasions barbares, Hachette, Paris, 2007, p.43 392 Cfr. G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 69-88, specificamente 1-3 del capitolo quarto.

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conseguenza, l’estensione del conubium, e la creazione dei tribuni militum consulari potestate, furono entrambi dei meccanismi correttori della severità con cui l’oligarchia patrizia aveva voluto difendersi contro l’inevitabile condivisione di potere con degli elementi stranieri.

La tappa successiva del conflitto degli ordini è segnata dalla più grande calamità che la repubblica romana subirà in tutta la sua storia. Nel 387 a.C., un gran gruppo di Celti della tribù dei Senoni entra nella penisola italiana. La citta di Clusium fu assediata dai Celti ed i Romani inviarono degli ambasciatori con il fine di risolvere la situazione. Per un caso fortuito, questi ambasciatori furono spinti dalle circostanze a partecipare a una battaglia tra Clusiani e Galli contro questi ultimi, violando così la sacra neutralità degli ambasciatori. Essendo ogni compensazione negata ai Senoni da parte del governo romano, i Celti decisero di lavare l’onta con il sangue. A luglio dello stesso anno l’esercito romano fu decisivamente sconfitto dall’esercito celtico durante la battaglia del fiume Allia393. Tre giorni più tardi, Roma fu presa dai Galli; il resto dell’esercito romano aveva infatti ripiegato sulla vicina città di Veio. Senza entrare nei dettagli di quest’episodio, il sacco di Roma ebbe importanti conseguenze sul suo sviluppo futuro sociale e politico. Ogni cittadino romano era stato allo stesso modo colpito dal disastro e la plebe sentiva ancor più pesantemente il peso economico dei costi che dovette pagare lo Stato per sbarazzarsi degli occupanti Galli e per ricostruire la città. La somma necessaria per ricoprire tutte queste spese fu ottenuta attraverso una tassazione generale rovinosa per gli strati più poveri della popolazione. Davanti all’aggravarsi della crisi endemica del debito che colpiva la plebe romana, questa si decise ad acquisire dei diritti uguali in modo definitivo.

393

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 259, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005

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Sarà soltanto vent’anni dopo il disastroso sacco di Roma che un’avanzata stupefacente sarà conquistata dalla plebe nella lotta per l’uguaglianza politica. Tale riforma è conosciuta nella storia come la lex Licinia-Sextia, chiamata così dal nome di due tribuni della plebe, Gaius Licinius Stolo e Lucius Sextius Lateranus, che proposero la riforma nell’anno 378. La causa popolare non fu evidentemente ottenuta grazie agli sforzi del proletariato urbano. A dispetto del numero, questa classe non era capace di portare a termine la lunga lotta politica per l’ottenimento di leggi che abolissero i privilegi del patriziato, riducendo la pressione dei debiti e riformando le regole di possedimento delle terre pubbliche al fine di limitare le immense proprietà latifondiste del patriziato. La sola categoria di cittadini romani capace di intraprendere questa lotta furono i membri di quello che potremmo chiamare l’aristocrazia plebea. Questa classe, composta in parte da plebei elevati al senato in seguito all’instaurazione della repubblica senza comunque essere stati integrati nei ranghi patrizi, e in parte dei più ricchi plebei di prima classe, comprendeva gli elementi più adatti a far trionfare la volontà delle masse. Tuttavia, questa tensione della popolazione non era neanche lontanamente spinta da un altruismo che la portava a voler servire la volontà delle masse senza la minima ricompensa. Per la massa di plebei, il problema dei debiti e della mancanza di terre era di gran lunga il punto più importante sull’agenda politica dei tribuni della plebe; l’apertura del consolato e delle funzioni sacerdotali alla plebe era infatti solo una questione secondaria. Ad ogni modo, le sole persone che potessero difendere con successo la volontà popolare non erano colpite dalla crisi del debito né da quella di mancanza di terre; ciò che preoccupava l’aristocrazia plebea era la possibilità di divenire console e di abolire così l’ultima e più grande distinzione politica trai due ordini394. Per tale ragione, le proposte Licino-Sextine erano ciò che si chiama « legislazione in blocco », dal momento che comprendevano tutta una serie di misure rispondenti a dei problemi di quel dato periodo ma che erano molto diverse le 394

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II,p. 233 et suiv. ,Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005

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une dalle altre. La legge proposta dai due tribuni davanti al consiglio della plebe conteneva le sei misure seguenti395 :

1.

Il ristabilimento della carica consolare (che era stata sostituita dal tribunato militare ai poteri consolari durante cinquanta degli ottant’anni precedenti.)

2.

L’obbligo di eleggere un console su due proveniente dalla classe plebea.

3.

Di aprire al meno uno dei collegi sacerdotali alla plebe (a tal fine il collegio dei duumviri sacris faciundis fu esteso per divenire il collegio dei decimviri sacris faciundis, di cui cinque sarebbero stati da quel momento plebei e cinque patrizi).

4.

Di limitare i possedimenti di un cittadino romano sull’’ager publicus a 500 jugera (1.3 km²) di terra coltivabile, o al pascolo di 100 bovini o di 500 montoni; più 250 jugera per ciascuno dei due figli al massimo.

5.

Di obbligare le aziende agricole a utilizzare un numero di lavoratori liberi proporzionato al numero di schiavi al fine di combattere la disoccupazione.

6.

Infine, di alleggerire la pressione dei debiti permettendo ai debitori di dedurre gli interessi già pagati dalla totalità del debito.

Durante undici anni la legge fu sistematicamente proposta senza successo; i patrizi erano infatti sempre capaci di convincere otto dei dieci tribuni della plebe a porre il loro veto tribunizio con il fine di bloccare la legge ancor prima che questa fosse votata. Questa tattica patrizia è stato il metodo principale per bloccare la legislazione popolare attraverso gli anni della repubblica romana. Tuttavia, così come un tribuno poteva bloccare ogni atto ufficiale che non derivasse legalmente dal diritto marziale, allo stesso modo poteva bloccare l’elezione di consoli, tribuni consolari e di ogni altro magistrato romano. Così il conflitto continuò in 395

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II,p. 232. , Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 ; Liv. VI, 35,2; 37-38

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modo sterile tra gli anni 378 e 367, quando la legge fu finalmente approvata dal consiglio della plebe. Comunque, come si è visto, una legge emessa dal consiglio della plebe (plebiscitum) poteva essere effettiva solo se riceveva l’approvazione del senato, l’auctoritas patrum. Quest’approvazione non era evidentemente accordata, dal momento che il Senato preferiva, secondo Tito Livio, abolire l’ufficio consolare tout court piuttosto che doverlo condividere con la plebe.396 Con il fine di temporeggiare e di bloccare la legge Licinia-Sextia, il Senato elesse dittatore Marcus Furius Camillus, personaggio quasi leggendario che fu dittatore a cinque riprese e a cui fu accordato il titolo di secondo fondatore della città. Con l’intento di ristabilire la pace civile dopo il chiaro fallimento della vecchia tattica che consisteva nell’utilizzo della mobilitazione dell’esercito con il fine di deviare l’attenzione dal conflitto costituzionale, quest’ultimo consigliò al senato di approvare la legge tanto ambita; nel 367 a.C. dopo la fondazione da parte di Camillus di un tempio alla Concordia, Lucius Sextius Lateranus fu eletto console plebeo per l’anno 366 a.C.

D. Fase III: l’apertura delle cariche magistrali alla plebe

Con l’elezione di questo primo console plebeo, l’aristocrazia clanica cessò di esistere come base di potere autonomo. Evidentemente la classe patrizia non era diventata meno potente soltanto a causa dell’apertura del consolato alla plebe, ma fu raggiunta la pietra angolare di dominazione del patriziato. La sottrazione della carica suprema alla vecchia aristocrazia clanica basata sulle gentes di sangue misticamente superiore a quello dei comuni mortali, fu sufficiente per distruggere il resto della supremazia patrizia in meno di un secolo. Non va fatto l’errore di pensare che la fine della dominazione patrizia equivalesse alla fine del governo di tipo aristocratico 396

Liv. VII, 21, 1

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o anche oligarchico, lungi da ciò! L’oligarchia era destinata a diventare sempre più forte attraverso i secoli seguenti grazie al cambiamento e la trasformazione dell’aristocrazia stessa; questa divenne un’aristocrazia mista di plebei e patrizi basata sull’accesso al senato ed alle cariche magistrali. In altri termini, l’aristocrazia patrizia divenne lentamente un’aristocrazia patrizio-plebea che si potrebbe già chiamare senatoriale, come la chiamerà ufficialmente l’imperatore Augusto alla fine del primo secolo a.C.. Per il momento invece, non siamo ancora a questo punto e conviene osservare sin d’ora come

il conflitto degli ordini si sia concluso e come i rimanenti aspetti dell’uguaglianza politica a livello costituzionale furono conquistati dalla plebe. La concessione di uno dei due consolati alla plebe comportava comunque compensazioni per la classe patrizia. Il senato procedette dunque alla creazione di tre nuovi magistrati detti « curuli »397 : un praetor, e due aediles curules. Secondo la tradizione, la carica del pretore fu istituita con il fine di dare una carica magistrale superiore in più ai patrizi, ora che uno dei due consolati era stato sottratto loro. La volontà del patriziato di compensare la perdita dell’esclusività del consolato sarebbe allora testimoniata dalle similitudini nell’elezione, il grado d’imperium e le funzioni del praetor. Il pretore era eletto lo stesso giorno del console, dallo stesso elettorato nella stessa assemblea (i comizi centuriati) e sotto gli stessi auspici. Possedeva un imperium equivalente a quello dei consoli, con la sola differenza che era subordinato alle loro ingiunzioni e veti, era munito di sei lettori e non di dodici come i consoli, conduceva i suoi affari sedendo sulla sella curulis come i consoli, ed era autorizzato a portare la toga praetexta (la toga dalla larga bordura porpora), uno dei simboli delle cariche magistrali curuli. Infine il compito principale del pretore era di giudicare le lite e di assistere i consoli nell’amministrazione della giustizia. In termini di diritto costituzionale, il patriziato romano si rifugiava dietro la regola stabilita che, anche se il diritto atavico era stato in parte

397

Il termine “curule” per caratterizzare una carica magistrale deriva da «sella curulis », la sede del giudizio, che simbolizza il potere dello Stato. La caratteristica della magistratura curule consisteva nel fatto che essa investiva d’imperium la persona che ricopriva tale carica. L’imperium era il potere dello Stato, esistente in e attraverso le cariche magistrali superiori in diversi gradi. Così un magistrato con un grado di imperium superiore poteva sempre bloccare gli atti dei magistrati subalterni.

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codificato e scritto, solo i patrizi erano davvero capaci di conoscerlo, com’era stato il caso fino al 449 a.C.. Per tale ragione, fu necessario separare i poteri giurisdizionali dall’ufficio consolare affinché un plebeo non andasse a possedere il potere giurisdizionale supremo dei consoli. Questa pretesa esclusività patrizia nella scienza giuridica trova una delle sue cause nel monopolio patrizio nella sfera religiosa, che fu molto meno criticato e mantenuto molto più a lungo.398 Soltanto i collegi dei pontefici e degli auguri, a causa della loro forte influenza politica, furono oggetto di rivendicazioni plebee che portarono alla vittoria con la lex Ogulnia del 300 a.C., che apriva i due citati collegi alla plebe. Altre cariche religiose importanti come quella del rex sacrorum, quelle dei tre flamines majores, o il collegio dei salii non furono mai rivendicate dalla plebe.399 Il pretore, la cui carica fu raddoppiata verso il 242 a.C..400, era incaricato principalmente dell’amministrazione della giustizia, del comando delle legioni in subordinazione ai consoli, o di comandare le legioni in caso di assenza dei due consoli. Il secondo pretore appena menzionato fu istituito per conoscere gli affari giudiziari riguardanti degli stranieri e dei romani oppure degli stranieri soltanto da cui il nome di praetor peregrinus per questo secondo posto pretoriale.401 È evidente che la crisi militare che rappresentò la Prima Guerra Punica, seguita poco dopo dalla Seconda Guerra Punica ancor più disastrosa, giustificò ampiamente la creazione di un quarto magistrato superiore capace di guidare l’esercito in combattimento in caso di assenza dei consoli. Dalla creazione del praetor peregrinus, il primo pretore fu ribattezzato preator urbanus, per mettere in evidenza il fatto che aveva come compito principale l’amministrazione della giustizia urbana tra cittadini romani. Il pretore urbano si occupava anche di ricorsi da parte di cittadini delle province contro le decisioni del 398

R. E. MITCHELL, The Definition of patres and plebs, dans : K. A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 129 399 T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 234. , Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 400 G. FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, From Prehistory to the First Punic War, University of California Press, London, 2005, p. 211 401 Ibid. p. 211

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governatore della provincia. Infine, con l’estensione dell’impero della Repubblica romana tra il terzo secolo e la fine del primo secolo a.C., il numero dei pretori fu esteso al fine di assicurare il governo delle provincie e l’amministrazione della giustizia, essendo sempre più importante l’incremento del numero di cittadini romani e di cittadini soggetti allo Stato romano secondo vari gradi di diritto. Una volta terminato la loro carica annuale, i consoli e pretori erano generalmente inviati ad una delle province per assicurarne il governo in quanto pro consules o pro praetores. Le cariche pro pretoriane e pro consolari erano equivalenti alle cariche di console e di pretore rispettivamente a parte per il fatto che potevano essere sottomesse ai veti dei pretori e dei consoli o dei consoli che regnavano a Roma rispettivamente. In più, potevano essere costretti ad adottare degli atti solo con un voto ai comizi tributi mentre i tribuni della plebe non potevano imporre loro alcun veto e alcuna intercessione dal momento che essi risiedevano in un luogo al di fuori della città. Il diritto di nominare dei proconsoli o propretori sarà rapidamente conquistato dal Senato benché fosse un diritto tecnicamente appartenente ai comizi tributi. La carica degli aediles curules era in realtà lo sdoppiamento della carica degli aediles, istituita per l’assistenza dei due tribuni della plebe nel 494 a.C.. Essi detenevano alcuni poteri di polizia analoghi e subordinati a quelli detenuti dai tribuni della plebe, che permettevano loro di infliggere delle ammende per delle infrazioni che cadevano sotto la loro giurisdizione. Dal 446 a.C. gli edili plebei avevano ricevuto la responsabilità di vigilare alla conservazione degli editti del Senato (senatus consulta) attraverso la loro deposizione nell’aerarium, la tesoreria dello Sato, nel tempio di Saturno. Comunque, anche i giochi plebei erano organizzati e sotto la supervisione degli edili plebei. I due edili curuli erano due patrizi all’epoca della loro istituzione, poi di plebei e patrizi in forma alterna, e infine gli edili curuli furono eletti indistintamente dai due ordini402. Gli edili curuli e plebei, i primi eletti dai comizi tributi e i 402

TITUS LIVIUS, Ab urbe condita libri, liber VII, §1 ; T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, pp. 233-234. ,Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005

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secondi dal consiglio della plebe, non avevano propriamente lo stesso stato. Gli edili curuli erano dei veri e propri magistrati poiché eletti dal populus interno mentre gli edili plebei erano eletti dalla sola plebe. Tutte le insegne di carica magistrale oltre che il diritto di proclamare degli editti appartenevano solamente agli edili curuli. Gli editti degli edili curuli riguardavano principalmente la pianificazione economica a breve termine dei mercati pubblici. Le loro controparti plebee, benché non fossero dei magistrati curuli, erano sacrosante allo stesso modo dei loro superiori, i tribuni della plebe. I due tipi di edili saranno gradualmente assimilati alle stesse funzioni, anche se le vere differenze costituzionali derivanti dall’assemblea in cui furono eletti non spariranno. Cicerone classifica tre delle loro principali responsabilità principali come segue403 : in primo luogo la cura urbis, la supervisione urbana, che consisteva nell’ispezione e la manutenzione delle strade, degli edifici pubblici, degli edifici privati aperti al pubblico come le terme e i lupanari, la distribuzione dell’acqua, oltre che il generale mantenimento dell’ordine pubblico durante i giochi. In secondo luogo, la cura annonae, la supervisione degli annoni, termine derivante dalla parola annus, anno, che designa il raccolto o produzione annuale che consisteva principalmente nel controllo del commercio pubblico, specialmente per quanto riguardava i prezzi massimi per il frumento e altri alimenti di base che erano imposti in caso di necessità. In tale funzione erano a volte portati ad esercitare le funzioni di giudice mercantile nei litigi di natura commerciale. Infine la cura ludorum, la supervisione dei giochi, che consisteva nell’organizzazione dei giochi pubblici, a spese dello stesso edile nel caso, la qual cosa permetteva di utilizzare la carica di edile come una vera e propria campagna elettorale di un anno con il fine di rendersi abbastanza conosciuto e popolar per favorire la propria elezione a una magistratura superiore404.

403

Cic. De Leg. III, 3,7 A. R. DYCK, A commentary on Cicero, de legibus, University of Michigan Press, Ann Arbor, Michigan, 2004, p. 448 404

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La carica dittatoriale fu aperta alla plebe nel 355 a.C. dopo che già nel 365 la funzione di capo della cavalleria era già stata aperta alla plebe. Nel 350 le due cariche di censori furono aperte entrambe alla plebe. Tuttavia il patriziato fu legalmente escluso da una delle due cariche di censore nel 339 con le leges Publiliae, con il fine di assicurarsi l’elezione di plebei a tale incarico. Sarà tra il voto di questa legge e l’anno 318 a.C. che la prerogativa dei consoli che consisteva nella selezione dei membri del senato, fu trasferita ai censori, una misura che rese il senato sempre più indipendente dagli altri rami del governo dello stato e lo aiutò a divenire l’istituzione più potente dello stato per il resto dell’era repubblicana. Le leges Publiliae comportavano due altre riforme: in primo luogo la regolazione più nel dettaglio delle condizioni di validità dei plebisciti. Questi erano vincolanti per l’insieme dei cittadini solamente dopo la ratifica da parte di un’assemblea del populus intero (cioè i comizi centuriati o curiati) oltre che da parte del senato405 dopo le leggi Valerio-Oraziane del 449 a.C. Le leges Publiliae stipulavano che a partire da quel momento: « […] ut plebiscita omnes Quirites tenerent. », mettendo così fine alla necessità di ottenere la ratifica del populus affinché il plebiscito avesse la stessa forza vincolante di una legge. In secondo luogo, il senato dovette d’ora in poi dare la sua approvazione o il suo rifiuto di una lista di candidati o di una proposta di legge per delle ragioni di costituzionalità (l’auctoritas patrum, spiegata supra) prima che questa non fosse portata davanti all’assemblea del popolo. In altri termini, il diritto di veto senatoriale, che secondo Mommsen non dev’esser stato in generale utilizzato molto regolarmente, era d’ora in poi limitato in pratica a un’approvazione senatoriale precedente ai voti delle assemblee. Questo diritto di approvazione formale del Senato sulle leggi votate alle assemblee restava comunque un mezzo senatoriale, in altre parole oligarchico, per bloccare il voto di una legge non conveniente per la maggioranza dei senatori che agivano negli interessi

405

Dion. Hal. X, 4, 32

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della loro classe. Tito Livio riassume in modo eloquente le tre riforme che contenevano le leges Publiliae:

« tres leges secundissimas plebei, adversas nobilitati tulit: unam ut plebiscita omnes Quirites tenerent: alteram, ut legumquae comitiis centuriatis ferrentur, ante initum suffragium Patres auctores fierent: tertiam ut alter utique ex plebe, quum eoventum sit ut utrumque plebeium consulem fieri liceret, censor crearetur. »406

Nel 336, la carica di pretore fu finalmente aperta alla classe plebea, segnando così la fine della lotta per l’eleggibilità dei plebei alle cariche magistrali407. L’ultimo grande punto di contenzioso del Conflitto degli Ordini era il valore legale delle leggi votate dal consiglio della plebe. Lo stato di queste era sempre ambiguo, poiché godevano di una legalità erga omnes solamente se erano state ratificate dal senato, nella funzione di auctoritas patrum. Tale requisito fu trasformato in un’approvazione anteriore al voto della proposta alle assemblee con la lex Publilia ma divenne imperativo che la plebe si privasse della necessità di raccogliere una tale approvazione, alla luce dell’urgente necessità di leggi per il miglioramento della condizione economica delle masse plebee. Il perenne flagello dei debiti continuò a scavare un abisso tra gli strati più ricchi e quelli più poveri della società romana. Il senato romano, che essendo composto dai cittadini più benestanti dello Stato era fermamente dalla parte dei creditori e contro quella dei debitori, continuò a utilizzare i suoi poteri per bloccare il voto di leggi tendenti a migliorare la situazione dei debitori quando ciò andava di pari passo con l’indebolimento delle garanzie dei debiti. Tuttavia, nonostante l’antagonismo del senato, una serie di misure fu adottata, a testimoniare chiaramente la gravità della situazione economica.

406

Liv. VIII, 12 T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 234. ,Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 407

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Tra queste misure si trova in primo luogo la nomina di una commissione governativa per il credito che proclama l’utilizzo di fondi pubblici nel 351 per garantire il pagamento dei debiti ai creditori e in seguito stabilisce un sistema di rimborso con tranches prefissate nel 346408. Si vede anche apparire la regolazione dei tassi d’interesse per lottare contro l’usura; anche se in quest’epoca il mezzo di scambio principale era il bronzo pesato in blocco, la pratica dell’usura era perfettamente compresa a Roma. Così, il tasso d’interesse massimo fu stabilito al 10% nel 356 e poi al 5 % nel 346 a.C. su base annuale. Sembrerebbe che il prestito a interesse fu persino completamente proibito nel -341409 ma tale misura non fu mai applicata, essendo il prestito a interesse sempre esistito nel corso della storia romana. Ad ogni modo, un massimo fu comunque stabilito e mantenuto attorno al 12% su base annuale. In seguito, la lex Poetelia, del 326 o 313410 a.C., stabilì la possibilità per un debitore di prestare giuramento come assicurazione della sua solvibilità futura evitandosi così la messa in schiavitù personale con la cessione dei suoi beni. In seguito, la schiavitù per debito potrà essere proclamata in futuro solo dal verdetto di giurati. Infine, a partire dall’adozione della lex Licinia-Sextia (-367), furono effettuati dei tentativi nella direzione della limitazione dei possedimenti agrari dei magnati latifondisti, dal momento che questi ultimi possedevano generalmente più di 500 jugera (i.e. 1.26 km²) di terra arabile, mentre il plebeo medio secondo Tito Livio possedeva soltanto due o tre jugera di terra pubblica (cioè tra 0.005 e 0.007 km²). In altri termini un patrizio latifondista possedeva oltre 300 volte la terra che possedeva un plebeo medio a quest’epoca411. Tale sperequazione di ricchezza in terre arabili costituiva solo una parte dell’ineguaglianza in proprietà che era ancora fortemente superiore alla prima, dal momento che la proprietà di un ricco senatore poteva andare fino a centinaia di migliaia di volte la proprietà del contadino medio. Lo 408

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 237. ,Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 409 Ibid. p.237 410 Ibid. p.237 411 Liv. VI. 36

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schema che si trova alla fine di questo capitolo mostra meglio di quanto possano farlo le parole, la differenza tra ricco e povero tra il primo secolo a.C. e il primo secolo d.C., un’epoca leggermente più avanzata di quella di cui si sta parlando. Ad ogni modo, la concentrazione di ricchezza del primo secolo a.C. fu senza il minimo dubbio proporzionalmente comparabile a quella dell’epoca di cui si sta parlando. Un successivo sviluppo, concomitante a quello dello sviluppo del sistema di appaloto dei tributi a metà del secondo secolo a.C., significò il declino delle distribuzioni di porzioni dell’ager publicus al proletariato urbano412. Durante l’epoca reale, le terre conquistate ai nemici erano state regolarmente distribuite sotto forma di parcelle con un’attenzione particolare alle necessità del proletariato urbano e della classe dei metoeci – gli stranieri liberi che furono assimilati e divennero cittadini romani durante il quinto secolo. La distribuzione di queste parcelle di terra a delle condizioni chiare e fisse, essendo stabilite annualità e durata, aveva fino ad allora potuto limitare la crescita sfrenata della classe di poveri indigenti della città. Con l’arrivo dell’oligarchia patrizia, due sviluppi d’importanza epocale ebbero luogo. In primo luogo, anche se la distribuzione delle terre in parcelle ai poveri non fu interrotta bruscamente, questa sembra essere divenuta sempre più rara. Invece, le terre pubbliche furono sempre più sottoposte all’occupazione provvisoria dei grandi proprietari. L’occupazione provvisoria, che era già esistita durante l’era monarchica413, consisteva in un usufrutto speciale, che permetteva a un occupante ed ai suoi eredi di sfruttare una parte del demanio pubblico contro un’annualità di un decimo dei cereali ed un quinto dell’olio di oliva o del vino prodotti, permettendo sempre allo stato di revocare la concessione a suo piacimento. Questo sistema detto dei « precaria » resterà un flagello per l’economia romana fino alla fine

412

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 213,Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005 413 T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 213,Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2005

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del suo impero in occidente nel quinto secolo a.C. e sarà, in un senso economico e organizzativo, all’origine del successivo sistema feudale414. Lo sviluppo che rese questo sistema dannoso era il fatto che in primo luogo gli occupanti di questi vasti possedimenti non erano de facto mai più privati delle terre che occupavano, e in secondo luogo il fatto che le annualità del cinque e dieci per cento venivano incassate solo molto raramente. Dal momento che i fondi per il funzionamento dello Stato dovevano pur venire da qualche parte, questi erano estorti alla massa di cittadini con l’aumento del tributum, i plebei soffrivano evidentemente molto più di tale aumento rispetto all’aristocrazia oligarchica. Il secondo sviluppo che renderà la vita economica sempre più difficile per i plebei è la rovinosa concorrenza che costituiva il nuovo modello di sfruttamento che si sarebbe sviluppato da quest’epoca sui grandi possedimenti patrizi. Questi cominciarono ad impiegare enormi masse di schiavi agricoli sui loro enormi possedimenti estorti allo stato. Questo sistema di sfruttamento detto latifondista era immensamente più redditizio della piccola proprietà libera di un tempo e di conseguenza, la concorrenza fatta ai plebei e le loro piccole aziende agricole cominciò lentamente a portare questa classe di liberi agricoltori verso la bancarotta e la dipendenza dai creditori oligarchi. Nonostante i tentativi di certi tribuni della plebe, la limitazione dei possedimenti latifondisti resterà lettera morta. Come si è già brevemente spiegato, le terre pubbliche erano aggiudicate a degli individui da parte del senato poiché facevano parte dei beni pubblici di cui il senato decideva l’impiego. L’origine di queste terre pubbliche dette ager publicus era probabilmente la proprietà reale espropriata dal governo repubblicano e in seguito incrementata con le terre confiscate ai nemici sconfitti. Il senato aveva preso l’abitudine di concedere delle grandi quantità di terra pubblica ai senatori e ai più ricchi plebei con il fine di intensificare la loro produttività e di

414

C. STEPHENSON, Medieval Feudalism, chapitre I, Cornell University Press, Itchaca, New York, 1969

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facilitare il rendimento. Il tasso di produttività che raggiungevano gli operatori latifondisti per mezzo del lavoro degli schiavi su vasta scala, benché molto redditizio per i concessionari, non faceva altro che spingere gli agricoltori indipendenti verso la rovina finanziaria abbassando artificialmente i prezzi. Inoltre, gli affitti non erano incassati scrupolosamente poiché coloro che erano incaricati dell’amministrazione dell’ager publicus ne occupavano spesso vaste superfici e non avevano, dunque alcun interessa alla riscossione. Sarà dunque con il fine di poter far fronte a tutti questi problemi che la plebe desiderava divenire padrona della legislazione una volta per tutte togliendo l’ultimo ostacolo del senato al libero esercizio della sua competenza legislativa. Incapace di assicurarsi nuove concessioni in materia di rimborso dei debiti, la plebe fa un’ultima minaccia di secessione. Utilizziamo il termine minaccia perché anche se la plebe si ritirò sul colle del Jianiculum, è improbabile che abbia avuto realmente l’intenzione di fondare una nuova città, proprio come nel caso della secessione verso il monte Sacro nel 494 o verso l’Aventino nel 449 a.C.. Così, nel 287 a.C., il Senato nominò dittatore Quintus Hortensius¸ un oligarca plebeo, affinché quest’ultimo ristabilisse la concordia tra gli ordini e mettesse fine alla secessione plebea sul Janiculum. La plebe secessionista accettò di mettere fine al conflitto a condizione che una legge fosse approvata che stabilisse la validità erga omnes dei plebisciti una volta votati regolarmente al consiglio della plebe, senza che fosse più necessaria la precedente ratifica del senato. La lex Hortensia del 287

a.C. accolse la richiesta della plebe, stabilendo infine un valore uguale tra la lex e il plebiscitum, essendo la prima votata da un’assemblea del populus e ratificata in precedenza dal senato, e la seconda avendo la stessa forza vincolante della lex se regolarmente votata ai comitia tributa o al concilium plebis, secondo le loro rispettive competenze. Il giureconsulto e commentatore Gaius del secondo secolo a.C. definisce la legge e il plebiscito nei seguenti termini415 :

415

GAIUS, Institutionum commentarius primus, I, 3, http://www.thelatinlibrary.com/gaius1.html#3

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Ch. VERMORKEN « Lex est, quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est, quod plebs iubet atque constituit. Plebs autem a populo eo distat, quod populi appellatione universi cives significantur, con numeratis et patriciis; plebis autem appellatione sine patriciis ceteri cives significantur; unde olim patricii dicebant plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent; sed postea lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita universum populum tenerent: Itaque eo modo legibus exaequata sunt ».

Dopo la lex Hortensia, dei senatus consulta sono ancora spesso adottati prima della proposta di legge davanti ai comizi tributi. Va comunque fatta una distinzione tra i plebisciti riguardanti i diritti del popolo, che sono frequentemente menzionati senza riferimento ad un previo senatus consultum e le leggi che riguardano l’organizzazione dello stato, che continuarono ad essere precedute da un senatus consultum. Che tale aspetto sia stata una formalità necessaria o meno in seguito alla lex Hortensia non è del tutto chiaro ma si può concludere che se fu questo il caso, fu una necessità che riguardava solo leggi che toccavano l’organizzazione stessa dello Stato Romano. Così termina il periodo conosciuto nella storiografia sotto il nome di Conflitto degli Ordini, che durò due secoli e sette anni. Evidentemente la fine di tale periodo non costituisce una rottura storica netta, proprio come non la costituì la cosiddetta caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 474 a.C.. Tuttavia, l’anno 287 segna l’emergere definitivo di una seconda assemblea sovrana nello schema costitutivo romano; un’anomalia curiosa che sarà carica di conseguenze durante i successivi secoli. L’emergere delle classi commerciali, di cui si parlerà più nel dettaglio nel seguente capitolo, risultò nella creazione di un potente polo opposto a quello dell’aristocrazia agricola dagli interessi radicalmente opposti. Ora che quest’elemento commerciale e la sua appendice, l’artigianato, avevano un’assemblea sovrana, i comizi tributi poterono davvero influire sulla politica dello Stato. Con l’emergere di quest’assemblea si sviluppò una politica sempre più

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audace ed espansionista che ebbe delle conseguenze la cui importanza non può essere ignorata. Con la fine del Conflitto degli Ordini, lo schema costitutivo romano si stabilizzò e, a parte la creazione di nuovi pretori per il governo delle province e l’utilizzo crescente della tecnica delle pro-magistrature restò stabile e immutata fino alle grandi riforme dell’epoca di Silla.416 La costituzione come fu stabilita gradualmente nel corso dei due primi secoli della Repubblica fu sorprendentemente stabile ed è nel quadro stabilito da questa struttura di governo che si potrà d’ora in poi passare all’analisi del peso elettorale di un elettore romano nel secondo secolo. Affinché la citata struttura costituzionale sia ancora più chiaramente illustrata al lettore, una schematizzazione della costituzione di governo romana verso il terzo e secondo secolo, è stata inclusa nella pagina che segue.

416

G. FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, From Prehistory to the First Punic War, University of California Press, London, 2005, p. 233

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E. Schema della costituzione repubblicana verso il II e III secolo

417

417

Questo schema è tratto da Wikipedia Commons. La sua validità è stata verificata e corrisponde in modo preciso alla struttura consolidata dell’apparato di governo romano verso il III e II secolo a.c.

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VI.

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Analisi lessicometrica delle fonti principali

1. Metodologia

L’apporto della storia antica e della storia greco-romana in particolare, ha continuato durante i secoli fino ai giorni nostri ad esercitare un’influenza estremamente notevole sull’immaginario collettivo del mondo occidentale. Inoltre, fino a tempi relativamente recenti, le opere di Virgilio, Tito Livio, Cicerone e Cesare, menzionandone solo qualcuno trai più celebri, fecero obbligatoriamente parte del percorso scolastico superiore nella gran parte dei Paesi occidentali e in modo continuativo dalla fine dell’Alto Medioevo.418 La pertinenza e l’esatteza di ogni analisi storica è tributaria delle fonti a disposizione del ricercatore e, in questo campo, grandi progressi sono stati innegabilmente compiuti nel corso dei cinquanta ultimi anni. Il volume dei fattuali cresce senza sosta con la scoperta e la pubblicazione di inscrizioni, papiri, di esemplari di monete e di testi ancora sconosciuti.419 Allo stesso tempo, lo studio e l’analisi dei dati diviene più precisa ed efficace attraverso l’applicazione di tecniche scientifiche moderne in archeologia, e l’utilizzo dei computer all’interno di vari tipi di analisi, tra cui quella lessicografica. Va comunque osservato che sarebbe errato credere che l’interezza del campo della ricerca storica sotto le sue diverse angolazioni (politica,sociale, economica etc.) sia stata trasformata dal miglioramento delle tecniche o dall’ incremento del volume dei dati disponibili. La ricerca storica resta condizionata dalle fonti di cui si dispone e, malgrado il fatto che se ne posseggano di più e che si possa analizzarle in modo molto più efficace, per grandi sezioni del passato queste sono e 418 419

Che si estende per definizione tra gli anni 476 e 1054 d.C. M. I. FINLEY, Ancient History: Evidence and Models, Viking Press, New York, 1986, p.2

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restano lacunose se non di affidabilitá incerta. Tale affermazione è particolarmente pertinente per quanto riguarda la storia romana che va dall’era arcaica alla prima metà dell’era repubblicana, ovvero tra il X e il II secolo a.C.. Tale periodo, benchè di un’importanza che è difficile da sottovalutare per una qualsivoglia vera comprensione della struttura politica romana della Repubblica classica, è oggetto di un numero molto limitato di fonti di testo principali. Due fonti in particolare, l’epopea monumentale di Tito Livio, l’Ab urbe condita libri e le Antichità Romane di Dionigi D’Alicarnasso, costituiscono i due corpi di testo prinicpali per quanto riguarda la storia romana arcaica. Il problema di tali opere è che esse furono scritte alla fine del primo secolo a.C., nel primissimo periodo dell’era augustea, cioè più di sette secoli dopo la supposta fondazione della città di Roma nel 753 a.C.. La narrazione di Tito Livio e di Dionigi sono le due cronache principali per il periodo che va dall’origine della città al 443 a.c. per cui l’opera di Tito Livio è l’unica fonte prinicipale di cui si dispone, salvo la narrazione di Diodorus Siculus che copre gli anni che vanno dal 486 al 302 a.C.420 É comunque possibile integrare le informazioni contenute in tali cronache attraverso altre fonti letterarie come le opere di Cicerone, Tacito, Sallustio, Svetonio oltre alle opere derivanti dalla tradizione antica. Il grande scarto temporale tra lo svolgimento dei fatti della storia arcaica e la data di redazione delle opere di Tito Livio e di Dionigi D’Alicarnasso ha inevitabilmente avuto come risultato l’introduzione di anacronismi, di metacronismi, di distorsioni e di abbellimenti in tali narrazioni, facendo nascere delle questioni complesse e spesso irrisolvibili legati all’affidabilità del contenuto. Ciononostante, le opere in questione furono chiaramente il frutto di un’elaborazione secolare421, di una narrazione cristallizzatasi poco a poco nell’immaginario comune del popolo romano. Inoltre, fu senza dubbio basato su delle fonti anteriori risalenti al terzo secolo provenienti dalla tradizione annalistica, che comprende Fabius Pictor, Cincius Alimentus e Catone il Censore, che sfortunatamente non ci sono 420

T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 3 421 G. BRIZZI, Storia di Roma – 1. Dalle origini ad Azio, Patròn editore, Bologna, 1997, p. 7

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giunte, e anche di opere antiche, di modo che un grande numero di interrogativi resterà irrisolto in mancanza di nuove scoperte. La sfida del ricercatore che ha tra le mani le fonti letterarie romane riguardanti l’epoca arcaica e repubblicana, non è dunque limitato all’elucidazione delle lacune che queste fonti contengono, ma risiede soprattutto nella loro analisi e nella separazione dei dati storici da quelli fittizi. Come afferma Cornell422 : « […] le problème principal ne réside pas dans le volume des sources écrites, mais dans le manque de fiabilité de leur contenu. […] ». Una copiosa storiografia ha visto la luce durante gli ultimi trent’anni nella materia e numerose questioni molto complesse sono state appuntate e spiegate in modo soddisfacente. Ciononostante, molte altre questioni restano largamente aperte alla ricerca e le varie risposte che sono state apportate, per quanto possano essere plausibili, sono lungi dal creare un’unanimità di consensi nella comunità scientifica. É dunque indispensabile lavorare nella piena consapevolezza di questi limiti e di applicare un metodo scientifico multidisciplinare rigoroso allo studio dei dati storici, sociali, economici, filologici

e

storiografici contenuti nel corpo letterario sfruttato per lo studio della storia romana arcaica e repubblicana.

Sfortunatamente, le fonti principali di qui disponiamo per i primi tre secoli di storia romana non sono gli annalisti Fabius Pictor, Cincius Alimentus o Catone il Censore- autori del terzo secolo a.C. dei quali la gran parte degli scritti non ci è pervenuta- ma Diodorus Siculus, Dionigi D’Alicarnasso e Tito Livio, overo degli autori della fine del primo secolo a.C. che scrivevano dunque più di sette secoli dopo la data tradizionale di fondazione della città di Roma nel 753. Il corpo di opere di questi autori, incrementato da ciò che ci è pervenuto attraverso i testi di oratori, poeti e studiosi dell’antichità, costituisce una fonte relativamente abbondante e ricca in dettagli su molti temi. Il problema dello studio di tale periodo storico 422

T. J. CORNELL, The Value of the Literary Tradition Concerning Archaic Rome, pp.1-5, in K. A. RAAFLAUB (dir.), Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell publishing Ltd., 2005, p. 47

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non risiede dunque nel volume delle fonti scritte, ma nella mancanza di affidabilità del loro contenuto.423 Dato che la tradizione letteraria che riguarda l’epoca arcaica di cui disponiamo oggi fu scritta soltanto alla fine del primo secolo a.C., una certa quantità di dettagli che ci danno i loro autori sono indubbiamente degli abbellimenti e delle aggiunte.424 Ciononostante, i discorsi fittizi e i dettagli aneddotici aggiunti a tali narrazioni non li privano delle loro fondamenta fattuali. Allo stesso modo di Cornell425, siamo dell’opinione che vi furono dei limiti chiari a ciò che gli storici e annalisti poterono e non poterono aggiungere a tali narrazioni storiche. Era d’uso coprire le lacune della tradizione con dettagli plausibili ma interamente derivanti dall’immaginazione del loro autore ; non era però nè permesso aggiungere fatti totalmente inesistenti che avessero per effetto di modificare un punto importante della tradizione storica come esisteva e viveva nell’immaginario collettivo romano. Il passato giocò un ruolo a Roma che non è facile da comprendere al giorno d’oggi. La società romana fu estremamente conservatrice e l’esperienza accumulata dalle epoche passate costituì un corpus di usanze ancestrali– le mos majorum – che era la base giuridica sulla quale ogni azione morale e politica veniva giudicata.426 Inoltre, le famiglie più potenti della città giustificarono invariabilmente la loro ascendenza attraverso exploits politici e militari dei loro antenati, facendo della storia un’importante fonte di legittimazione sociale nelle mani delle classi dominanti. È quasi escluso in tali circostante che delle narrazioni totalmente fittizie siano potute essere accettate dai loro lettori cioè dagli storici delle generazioni successive. Anche se una sovrastruttura parzialmente immaginaria fu aggiunta alla tradizione da Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso, questi avevano innegabilmente a disposizione un gran numero di fonti 423

T. J. CORNELL, The Value of the Literary Tradition Concerning Archaic Rome, pp.1-5, in K. A. RAAFLAUB (éd.), Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 47 424 T. J. CORNELL, The Value of the Literary Tradition Concerning Archaic Rome, p.3, in K. A. RAAFLAUB (éd.), Social Struggles in Archaic Rome – New Perspectives on the Conflict of the Orders, revised second edition, Blackwell Publishing Ltd., Oxford, 2005, p. 50 425 Ibid., p.48 426 Ibid, p.50

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di cui noi siamo completamente privi. Così, essi disponevano non soltanto di fonti di tipo giuridico ed epigrafico, ma anche degli Annales Maximi

(una cronaca arcaica degli

avvenimenti storici stabilita dal Pontifex Maximus, dei quali in fin dei conti non si conoscono che pochi aspetti427), i fasti (le liste che stabilivano i giorni fasti e registravano i consulati e i trionfi), per non parlare delle opere annalistiche di Q. Fabius Pictor, Catone il Censore e L. Calpurnius Piso Frugi, delle fonti di cui ci è pervenuta solo un’infima parte. In breve, sarebbe tanto falso prendere una posizione ipercritica riguardo alla tradizione, quanto prendere questa alla lettera; il rigore scientifico impone una visione sfumata in cui la veridicità dei principali eventi deve essere accettata quando questi sono confermati da risorse indipendenti e scientificamente valide. La tradizione deve dunque ogni volta essere rimessa in discussione e analizzata alla luce dei dati archeologici e di ogni altra fonte di cui si dispone. Facendo ciò diviene possibile analizzare il periodo arcaico e l’inizio dell’era repubblicana con una certa precisione senza cadere nella trappola dell’anacronismo.

427

Ibid. p.50

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2. Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso: opera e contesto

Il presente studio ha per obiettivo di spiegare almeno una delle numerose questioni legate all’interpretazione delle narrazioni che riguardano la prima storia romana, ovvero il grado di convergenza delle due fonti letterarie principali riguardanti tale periodo, l’Ab urbe condita libri, ee le Antichità romane. I grandi progressi tecnologici degli ultimi decenni hanno portato alla comparsa di processi di analisi lessicometrica che permettono di studiare e di confrontare il corpus in modo estremamente dettagliato. Il programma informatico Lexico 3 permette di effettuare un’analisi lessicometrica in modo facile ed efficace. Un tale studio è essenziale nel nostro caso, poichè le due opere in questione non sono delle opere di divulgazione storica come si sottointende al giorno d’oggi; esse furono dei veri e propri discorsi politici, influenzati dall’ideologia dei loro autori e influenzati più largamente dall’ideologia dell’era augustea. Inoltre, le convenzioni che regolano la produzione della narrazione storica all’epoca augustea non erano in alcun modo comparabili a quelle che sono in voga attualmente. Ai giorni nostri, lo storico, e più in generale il ricercatore scientifico, è generalmente obbligato ad esplicitare la relazione che lega il dato fattuale grezzo alla dichiarazione testuale finita in modo da permettere al lettore di seguire il più dettagliatamente possibile le varie tappe di elaborazione del discorso a partire da tali fatti e di essere sempre in grado di provare le sue affermazioni attraverso prove scientifiamente valide quando queste sono rimesse in questione.428 Le convenzioni letterarie che regolavano la storiografia romana erano molto meno rigide e permettevano unintervento molto più importante dell’immaginazione dell’autore nella produzione della narrazione. Era del tutto normale completare i dati grezzi a 428

T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 17

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disposizione con l’invenzione di discorsi plausibili e con l’elaborazione artificiale sui motivi, le aspirazioni e i sentimenti dei vari gruppi ed individui che intervenivano nello svolgimento dei fatti. Nondimeno, si tratta dunque di un genere letterario molto particolare che si situa al confine tra reale e fittizio, componendo una solida fondazione di fatti storici, ma al contempo una larga sovrastruttura di elaborazioni artificiali emerse dall’immaginario dei numerosi attori coinvolti nella conservazione e nella trasmissinoe della storia del popolo romano tra la nascita dell’Urbs e l’era augustea. Inoltre, i due testi la cui analisi è prevista sono anche dei discorsi politicamente impegnati, che si situano nella corrente ideologica della pax romana nascente, cercando di chiarire al lettore non solo come Roma fosse giunta a dominare la quasi-totalità del mondo conosciuto, ma anche perchè una tale dominazione fosse inevitabile e benefica. Appena uscita da un lungo secolo dominato di problemi interni e da guerre civili della Repubblica morente, il principato nato un’altra volta ed il suo principe, Augusto, in particolare, ebbero bisogno di una legittimazione ideologica forte del nuovo regime e della sua dominazione mondiale. Sotto quest’aspetto, l’opera monumentale di Tito Livio, che percorre la storia della città di Roma dalla sua fondazione all’epoca augustea in 142 libri fu un’opera estremamente ben riuscita. L’opera di Dionigi di Alicarnasso è anche una narrazione ideologicamente impegnata, che prova a legittimare l’egemonia romana sul mondo ellenistico mettendo in luce le pretese origini elleniche del popolo romano assieme alle similitudini tra le abitudini, le pratiche ed i costumi dei due popoli.429 Il presente studio richiede dunque una metodologia particolare, dato che siamo davanti a due corpi a livello multiplo. Dal punto di vista interno, bisogna distiguere la base di fatti di cui la veridicità- almeno parzialmente- è dimostrabile, dalla sovrastruttura narrativa la cui affidabilitá è spesso discutibile. Dal punto di vista esterno, vanno tenuti in conto sia la 429

E. GABBA, Dionysius and The History of Archaic Rome, Sather Classical Lectures, n°56, pp. xviii-253, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, Oxford, 1991, p. 16

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specificitá delle fonti di cui disponevano gli autori, sia le specificitá delle correnti di pensiero che li influenzarono nella redazione dei loro scritti. Inoltre, si tratta di due narrazioni scritte da due autori diversi che non sono di identica taglia. È dunque necessario delimitare il corpus e utilizzare soltanto le parti che sono cronologicamente parallele. Le due opere non cominciano a narrare strettamente ab urbe condita, ovvero dalla fondazione della città di Roma, ma dalla Guerra di Troia e dall’arrivo degli esiliati troiani in Italia. La differenza principale tra le due narrazioni non si trova nel loro punto di partenza, ma nella loro lunghezza intrinseca e in quale misura la narrazione originale ci sia pervenuta. Per quanto riguarda Tito-Livio, disponiamo soltanto del 25% del corpus originale che era costituito da 142 libri ed in particolare i libri 1-10 e 21-45 ci sono pervenuti in forma abbastanza completa. Per quanto riguarda Dionigi d’Alicarnasso invece, le cose si presentano in modo alquanto diverso. La sua opera, le Antichita Romane, copriva gli anni che vanno dalla fondazione mitica della città, alla Prima Guerra Punica a metà del III secolo a.C. per un totale di 20 libri. Soltanto i primi 11 libri, che coprono il periodo che va dalle origini mitiche al Decemivrato e la Seconda Secessione della plebe del 449 a.C. ci sono pervenuti in forma completa (con qualche lacuna nei libri 10 e 11), il resto è interamente perduto. Al fine di poter comparare le due opere bisogna dunque limitarsi alla parte più completa affinchè i due corpi analizzati siano comparabili per quanto riguarda il loro contenuto. Inoltre, è stato necessario di riorganizzare leggermente il testo di Dionigi d’Alicarnasso poichè la divisone in “libri” effettuata da Dionigi non fu la stessa di Tito-Livio. Con il fine di uniformare nei termini del necessario i due testi, abbiamo dunque posto il tag (balise in francese) del testo per il programma Lexico 3 in punti cronologicamente uguali, seguendo il modello dei quattro libri di Tito Livio che coprono il periodo arcaico e repubblicano che va dalle origini al Decemivrato. La narrazione di Dionigi è stata dunque balisé per passare dagli 11 libri che contiene in realtà, a quattro. Inoltre, è stato necessario riorganizzare leggermente il testo di

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Dionigi d’Alicarnasso poichè la divisione in « libri » effetuata da Dionigi non è la stessa di quella effettuata da Tito Livio . Il periodo coperto da queste due opere fu caratterizzato da due regimi politici e da una grande lotta sociale all’interno dello Stato romano. I regimi furono in un primo periodo la monarchia e in secondo luogo la Repubblica, che succedette al sistema monarchico dopo la deposizione dell’ultimo re Lucius Tarquinius Superbus nel 509430 a.C.. La lotta sociale è il conflitto degli ordini che opponeva l’aristrocrazia patrizia alla gente comune, chiamata anche plebe, in una contesa plurisecolare per dei diritti politici uguali e soprattutto per l’assistenza economica, per l’abolizione della schiavitù per debiti, e per la distribuzione delle terre conquistate a favore dei poveri piuttosto che la loro attribuzione ai più ricchi nobili della capitale.431 Il conflitto degli ordini fu una lotta estremamente lunga e complessa e si invita quindi il lettore a consultare il capitolo ad essa dedicato al fine di comprendere adeguatamente le implicazioni di tale periodo a livello politico, sociale, economico e storiografico. L’obiettivo sarà di analizzare i due corpi con il fine di vedere in che aspetti le due versioni sono concordanti e in che misura esse divergono, con la speranza di migliorare la nostra comprensione di tale periodo contorto della storia sociale e politica di Roma. Lo strumento principale di questa analisi sarà il programma Lexico 3 che ci permetterà di analizzare questi corpi relativamente vasti in modo efficace e rapido. L’ipotesi che si presenta da gestire per il momento, con il fine di vederla confutata o confermata alla conclusione della nostra analisi, è che le due opere furono inizialmente scritte in vista dello stesso obiettivo con mezzi simili ma divergenti e che furono destinate a dei gruppi di lettori differenti.Più precisamente, Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso scrissero entrambi delle opere di legittimazione del dominio dell’Impero Romano in tutto il 430

M. HUMM, I fondamenti della repubblica romana : istituzioni, diritto, religione, dans: A. BARBERO (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. TRAINA (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, Salerno editrice, 2008, pp. 426-428 431 T. CORNELL, The Beginnings of Rome: Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars, c. 1000 264 BC, Routledge, London, 1995, p. 266

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Mediterraneo e del regime imperiale monarchico instaurato da Cesare Augusto. 432 Ad ogni modo, hanno operato con approcci diversi, risultato naturale e quasi inveitabile visto che uno dei due autori era Romano della Gallia cisalpina e parlava principalmente il latino, mentre l’altro era un Greco ionico che parlava principalmente la lingua greca. Tito Livio fu uno scrittore che utilizzava uno stile che si potrebbe- con prudenza- chiamare annalistico, seguendo l’elezione dei consoli e gli eventi di ogni anno in successione e da vicino. Impiegava uno stile relativamente accessibile (ma non uno stile chiaro e conciso come quello di Giulio Cesare) e sembra essere stato scritto almeno parzialmente con il fine di glorificare il suo popolo, la sua patria e il suo capo, Augusto. Con tale fine mette in luce l’origine divina del lignaggio giuliano e il destino ineluttabile del popolo romano di divenire capo del mondo; destino che emerge di volta in volta dalla trama della narrazione sotto la forma di presagi e auguri interpretati in modo da giustificare l’imperialismo romano. Dionigi d’Alicarnasso invece fu un retore greco della scuola attica classica, e impiegava perciò uno stile già un po’ meno accessibile e soprattutto molto più verboso. L’obiettivo di Dionigi non fu nello specifico glorificare la sua patria, il suo popolo o il suo capo, poichè, per quanto lo riguardasse personalmente, tutti e tre gli aspetti erano nelle mani dei Romani, stranieri non ellenici che avevano distrutto la libertà dell’Ellade. Il suo obiettivo fu dunque di giustificare l’intollerabile ponendo l’accento sulla supposta origine greca del popolo romano oltre che sul destino predeterminato che ebbe questo popolo di conquistare l’intero mondo conosciuto proprio come Alessandro Magno. Dionigi fu un estimatore dei Romani e della lingua latina (anche se scriveva generalmente in greco) ma restava pur sempre uno straniero. Fu un’epoca in cui il patriottismo panromano degli abitanti dell’Impero non era ancora nato o in cui un’infima parte di questa popolazione era composta da veri cittadini romani. Comunque, fu l’effetto di secoli di dominazione romana assieme ad opere storiche

432

C. ROBINSON, A history of Rome, Methuen & Co. LTD., London, 1935, p. 454

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politicizzate e di propaganda come quelle di Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso che fecero sì che

i cittadini bizantini del quinto secolo d.C. si definissero ancora fieramente Rhomaioi,

Romani e non più Greci.

3. Ipotesi e preparazione del corpus

L’ipotesi di quest’analisi è dunque che le due narrazioni fossero destinate a glorificare e giustificare politicamente la dominazione mondiale del popolo romano. Ad ogni modo, Tito Livio scrisse per la parte occidentale dell’impero in cui il latino era lingua franca amministrativa e commerciale, e in cui Roma era un modello di civilizzazione. Per quanto riguarda Dionigi d’Alicarnasso, egli scriveva per la parte orientale e grecofona dove esisteva una civilizzazione più antica e colta e i cui abitanti dovevano essere convinti della giustizia della dominazione romana attraverso l’insistenza sull’origine orientale dei fondatori del lignaggio romano. Come detto supra, abbiamo dovuto limitare i due corpi di testo per far loro coprire lo stesso periodo cronologico che comincia con la narrazione dell’era mitica che va dall’esilio di ENea alla fondazione della città da parte di Romolo verso l’anno 753 e che prosegue attraverso tre secoli di storia per chiudersi subito dopo l’abolizione del Decemvirato e la promulgazione delle leggi Valerio-Oraziane nel 449 a.C.

Abbiamo scelto questo periodo per necessità anche se sarebbe stato interessante includere una parte più estesa della narrazione di Tito Livio visto che è più conciso ma copre più anni. Ad ogni modo, è necessario che le due versioni restino confrontabili e per tale ragione abbiamo scelto di limitare i due corpi di modo che coprano esattamente gli stessi periodi di tempo. Inoltre, la divisione interna è stata adattata affinchè la narrazione di Dionigi di Alicarnasso sia

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anch’essa divisa in quattro parti o « libri » come lo è il testo estratto dall’opera di Tito Livio. Abbiamo dunque organizzato questi due corpi in modo indipendente oltre che in un testo unico, di modo che si sono potute analizzare due volte le quattro parti di ciascun autore, ma anche il testo consolidato dei due autori nel quale il testo di Dionigi d’Alicarnasso costituisce le prime quattro parti e quello di Tito Livio le parti 5-8. La suddivisione cronologica delle quattro parti delimitate dai due corpi è dunque la seguente :

I.

Il periodo mitico riguardante l’esilio di Enea e dei Troiani, la fondazione di Roma da parte di Romolo e il periodo della monarchia fino alla sua abolizione nel 509 a.C. che corrispondono al libro I di Tito Livio.

II.

Il primo periodo della Repubblica che copre gli anni dal 509 al 468, corrispondente al libro II di Tito Livio

III.

Il periodo che va dal 468 alla pubblicazione delle leggi Valerio-Oraziane nel 449, corrispondente alla prima parte del libro III di Tito Livio, ovvero i passi 1-56.

IV.

Il periodo contenuto nell’ultima parte del libro III di Tito Livio che va dal 449 al 446, corrispondente ai passi 56-72 del libro III di Tito Livio.

La marcatura (balissage) del testo che abbiamo scelto non rispetta nè interamente la suddivisione liviana nè interamente quella effettuata da Dionigi d’Alicarnasso. La ragione di tale scelta sta nel fatto che si è voluto includere il più possibile dell’opera di Dionigi d’Alicarnasso della quale i libri I-XI ci sono giunti interamente, e per il fatto che il suo decimo libro termini esattamente alla fine del Decemvirato, mentre il libro III di Tito Livio termina nel 446. Abbiamo dunque costituito una quarte parte balisée che contiene i passaggi 1-52 del libro XI di Dionigi d’Alicarnasso, che corrisponde ai passaggi 56-72 del libro III di

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Tito Livio. Abbiamo così ottenuto una suddivisione che include quasi la totalità dei libri I-XI di Dionigi (quelli che ci sono giunti interamente) sempre rispettando generalmente la suddivisione liviana chiudendo il corpus alla fine del libro III dell’Ab urbe condita. Inoltre, la nostra suddivisione corrisponde al periodo che precede la creazione dell’ufficio del tribunus militum consulari potestate. Ciò è stato necessario al fine di evitare certi problemi per quanto riguarda l’analisi delle specificità positive e negative in cui abbiamo comparato due coppie di forme antitetiche rappresentate rispettivamente dal popolo e dal senato da una parte, e dai consoli e dai tribuni dall’altra. Se non si fosse delimitato il corpus per terminare prima della creazione della carica di console nell’anno 444 a.C. sarebbe stato impossibile fare un tale confronto poichè in questo caso la forma the tribunes nel testo inglese si sarebbe potuto riferire sia ai tribuni della plebe che ai tribuni consolari. Chiudendo il corpus nel 336 invece, un confronto delle specificità positive e negative per quanto riguarda le tre già citate forme, conserva tutta la sua pertinenza senza che fosse necessario scegliere in modo arbitrario un punto di chiusura che non rispettasse i limiti dei libri I-III dell’opera di Tito Livio, includendo la quasi totalità di ciò che ci è giunto dell’opera di Dionigi d’Alicarnasso. Il periodo cronologico delimitato è particolarmente interessante perchè costituisce senza dubbio la parte più determinante per la storia romana dei periodi successivi. Fu durante questi tre secoli che la città emerse, e l’assetto monarchico fu sviluppato, che i re furono deposti e un nuovo sistema costituzionale fu stabilito sotto l’egida dell’aristocrazia, e che infine la dominazione totale del patriziato fu prima messa in discussione e in seguito lentamente abolita grazie all’azione effettutata dalla componente non patrizia del corpo dei cittadini. Si tratta in altri termini di un periodo che ha determinato completamente la struttura ed il funzionanemtne delle istituzioni romane per i quattro secoli a venire e, in virtù di ciò, questo periodo merita un’attenzione del tutto particolare.

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Inoltre è un periodo che , ancor’oggi, da luogo a grandi incertezze legate al carattere astruso dell’origine di certi gruppi sociali e di certe istituzioni politiche, di modo che lo studio di queste due narrazioni in questione è quasi l’unico mezzo a disposizione per chiarire le questioni più spinose della storia arcaica dell’Urbs. In terzo luogo, i due corpi in questione costituiscono un campione particolarmente ricco e diversificato delle due narrazioni poichè si compongono di tre parti principali che condividono tre caratteristiche comuni. Le tre parti sono, in primo luogo, il periodo mitico fino alla fondazione di Roma nel 753 a.C., quindi il periodo monarchico dal 753 al 509 e infine gli inizi della Repubblica dal 509 al 449 a.C. Le loro caratteristiche comuni sono il fatto che il periodo che va dall’era mitica al 509 a.C.è difficilmente verificabile anche se il periodo della monarchia etrusca è dotato di un certo numero di fatti la cui veridicità è stata provata. Il periodo che va dal 509 al 449 è più chiaramente veridico malgrado il fatto che gli autori di queste narrazioni ebbero la tendenza ad abbellire ed aggiungere dettagli fittizi alla narrazione dei fatti per delle ragioni stilistiche. Infine, il terzo periodo menzionato corrisponde agli inizi del conflitto degli ordini nel corso del quale la componente non patrizi del popolo, la futura plebe, emerge come forza politica e comincia lentamente ad influenzare la politica di stato. L’analisi dei due corpi proposti è del resto particolarmente pertinente poichè presso i Romani come presso i Greci del primo secolo a.C., molto più che nelle nostre società contemporanee, il discorso politico costituiva il corpo stesso del potere. A quest’epoca l’educazione cominciava e finiva con lo studio della lingua e gli studi superiori erano di fatto più concentrati sulla lingua, la retorica e la grammatica ma restavano essenzialmente limitati alla linguistica. Charaudeau433 afferma senza dubbio a ragione che « [...] Le discours politique n’est pas le tout du politique mais il n’est pas de politique sans discours politique. Celui-ci est constitutif

433

P. CHARAUDEAU, Le discours politique -les masques du pouvoir, Vuibert, Paris, 2005, p. 29

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de celui-là. [...] » ma tale affermazione perde una parte di senso quando la si analizza dal punto di vista della politica dell’antica Roma. Certamente, i Romani avevano un sistema complesso quanto il nostro per quanto riguarda le condizioni di accesso e di ascendenza politica degli individui. Tuttavia, i talenti che possono portare al successo politico si sono moltiplicati da quell’epoca in cui, oltre all’enorme vantaggio che costituiva far parte di una famiglia nobile, l’unico reale prerequisito necessario all’inizio di una carriera politica era una formazione in diritto e giurisprudenza oltre che degli studi di grammatica e retorica. Il potere politico dello Stato era ben stabilito, avendo giustamente bisogno di persone capaci di legittimare o di condurre la propria azione attraverso lo strumento del linguaggio. In tali circostanze e soprattutto in assenza di ogni forma di stampa meccanica, la narrazione storicopolitica fu uno strumento estremamente potente nelle mani dei membri della classe dirigente della Repubblica romana.

4. Analisi lessicometrica

I due corpi sono entrambi divisi in quattro parti di dimensione generalmente comparabile nel caso delle prime tre parti e relativamente più corta per la quarta parte. I due testi sono delle traduzioni inglesi dell’originale, che furono scritte rispettivamente in greco e latino. I riferimenti alle traduzioni specifiche che si sono utilizzate per tale analisi si trovano sotto la seguente nota.434 Il testo di Dionigi d’Alicarnasso è più lungo di quello di Tito Livio. Le principali caratteristiche secondo i due corpi sono le seguenti:

434

Tito Livio, Ab urbe condita libri, liber I-IV, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2006, traduzione di Spillan, D. (Daniel), -1854; http://www.gutenberg.org/ebooks/19725 (10/10/2012) ; Dionigi d’Alicarnasso, Antiquitatum Romanorum, liber I-XI, Lacus Curtius, University of Chicago, 2007; traduction de Cary, E. (Earnest), 1937-1950; http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Dionysius_of_Halicarnassus/home.html (10/10/2012)

204 i.

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Dionigi d’Alicarnasso: il corpus di Dionigi d’Alicarnasso contiene un totale di 378698 episodi, suddivise in 13682 forme e 5636 hapax (ovvero una forma che appare soltanto una volta).

ii.

Tito-Livo : Il corpo di Tito Livio contiene un totale di 107476 episodi, suddivisi in 8266 forme et 3371 hapax.

La prima osservazione da fare è che la narrazione di Dionigi d’Alicarnasso presenta un rapporto di forme e hapax per quanto riguarda la frequenza molto meno importante di quello di Tito Livio. Si trova così una percentuale di hapax in Dionigi che si situa a circa 5636/378698 = 1,488%, la percentuale di Tito Livio è molto più elevata, raggiungendo più del doppio, con 3371/107476 = 3,136%. Inoltre, si può immediatamente percepire che i due testi, benchè trattino esattamente gli stessi periodi, sono estremamente diversi riguardo al numero di forme che sono utilizzate in ogni parte.

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Questa constatazione conferma già parzialmente la nostra ipotesi, in quanto la narrazione di Dionigi contiene più forme piene e hapax nella prima parte (cioè quella che tratta la fondazione mitica della stirpe di Enea in seugito alla fuga di Troia) e raggiunge una secondo posto per quanto riguarda le frequenze (occurrences). Tito Livio sembra nettamente meno preoccupato da questa parte della storia e si piazza soltanto al terzo posto per la prima parte per quanto riguarda le frequenze (occurances) e un primo posto per quanto riguarda le forme e gli hapax. Ciò è del resto poco sorprendente se si fa presente che nelle sue Antichità Romane (Rhōmaikē archaiologia) dedicò 4 dei 20 libri al periodo leggendario e monarchico mentre Tito Livio vi dedicò soltanto un libro su 142.

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A. Le 30 prime forme piene del corpus435

435

Dion. Hal.

Forme piene

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30

their they had he them was were be it you have I is are been city other men would should no time Romans many being also after having we war

Nombre d’occurren ces 4631 4333 3370 3361 3193 3129 2719 2302 2265 2047 1658 1536 1432 1196 1151 1071 1064 1055 1043 1004 1002 970 961 959 857 855 842 801 781 755

TiteLive

Forme piene

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30

was they their he his were had be them being should him been people would have more now consuls war city you enemy other having time Roman commons consul tribunes

Nombre d’occurren ces 1367 1143 1104 1055 973 871 865 778 583 452 416 412 378 368 356 306 303 291 284 260 249 248 246 237 236 232 219 219 214 210

Si tratta di nom, verbi e aggettivi; Cfr. J.-J. COURTINE, Lexique et syntaxe en analyse du discours : propositions d’analyse automatique, Actes du Congrès international informatique et sciences humaines, 1981 L.A.S.L.A. - Université de Liège, p. 227

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Quaggiù abbiamo allegato l’elenco completo delle prime cento forme per i due testi. Siamo tuttavia del parere che il dizionario delle forme ripetute non può che avere un interesse limitato molto qui. Basti dire che il linguaggio utilizzato non è del tutto paragonabile, anche se simile, e, come abbiamo detto sopra, Dionigi è molto più dettagliato rispetto a Tito Livio. Il dizionario dei segmenti ripetuti per contro potrebbe fornire spunti di confronto molto interessanti, ed è per questa raggione che l’abbiamo inclusa qui invece di metterlo in appendice.

B. I segmenti ripetuti nell’Ab urbe condita di Tito-Livio

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Emerge chiaramente dal confronto di questo primo schema con quello della pagina successiva, contenente la lista dei segment ripetuti dell’opera di Dionigi d’Alicarnasso, che il testo di Tito Livio è più centrato sul popolo. In effetti, presso Tito Livio, i segmenti più suggestivi tra quelli ripetuti, che parlano di gruppi sociopolitici, sono chiaramente più vicini alla causa popolare. Così, nelle pagine di Tito Livio si trova in ordine di frequenza,, « the people», « the enemy », « the city », « the commons », « the senate », « the consuls » e « the patricians » etc... Per contrasto, la stessa lista derivante dal corpus di Dionigi darebbe i seguenti segmenti: « the Romans », « the city », « the senate », « the people », « the enemy », « the consuls » e « the gods ». Presso Tito Livio, la frequenza del segmento « the people » è di 253 con una frequenza massima in tutta l’opera di 382 , ovvero più della metà della frequenza massima. In Dionigi lo stesso segmento presenta una frequenza di 489 su un totale di 4890 ovvero un decimo della frequenza massima. Tali considerazioni servono a confermare ancora una volta ciò che dicevamo riguardo alla verbosità di Dionigi d’Alicarnasso e della sua attitudine decisamente negativa nei confronti del popolo, ponendosi piuttosto dalla parte dell’aristocrazia e dei magistrati patrizi.

C. I segmenti ripetuti nelle Antichità Romane di Dionigi d’Alicarnasso

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L’assunto che Tito Livio sia più favorevole alla causa popolare nella sua opera non dovrebbe sorprenderci. Alla base Tito Livio fu leale al regime repubblicano, accettando l’autocrazia velata di Cesare Augusto solo come una sorta di panacea politica necessaria alla risoluzione dei problemi interni all’impero perchè si ponesse finalmente fine all’ interminabile ciclo di guerre civili causate da generali aristocratici troppo ambiziosi. Dionigi d’Alicarnasso invece, venendo dal Mediterraneo orientale e più in particolare dalla città di Alicarnasso, città molto antica in cui il tiranno Mausolo si costruì una tomba di una tale grandezza e bellezza da entrare a far parte delle sette meraviglie del mondo antico, il Mausoleo, non era particolarmente legato alle idee repubblicane. Gli orientali erano abituati all’autocrazia e alla relativa inesistenza della liberà popolare, soprattutto a favore dei proletari impoveriti della città. Dionigi adotta dunque un’attitudine proaristocratica e proautocratica, mentre Tito Livio è certamente favorevole all’aristocrazia ma nel senso di un’aristocrazia che vivesse sotto le antiche libertà repubblicane, visto che la creazione della Repubblica era ritenuta essere stata opera degli aristocratici. Bisogna comunque insistere anche sul fatto che la narrazione di Dionigi d’Alicarnasso è molto più lunga per quanto riguarda la Monarchia, un periodo durante il quale non vi erano veramente delle libertà popolari e questa differenza contribuisce senza dubbio un minimo alla minimizzazione della menzione del popolo nella sua narrazione.

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D. Analisi fattoriale delle corrispondenze

Attraverso l’analisi fattoriale delle corrispondenze, è possibile confrontare un certo numero di testi attraverso stime di prossimità del loro contenuto in funzione del loro vocabolario, prendendo come intersezione di due assi il « punto zero » che rappresenta la norma per la totalità del corpo analizzato. Ci si aspetterebbe una certa somiglianza trai due testi, perlomeno per quanto riguarda il periodo monarchico. È invece sorprendente osservare che proprio come per i segmenti ripetuti, i due testi sono in realtà tutto fuorchè simili. I prossimi tre schemi mostrano l’AFC dei due testi presi individualmente e quindi l’AFC dei due testi consolidati.

Analisi fattoriale delle corrispondenze dell’Ab urbe condita

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Analisi fattoriale delle corrispondenze delle Antichità Romane

Come si può facilmente osservare, i due corpi sono molto differenti quando li si compara alla luce dell’analisi fattoriale delle corrispondenze. Vi è qualche similitudine, nello specifico per quanto riguarda il carattere fuori norma della prima parte presso i due autori. Come mostrano i grafici, tanto in Tito Livio quanto in Dionigi d’Alicarnasso la prima parte dei due corpi- che copre gli inizi mitologici del popolo romano fino alla fondazione della Repubblica- sono relativamente corti rispetto alla durata cronologica che essi rappresentano. Le parti due e tre riguardano i difficili anni della Repubblica nascente, includendo le guerre verso l’esterno necessarie al consolidamento del nuovo regime assieme alla riconquista dell’egemonia romana sul Lazio. La quarta parte è molto corta in entrambi i casi, la qual cosa rende più difficile una comparazione utile. È comunque osservabile che, nonostante una lunghezza similare ed un soggetto assolutamente identico, esse siano talmente differenti l’una dall’altra per quanto riguarda l’analisi fattoriale delle corrispondenze. Le parti 2 e 3 sono le più facilmente confrontabili ma, anche qui, il tracciato della linea di intersezione si farebbe in

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modo strettamente opposto nei due grafici. Le differenze fondamentali tra le due narrazioni sono evidenziate ancor più chiaramente dall’AFC consolidato dei due testi ripresi qui sotto, in cui la narrazione di Tito Livio è rappresentata in blu e quella di Dionigi d’Alicarnasso in rosso.

Analisi fattoriale delle corrispondenze del corpo consolidato

Il vocabolario utilizzato nelle due versioni è dunque fortemente divergente. Inoltre, sembrerebbe che il vocabolario impiegato da Tito Livio sia molto più vicino alla norma generale dei due corpi rispetto a quello utilizzato da Dionigi d’Alicarnasso . Vediamo così confermata la nostra precedente ipotesi, che affermava che il testo di Dionigi seguiva uno stile molto più complesso e molto più ricercato rispetto a quello di Tito Livio. In realtà quest’analisi rientra perfettamente nel quadro teorico precedente in qui avevamo osservato che le due narrazioni avevano la stessa finalità ma facevano uso di mezzi molto diversi per arrivarci. In effetti, la narrazione di Tito Livo è un’opera di divulgazione della storia politica, sociale e militare romana mentre la narrazione di Dionigi è un’opera più erudita, riservata ad

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un pubblico di lettori greci dotati delle facoltà intellettuali necessarie a poter digerire senza problemi un’opera scritta nello stile letterario attico. Inoltre, Dionigi fa uso di una tecnica personale detta imitatio dionysienne.436 Tale tecnica consisteva nell’abbellimento dei fatti esistenti applicando ad essi le tecniche della retorica e dotandoli così di qualità supplementari senza tuttavia snaturarli completamente. In sintesi, la narrazione di Tito Livio fu destinata all’occidente romano in cui la letteratura era ancora in piena crescita ed evoluzione, mentre l’opera di Dionigi era destinata all’oriente ellenistico e civilizzato in cui lo stile letterario seguiva delle antiche convenzioni piuttosto complesse, portando inevitabilmente ad una notevole differenza di stile. Bisogna comunque evitare di precipitarsi alla conclusione secondo cui la versione dei fatti di Tito Livio sia un’opera meno compiuta rispetto a quella di Dionigi, lungi da affermarlo. Si tratta piuttosto di una differenza di stile dovuta in primis alla differenza trai due tipi di pubblico di lettori ricercato e in secondo luogo , dalla lingua poichè non va dimenticato che uno fu redatto in greco l’altro in latino.

E. Specificità negative e positive

436

Cfr. E. GABBA, Dionysius and The History of Archaic Rome, Sather Classical Lectures, n°56, pp. xviii-253, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, Oxford, 1991

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Il presente schema riprende le specificità negative e positive delle due opere riguardo la problematica del conflitto degli ordini. La questione è di sapere fino a che punto le due versioni sono impegnate politicamente, cioè se i loro autori sostenevano l’una o l’altra delle fazioni storiche del primo secolo a.C.- i populares e gli optimates – e può essere analizzata con l’aiuto di quattro parole chiave che vanno a formare due coppie di forme antitetiche che furono il cuore della lotta tra plebe e patriziato. Abbiamo dunque scelto due coppie di formule molto caratterisriche circa la controversia patrizio-plebea ovvero : popolo e il Senato, da una parte, e i consoli ed i tribuni dall’altra. Va osservato che, per quanto riguarda la formula the tribunes, tale espressione riguarda soltanto i tribuni della plebe poichè abbiamo limitato il corpus al periodo che precede la comparsa dei tribuni consolari e per il fatto che abbiamo modificato il testo laddove era necessario affinchè quest’espressione indicasse esclusivamente i tribuni della plebe nella totalità dei due corpi di testo. Confrontando il numero di frequenza di queste quattro forme antitetiche, è possibile dedurne l’importanza relativa che i due autori danno a queste quattro istituzioni. Così, è possibile ipotizzare- prudentemente- l’attitudine soggettiva dei due autori verso le due fazioni politiche già citate della tarda Repubblica. Tale attitudine soggettiva è molto importante, poichè, come spiegato supra, i deu autori avevano una tendenza innegabile a proiettare le realtà sociopolitiche del primo secolo sulla narrazione degli avvenimenti svoltisi all’alba della fondazione della Repubblica. Nel grafico ripreso qui sopra, si vede ancora una volta l’enorme differenza in quantità di forme differenti utilizzate da Dionigi, a destra da 1 a 4, e da Tito Livio, a sinistra, da 5 a 8. É chiaro che nelle due versioni la prima parte è profondamente differente dal resto, poichè non contiene nessuna menzione delle quattro forme scelte, se non una volta sola. Un aspetto molto interessante è che per descrivere gli stessi disordini contenuti

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nel libro II di Tito Livio, Dionigi d’Alicarnasso sembrerebbe dare un peso completamente fuori misura al senato, relegando i consoli alla umile posizione di agenti d’esecuzione del Senato, aspetto assolutamente errato per l’epoca di cui ci occupiamo. La versione di Tito Livio invece, molto più realista sembra dare il peso politico principale ai consoli e non al senato, e un peso di circa metà al popolo ; una versione dei fatti che è largamente confermata dalla storiografia contemporanea. Per quanto riguarda la terza parte, ancora una volta Tito Livio dà una versione più realista e più mitigata rispetto a Dionigi poichè nelle pagine di quest’ultimo il popolo è quasi inesistente mentre i tribuni della plebe sono menzionati più volte rispetto al Senato ed ai consoli. Non siamo in disaccordo con il grande ruolo che ebbero senza dubbio i tribuni della plebe durante questi anni difficili, se non in una modalità che potremmo chiamare « mediatica », poichè gli anni tra 470 e 449 sono degli anni di grande agitazione plebea per la soluzione delle controversie legate alla mancata relazione del diritto pubblico ed il monopolio su tale diritto che era esercitato dai patrizi. Terminata la terza parte, si vede ricomparire il potere consolare, in modo di certo timido, ma comunque certo. I tribuni avevano perduto una parte del loro impulso politico dopo il decemvirato e furono per il momento tenuti sotto il controllo dei consoli e del senato in una Repubblica sul piede di guerra contro i nemici esterni. Ancora una volta ci sembra che Tito Livio sia l’autore della versione più mitigata e più realista e che l’anno 449 fu un anno di secessione popolare (portando ad un’altissima frequenza della menzione del popolo) ma che, nonostante tutto, il console restava di gran lunga il più forte dei magistrati (portando ad una frequenza molto elevata dell’espressione the consuls). I grafici che mostrano le frequenze relative e assolute non aggiungono granchè a tale argomentazione e per tale ragoine non li includeremo negli allegati. Per quanto riguarda l’argomentazoine principale invece, ci sembra che l’ipotesi sia stata spiegata in maniera

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sufficiente per poter procedere alla presentazione delle nostre conclusioni riguardanti l’analisi di questo corpus e l’eventuale veridicità dell’ipotesi di ricerca prestabilita.

5. Conclusioni

Le due narrazioni studiate sono entrambe non soltanto delle fonti estremamente ricche di interesse per lo studioso del mondo antico ma sono anche interessanti come discorso politico frutto di un’epoca in cui il discorso e la narrazione furono i principali strumenti politici esistenti. Le due narrazioni storiche principali di cui disponiamo riguardo alla storia sociopolitica di Roma Arcaica e della prima repubblica, l’Ab urbe condita libri e le Antichità romane, sono entrambe fonti estremamente ricche e propizie all’analisi lessicometrica. Si tratta di fonti diverse, redatte per un pubblico di lettori diversi, in lingue differenti. Ciononostante la tematica è esattamente la stessa e il 90% dei fatti storici come sono presentati dalla cosìddetta tradizione sono esattamente gli stessi nelle due fonti. La differenza principale si pone nello stile letterario e storiografico di Tito Livio in confronto allo stile di Dionigi d’Alicarnasso caratterizzato dalla sua imitatio. Tito Livio scrisse in modo breve e conciso senza perdere troppo tempo per abbellimenti artificiali e discorsi immaginari. Ne fece comunque numerosi, rendendo molto difficile il compito di trovare e separare la sovrastruttura artificiale dai fondamenti reali. Ad ogni modo, la visione storica di Tito Livio, anche sei i due storici furono influenzati dallo stile comune della loro epoca e dalla pratica letteraria consistente nell’abbellimento (entro certi limiti) della materia grezza a disposizione, fu senza dubbio un po’ più realista di quella di Dionigi d’Alicarnasso che sembra aver messo esageratamente l’accento sulla visione ottimata della storia sociale romana senza domandarsi da dove la plebe e con la stessa occasione, la corrente dei populares fosse giunta e quale fosse

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la sua importanza storiografica. I due autori furono certamente degli storici antichi molto completi, altrimenti non si sarebbe del resto mai potuto leggere la loro opera fino ad oggi. Inoltre, i due autori in questione non scrivevano soltanto la storia, si trattava piuttosto della storia mescolata ad un approccio giornalistico contemporaneo, con l’ulteriore particolarità che le linee di di demarcazione tra il distorto e l’interamente neutro erano particolarmente vicine le une alle altre. I due grandi storici romani che abbiamo appena analizzato sono dunque autori di discorsi politici e mediatici nel verso senso della parola visto che non essi avevano dei punti di vista politici che non esitavano a mostrare ma anche la loro visione delle cose sopravvive nelle pagine delle loro narrazione. La nostra preferenza va comunque a Tito Livio che ci è sembrato non soltanto più accessibile ma anche molto più realista per quanto riguarda la giovane repubblica. Bisogna comunque insistere sul fatto che niente è interamente certo e che la verità riguardo a tale periodo così lontano non sarà senza dubbio mai conosciuta al cento per cento. Inoltre, Dionigi d’Alicarnasso fornisce una grande quantità di dettagli, molto interessanti per gli storici di oggi, che non sono reperibili nella versione molto più concisa di Tito Livio. È comunque possibile e indispensabile continuare nel futuro l’analisi delle opere storiche antiche come quelle che si sono analizzate con tutti i mezzi con il fine di incrementare la nostra comprensione di tali fonti e, attraverso queste fonti, aumentare la nostra comprensione delle realtà sociopolitiche che ci circondano oggi. Lo studio lessicomentrico in particolare è uno strumento importante nelle mani degli analisti che permetterà senza dubbio di acquistare nel futuro una comprensione sempre più dettagliata dei discorsi politici che, fino al presente, restano il motore senza cui nessuna elezione può essere vinta e garantiscono oggi una certa misura di governance democratica con l’inclusione del cittadino nello scambio di idee che potrebbe essere alla base del governo di domani.

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6. Allegati Dizionario delle forme delle Antichità romane di Dionigi d’Alicarnasso

Dictionnaire des formes de l’Ab urbe condita libri de Tite-Live

Dizionario delle forme dell’Ab urbe condita libri di Tito Livio

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Frequenza assoluta nel corpus consolidato per le 4 forme sopracitate

Frequenza relativa nel corpus consolidato per le 4 forme sopracitate

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Fonti del corpus: 1. Tite-Live, Ab urbe condita libri, liber I-IV, Project Gutenberg Literary Archive Foundation, Salt Lake City, 2006 ; scaricato il 20 agosto 2012, traduzione di Spillan, D. (Daniel), -1854; http://www.gutenberg.org/ebooks/19725

2. DENYS D’HALICARNASSE, Antiquitatum Romanorum, liber I-XI, Lacus Curtius, University of Chicago, 2007; scaricato il 20 agosto 2012, traduzione di Cary, E. (Earnest), 1937-1950; http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Dionysius_of_Halicarnassus/ho me.html

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VII.

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Conclusioni

L’évoluzione della costituzione romana si sviluppa principalmente tra la fondazione della città e la metà del terzo secolo a.C. ; evoluzione che fu definita dalla lotta per il miglioramento della condizione materiale della plebe e per l’eguaglianza dei diritti politici tra la plebe ed il patriziato romano. Tuttavia, le cause del conflitto non furono realmente affrontate e la condizione della plebe non fu migliorata dall’acquisizione di tale eguaglianza. Certo, anche il più umile dei plebei poteva formalmente d’ora in poi raggiungere il rango di console e di dittatore, ma tali diritti erano in gran parti illusori. L’apertura delle cariche magistrali alla plebe non aveva mutato la situazione economica di questa e, come in precedenza, solamente gli uomini abbastanza ricchi da potersi permettere il lusso di una carriera politica furono eletti. Le cariche magistrali e senatoriali non erano remunerate, e per essere eletti bisognava farsi conoscere al popolo per mezzo di una costosa campagna elettorale, cosa che un anonimo plebeo avrebbe avuto difficioltà a fare. Il carattere esclusivo e gelosamente custodito dei privilegi della classe patrizia fu un altro fattore che contribuì grandemente allo sviluppo della costituzione romana, e molte funzioni magistrali romane trovavano in un certo senso la loro origine e la loro ragione d’essere nella volontà patrizia stabilire la loro autorità sullo Stato, cioè di evitare che una riforma indispensabile alla sopravvivenza dello Stato non gli sottraesse troppi privilegi. I plebei più ricchi che erano stati integrati nel Senato come conscripti avevano da lungo tempo raggiungo il campo dei patrizi e i loro interessi non erano più quelli della plebe degli strati medi o superiori ma quelli del Senato e dell’aristocrazia e quelli di un creditore contro il suo debitore. I membri delle famiglie plebee che raggiunsero il rango di magistrato e senatore fondavano la nobilitas della loro famiglia, e se in questo momento non erano ancora dei veri

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e propri oligarchi, essi o i loro discendenti saranno destinati a diventarlo quasi sicuramente. I loro interessi erano così una forma ibrida tra gli interessi della loro base di sostegno e i loro interessi personali, per forza di cose inconciliabili con i primi. Una buona illustrazione di questi propositi era senza dubbio il fatto che- secondo la tradizione- il tribuno della plebe Gaius Licinius Stolo propose delle leggi che limitavano i diritti d’occupazione dell’ager publicus a 500 jugera ma che fu in seguito uno dei primi ad essere condannati per un’occupazoine eccessiva437. Non bisogna dunque farsi illusioni sul tema dei rappresentanti della plebe, questi avevano in fine degli interessi e un’agenda diversi da quelli della classe media o del proletariato plebeo poichè nella logica oligarchica, i più pericolosi antagonisti si fanno integrare all’oligarchia piuttosto che permettere che diventino pericolosi oppositori. Solo se si presenta un oligarca dai mezzi finanziari e politici davvero pericolosi, l’oligarchia regnante, come quella romana, si affida a dei mezzi violenti per eliminare il pericolo. La proposta di misure benefiche per il popolino non era generalmente che un espediente politico per un gran numero di tribuni della plebe e dei politici cosidetti populares in un periodo successivo. Le eccezioni sono comunque esistite, come Manius Curius Dentatus, plebeo dei territori Sabini che divenne prima tribuno della plebe, poi console a tre riprese e si distinse per le sue vittorie contro i Sanniti, i Sabini e gli Epiroti del Re Pirro durante gli anni 290 a 270 a.C.438 Parallelamente, i celebri fratelli Gracchi, Tiberio e Gaio, furono anch’essi degli uomini politici che, benchè di origine aristocratica, furono così disinteressati da difendere fino alla loro morte un programma di riforme politiche destinato a migliorare le condizioni di vita reali della classe proletaria per mezzo di una ridistribuzione delle terre pubbliche e la fondazione di colonie sulle terre conquistate. Tuttavia, gli altruisti e gli homines novi restavano l’eccezione ad un governo saldamente posto nelle mani di un’oligarchia composta dalle famiglie più 437 438

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 237. ,Project Gutenberg, 2005 Polyb. Hist. II, 19

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imporanti dello strato superiore della società romana, o in termini di prestigio sociale o di ricchezza o per l’inevitabile combinazione dei due. L’apertura del governo della Repubblica alla plebe ebbe inoltre per risultato di rendere più tenui le linee di demarcazione tra il partito riformista ed il partito oligarco-aristocratico. I plebei più agiati e meglio posizionati per condurre la lotta riformatrice, provenienti dalle classi superiori e medie della plebe, avevano perduto una parte della loro motivazoine politica per la difesa dei diritti della loro classe. Va ricordato che le cariche magistrali superiori ricadevano sotto la competenza elettorale dei comizi centuriati, dove l’aristocrazia e la prima classe plebea avevano una maggioranza assoluta poichè votavano nello stesso senso fino alla riforma legale di quest’assemblea nel 241 a.C. Per essere eletto a una magistratura superiore un plebeo doveva anche essere ricco, cominciare eventualmente dal tribunato e con una politica favorevole alla plebe, ma doveva per forza di cose mitigare la sua politica non appena tentava la sorte nelle elezioni per le cariche di pretore o console, non potendo proporre delle misure diametralmente opposte agli interessi (soprattutto economici, ma anche sociopolitici) delle classi superiori. Una volta che l’aristocrazia plebea fu integrata all’antica aristocrazia gentilizia in seguito all’apertura delle cariche magistrali alla plebe, il tribunato della plebe divenne uno strumento di governo nelle mani di questa nuova aristocrazia patrizio-plebea. Nel passato, i tribuni erano stati alacremente combattuti nei loro sforzi da senato e magistrati, ora venivano integrati nei ranghi delle due istituzioni. In primo luogo, ricevettero le prerogrative della magistratura superiore : i diritti di convocare il Senato, di consultarlo o di proporgli degli editti. In più, avendo in precedenza avuto solo il diritto di assistere in silenzio alle sessioni del Senato seduti su un banco vicino alla porta di entrata439, ricevettero ora dei seggi trai senatori assieme al diritto di far valere la loro opinione nei dibattiti. Se non potevano partecipare ai voti, questo

439

T. MOMMSEN, Römische Geschichte, Buch II, p. 244. ,Project Gutenberg, 2005

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era il risultato del principio generale di governo forgiato dai Romani che volevano che un magistrato in funzione potesse fare delle proposte e partecipare ai debattiti del Senato ma mai partecipare ai suoi voti. Solo il diritto di veto permetteva ai magistrati e tribuni di influire- ed effettivamente di bloccare- le decisioni del Senato. Il tribunato della plebe divenne dunque progressivamente uno strumento di governo aristocratico destinato a mantenere la pace civile durante i due secoli di disordini che seguirono l’introduzione della lex Hortensia. Anche quando un tribuno della plebe comparse per infiammare la lotta delle classi inferiori contro le classi superiori del proletariato oppresso contro l’oligarchia opulenta, fu per mezzo della carica tribunicia stessa che il senato riuscì a gettare acqua sul fuoco. Questa tattica sarà impiegata con successo fino al tempo dei Gracchi, i primi rivoluzionari ad apportare un cambiamento nella logica di governo e di dominio senatoriale messa in piedi in seguito alla fine del conflitto degli ordini. Le cariche magistrali avevano anche subito dei cambiamenti a causa dell’apertura delle magistrature alla plebe ed alla crescente complessità degli affari pubblici. La moltiplicazione e dunque l’indebolimento delle carichhe magistrali avevano inoltre per risultato di incrementare soprattutto i poteri del senato. Non è difficile vedere che alla lunga, tra un numero crescente di magistrati annualmente rimpiazzati da una parte, ed un corpo permanente composto dagli uomini con più esperienza negli affari pubblici che occupavano la loro funzione a vita dall’altra, quest ultima sarebbe divenuta l’istituzione più potente tra le due. La carica consolare fu quella che soffrì di più della tecnica di smembramento delle antiche prerogrative reali impiegate dal Senato. Questo smembramento fu di certo salutare tenuto conto della complessità crescente dell’amministrazione di Stato ma aveva comunque spesso per obiettivo il mantenimento del monopolio patrizio in certe materie escluse ai magistrati aperti alla plebe. Così, dalle macerie della funzione reale, fu prima istituita la carica di questore, sottraendo una parte delle prerogative relative alla tesoreria dello Stato ai consoli.

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Questa riforma era in realtà destinata a trasferire una parte del controllo delle finanze dallo Stato al Senato. In seguito, quando i poteri consolari furono aperti ai plebei per la prima volta con la creazoine dei tribuni consolari, fu creata la carica di censore, che

privò consoli e tribuni delle

prerogrative in materia di impresa pubblica, opere pubbliche, contratti di Stato con i privati, e da ultimo, dopo un intervallo, quella relativa alla nomina ed all’esclusione dei membri del Senato, dell’ordine equestre e del corpo dei cittadini. Con l’apertura della stessa carica consolare alla plebe, le sue competenze giurisdizionali furono tolte al console e trasferite alla carica di pretore alla quale la plebe sarebbe stata inizialmente ineleggibile. Infine, gli edili curuli furono istituiti per gestire, assieme con i loro omologhi plebei, gli affari interni della città in materia di viabilità, gestione delle acque, sanità pubblica etc. Il risultato fu che la carica consolare, all’inizio un semplice sdoppiamento della carica reale con due magistrati patrizi eletti annualmente, perse una parte importante delle notevoli prerogative di un tempo, che facevano di questa una carica molto meno assoluta di quanto non lo fosse stata la carica reale ed il consolato originario. L’autorità consolare ripartita attraverso tutta una serie di magistrati faceva si che il senato ricevesse sempre più potere grazie al suo potere d’ingiunzione ai magistrati e al suo notevole peso nella sfera politica. Il grande vincitore del Conflitto degli Ordini, in quanto gruppo della società, fu la nuova aristocrazia plebea. Il senato invece, fu il grande vincitore in quanto istituzione di governo. Le famiglie patrizie non persero mai la loro influenza durante l’era repubblicana, nè il rispetto innato della società romana nei confronti dei nobili, che portavano i nomi più celebri dei cittadini della città. Il senato, i suoi membri d’ora in avanti scelti trai cittadini più ricchi

e

influenti della città, divenne il potentissimo Consiglio di Stato Romano. I suoi membri formarono nel corso dei due secoli a.C. un’oligarchia collettiva governante composta da oligarchi plebei e patrizi indistintamente. La nobiltà forniva i senatori, i magistrati e gli

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ufficiali superiori dell’arma e guidava lo Stato romano in quanto padrona assoluta fino allo scoppio del conflitto rivoluzionario che ebbe come seguito la sostituzione del governo dell’aristocrazia oligarchica collettiva con un governo personale e autocratico di natura definibile come un oligarchia di tipo sultanesco. Nella società imperiale che emerge dalla nascita del Principato nel 27 a.C., l’aristocrazia fu una ricchissima casta ereditaria di ufficiali superiori e amministratori dei quali alcuni tracciavano ancora con fierezza la loro discendenza fino ad un dio o ad uno dei cento patres fondatori della città. Il governo aristocratico non aveva fallito in quanto tale, il suo declino che cominciò all’inizio del primo secolo a.C. fu il risultato del fatto che il sistema di governo oligarchico romano era stato messo in piedi per governare una città e poteva funzionare correttamente tutt’ al più per il governo della penisola italiana. L’impero mediterraneo che la repubblica creò fu una delle cause principali del declino del suo sistema di governo. L’espansione dell’imperium romanum e i pericoli inerenti la combinazione di un’autorità nella sfera civile e militare nelle mani dei magistrati superiori dello Stato era destinata a trasformare profondamente la bilancia di potere trai vari gruppi politici che erano emersi dal Conflitto degli Ordini. Uno dei principali catalizzatori della già citata mutazione era evidentemente la posizione politica acquisita dai comizi tributi grazie alla Lex Hortensia, che faceva di quest’assemblea una seconda assemblea sovrana nello Stato, accanto ai comizi centuriati. Gli elementi più agiati e principalmente impegnati nel commercio- e per tale ragione dotati di un maggiore spirito di impresa commerciale rispetto alla casta patrizia principalmente impegnata nelle attività agropastorali- potevano ora realmente influenzare la politica esterna e dirigerla verso un’espensione oltremare. Tale cambiamento di attitudine della Repubblica avrebbe avuto delle conseguenze monumentali non soltatno per il suo sviluppo immediato, ma anche per il successivo sviluppo della storia mondiale nella sua globalità.

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Il segreto del funzionamento di un’oligarchia come quella che guidava lo Stato Romano, risiedeva da una parte in quello che potremmo chiamare oggi lo “spirito di corpo· tra le dozzine di famiglie che costituivano la nobilitas. D’altra parte, tale sistema funzionava fino a quando nessun membro del gruppo oligarchico era spinto a possedere più potere rispetto ai suoi pari. Gli esempi di questo principio sono innumerevoli e ci si limiterà a ricordare l’annualità delle cariche, la collegialità, le severe regole di eleggibilità e la legge dell’anno 341 che imponeva, salvo circostanze eccezionali, un intervallo di dieci anni prima che una persona potesse essere rieletta per un ufficio curule che aveva in precedenza occupato. Infine, il principio alla base del governo oligarchico romano era quello della lealtà verso lo Stato, o diciamo piuttosto verso la volontà dell’oligarchia collegiale dei patres conscripti del Senato Romano. I tribuni della plebe e i magistrati alla guida delle legioni potevano tradire la loro classe e utilizzare la loro fortuna per influenzare il populus, le truppe o i due assieme, per divenir capi di Stato respingendo politicamente il Senato. Tale rischio poteva divenire reale solo se un oligarca decideva di tentare la sorte con un colpo di Stato. Lo scenario appena descritto sorgerà nelle tre forme già citate, l’una dopo l’altra nel corso dell’ultimo secolo che precede lo stabilimento del principato nel 27 a.C. Il declino dell’oligarchia romana e la sua sostituzione con un despotismo militare è evidentemente da reperirsi nella degenerazione morale della società romana. Questa derivava da un comunità agricola dal temperamento rigidamente conservatore e dotata di un codice di regole rigide nel suo funzionamento politico. Nell’epoca in cui regnava una dominazione patrizia ingiustificabile e una lotta incessante per l’uguaglianza tra le due classi, la lotta avveniva il più delle volte nelle assemblee, nel foro e si svolgeva il più delle volte in via pacifica. Molto diverse saranno le lotte sociali del secondo e terzo secolo a.C. nelle quali i fratelli Gracchus finirono entrambi assassinati e sotto Mario e Silla, i populares e gli optimates regolarono la situazione (con la proscrizione ed il massacro di quelli che appartenevano alla fazione opposta.

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