Democrazia e governo dei tecnici.

May 28, 2017 | Autor: Matteo Gerli | Categoria: Political Science, European Union, History of Political Thought, Democracy, Technocracy
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE DELLA POLITICA E DEL GOVERNO

TESI DI LAUREA

DEMOCRAZIA E GOVERNO DEI TECNICI

Candidato

Relatore

Dott. Matteo Gerli

Prof. Roberto Segatori

Anno Accademico 2011-2012

«È caratteristica del potere una ineguale ripartizione del vedere a fondo. Il detentore del potere conosce le intenzioni altrui, ma non lascia conoscere le proprie» Elias Canetti !

«Ciò che noi oggi chiamiamo democrazia, in contrapposto ai governi autoritari, alle dittature, agli stati totalitari, non è una meta, è una via, una via di cui siamo forse soltanto all’inizio, nonostante sia stata tentata per la prima volta molti secoli fa, tentata e mille volte interrotta» Norberto Bobbio !

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Indice

Introduzione

IV

- Parte prima: Le basi concettuali 1.

Capitolo I: Democrazia tra ideali e realtà

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1.1 Democrazia: inquadramento del problema

2

1.2 Democrazia: le teorie classiche

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1.3 Democrazia: la teoria dell’elitismo competitivo

22

1.4 Democrazia: la teoria del pluralismo competitivo

32

1.5 Democrazia: gli universali procedurali

37

2.

Capitolo II: La tecnocrazia nel pensiero dei classici della sociologia 41

2.1 Tecnocrazia: inquadramento del problema

42

2.2 Tecnocrazia: i precursori

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2.3 Tecnocrazia: la teoria della rivoluzione manageriale

59

2.4 Tecnocrazia: identificazione e campo di intervento dei tecnocrati

70

2.5 Tecnocrazia: il controllo dell’opinione pubblica

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- Parte seconda: Le dinamiche reali del potere 3.

Capitolo III: Democrazia e tecnocrazia nello spazio globale

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3.1 Stato, democrazia e globalizzazione

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3.2 La big corporation, ovvero il paradosso del conflitto Stato-mercato

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3.3 L’Unione Europea tra multilateralismo e federalismo

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3.4 Nazionalismo metodologico vs cosmopolitismo metodologico

113

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II!

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4.

Capitolo IV: Dallo scenario globale al governo tecnico italiano

115

4.1 Prologo: perché l’Italia?

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4.2 Le radici politico-istituzionali del governo tecnico italiano

116

4.3 Il governo Monti-Napolitano

127

Tabelle riepilogative

137

Considerazioni conclusive

140

Riferimenti bibliografici

154

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III!

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Introduzione In questo lavoro di ricerca ci proponiamo di analizzare il rapporto che intercorre tra la democrazia ideale e la sua concreta attuazione, ossia tra l’idea, ormai bimillenaria, secondo cui un gruppo di individui possieda in sé la forza e le capacità per autogovernarsi e le possibilità effettive per poterlo fare. Rispetto ai dati dell’ultimo rapporto (2011) della Freedom House sulle libertà nel mondo che segnala l’esistenza di 115 electoral democracies su 194 Stati esistenti, di cui 25 full democracies, 53 flawed democracies e 37 hybrid regimes, il nostro scopo principale è verificare se, a fronte della continua espansione formale dei sistemi socio-politici democratici, corrisponda un’effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni a rilevanza collettiva, ovvero se, come noi immaginiamo, la sovranità popolare si sia trasformata in una sorta di “simulacro” che nasconde l’esistenza di “decisori” sottratti a qualsiasi controllo di tipo democratico. In altre parole, la tesi che intendiamo qui avanzare è quella secondo cui l’uguaglianza politica – principio cardine di ogni discorso sulla democrazia – trova, per così dire, un impedimento oggettivo nel fatto che sempre più problemi politici richiedono competenze estranee all’uomo comune. Ciò, a nostro avviso, consentirebbe al concetto di “tecnocrazia” – o “governo tecnico” – di spiegare quantomeno una parte degli aspetti che sottostanno al funzionamento non solo degli apparati governativi stricto sensu, ma dell’intera società industrializzata. Coerentemente con questi presupposti, abbiamo pensato di articolare il lavoro in due sezioni: la prima, prettamente teorica, dedicata alla ricostruzione e al confronto del significato dei concetti di “democrazia” e di “tecnocrazia”; la seconda, di natura descrittiva, volta appunto all’illustrazione delle condizioni socio-politiche e del loro dispiegarsi nelle moderne democrazie occidentali, con particolare attenzione al periodo che segue la seconda guerra mondiale. In pratica, le due sezioni sono complementari rispetto al tema principale della ricerca: una rappresenta la “griglia di lettura”, mentre l’altra il “materiale empirico” da analizzare. Del resto, scriveva Mill nel lontano 1843, il linguaggio ! !

IV!

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è «il depositario di un corpo di esperienze accumulate al quale tutte le età hanno dato il loro contributo» (Mill, 1843, trad. it., p. 448). A maggior ragione, allora, le parole e i concetti politici devono trovare un riscontro costante nella realtà effettuale, se non si vuole cadere nella pura e semplice metafisica. La ricerca comincia dunque con un capitolo di approfondimento in cui si ricostruisce il campo semantico della nozione di “democrazia” alla luce delle principali scuole democratiche. Per la precisione, dopo un breve preambolo sul rapporto-conflitto tra teorie prescrittive e teorie descrittive, l’indagine prende avvio con la spiegazione del rapporto di lontananza-vicinanza che intercorre tra la democrazia degli antichi e la democrazia dei moderni (o rappresentativa). In seguito, seguendo un ordine di tipo cronologico, l’analisi procede illustrando le due principali teorie democratiche novecentesche, ossia la teoria dell’elitismo competitivo e quella del pluralismo competitivo. Al fine di cogliere tutte le diverse sfumature della “democrazia”, in questa sezione vengono evidenziati, con un approccio analitico, tipico della scienza politica moderna, tanto i pregi quanto le contraddizioni dei regimi democratici liberali. Questo per riconfermare la natura intrinsecamente instabile di un concetto carico di tensione ideale quale è la democrazia. Il primo capitolo, poi, si conclude con la presentazione di una concezione minimalista – ma estremamente importante in chiave euristica – del concetto di “democrazia”. Il secondo capitolo prende subito avvio all’insegna dell’incompatibilità tra orientamento democratico e orientamento tecnocratico. Già a questo livello “embrionale” emerge chiaramente quello che costituisce il leitmotiv dell’intero nostro lavoro: la complessità sociale cresce in funzione del rilievo del momento economico, per cui più si espande la sfera economia più diventa determinante il ruolo dei soggetti competenti. Industrializzazione e tecnocrazia, quindi, sono due facce della stessa medaglia. Il legame economia-tecnocrazia viene poi sviscerato nei tre paragrafi successivi. Nello specifico, in questa parte si analizzano i contributi di alcuni – per la verità pochi – autori moderni e contemporanei che hanno affrontato la questione demo-tecnocratica in maniera sistematica. A tale proposito, è bene ! !

V!

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precisare fin da subito che la parola “tecnocrazia”, diversamente dalle principali categorie del patrimonio socio-politico contemporaneo, ha fatto la sua comparsa solamente negli anni ‘30 del Novecento per opera dell’ingegnere statunitense Howard Scott (Fisichella, 1997). Questo, in sintesi, per dire che non sono molte le pubblicazioni scientifiche dedicate specificamente al nostro tema. La prima sezione si conclude con un paragrafo che riporta il conflitto tra democrazia e tecnocrazia su un piano prettamente esplicativo. A tale scopo, si illustrano quattro modelli idealtipici che descrivono, in maniera semplificata, le possibili modalità di interazione tra politici, tecnici e cittadini (questi ultimi nella veste di opinione pubblica). La sezione descrittiva, invece, si sviluppa su tre livelli di analisi distinti – mondo, continente, nazione – ognuno dei quali rappresenta una “arena” in cui si confrontano/scontrano gli attori politici e sociali. In verità, come si evidenzia a chiare lettere nel primo paragrafo del terzo capitolo, con l’avvento dell’evo globale, queste distinzioni tendono a farsi molto più sfumate che in precedenza. Tuttavia, per una questione sia teorica che pratica, abbiamo scelto di mantenerli separati: in breve, l’approccio cosmopolitico può anche essere più “autentico”, nella misura in cui riesce a cogliere la reale preponderanza del livello globale sugli altri due livelli di analisi, ma, nello stesso tempo, esso non consente una lettura particolareggiata delle reali dinamiche del potere. Le pagine successive, pertanto, gravitano intorno allo “snodo”, teorico e pratico, globale-nazionale. Per la precisione, è proprio in questo “limbo” che si manifesta quello che potremmo considerare come il secondo motivo dominante della nostra ricerca: l’esistenza di imprese transnazionali che, grazie alla loro posizione di forza nel mercato globalizzato e all’ausilio di potenti ed efficaci tecnostrutture, limitano in maniera determinante l’autonomia delle comunità politiche democratiche organizzate territorialmente. Si discute, in proposito, di regime shopping (Crouch, 2011), ovvero di logica della concorrenza di posizione (Habermas, 1998) – a seconda che ci si ponga nell’ottica dell’impresa, ovvero nell’ottica delle comunità nazionali – per indicare un fenomeno che tende a far

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VI!

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regredire gli Stati-nazione al ruolo di meri “organizzatori territoriali” in vista degli investimenti delle società multinazionali (Hardt e Negri, 2000). Su questo sfondo, si inserisce il discorso sull’Unione Europea, intesa, da una parte, come possibile risposta al problema della competizione globale, e, dall’altra, come “palcoscenico” in cui prende forma e sostanza una “struttura” tecnico-burocratica che trova la sua massima espressione nella Commissione. In particolare, attraverso un approccio di tipo genealogico, si mette in evidenza come la “scelta” dell’opzione funzionalista – ossia dell’integrazione settoriale attraverso la progressiva condivisione di aree di interesse economico – abbia, di fatto, generato un assetto politico-istituzionale fortemente sbilanciato sul lato della tecnica e carente dal punto di vista dei controlli democratici. Il quarto ed ultimo capitolo della ricerca affronta il dilemma democraziatecnocrazia all’interno del quadro socio-politico italiano. La scelta dell’Italia, lungi dal rispecchiare sentimenti campanilistici, è stata dettata semplicemente da fattori pragmatici. In breve, negli ultimi vent’anni di storia, lo Stato italiano ha dato alla luce tre esecutivi composti da “figure tecniche”, cioè da soggetti che sono stati selezionati non tanto per i loro legami partitici, né per le loro doti politiche, quanto per la loro (presunta) “competenza” e “indipendenza”. Nelle pagine finali, pertanto, si ripercorrono le fasi cruciali della recente storia politica italiana, allo scopo di fornire una spiegazione plausibile a degli episodi che si presentano come “inediti” rispetto alla prassi politico-costituzionale democratica. Tradizione che, nelle Repubbliche parlamentari – imperniate sulla condivisione del potere tra esecutivo e legislativo (Sartori, 1994) – porta (quasi) sempre alla nascita di compagini governative composte da elementi appartenenti alla maggioranza parlamentare che quel governo dovrà poi sostenere. Il percorso termina con un capitolo di conclusione in cui si rileggono gli argomenti trattati nella sezione descrittiva alla luce delle categorie concettuali introdotte nella precedente sezione teorica.

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VII!

CAPITOLO PRIMO LA DEMOCRAZIA TRA IDEALI E REALTÀ

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1.1

Democrazia: inquadramento del problema La nozione di “democrazia”, al pari di numerose altre categorie del

patrimonio concettuale delle scienze sociali, ha subito nel corso della sua storia bimillenaria numerosi mutamenti di significato, tanto da rendere estremamente complessa l’individuazione di una sua definizione che sia sufficientemente esaustiva e universalmente accettata. Nella sua accezione etimologica, la parola “democrazia” indica un sistema politico nel quale il potere di governo (kratos) è detenuto ed esercitato dal popolo (demos). In questo senso, i regimi democratici si distinguono da quelli in cui il governo è invece nelle mani di una piccola minoranza di eletti (aristocrazia) o di un singolo individuo (monarchia). Ma il suo significato letterale, come ci suggerisce il politologo Giovanni Sartori, «non ci aiuta affatto a capire quale realtà vi corrisponda e come sono costruite e funzionano le democrazie possibili. Non ci aiuta perché tra la parola e il suo referente, tra il nome e la cosa, il passo è lunghissimo» (Sartori, 1993, p. 11). In effetti, il concetto di “governo del popolo” è tutt’altro che scontato. È sufficiente dare un rapido sguardo alla storia del pensiero politico per rendersi immediatamente conto dei numerosi “trabocchetti” da cui ci si deve guardare svolgendo il discorso sulla democrazia. Gli stessi elementi della definizione etimologica sollevano molteplici aspetti controversi: chi è il demos? È una totalità organica o un insieme di singoli individui? Chi ne fa parte? Quale tipo di partecipazione politica è prevista per esso? Qual è il modus operandi del governo? Fin dove arriva la sua sfera d’azione? È giusto che il governo faccia ricorso alla coercizione contro le minoranze? In quali circostanze il demos ha diritto alla ribellione? L’obiettivo di questo primo capitolo – è bene precisarlo – non è quello di fornire risposte definitive a questi e altri interrogativi che ruotano attorno al concetto di democrazia. Cionondimeno, crediamo che ripercorrendo il pensiero di alcune delle principali “scuole democratiche” sia possibile ricavarne una sorta di “griglia di lettura” attraverso cui osservare, descrivere, classificare e comparare lo scenario politico attuale. Uno scenario, peraltro, molto complesso da cui emergono prepotentemente due tendenze contrastanti: da un lato la ! 2! !

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democrazia, nel suo connubio con il liberalismo, trionfa su scala globale e si presenta come «la più felice soluzione al problema dei rapporti tra classi dirigenti e popolo, tra individui e collettività»; dall’altro lato, «proprio mentre conosce i suoi maggiori trionfi», molti dei suoi presupposti fondamentali appaiono profondamente segnati da processi di natura politica, economica e sociale (Salvadori, 2009, pp. 3-7). Il politologo Carlo Galli, in un recente saggio dal titolo Il disagio della democrazia, ha evidenziato questo fenomeno con accenti alquanto pessimistici: «È certo invocata là dove manca, e coraggiosamente perseguita come aspirazione essenziale dei popoli, ma là dove si è da tempo affermata i suoi istituti sempre meno sono animati da soffio di vita, sempre meno intercettano la politica reale, che si manifesta – nei suoi flussi di potere – per vie, e con modalità, che poco hanno di democratico e molto del “dominio” oligarchico. In diversi contesti e con diverse intensità di manifestazioni, la democrazia è ingrigita; la sua sopravvivenza è larvale, anche se non ancora estinta» (Galli, 2011, p. 5). Ripercorrere le idee dei principali pensatori democratici è dunque l’occasione non solo per ricostruire il termine-concetto “democrazia”, ma anche per capire se ai nostri giorni sia ancora possibile continuare ad argomentare in favore delle forme politiche democratiche. Al fine di impostare efficacemente la nostra analisi, crediamo che sia opportuno focalizzare fin da subito la nostra attenzione su due snodi teorici fondamentali che caratterizzano il discorso democratico: 1) la distinzione tra le teorie democratiche progressive e quelle difensive (Held, 2006); 2) il rapporto-conflitto tra le teorie democratiche prescrittive e quelle descrittive (Sartori, 1993). In breve, i teorici del difensivismo rappresentano la democrazia come uno strumento utile al processo decisionale, vale a dire un insieme di procedure per garantire la coerenza delle decisioni pubbliche con gli interessi complessivi dei cittadini; al contrario, i teorici del progresso pongono l’accento sul valore intrinseco della democrazia intesa come «forma di vita in cui i cittadini sono impegnati nell’autogoverno e nell’autoregolamentazione» (Held, 2006, p. 18). Di conseguenza, le teorie progressive tendono a esaltare la partecipazione ! 3! !

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politica come mezzo per l’autorealizzazione e per lo sviluppo morale degli individui. Quanto al secondo snodo teorico, le teorie prescrittive rispondono alla domanda “come dovrebbe essere la democrazia?”, mentre le teorie empiriche cercano di descrivere “come funziona la democrazia?”. Per essere più precisi, sotto la prima veste – ovvero come espressione di una teoria normativa dei regimi politici – la democrazia si presenta come stato di cose desiderabili, cioè come «parametro atteso a commisurare e a sospingere il reale verso il meglio» (Sartori, 1993, p. 54). Sull’altro fronte – cioè come espressione di una teoria empirica dei regimi politici – la democrazia corrisponde a un accertamento descrittivo di un determinato assetto politico-sociale (generalmente, ma non in tutti i casi, le teorie progressive sono anche prescrittive, laddove le teorie difensive sono descrittive). Tutto questo, in conclusione, per dire che lo studio del “fenomeno democratico” implica necessariamente un equilibrio instabile tra enunciati normativi ed enunciati descrittivo-esplicativi, vale a dire tra gli ideali e la prassi prodotta dai regimi democratici.

1.2 Democrazia: le teorie classiche Nel corso degli ultimi due secoli di storia la parola “democrazia” si è progressivamente impadronita del linguaggio degli uomini politici, a tal punto da essersi trasformata in una sorta di «concetto idolatrico onnicomprensivo (allumfassender Idolbegriff), sintesi di tutte le cose buone e belle che riguardano la vita dello Stato, della società e perfino della famiglia» (Zagrebelsky, 2007, p. 3). Un autorevole commentatore come il filosofo austriaco Hans Kelsen ha espresso giudizi piuttosto negativi su questo fenomeno: «Democrazia è la parola d’ordine che, nei secoli XIX e XX, domina quasi universalmente gli spiriti; ma, proprio per questo, essa perde, come ogni parola d’ordine, il senso che le sarebbe proprio. Per seguire la moda politica, si pensa di dover usare la nozione di democrazia – di cui si è abusato più di ogni altra nozione politica – per tutti gli scopi possibili e in tutte le possibili occasioni, tanto che essa assume ! 4! !

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i significati più diversi, spesso tra di loro assai contrastanti, quando la solita improprietà del linguaggio volgare politico non la degrada addirittura ad una frase convenzionale che non esige più un senso determinato» (Kelsen, 1929, trad. it., p. 43). La grande novità, oltre che nella straordinaria diffusione del termine, consiste nella connotazione fortemente positiva che la democrazia ha assunto in modo inequivocabile, soprattutto in seguito alla sconfitta dei regimi totalitari nella seconda guerra mondiale. «Mai prima d’oggi – osserva perspicacemente Massimo Salvadori – era avvenuto infatti […] che tanti Stati del mondo fossero retti da regimi i quali si definiscono democratici e che i valori democratici fossero in essi così poco contestati: non sembra un’esagerazione dire che stiamo vivendo in una sorta di vero e proprio conformismo democratico» (Salvadori, 2009, p. 4). In passato, però, la parola democrazia non è sempre stata avvolta in questo alone di sacralità. Al contrario, la sua base popolare – cui di solito sono stati attribuiti i vizi della licenziosità, dell’incontinenza, della prepotenza, dell’ignoranza, dell’incompetenza e dell’intolleranza – le ha valso a lungo il titolo di pessima forma di governo. La storia del pensiero politico è ricca di esempi di questo tipo. Nell’Anonimo ateniese, una delle più antiche testimonianze di prosa attica, scritta intorno alla metà del V secolo avanti Cristo dallo pseudoSenofonte, la democrazia è stata dipinta come «il potere dei malvagi, dei mal nati (kakoi), cioè l’opposto dei ben nati, dei nobili, degli aristocratici; e anche potere della incompetenza, perché in democrazia al governo stanno coloro che lavorano, che hanno un orizzonte solo privato, solo centrato sulla necessità; e che quindi non possono avere conoscenza della sfera pubblica, della libertà individuale e collettiva» (Galli, 2011, p. 9). Il filosofo Platone (427-347 a.C.), dal suo canto, non ha manifestato grandi parole di apprezzamento verso i sistemi politici democratici. Deluso per la disfatta di Atene nella guerra contro Sparta e per la degenerazione dei costumi e delle leggi che ne seguì, egli si era convinto che la libertà e l’uguaglianza fossero le principali cause di instabilità politica, corruzione morale e di disordine ! 5! !

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sociale (cfr. Held, 2006). Nella sua opera politica maggiore, la Repubblica, dopo aver affrontato il problema della decadenza della polis in termini squisitamente psicologici, vale a dire come corruzione dell’anima dei cittadini dovuta «alla discordia o, meglio, all’insaziabilità con cui perseguono il loro particolare bene» (Matteucci, 2004, p. 16), Platone si è fatto promotore di un modello sociale ideale fondato su una categoria superiore di individui, i filosofi, cioè su coloro che, avendo ricevuto un’adeguata preparazione, sono in grado di governare con “morigerata saggezza”. E Aristotele (383-322 a.C.) non è stato da meno. Muovendosi sul solco dei suoi predecessori, lo stagirita ha definito la democrazia come il governo della massa sfrenata, un governo che si colloca pericolosamente vicino alla demagogia. Coerentemente con questi presupposti, egli ha incoraggiato la creazione di una versione moderata di governo popolare cui ha attribuito il nome di politeia: «chi è eccessivamente bello o forte o nobile o ricco, o, al contrario, eccessivamente misero o debole o troppo ignobile, è difficile che dia retta alla ragione […] dove c’è chi possiede troppo e chi niente, si crea una democrazia sfrenata o un’oligarchia autentica, o, come risultato di entrambi gli eccessi, una tirannide […] dove il ceto medio è numeroso non si producono affatto fazioni e dissidi tra i cittadini» (cfr. Ivi, pp. 103-104). Malgrado questa tradizione avversa alla democrazia, il pensiero politico antico è stato una fonte di ispirazione fondamentale per tutti i pensatori democratici moderni. Ancora oggi chiunque voglia avere un’idea di quale sia la natura del governo democratico – nella sua versione positiva – può sicuramente attingere dalla famosa orazione funebre di Pericle (495-429 a.C.), illustre cittadino, nonché grande statista, vissuto ad Atene nel periodo di massimo splendore. Si leggano in proposito questi passi dell’orazione periclea descritti dallo storico greco Tucidide (460-397 a.C.) ne La guerra nel Peloponneso: «Il nostro ordine politico non si modella sulle costituzioni straniere. Siamo noi l’esempio ad altri, piuttosto che imitatori. E il nome che gli conviene è democrazia, governo nel pugno non di pochi, ma della cerchia più ampia dei cittadini: vige anzi per tutti, da una parte, di fronte alle leggi, l’assoluta equità di ! 6! !

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diritti nelle vicende dell’esistenza privata; ma dall’altra si costituisce una scala di valori fondata sulla stima che ciascuno sa suscitarsi intorno, per cui, eccellendo in un determinato campo, può conseguire un incarico pubblico, in virtù delle sue capacità reali, più che dell’appartenenza a questa o quella fazione politica»1. L’orazione periclea aveva evidentemente la funzione di promuovere tra i cittadini l’orgoglio e il senso di appartenenza alla città di Atene. Allo stesso tempo, però, se la si estrapola dal contesto in cui fu pronunciata, essa rappresenta un vero e proprio “manifesto politico democratico”, una sintesi dei valori e dei principi cui dovrebbe uniformarsi ogni regime che ama definirsi democratico. A tal proposito, il commento del politologo Carlo Galli è quanto mai eloquente: «Pericle definisce la democrazia come l’autogoverno della maggioranza (kratos quindi non è potere arbitrario ma governo legittimo), temperato e omogeneo: un regime che ama la medietà, e tuttavia non è alieno dal riconoscere il merito e la grandezza […] È inoltre un regime in cui vige la tolleranza degli stili di vita e delle iniziative individuali […] in cui ciascuno fiorisce secondo i propri talenti, ed è al contempo capace di pensare all’insieme della polis; anzi, è dovere di ciascuno partecipare alla vita pubblica, per non essere giudicato inutile». Poi continua: «la democrazia è la forma di governo che si fonda sull’uguaglianza di fronte alla legge, sull’isonomia, anche se la parola non è utilizzata […] Per finire, in democrazia la decisione politica avviene in seguito a deliberazione, e questa segue la libera discussione, cioè (benché anche qui non compaia il termine) implica la parrhesia, la libertà di parola. Democrazia è quella forma di governo in cui il libero logos non è considerato dannoso per l’azione» (Galli, 2011, pp. 11-13). Le parole di Pericle non sono quindi un mero elogio alla città di Atene, una forma di retorica patriottistica per fortificare lo spirito cittadino di fronte alle difficoltà prodotte dalla guerra contro il nemico spartano. Al contrario, esse esprimono il significato profondo di una civiltà che si è proposta come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 1

!Il discorso di Pericle prosegue nel modo seguente: «Di contro, se si considera il caso di un cittadino povero, ma capace di operare un ufficio utile allo Stato, non gli sarà di impedimento la modestia della sua condizione […] La tollerante urbanità che ispira i contatti tra persona e persona diviene, nella sfera della vita pubblica, condotta di rigorosa aderenza alle norme civili, dettata da un profondo, devoto rispetto […] In ogni cittadino non si distingue la cura degli affari

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modello virtuoso per tutta la storia dell’umanità. Carlo Galli, cui ci siamo richiamati in precedenza, ha opportunamente evidenziato come nel testo di Tucidide «è racchiusa un’immagine incancellabile di umanità e di politica di enorme fascino simbolico: un’immagine anch’essa mitica, che lavora nel profondo di tutto l’arco storico del pensiero politico, e che è il senso nascosto – che è bene rendere palese – il fine necessario e al contempo impossibile, della politica democratica» (Ivi, p. 14). Crediamo, pertanto, di non commettere un errore affermando che già nella Grecia del V secolo avanti Cristo esisteva tutta una serie di valori e di principi che ancora oggi riteniamo essere di primaria importanza per la vita di una comunità democratica. Cerchiamo adesso di vedere più da vicino le caratteristiche della comunità periclea. Innanzitutto, la democrazia ateniese è una forma di governo imperniata sull’uguaglianza politica, vale a dire sul riconoscimento generalizzato della diritto di contribuire alla creazione e al mantenimento di una vita comune, a prescindere dalle condizioni personali e sociali. Alcuni autorevoli pensatori, a cominciare dal filosofo Platone, hanno espresso pesanti riserve circa la ragionevolezza di questo principio democratico elementare. In particolare, l’obiezione di fondo che è stata e continua ad essere rivolta all’uguaglianza politica riguarda l’impossibilità di avere una competenza diffusa in materia di affari pubblici, motivo per cui l’attività di governo dovrebbe essere affidata ad una minoranza di individui con qualità e conoscenze superiori alla media. Un noto studioso di regimi democratici, lo statunitense Robert Dahl, ha descritto il problema in questi termini: «La tesi che il governo dovrebbe essere affidato a persone esperte dedite a governare per il bene comune e superiori agli altri nella conoscenza dei mezzi per raggiungerlo – i Custodi, come li chiamava Platone – è sempre stata la principale avversaria delle idee democratiche. I sostenitori di questa tesi attaccano la democrazia in un punto apparentemente vulnerabile: negano che le persone comuni siano competenti a governare da sé. Non necessariamente negano che gli esseri umani siano intrinsecamente uguali» (Dahl, 1998, trad. it., p. 75). Torneremo ancora su questo aspetto affrontando il fenomeno della tecnocrazia. Per adesso ci basti sapere che ! 8! !

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l’uguaglianza politica non solo è coerente con i principali sistemi etici esistenti (ebraismo, cristianesimo, islamismo, per fare alcuni esempi), ma è anche un principio ragionevole nella misura in cui garantisce un maggiore consenso sulle principali questioni pubbliche. In secondo luogo, la democrazia periclea si regge sull’uguaglianza di fronte alla legge, cioè sull’assenza di privilegi fondati su distinzioni di qualsiasi natura. «Senza leggi uguali – osserva il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky – la società si divide in caste, tra chi è sotto la legge che vale per le persone comuni e chi ne è sopra e vive così felice della legge fatta per le persone speciali […] Ciò avvelena i rapporti, generando disprezzo sociale da parte dei primi nei confronti dei secondi […] Il travolgimento dell’Antico Regime a opera della rivoluzione francese è spiegato attendibilmente, sul piano della psicologia sociale, tra l’altro, anche con il livello di intolleranza raggiunto dalla tensione disprezzo-invidia, generatrice di un genere di conflitto cui non si può ovviare con mediazioni e accordi» (Zagrebelsky, 2007, pp. 24-25). Dal nesso tra legge e uguaglianza discende poi il principio, anch’esso noto agli antichi, della superiorità del governo delle leggi rispetto al governo degli uomini. Tale superiorità, in sintesi, consiste nel fatto che la legge riesce ad assicurare, attraverso le caratteristiche della generalità e dell’astrattezza, l’uguaglianza di trattamento tra casi analoghi, laddove il governo degli uomini tende ad essere incline al giudizio arbitrario. Come disse il poeta greco Euripide (485-407 a.C.): «Nulla v’è in una città più nemico che un tiranno, quando non vi sono anzitutto leggi generali, e un uomo solo ha il potere, facendo la legge egli stesso a sé stesso; e non v’è affatto eguaglianza. Quando invece vi sono leggi scritte, il povero e il ricco hanno eguali diritti, è possibile ai più deboli replicare al potente, quando questi li insulta, e il piccolo, se ha ragione, può vincere il grande» (cfr. Bobbio, 1985, p. 263). In terzo luogo, la democrazia si basa sulla libertà di parola, vale a dire sulla facoltà di esprimere le proprie opinioni non solo nella sfera privata, ma anche nelle pubbliche riunioni. «La democrazia – commenta ancora Zagrebelsky – è discussione, ragionare insieme. È, per ricorrere a un’espressione socratica, ! 9! !

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filologia non misologia» (Zagrebelsky, 2007, p. 21). Inoltre, la democrazia implica la trasparenza della politica, l’equilibrio tra libertà politica e libertà privata, la tolleranza e la comprensione nei confronti delle diversità e la virtù civica, tutte caratteristiche sulle quali avremo modo di soffermarci proseguendo la nostra ricognizione delle principali scuole democratiche. Molti autorevoli studiosi si sono domandati se sia giustificabile questa esaltazione dell’orazione periclea. Alcuni hanno etichettato Pericle come un astuto demagogo, capace di ipnotizzare la folla grazie al suo talento oratorio e al prestigio della sua personalità. Altri, invece, hanno cercato di mettere in luce il divario esistente tra la base formale contenuta nel discorso pericleo e la vita politica reale. Il regime politico ateniese aveva, infatti, molti elementi in contrasto con il glorioso affresco democratico tramandatoci dallo storico Tucidide. Innanzitutto, «la cultura politica ateniese era una cultura di maschi adulti». Questo aspetto, tradotto in termini pratici, significa che le donne non potevano prendere parte all’attività di governo. «Soltanto gli uomini sopra i venti anni erano eleggibili a cittadini attivi. La democrazia antica era una democrazia di patriarchi: le donne non avevano diritti politici e i loro diritti civili erano molto limitati» (Held, 2006, trad. it., p. 42). Si osservi poi che lo status di cittadino era precluso a un numero consistente di residenti che includeva gli immigrati e gli schiavi addetti ai lavori manuali (si stima che nell’Atene di Pericle il rapporto tra schiavi e cittadini liberi fosse di tre a due). Inoltre, l’uguaglianza politica tra i cittadini non si traduceva immediatamente nella possibilità di avere la stessa influenza politica nelle decisioni collettive. La democrazia ateniese, com’è noto, era una democrazia diretta – una forma di governo priva di organi rappresentativi e burocratici – ma non per questo tutti i membri del demos avevano le stesse chance di prendere parte alla formulazione del contenuto dei provvedimenti pubblici (ibidem). Quanto alla libertà, poi, tra gli studiosi è diffusa l’opinione che l’impegno politico assorbisse quasi completamente il tempo dei cittadini a tal punto da creare un vero e proprio squilibrio tra le varie funzioni del sistema sociale (Sartori, 1993). Come ha osservato lo storico francese Fustel de Coulanges, il cittadino antico «si dava ! 10! !

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per intero allo Stato; gli dava il sangue nella guerra; il tempo nella pace; non aveva libertà di lasciar da parte gli affari pubblici per occuparsi dei propri […] doveva piuttosto tralasciare questi per lavorare a profitto della città» (Fustel de Coulanges, 1864, trad. it., vol. II, p. 152). Malgrado questa dubbia corrispondenza con la realtà effettuale, l’orazione periclea continua ad essere un testo edificante, un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro che si riconoscono nelle idee e nei valori democratici. Con il declino della cosiddetta “civiltà delle polis”, l’idea che un gruppo di uomini possa governarsi autonomamente, cioè senza consegnarsi nelle mani di una élite che asserisca di essere migliore per natura o di essere in possesso di un sapere inaccessibile alla maggioranza, scompare per lungo tempo dalla teoria e dalla prassi politica. In realtà, alcune caratteristiche della civiltà ellenica furono recepite dalla nascente “civiltà romana repubblicana”. Come ha fatto notare lo storico britannico Moses Finley, tanto la polis quanto la res publica avevano elementi di partecipazione popolare all’attività di governo e uno scarso, per non dire assente, controllo burocratico centralizzato. Inoltre, entrambe cercarono di promuovere tra i cittadini il senso del dovere pubblico, cioè quella dedizione nei confronti degli interessi della comunità di cui l’Atene periclea aveva fatto il suo emblema distintivo (Finley, 1983). Nel complesso, però, gli storici contemporanei sono propensi a considerare la Roma repubblicana come un sistema di governo tendenzialmente oligarchico, per quanto mitigato dalla presenza di alcune istituzioni a carattere popolare. Sennonché, la successiva ascesa del cristianesimo pose definitivamente fine a ogni concezione politica fondata sull’autonomia degli individui. Come ha evidenziato il politologo David Held: «La visione del mondo cristiana trasformò il fondamento dell’azione politica: essa non si fondava più sulla polis ma su una struttura e uno schema di riferimento teologico. La concezione ellenica dell’uomo, che è tale perché è educato per vivere in una città, fu sostituita da una preoccupazione sul modo in cui gli esseri umani potevano vivere in comunione con Dio» (Held, 2006, trad. it., p. 60). All’homo politicus, cioè il soggetto aristotelico che vive nella polis e per la polis, subentra l’homo credens, un individuo che agisce in funzione del ! 11! !

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volere dell’autorità divina (Pocock, 1975). Non stupisce, infatti, che la principale preoccupazione dei filosofi politici medievali fosse quella di interpretare, e quindi articolare mediante sistemi di potere secolari, la volontà di Dio. L’interesse verso le forme politiche democratiche comincia la sua lenta ripresa a cavallo tra il XII e il XIII secolo. In questo periodo, alcune comunità dell’Italia centro-settentrionale si resero protagoniste di un’importante stagione di rinnovamento politico-istituzionale. In particolare, città come Firenze, Siena, Venezia, Padova e Milano si vennero organizzando in base a modelli di governo caratterizzati per la presenza di un organo consiliare che garantiva una vivace partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici. Alcuni studiosi hanno osservato come siffatti consigli cittadini non fossero poi così innovativi, soprattutto se confrontati con il grado e la natura della partecipazione politica della democrazia classica. Del resto, il loro ambito di applicazione era circoscritto a un territorio relativamente piccolo. Per di più, lo status di cittadino attivo continuava ad essere riservato ad una minoranza di individui, costituita dai maschi adulti con proprietà tassabile, nati o residenti in modo permanente nella città. Cionondimeno, come ha opportunamente fatto notare David Held, se rapportiamo le civitates italiane «all’ambiente storico e alla struttura dell’autorità dell’Europa feudale, con la complessa rete di rivendicazioni e poteri sovrapposti, la trasformazione è evidente» (Held, 2006, trad. it., p. 65). Inoltre, come ci suggerisce lo storico Quentin Skinner, esse «rappresentarono una sfida esplicita all’assunzione per la quale il governo dovesse essere una forma di signoria data da Dio» (Skinner, 1992, p. 57). Lo sviluppo della vita cittadina nell’Italia del XIII secolo ha contribuito, pertanto, alla riscoperta dell’ideale classico dell’autogoverno e, nel contempo, ha favorito l’introduzione di nuovi modelli istituzionali a carattere popolare. Curiosamente, però, la filosofia politica rinascimentale è stata tendenzialmente ostile al concetto greco di democrazia. La rilettura della Politica di Aristotele, infatti, suggeriva ai pensatori del tempo di guardare con una certa diffidenza le forme di governo che non garantissero la cura dell’interesse pubblico e che favorissero, in qualche modo, il disordine sociale. D’altra parte, nei testi latini, ! 12! !

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a cominciare da quelli di Cicerone (106-43 a.C.), prendeva forma l’idea di poter realizzare una comunità politica in grado di coniugare la libertas non solo con la virtus, ma anche con la gloria e il potere militare. L’ordinamento repubblicano, in altri termini, «offriva una concezione politica che connetteva la partecipazione politica con l’onore e la conquista, e che, di conseguenza, poteva sconfiggere l’argomentazione per cui soltanto un re, utilizzando il proprio potere personale sui suoi sudditi, poteva garantire legge, sicurezza e un effettivo potere» (Held, 2006, trad. it., p. 68). Conformemente a ciò, non sorprende che i filosofi rinascimentali abbiano preferito ispirarsi alle istituzioni e ai valori della repubblica romana. A tal proposito, la ricercatrice italiana Raffaella Sau ha rilevato come il concetto di res publica evocasse nella mente dei filosofi rinascimentali l’idea di una comunità «governata dalle leggi e organizzata intorno a due principi fondamentali: il perseguimento del bene comune in quanto scopo primario dello Stato; la libertà dei cittadini intesa come assenza di dipendenza da una volontà arbitraria» (Sau, 2004, p. 15-16). Il governo repubblicano ha ricevuto una prima importante rivisitazione nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli (14691527). L’autore fiorentino era un profondo conoscitore degli autori classici e come tale nutriva una certa sfiducia nei confronti delle “forme di governo pure”. Del resto, la lezione dello storico greco Polibio (200-128 a.C.) era stata chiara: la storia si muove seguendo un andamento ciclico, per cui ogni singola costituzione nasce, si sviluppa, degenera e poi muore, secondo un processo inevitabile (cfr. Matteucci, 2004). La repubblica romana, invece, era riuscita a sottrarsi a questo processo degenerativo grazie al suo “governo misto”, frutto della combinazione di elementi monarchici, aristocratici e democratici. Partendo da questi presupposti, il Segretario fiorentino giunse alla conclusione che l’ordinamento repubblicano, «strutturato per compensare i difetti delle singole forme costituzionali», fosse l’unico in grado di garantire la libertà e, contemporaneamente, di promuovere una cultura politica virtuosa. Da questa valutazione derivò poi il convincimento che il governo misto fosse il più adatto a ponderare gli interessi dei gruppi sociali contrapposti. «Se i ricchi e i ! 13! !

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poveri possono essere inseriti contemporaneamente nel processo di governo – ha commentato David Held – e i loro interessi trovano una strada legittima di espressione tramite una divisione delle cariche, allora essi saranno costretti a cercare una qualche forma di reciproco accomodamento» (Held, 2006, trad. it., p. 80). Evidentemente, Machiavelli credeva che la competizione tra ricchi e poveri non pregiudicasse la bontà della vita pubblica, ma ne fosse una condizione necessaria. In questo senso, il pensatore fiorentino può essere considerato come un sorprendente precursore del pensiero liberal-democratico: la base della libertà, sembra voler dire Machiavelli, non risiede soltanto nei tradizionali organi di partecipazione politica, ma anche, e soprattutto, nei meccanismi istituzionali che consentono ai cittadini di perseguire i loro interessi senza per questo compromettere la “gloria civica”. Il “machiavellismo repubblicano” ha avuto una notevole influenza nei pensatori politici inglesi, americani e francesi. La proposta politica dell’autore fiorentino, però, era destinata a soccombere insieme alle città-repubblica italiane. A questo proposito, Carlo Galli ha giustamente ricordato come la posizione politica machiavelliana era «esterna alle coppie concettuali che stanno al centro della politica moderna, individuo e Stato, diritti e sovranità, e si orienta, anziché sull’ordine, sul conflitto, sulla virtù piuttosto che sui diritti, sulla milizia anziché sulla burocrazia, sull’impegno diretto più che sull’obbedienza alla legge, sulla contestazione piuttosto che sulla costituzione» (Galli, 2011, p. 17). Peraltro, le trasformazioni economiche, politiche e sociali che intervennero a cavallo tra il XVI e il XVII secolo contribuirono ad uno straordinario rinnovamento del “quadro categoriale” di riferimento. Per essere più precisi, l’attenzione della filosofia politica si venne progressivamente spostando «dall’argomento del cittadino virtuoso e della vita civica come basi della comunità politica» al problema della definizione e della delimitazione della sfera politica rispetto alla sfera privata (Held, 2006, trad. it., p. 102). Detto diversamente, il concetto di autodeterminazione, pur rimanendo centrale nel pensiero politico moderno, subì una profonda ridefinizione rispetto alla tradizione politica rinascimentale. Le nuove circostanze storiche, infatti, orientarono l’interesse della filosofia ! 14! !

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verso una nuova idea di libertà intesa non tanto come partecipazione al processo decisionale, quanto come «sfera morale e giuridica liberante e promotrice di autonomia, di auto-realizzazione» (Sartori, 1993, p. 148). Fra i tanti eventi che contribuirono a questa “metamorfosi”, due furono particolarmente significativi: il sorgere dello Stato moderno (e del capitalismo) e la Riforma protestante. L’affermazione dello Stato moderno corrisponde, secondo il sociologo Segatori, «all’esito convergente di tre dinamiche» (Segatori, 2006, p. 72). La prima dinamica, di natura socio-economica, fa riferimento alla necessità di garantire alla borghesia emergente un territorio sufficientemente vasto e sicuro dove poter sviluppare i propri interessi economici. La seconda dinamica, di tipo ideologico-culturale, riguarda invece tutte quelle argomentazioni che furono introdotte prima e durante i conflitti di religione per «motivare razionalmente le ragioni della necessità dello Stato sovrano» (Ivi, p. 73). Infine, la terza dinamica, di natura squisitamente politica, concerne la volontà del principe di affermare la propria autorità su un’area territoriale unificata. Quest’ultimo passaggio è stato magistralmente descritto da Max Weber in termini di progressivo assorbimento delle unità politiche minori ad opera di una struttura politica maggiore. «Lo sviluppo dello stato moderno – scrive Weber – ha ovunque inizio nel momento in cui il principe mette in moto il processo di espropriazione di quei privati che accanto a lui esercitano un potere amministrativo indipendente: di coloro cioè che possiedono in proprio i mezzi dell’amministrazione, della guerra, delle finanze e dei beni di ogni genere che siano utilizzabili in senso politico. L’intero processo rappresenta un perfetto parallelo con lo sviluppo dell’impresa capitalistica attraverso la progressiva espropriazione dei produttori indipendenti. Alla fine vediamo che nello stato moderno il controllo di tutti i mezzi dell’impresa politica viene di fatto a concentrarsi in un unico vertice e che nessun funzionario singolo è più proprietario personale del denaro che spende o degli edifici, delle scorte, degli strumenti e delle attrezzature militari di cui dispone» (Weber, 1919, trad. it., p. 54). La nascita di queste nuove potenze – Stato e capitale – ha avuto delle conseguenze rilevanti sul percorso evolutivo del pensiero politico. Prima però ! 15! !

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di entrare nei particolari, è forse opportuno accennare brevemente al secondo degli eventi che abbiamo prima richiamato: la Riforma protestante. La stagione di conflitti di religione che sconvolse il Vecchio continente nella seconda metà del sedicesimo secolo, e che culminò nella Guerra dei Trent’anni, sollevò in tutta Europa profondi interrogativi circa l’obbedienza e gli obblighi politici. Con il passare del tempo, si rese manifesta la necessità di abbandonare i dogmi cristiani per costruire una nuova società fondata su solide basi razionali. Questa, in sintesi, era l’unica soluzione che «permetteva di affrontare in modo più avanzato i dilemmi di governo creati da religioni in conflitto, ognuna delle quali cercava di assicurarsi quel tipo di privilegi che la Chiesa medievale aveva preteso» (Held, 2006, trad. it., p. 106). La Riforma protestante, però, non ebbe solo il ruolo, peraltro fondamentale, di detonatore dei conflitti di religione e, quindi, di “promotore indiretto” del razionalismo politico. Essa favorì l’affermazione di una nuova concezione atomistica della società, il cui attore fondamentale non è più l’homo politicus di Aristotele, né l’homo credens di Sant’Agostino, ma l’individuo-persona, cioè quel soggetto che, per dirla con Giovanni Sartori, possiede un valore in sé indipendentemente dalla società, dallo Stato e dalla Chiesa (Sartori, 1993). Detto diversamente, le dottrine di Lutero e di Calvino contribuirono a liberare l’uomo dall’autorità ecclesiastica, restituendogli quell’indipendenza e quell’autonomia di giudizio che gli erano venute a mancare per lunghi secoli. Tutto ciò che non rientrava nell’ambito religioso poteva dunque seguire il proprio corso liberamente. È in questa cornice storico-culturale che fa la sua comparsa una nuova tradizione politica – il liberalismo – il cui ruolo si rivelerà di fondamentale importanza per la rinascita e l’affermazione della democrazia nei grandi Stati territoriali. Il progetto centrale del liberalismo, in breve, era quello di ricucire ciò che era stato “spezzato” con l’avvento della modernità: il rapporto tra l’individuo singolo e la collettività. Per essere più precisi, i pensatori liberali si posero il problema di coniugare la “sovranità degli individui” con il nuovo concetto di stato, inteso quest’ultimo come «ordine impersonale e sovrano, cioè

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struttura di potere legalmente circoscritta distinta da governanti e governati e con una giurisdizione suprema su di un territorio» (Held, 2006, trad. it., p. 106). La tradizione politica liberale – che, in senso proprio, è una condizione necessaria ma non sufficiente perché si parli di democrazia – è strettamente legata ai lavori dei filosofi Thomas Hobbes (1588-1679), John Locke (16321704) e Charles Louis de Secondat de Montesquieu (1689-1755). Hobbes è stato probabilmente il primo pensatore moderno ad avvertire la necessità di creare un ordine sociale e politico artificiale in cui gli individui siano liberi e uguali. Nella sua opera maggiore – il Leviathan (1651) – egli descrisse la condizione umana come una lotta continua per la sopravvivenza, uno stato di permanente conflitto che mette a rischio non solo gli interessi, ma la vita stessa degli individui. Malgrado questa antropologia fortemente negativa, l’intento del filosofo inglese era quello di dimostrare che la realizzazione delle mete individuali non dovrebbe condurre necessariamente ad uno stato di «lotta di ogni uomo contro ogni altro uomo» (Ivi, p. 111). In altre parole, Hobbes si pose il problema di creare razionalmente le condizioni sociali che permettessero agli individui di perseguire i loro interessi, e quindi di essere liberi, garantendo nel contempo la pace e la sicurezza. La soluzione, stando a quanto si legge nel Leviathan, risiede nella cessione «da parte degli individui del proprio diritto di autogoverno ad una singola autorità – da quel momento autorizzata ad agire nel loro interesse – a condizione che ognuno faccia altrettanto» (Ivi, p. 112). Una cessione che, a detta del filosofo inglese, dovrebbe avvenire mediante accordocontratto, in modo che gli individui non abbiano interesse a sottrarsi all’autorità politica, poiché «la carica di sovrano è il prodotto stesso del loro accordo, e la sovranità, più che la persona che occupa tale carica, una qualità dell’accordo raggiunto» (Ibidem). Il messaggio di Hobbes è dunque chiaro: il consenso è un elemento imprescindibile per la realizzazione di una società in cui la natura umana possa esprimersi compiutamente e soprattutto ordinatamente. Cionondimeno, le sue conclusioni politiche risultano essere incompatibili con qualunque tipo di discorso a carattere democratico: solo uno Stato onnipotente e onnipresente, si ! 17! !

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legge nelle pagine di Hobbes, può eliminare i rischi che i cittadini corrono quando sono lasciati alle loro passioni. John Locke ha contribuito in maniera determinante a modificare questa argomentazione. Nei Two Treatises of Government, pubblicati al culmine della Gloriosa Rivoluzione (1688), il filosofo inglese ribadì la necessità di istituire un governo legittimo che difendesse il diritto dei cittadini alla vita, alla libertà e alla proprietà. Nello stato di natura, afferma Locke, gli individui vivono una condizione di «perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro» (cfr. Ivi, p. 115). Tuttavia, a questo livello pre-politico, la carenza organizzativa e l’inadeguatezza della regolamentazione sono tali da non consentire la piena realizzazione delle facoltà individuali. L’unico rimedio, stando a quanto sostiene il filosofo inglese, è quello di istituire, in primo luogo, una società civile indipendente e, in secondo luogo, un governo politico legalmente circoscritto. Quest’ultimo aspetto è di fondamentale importanza nella prospettiva lockiana: la formazione del potere politico non deve implicare il trasferimento definitivo dei diritti di tutti allo Stato. Se ciò avvenisse, come aveva auspicato Hobbes, gli individui sarebbero continuamente esposti al rischio degli abusi di potere da parte dei governanti. Per questo motivo, è necessario che chi detiene il potere di fare le leggi lo eserciti in conformità alla legge di natura, vale a dire nel rispetto delle libertà e dei beni individuali. In caso contrario, i cittadini hanno tutto il diritto di ribellarsi contro lo status quo. Locke, pertanto, conferma la strumentalità della politica rispetto a dei fini superiori. Le sue idee vertono soprattutto sulla necessità di limitare il potere dello Stato affinché rimanga fedele al suo compito principale: la tutela della vita, della libertà e della proprietà dei cittadini. Ma si tratta di idee che, per quanto innovative, non contengono una chiara indicazione dei limiti che dovrebbero essere posti al potere collettivo. Montesquieu, dal suo canto, ha dedicato gran parte delle sue analisi ai modi di organizzare e, quindi, di limitare il potere dello Stato. Nella sua opera ! 18! !

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politica principale – De l’esprit des lois (1748) – il filosofo francese si fece paladino della moderazione e dell’equilibrio dei poteri pubblici. «È però una esperienza eterna – afferma Montesquieu – che ogni uomo, il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti […] Perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere. Una costituzione può essere tale che nessuno sia costretto a compiere le azioni alle quali la legge non lo costringe, e a non compiere quelle che la legge gli permette» (cfr. Ivi, p. 123). Come? Mediante una depersonalizzazione delle strutture di potere e un’accurata separazione degli organi legislativi da quelli esecutivi e giudiziari. La libertà, continua Montesquieu, non può esistere «là dove la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati» (cfr. Ivi, p. 123). Le intuizioni politiche di Locke e Montesquieu, sebbene siano state fondamentali ai fini del superamento dell’assolutismo regio, non possono essere considerate democratiche in senso proprio. Del resto, il loro referente politicoistituzionale era rappresentato dalla monarchia costituzionale, cioè da quel sistema politico che andò ad affermarsi prima in Inghilterra, in seguito alla Gloriosa Rivoluzione del 1688, per poi diffondersi a macchia d’olio su tutta l’Europa continentale. Un sistema politico che, a causa del suo fondamento di classe e dell’esclusione delle masse popolari dal voto, è stato giustamente etichettato come «liberalismo conservatore» (Salvadori, 2009, p. 25). In un’ottica di storia del pensiero politico, il matrimonio tra liberalismo e democrazia venne realizzandosi gradualmente attraverso le opere di pensatori del calibro di James Madison (1751-1836), Jeremy Bentham (1748-1832) e James Mill (1773-1836). In estrema sintesi, l’idea che la protezione della libertà implicasse dei limiti al potere politico legalmente costituito fu affiancata, a mano a mano che passava il tempo, dall’idea che i governanti dovessero essere obbligati a rendere conto del loro operato di fronte ai cittadini. Tuttavia, è solamente con le ricerche e con le analisi di John Stuart Mill (1806-1873), ! 19! !

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figlio di James, che il liberalismo riuscì a superare ogni riluttanza nei confronti delle forme politiche democratiche. L’autore di Considerations on representative governement (1861) era un profondo sostenitore della democrazia intesa non solo, alla maniera di un Bentham, come insieme di strumenti politici per «difendere i propri membri dall’oppressione e dallo sfruttamento di quei funzionari che essa impiega per la propria difesa» (Held, 2006, trad. it., p. 137), ma anche come base per la realizzazione di una cittadinanza attiva. Qualsiasi sistema politico che neghi agli individui la possibilità di partecipare alla gestione degli affari pubblici, si legge nell’opera di J. S. Mill, viola la dignità dell’uomo poiché gli preclude di «conoscere i propri bisogni e le proprie esigenze», di «formulare giudizi verificati in base all’esperienza» e di «sviluppare un’eccellenza mentale, intellettuale, pratica e morale» (Ivi, p. 147). Al contrario, la partecipazione alla vita pubblica contribuisce sia allo sviluppo individuale sia al benessere collettivo «in proporzione alla quantità e alla varietà di energie personali che vengono impiegate nel promuoverlo» (Ivi, p. 148). L’amore per le forme politiche democratiche, per quanto intenso e genuino, non condusse mai il filosofo britannico ad appoggiare modelli di autogoverno puri. Non diversamente dai suoi predecessori, Mill considerava la democrazia diretta una forma di governo inadeguata a fronteggiare i problemi di una comunità delle dimensioni di uno Stato territoriale. Coerentemente con questi presupposti, egli incoraggiò la realizzazione di un sistema democratico rappresentativo, cioè un sistema politico in cui i cittadini potessero controllare e limitare il potere politico attraverso la periodica elezione dei deputati. Nella prospettiva liberale, pertanto, l’istituzione parlamentare e la competizione elettorale giocano un ruolo decisivo ai fini del corretto svolgimento della vita democratica: il parlamento, come ha evidenziato David Held, costituisce una sorta di forum «che funge da guardia della libertà e diviene il centro della razionalità e del dibattito», mentre la competizione elettorale «imbriglia e convoglia le qualità intellettuali dei leader nell’interesse del massimo vantaggio per tutti» (Ivi, p. 153). ! 20! !

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Alla luce di queste brevi considerazioni sull’evoluzione del pensiero democratico, si possono trarre almeno due conclusioni. In primo luogo, la dottrina liberale ha trasformato radicalmente il significato del concetto di “democrazia”: ciò che nel V secolo avanti Cristo era stato concepito come esercizio diretto del potere da parte del demos, a cominciare dal XVIII secolo viene pensato in termini di diritto della cittadinanza a partecipare alla gestione degli affari pubblici attraverso l’elezione dei rappresentanti politici. Un diritto inizialmente limitato ai soli maschi adulti dotati di quei beni materiali e di quelle qualità intellettuali che legittimavano, appunto, la partecipazione politica, e successivamente allargato, attraverso un lungo ciclo di conflitti politicosociali, alle masse dei non proprietari, cioè a coloro che vivono esclusivamente del proprio lavoro. In secondo luogo, la tradizione liberale ha elaborato una visione più limitata della politica: l’attività di governo, in altri termini, è considerata una sfera separata dalla società civile, dall’economia e dalla cultura. In definitiva, il liberalismo rappresenta tanto un’attenuazione quanto una correzione della democrazia degli antichi (Sartori, 1993). Ne è un’attenuazione perché ha sostituito l’esercizio diretto del potere con dei meccanismi di controllo e di limitazione dei governanti. Allo stesso tempo, però, esso costituisce anche un correttivo della democrazia partecipativa nella misura in cui consente il superamento di tutti quei limiti pratici che una comunità politica dalle grandi dimensioni impone al “governo del popolo”.

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1.3 Democrazia: la teoria dell’elitismo competitivo Se gli autori del XVIII e del XIX secolo avevano offerto una visione sostanzialmente ottimistica e progressiva della storia umana, la stessa cosa non può essere affermata per i loro “colleghi” del XX secolo. Nella prospettiva socio-politica di Max Weber (1864-1920) e di Joseph Schumpeter (1883-1950), al cui contributo dedichiamo questo paragrafo, le possibilità di costruire un ordinamento democratico che consenta da una parte la tutela degli interessi individuali e dall’altra lo sviluppo di una cittadinanza consapevole del proprio ruolo nel processo decisionale pubblico sono piuttosto limitate. Max Weber, pur non essendo un teorico della democrazia nel senso stretto dell’espressione, rappresenta uno dei più autorevoli e dei più acuti osservatori delle condizioni sociali in ci si sviluppa l’esperienza dell’individuo moderno. In questo senso, il contributo dello studioso tedesco è fondamentale ai fini di una corretta disamina del paradigma liberal-democratico. Si osservi, in proposito, che, diversamente dalla maggioranza dei teorici precedenti, Weber tende a privilegiare un approccio descrittivo-esplicativo finalizzato non tanto all’individuazione della forma politica più desiderabile, quanto alla spiegazione dei processi politici concreti. Il suo obiettivo, pertanto, non è quello di progettare un sistema politico alternativo alla democrazia liberale, ma di mettere in luce le contraddizioni insite nella società moderna. Volendo riassumere in un’unica espressione il lavoro weberiano, potremmo dire che l’autore tedesco si è interrogato su quale sia il significato da attribuire all’idea di libertà in un ambiente sociale in cui, quasi indipendentemente dalla natura dell’autorità che detiene il potere politico, proliferano organizzazioni su vasta scala che impongono agli individui ruoli marginali. Un significato che, coerentemente con il metodo weberiano, non può essere dato aprioristicamente, ma deve fondarsi su uno studio accurato delle tendenze sociali dominanti. Da un esame complessivo dell’opera weberiana emergono due elementi qualificanti l’epoca moderna: il processo di razionalizzazione e il processo di burocratizzazione. Per quanto riguarda il primo fenomeno, Weber si riferisce alla progressiva estensione di un tipo di sapere di natura tecnico-scientifica ad ! 22! !

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ambiti della vita sempre più numerosi. Questo processo, secondo il sociologo tedesco, ha avuto delle conseguenze profonde sul modo di pensare e, quindi, di agire degli individui. Innanzitutto, la razionalizzazione ha prodotto quello che lo stesso autore, nel saggio La scienza come professione (1919), ha etichettato come disincantamento del mondo. «Rendiamoci conto – si legge in uno dei passaggi più significativi – di ciò che propriamente significa, dal punto di vista pratico, questa razionalizzazione intellettualistica a opera della scienza e della tecnica orientata scientificamente. Vuol forse significare che oggi noialtri […] abbiamo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistiamo maggiore di quella di un Indiano o di un Ottentotto? Ben difficilmente […] Il selvaggio ha una conoscenza incomparabilmente migliore dei propri utensili […] Il selvaggio sa in quale modo riesca a procurarsi il nutrimento quotidiano e quali istituzioni gli servano a tale scopo. La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita alle quali si sottostà. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza, cioè che non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante calcolo razionale» (Weber, 1919, trad. it., pp. 19-20). La razionalizzazione, pertanto, erodendo la credibilità dei sistemi di credenze tradizionali – quei sistemi che «enfatizzano una configurazione fissa delle cose umane o naturali» (Held, 2006, p. 220) – ha contribuito ad accelerare il progresso umano. Lo stesso fenomeno, però, visto da un’altra angolatura costituisce anche una perdita del patrimonio culturale e valoriale. Come ha giustamente osservato David Held: «In un mondo sempre più dominato dalla ragione tecnica e scientifica non vi sono più “visioni del mondo” che possono prescrivere legittimamente un accordo collettivo: le basi tradizionali per risolvere la “lotta” tra gli infiniti atteggiamenti possibili verso la vita sono state radicalmente indebolite» (ibidem). Da una prospettiva squisitamente politica, ciò significa che in epoca moderna un sistema di governo può essere difeso e

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sostenuto solo su basi procedurali, cioè su regole e istituzioni che favoriscano la competizione tra i valori e la libertà di scelta. Secondo Weber, il processo di razionalizzazione è stato accompagnato dalla diffusione della burocrazia. Si tratta, in realtà, di una prospettiva di analisi di origine marxiana che il sociologo tedesco riprende e sviluppa nel saggio Economia e società (1920). Non diversamente da Marx, infatti, il sociologo tedesco considera la burocrazia un fenomeno difficilmente conciliabile con la democrazia, in quanto il potere esercitato dai moderni burocrati non trova la sua ragion d’essere nel popolo, bensì nella “competenza”. «Il fondamento decisivo per il procedere dell’organizzazione burocratica – scrive Weber – è però sempre stato la sua superiorità puramente tecnica su ogni altra forma […] Nell’amministrazione burocratica – e specialmente in quella monocratica, affidata a funzionari individuali qualificati – la precisione, la rapidità, l’univocità, la pubblicità degli atti, la continuità, la discrezione, la coesione, la rigida subordinazione, la riduzione dei contrasti, le spese oggettive e personali sono recati nella misura migliore» (Weber, 1920, trad. it., vol. II, pp. 276-277). La burocrazia, dunque, si presenta allo sguardo del sociologo tedesco come una sorta di «gabbia d’acciaio» che domina le vite degli individui attraverso le sue gerarchie e le sue rigide regole procedurali. Una gabbia, per di più, che non è limitata al solo mondo della produzione industriale, ma che si estende a tutte le organizzazioni su vasta scala, pubbliche e private. Qualcuno a questo punto potrebbe giustamente domandarsi per quale ragione esista la burocrazia. Secondo Weber, il processo di burocratizzazione della società non solo è inarrestabile, ma è anche indispensabile. E lo è fondamentalmente per due ordini di motivi: in primo luogo lo richiede la necessità di coordinamento dei sistemi economici capitalistici; in secondo luogo lo esige l’allargamento della cittadinanza alla massa della popolazione (Held, 2006). Per essere più precisi, le imprese capitalistiche hanno bisogno di un ambiente politicoamministrativo efficiente, stabile e, quindi, prevedibile affinché possano condurre con successo i loro affari commerciali. La massa, invece, pretende dallo stato un intervento più incisivo nell’economia, nell’istruzione e nella ! 24! !

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sanità finalizzato a una distribuzione equa e imparziale delle risorse. Nella prospettiva weberiana, pertanto, la burocratizzazione della società è il prezzo che gli individui devono inevitabilmente pagare per vivere in un ambiente economicamente e tecnicamente sviluppato. Se dunque il processo di burocratizzazione è inevitabile, l’unico modo per impedire che l’organizzazione pubblica cada «preda di funzionari troppo zelanti o di potenti interessi privati […] il cui supremo interesse certamente non sarebbe stato quello nazionale» è, a detta di Weber, quello di creare un forte parlamento che funga da argine nei confronti della burocrazia pubblica e privata (Ivi, pp. 228-229). Il favore per il governo parlamentare deve però essere spogliato da ogni sorta di idealizzazione. Invero, l’idea che il parlamento costituisca un centro di dibattito e di argomentazione politica, nonché un “banco di prova” per aspiranti leader, quell’idea che si era materializzata nella mente dei primi pensatori liberali, costituisce per Weber una rappresentazione ingannevole della realtà democratica. In altre parole, l’estensione del suffragio elettorale alla massa dei cittadini ha modificato radicalmente la dinamica della scena politica, determinando una traslazione del baricentro politico dal parlamento – luogo tradizionale di decisione pubblica – al partito. Questo aspetto, tradotto in termini pratici, sta a significare che con l’attribuzione del diritto di voto a milioni di individui, molti dei quali scarsamente informati sulle principali questioni pubbliche, si è resa necessaria la creazione di associazioni volte all’organizzazione del consenso e della rappresentanza politica. «In tutti i gruppi politici di una certa ampiezza – osserva Weber – e nei quali il detentore del potere viene periodicamente eletto, l’attività politica si configura come un’attività di interessati. Ciò significa, in altre parole, che un numero relativamente ristretto di persone interessate in modo primario alla vita politica, e dunque alla partecipazione al potere politico, si procurano un seguito attraverso un reclutamento volontario, presentano se stessi o i propri protetti come candidati alle elezioni, raccolgono i mezzi finanziari e vanno a caccia di voti». Poi conclude: «In pratica ciò significa la divisione dei cittadini dotati di

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diritto di voto in elementi politicamente attivi e politicamente passivi» (Weber, 1919, trad. it., pp. 78-79; corsivo nostro). Lo sviluppo delle organizzazioni politiche di massa ha cambiato, pertanto, il volto della democrazia rappresentativa. La necessità di pianificare, l’attività politica, di predisporre programmi, di costruire il consenso, ha fatto si che i partiti si trasformassero da semplici strutture embrionali, attivabili soltanto nelle occasioni elettorali, in complesse macchine burocratiche controllate da quelli che Weber ha etichettato come «politici di professione». In questa cornice, lo spazio di autonomia per i soggetti che occupano le posizioni più basse delle organizzazioni politiche è a dir poco limitato. Il sociologo tedesco, tuttavia, rifiuta le idee di coloro che, come Roberto Michels (18761936), in maniera un po’ semplicistica, associano l’organizzazione politica al «predominio degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti, dei delegati sui deleganti» (Michels, 1911, trad. it., p. 523). La burocratizzazione dei partiti, osserva Weber nel celebre saggio La politica come professione, sebbene riduca in maniera rilevante l’autonomia dei propri sostenitori e dei propri membri eletti in parlamento, è pur sempre compatibile sia con un certo grado di flessibilità politica sia con l’emersione dei leader più preparati (Weber, 1919). In conclusione, la democrazia rappresentativa, lungi dal garantire la “sovranità popolare”, un concetto che lo stesso Weber considera fuorviante, «deve essere intesa soprattutto come meccanismo fondamentale per assicurare un’efficace leadership politica e nazionale» (Held, 2006, trad. it., p. 234). Si è dunque conclusa l’età eroica dell’individualismo liberale, un’età che, coerentemente con i suoi presupposti etici ed ontologici, aveva promesso la realizzazione di un assetto politico-sociale che consentisse il massimo sviluppo delle qualità individuali. La democrazia rappresentativa, celebrata da James Mill come «la grande scoperta dei tempi moderni [nella quale] la soluzione di tutte le difficoltà, speculative e pratiche, può essere trovata» (cfr. Ivi, p. 166), se privata dei suoi paludamenti filosofici, si manifesta come un mero dispositivo che, nella migliore delle ipotesi, consente la selezione degli uomini politici migliori. In questa prospettiva, l’economista austriaco Joseph ! 26! !

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Alois Schumpeter, alcuni decenni più tardi di Weber, ha definito la democrazia uno «strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare» (Schumpeter, 1942, trad. it., p. 279). L’essenza della democrazia, dunque, risiede non tanto nella possibilità di prendere parte attivamente alla gestione degli affari pubblici, quanto nel diritto di selezionare e, quindi, di autorizzare periodicamente coloro che dovranno compiere le scelte fondamentali per la vita della comunità politica. La democrazia schumpteriana, giustamente ribattezzata come teoria competitiva della democrazia (Sartori, 1993), si fonda su un rifiuto esplicito di quella che lo stesso autore di Capitalismo, socialismo e democrazia ha indicato come «teoria classica della democrazia», ossia «quell’insieme di accorgimenti costituzionali per giungere a decisioni politiche, che realizza il bene comune permettendo allo stesso popolo di decidere attraverso l’elezione di singoli individui tenuti a riunirsi per esprimere la sua volontà» (Schumpeter, 1942, trad. it., p. 261). Molti studiosi hanno contestato a Schumpeter l’esistenza di una “teoria classica” della democrazia. David Held, cui abbiamo più volte fatto riferimento, ha osservato come nella definizione classica schumpteriana siano condensati elementi appartenenti a “modelli democratici” tra di loro non del tutto compatibili (Held, 2006). Ciononostante, essa ha il grande merito di consentire l’individuazione di alcuni dei pilastri fondamentali su cui si regge l’intera impalcatura filosofica settecentesca: l’idea di bene comune, la volontà generale e l’individuo autonomo-razionale. Sviluppando il contenuto di questa definizione, lo studioso austriaco ha cercato di dimostrare la sua inidoneità a spiegare il reale funzionamento dei regimi democratici. Innanzitutto, osserva Schumpeter, un bene comune su cui tutti possano facilmente concordare non esiste. Individui e gruppi, infatti, hanno spesso idee diverse e contrastanti su ciò che è bene e ciò che è male per il proprio paese. Inoltre, anche ammettendo la possibilità di un consenso generale su un determinato obiettivo, è molto probabile che il disaccordo si manifesti sulla scelta dei mezzi e dei modi per la sua concreta realizzazione. In ! 27! !

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secondo luogo, se viene meno l’idea di bene comune «univocamente definito e discernibile da chiunque», allora non può esistere nemmeno una volontà generale tesa al suo perseguimento. «Ora – osserva Schumpeter – se non v’è un centro – il bene comune – verso il quale, almeno a lungo termine, tutte le volontà individuali gravitano, quel tipo di volontà generale “naturale” ci sfugge di mano» (Schumpeter, 1942, trad. it., p. 263). Per di più, aggiunge l’economista austriaco, la filosofia classica, in particolare quella utilitaristica, attribuisce «alla volontà dell’individuo un’autonomia e una razionalità del tutto irrealistiche» (Ivi, p. 264). Ogni individuo, per assolvere i suoi doveri di cittadino, dovrebbe essere in grado di «osservare e interpretare al modo giusto i fatti» e di «vagliare criticamente le informazioni ricevute», in modo da trarne con lucidità e prontezza delle conclusioni ragionevoli (Ivi, p. 265). Ebbene, è possibile, si domanda Schumpeter, che tutti gli individui posseggano queste qualità? Ovviamente la risposta è negativa. Finché ci si muove nell’orizzonte delle preoccupazioni della vita quotidiana «l’individuo è soggetto all’influenza salutare e razionalizzatrice di esperienze favorevoli e sfavorevoli, e a motivi e interessi relativamente semplici e non problematici, che solo occasionalmente la passione turba» (Ivi, p. 268). Ma non appena ci si trova ad affrontare le grandi questioni politiche nazionali e internazionali «l’influenza salutare e razionalizzatrice» di esperienze personali cessa di fornire il suo contributo e l’individuo regredisce ad uno stato mentale che «giudicherebbe infantile nella sfera dei suoi interessi concreti» (Ivi, p. 272). In altri termini, l’assenza di un impegno diretto nelle principali questioni politiche tende a favorire l’emersione di comportamenti che hanno ben poco da spartire con la razionalità descritta dai filosofi utilitaristi. Partendo da queste premesse, Schumpeter giunge alla conclusione che il compito del popolo sovrano non è quello di decidere, né di governare, bensì quello più limitato di “produrre un governo” ed eventualmente sostituirne uno esistente qualora si dimostri incapace di realizzare gli obiettivi per cui è stato eletto. Questa concezione delle forme politiche democratiche, stando a quanto sostiene l’economista austriaco, non solo è più fedele alla realtà dei fatti, ma è ! 28! !

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anche la più appropriata e la più conveniente in quanto implica una netta separazione dei compiti tra i rappresentanti politici e gli elettori. Inoltre, essa fornisce un criterio efficace per individuare i regimi democratici, riconosce la centralità della leadership politica e conferma l’importanza della competizione per la selezione della classe dirigente (Held, 2006). Tutte conclusioni sulle quali è estremamente difficile non convenire. Sennonché, la teoria competitiva della democrazia ha ricevuto molte critiche da parte di coloro che non si riconoscono nel “minimalismo schumpeteriano”. In particolare, osserva il politologo Gianfranco Pasquino, «le critiche più frequentemente sollevate contro la definizione di Schumpeter riguardano: (1) la presunta riduzione della democrazia a competizione elettorale, (2) con un mandato o una delega a una squadra (team) di persone che (3) acquisirebbero un potere enorme (4) non controllabile per tutta la durata della loro carica» (Pasquino, 1997, p. 314). In questo senso la democrazia schumpeteriana rappresenterebbe una sorta di degenerazione della “vera democrazia” – quella partecipativa – nella quale i cittadini prendono parte «attivamente, intensamente, continuativamente alla produzione delle decisioni politiche a tutti i livelli» (ibidem). A uno sguardo più approfondito, però, la teoria shumpeteriana non sembra escludere aprioristicamente un ruolo più incisivo della cittadinanza. Al contrario, come sostiene Giovanni Sartori, i cittadini hanno il potere di rendere la squadra di governo più ricettiva e responsabile. In che modo? La risposta, secondo il politologo italiano, va cercata nel principio delle reazioni previste di Carl J. Friedrich (1901-1984) in base al quale gli eletti sono quotidianamente condizionati dalle aspettative di come i loro elettori reagiranno alle decisioni politiche. In questo senso, la responsiveness, cioè la capacità di risposta dei governanti ai desideri dei governati, costituisce l’ingranaggio che fa funzionare la macchina democratica in vista dell’interesse degli elettori. A condizione che, naturalmente, le élites politiche siano inserite in un contesto altamente competitivo, tale per cui solamente coloro che rispondono alle richieste degli elettori riescono a preservare la loro posizione di potere (Sartori, 1993).

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La prospettiva tracciata da Sartori sembra riecheggiare il contenuto di un classico della letteratura economico-politologica, An Economic Theory of Democracy dello statunitense Anthony Downs. L’idea di fondo contenuta in questo saggio è quella secondo cui esiste una sorta di parallelismo tra il funzionamento del mercato dei beni e dei servizi e il mercato elettorale, per cui gli individui, siano essi dei semplici elettori o dei soggetti politicamente interessati, cercherebbero egoisticamente di massimizzare la propria utilità in un ambiente sociale caratterizzato dalla scarsità delle risorse (Downs, 1957). Così, gli elettori sceglieranno i candidati in linea con i loro desideri, mentre le organizzazioni politiche presenteranno al pubblico dei programmi elettorali confezionati in modo da catturare il più alto consenso possibile. In quest’ottica, la funzione sociale, vale a dire il perseguimento dell’interesse generale, non è realizzato che incidentalmente rispetto all’obiettivo primario di vincere le elezioni politiche, allo stesso modo in cui le imprese private producono beni e servizi per ricavarne un profitto. Le riflessioni di cui sopra ci conducono direttamente al riconoscimento dell’importanza del ruolo dell’opinione pubblica. Se, infatti, è vero, come ha evidenziato Schumpeter, che la democrazia è un edificio costruito sulla competizione elettorale, e che la competizione elettorale, come sostiene Sartori, garantisce, attraverso la responsiveness, l’equilibrio tra i desideri dei governati e le risposte dei governanti, è altrettanto vero che le elezioni esprimono, nel complesso, l’opinione degli elettori. Il che è come dire che la democrazia si regge, in ultima analisi, sull’opinione pubblica. Queste considerazioni sollevano diversi interrogativi. Primo: che cosa intendiamo con la dizione “opinione pubblica”? Secondo: qual è il ruolo dell’opinione pubblica? Terzo: come si forma l’opinione pubblica? Per quanto riguarda la prima questione, Giovanni Sartori sostiene che “opinione pubblica” «denota, in primissima istanza, un pubblico interessato alla “cosa pubblica”. Il pubblico in questione è soprattutto un pubblico di cittadini, un pubblico che ha un’opinione sulla gestione degli affari pubblici, e dunque sugli affari della città politica […] Quando la dizione venne coniata – continua Sartori – i dotti del ! 30! !

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tempo sapevano greco e latino; sapevano anche che l’obiezione di sempre contro la democrazia era che il popolo “non sa”. Proprio per questo Platone invocava il filosofo-re: perché governare richiedeva epistéme, vero sapere. Al che si è finito per opporre che alla democrazia basta la doxa, basta che il pubblico abbia opinioni» (Sartori, 1993, pp. 60-61). L’opinione pubblica svolge un ruolo di controllo sui detentori del potere, ma anche di stimolo circa la cura degli interessi pubblici. Per questo motivo è fondamentale che l’opinione nel pubblico sia anche un’opinione del pubblico, cioè sia un’opinione autonoma da coloro che prendono le decisioni collettive. La storia recente, infatti, dimostra come un pubblico addomesticato possa essere facilmente messo al servizio degli scopi più perversi dei governanti. Il problema, allora, consiste nell’individuare le condizioni che garantiscano l’autenticità dell’opinione. Secondo Sartori, tre sono i requisiti necessari affinché i cittadini possano formulare autonomamente considerazioni sull’operato dei governanti: 1) libertà di pensiero; 2) libertà di espressione; 3) policentrismo dei media (Ibidem). In questa prospettiva, ciò che contraddistingue una democrazia di massa da un regime autoritario è soprattutto la possibilità per gli individui di attingere informazioni da più fonti indipendenti. In un sistema mediale monocentrico e monocolore, infatti, tanto la libertà di pensiero quanto la libertà di espressione non avrebbero modo di esprimere le loro potenzialità. «Quando il cittadino è esposto, pressoché dalla culla alla bara, a una propaganda ossessiva e indottrinante che fa quadrare tutto perché tutto è falso, e che fa sembrare tutto vero impedendo l’accertamento del vero, quando è così siamo al cospetto di un pubblico ingannato, ingabbiato senza scampo nell’inganno, e pertanto al cospetto di una opinione nel pubblico che non è in nessun senso del pubblico» (Ivi, p. 70).

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1.4 Democrazia: la teoria del pluralismo competitivo Nelle teorie dell’elitismo competitivo la politica democratica è stata rappresentata come una dinamica prevalentemente individuale. Il cittadino viene descritto come un soggetto isolato, e perciò vulnerabile, che è chiamato a selezionare gruppi di élites in competizione mediante il meccanismo del voto. I gruppi intermedi – associazioni religiose, organizzazioni economiche, partiti, sindacati, gruppi comunitari – laddove sono stati considerati, com’è il caso di Weber, sono stati dipinti alla stregua di temibili organizzazioni burocratiche che minacciano irrimediabilmente la libertà individuale. A ben vedere, però, tale opzione teorica, se riletta alla luce delle più recenti dottrine democratiche, risulta essere inadeguata a descrivere la fluidità dei reali processi politici che alimentano le democrazie liberali. A partire dagli anni ’50 del secolo passato, infatti, negli Stati Uniti si è andato progressivamente affermando un filone di studi politici che ha cercato di rimediare a questa carenza esaminando direttamente la dinamica della politica di gruppo. In generale, i teorici di questa “scuola”, che va sotto il nome di pluralismo competitivo, hanno accettato l’idea schumpeteriana secondo cui ciò che distingue un regime democratico da uno autocratico è prima di tutto il metodo per la scelta dei governanti. Inoltre, essi hanno confermato mediante una serie di ricerche empiriche lo scarso interesse nutrito dalla maggioranza dei cittadini nei confronti delle principali questioni politiche. Allo stesso tempo, però, i pluralisti hanno rifiutato l’idea che il potere sia inevitabilmente concentrato nelle mani di élites politiche rivali. La tradizione pluralistica contemporanea, come la maggior parte dei filoni del pensiero politico, è stata tutt’altro che unitaria. Molti, infatti, sono gli autori che, più o meno legittimamente, si rifanno a questo indirizzo di studi politici. Tuttavia, per una finalità analitica, oltre che per semplicità espositiva, è possibile individuare due tendenze principali di pluralismo che si sono avvicendate nel corso della seconda metà del XX secolo: il pluralismo classico e il neo-pluralismo o pluralismo critico. Tanto la prima quanto la seconda di queste tendenze sono permeate dall’idea che il potere sia un dispositivo diffuso nella società. Entrambe, inoltre, considerano l’attività dei gruppi organizzati ! 32! !

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come un mezzo a disposizione dei singoli individui per influenzare coloro che hanno il potere di prendere decisioni a rilevanza collettiva. La competizione tra gli interessi non è quindi vista come una potenziale minaccia per l’equilibrio delle moderne democrazie di massa. Al contrario, la presenza di più gruppi in conflitto rappresenta non solo un’opportunità per lo sviluppo della vita democratica, ma anche un elemento strutturale di stabilità politica. Nonostante questi “punti di contatto”, tra il pluralismo classico e il neo-pluralismo esistono comunque delle differenze fondamentali sulle quali vale la pena soffermarsi. Nella concezione pluralista classica il potere viene rappresentato come un dispositivo che consente di raggiungere i propri scopi anche in presenza di un’opposizione. Uno dei più autorevoli teorici del pluralismo, Robert Dahl, ha definito il potere come «la capacità di A di agire in modo tale da controllare le risposte di B» (Dahl, 1956, trad. it., p. 16). Siffatto potere, si legge ancora nelle pagine di Dahl, non è distribuito gerarchicamente nella società, ma è parte integrante di un processo continuo di negoziazione che vede coinvolti diversi gruppi sociali, ognuno dei quali rappresenta un interesse socialmente rilevante. In questo contesto, gli esiti del processo decisionale pubblico tendono a riflette, in misura più o meno marcata, l’equilibrio relativo tra i diversi soggetti interessati al contenuto di uno specifico provvedimento. Manca, pertanto, nel modello pluralista classico un centro di potere decisionale sovraordinato. Il governo, in altri termini, quando è chiamato a decidere, assume talvolta il ruolo di mediatore e, talaltra, anche quello di parte in causa nel processo di negoziazione. Come ha scritto David Truman, uno dei primi studiosi della scuola pluralista, «soltanto le attività di governo molto standardizzate mostrano una certa stabilità», le altre sono soggette ad un insieme «mutevole di relazioni incrociate che cambiano in forza e direzione quando mutano il potere e l’importanza degli interessi, organizzati e non» (cfr. Held, 2006, trad. it., p. 277). Di conseguenza, la direzione complessiva della politica pubblica è il frutto di questo insieme eterogeneo di pressioni. Tutto ciò non sta a significare che le istituzioni tradizionali dei sistemi democratici non abbiano importanza ai fini del corretto svolgimento della vita ! 33! !

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democratica. Secondo Dahl, il controllo dei cittadini sulla classe dirigente può essere concretamente esercitato mediante due strumenti principali: le elezioni e la competizione tra partiti, gruppi organizzati e singoli individui (Dahl, 1956). Detto diversamente, un contesto politico relativamente aperto e dinamico in cui diversi soggetti, individuali e collettivi, gareggiano per il sostegno elettorale è in grado di preservare la democrazia meglio di qualunque meccanismo giuridico-istituzionale, a patto che, naturalmente, la competizione si svolga all’interno di una cornice di norme e di valori fondamentali condivisi dalla maggioranza dei membri della comunità politica. Osserva Dahl: «quella che normalmente chiamiamo “politica” democratica è solo un polverone; è un fenomeno di superficie e rappresenta conflitti superficiali. Prima della politica, alla sua base, ad avvolgerla, limitarla, condizionarla c’è il consenso civico profondo che esiste in genere in una parte predominante dei membri politicamente attivi della società. Senza un simile consenso nessun sistema democratico sopravviverebbe a lungo alle infinite occasioni di irritazione e frustrazione prodotte dalle lezioni e dalla competizione partitica» (Dahl, 1956, trad. it., pp. 151-152). Nell’ottica dei primi teorici del pluralismo, pertanto, la capacità dei singoli uomini politici di modellare il corso della vita pubblica trova i suoi giusti limiti nei vincoli elettorali e nelle strategie di lobbying. Questa tesi, apparentemente inattaccabile, ha cominciato però a mostrare i primi segni di evidente debolezza di fronte alle intense manifestazioni di protesta che nel corso degli anni ’60 hanno turbato la momentanea pace politica del mondo occidentale. Nel paradigma pluralista classico non era infatti possibile accettare un tale tipo di sovvertimento politico, giacché tutti gli interessi socialmente rilevanti avrebbero dovuto trovare espressione mediante uno dei tanti canali messi a disposizione dal sistema politico-sociale. Come spiegare allora questa anomalia? In realtà, la risposta a questo interrogativo era già stata formulata prima dei movimenti di protesta da due brillanti studiosi americani, Peter Bacharach e Morton Baratz, in un saggio dal titolo The two faces of power. Secondo questi due autori, la debolezza della posizione dei pluralisti classici ! 34! !

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consiste nel fatto che essi non hanno considerato la possibilità che i gruppi sociali più forti impediscano la diffusione del conflitto politico. «Ovviamente – osservano Bacharach e Baratz – vi è esercizio di potere quando A partecipa alla formulazione di decisioni che hanno effetto su B. Ma vi è esercizio di potere anche quando A si impegna nel creare o rafforzare i valori sociali e politici, e pratiche istituzionali, che limitano il campo del processo politico alla considerazione di questioni per A relativamente non pericolose» (Bacharach e Baratz, 1962, trad. it., p. 189). Ciò spiega per quali ragioni i pluralisti classici non sono stati in grado di comprendere le asimmetrie di potere presenti nella società alla vigilia dei movimenti degli anni ‘60. Inoltre, come ha giustamente osservato David Held, l’esistenza di più centri di potere non garantisce affatto che il decisore pubblico «a) li ascolterà tutti in egual misura; b) non comunicherà solo con i leader di tali centri; c) che non sarà influenzato solo da coloro che detengono le posizioni più potenti; d) che farà qualche cosa in merito alle questioni discusse» (Held, 2006, trad. it., p. 290). La presenza di questi e altri difetti nel paradigma pluralista classico hanno spinto molti autori a rivedere le loro posizioni originarie. Robert Dahl, in A preface to economic democracy, pubblicato circa trent’anni dopo A preface to democratic theory, ha affermato che la sfida più profonda alla libertà politica proviene dalle disuguaglianze economiche. «La proprietà e il controllo – scrive Dahl – contribuiscono a creare tra i cittadini grandi differenze di ricchezza, reddito, status, competenza, informazione, controllo sull’informazione e sulla propaganda, accesso ai leader politici e, in media, di aspettative di vita […] Con tutte le dovute precisazioni queste differenze, comunque, contribuiscono a loro volta a generare significative disuguaglianze tra i cittadini per quanto riguarda le loro capacità e opportunità di partecipare, come pari politici, a governare lo stato» (Dahl, 1985a, trad. it., p. 55). Secondo Charles Lindblom, uno dei più influenti autori del filone neo-pluralista, l’effetto delle disuguaglianze economiche si ripercuote anche sulla capacità del governo di rispondere alle richieste dei gruppi di interesse. Le esigenze di accumulazione de capitale, in altri termini, limitano sistematicamente le scelte pubbliche, imponendo all’agenda ! 35! !

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politica la prioritaria soddisfazione delle richieste del mercato. «Poiché nel sistema di mercato gli imprenditori esercitano funzioni pubbliche, ne consegue che occupazione e prezzi, produzione e crescita, il livello di vita e la sicurezza economica di ciascuno sono nelle loro mani». Ciò per Lindblom significa che «i funzionari di governo non possono essere indifferenti al modo in cui le imprese svolgono le loro funzioni. La depressione, l’inflazione o altre difficoltà economiche possono far cadere un governo. Perciò una delle funzioni principali del governo consiste nel provvedere affinché gli imprenditori svolgano i loro compiti» (Lindblom, 1977, trad. it., p. 182). Nell’ottica dei neo-pluralisti, pertanto, i gruppi di interesse non possono essere considerati come se avessero tutti la stessa influenza sulle decisioni collettive. E lo Stato non può essere giudicato come un soggetto super partes. La democrazia liberale, in conclusione, sebbene sia capace di assicurare un livello di responsabilità politica che nessun altro regime è stato in grado di eguagliare, «è inserita in un sistema socioeconomico che sistematicamente garantisce una “posizione privilegiata” agli interessi dell’impresa» (Held, 2006, trad. it., p. 294). Sulla stessa prospettiva dei critici pluralisti, ma sotto una luce diversa, il politologo di orientamento marxista Claus Offe sostiene che la caratteristica più interessante e, allo stesso tempo, più evidente dello stato liberale è il modo in cui si trova ad essere intrappolato nelle contraddizioni del capitalismo (Offe, 1975). Quattro sono gli elementi che, a detta del sociologo tedesco, spiegano questa situazione: 1) l’iniziativa economica è prevalentemente in mano a soggetti privati, eccetto il caso delle imprese nazionalizzate; 2) le finanze dello Stato dipendono direttamente dal livello di accumulazione del capitale privato; 3) lo Stato ha, quindi, un interesse a facilitare i processi di accumulazione del capitale; 4) il potere politico deve comunque ottenere il consenso delle masse. Di conseguenza, lo stato, inteso non solo come ordinamento giuridico-politico, ma anche come complesso di apparati che esiste indipendentemente dalle persone che lo fanno funzionare, per consolidare le condizioni della sua esistenza e, quindi, per prolungarle nel tempo, si trova stretto tra due esigenze contrastanti: da un lato deve favorire il processo di accumulazione del capitale e dall’altro ! 36! !

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deve mostrarsi come arbitro imparziale per legittimare il suo potere di fronte a chi non partecipa al processo di accumulazione delle risorse. La “ragnatela” che si viene così a creare rischia, secondo Offe, di mettere a repentaglio non solo l’efficienza amministrativa, ma anche, nella peggiore delle ipotesi, l’esistenza dello stesso Stato liberal-democratico. Non sorprende, quindi, che il decisore pubblico ricorra spesso all’adozione di provvedimenti che favoriscano i gruppi organizzati (sindacati, associazioni degli imprenditori, organizzazioni di diversa natura) da cui dipende la continuità dell’ordine esistente. Provvedimenti, peraltro, che nella maggior parte dei casi sono a tutto svantaggio, in termini economici e politici, dei soggetti più vulnerabili, vale a dire di coloro che non fanno parte delle organizzazioni politicamente più influenti.

1.5 Democrazia: gli universali procedurali Giunti a conclusione di questa breve, ma intensa, ricognizione dei principali pensatori democratici – siamo consapevoli di averne tralasciati molti altrettanto importanti – si può quantomeno tentare di dare una definizione sintetica del termine-concetto “democrazia”, che tenga conto, nei limiti del possibile, di tutti i contributi che sono stati dati nel corso dei suoi venticinque secoli di storia. La democrazia moderna – lo ricordiamo brevemente – nasce, infatti, dall’innesto nel “ceppo” democratico classico di diverse tradizioni filosofiche, politiche e giuridiche. In primo luogo, la teoria della sovranità popolare, cioè quella costruzione giuridica di origine tardomedievale che, indicando nel popolo tanto la ragione dell’esistenza quanto la misura del potere politico, non solo ha assecondato il principio della separazione tra titolarità ed esercizio del potere, ma ha posto anche le premesse per la realizzazione di sistemi politici a legittimazione democratica nei quali il popolo è un titolare che ai fini pratici ha un ruolo marginale. In secondo luogo, il repubblicanesimo rinascimentale, ovvero quella corrente politico-filosofica che, partendo da una ! 37! !

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concezione di libertà intesa come non dominio, ha promosso la realizzazione di un sistema politico equilibrato in tutte le sue componenti politico-sociali e perciò volto alla realizzazione del bene comune. In terzo luogo, il razionalismo politico, vale a dire l’idea che l’ordine sociale è il frutto di scelte razionali compiute da individui ormai liberi da concezioni oltremondane sulla natura del potere. In quarto luogo, il costituzionalismo moderno di matrice liberale – e come sua appendice la teoria della rappresentanza politica – cioè tutte quelle tecniche giuridiche mediante le quali si garantisce ai cittadini l’esercizio delle loro libertà civili e politiche. Orbene, la democrazia dei moderni, ovvero la democrazia liberale, può essere definita, con le parole di Carlo Galli, come «l’assecondamento, consapevole e critico, delle dinamiche inclusive dello Stato e del capitalismo, ovvero uno specifico modo di funzionamento del potere politico – la sovranità del popolo, manifestata in modalità rappresentativa ed esercitata nella forma della legge – che viene controllato costantemente da istituzioni di garanzia giudiziale e periodicamente dal popolo che dà e toglie consenso ad alcune élites politiche» (Galli, 2011, p. 69). Malgrado le fasi di ascesa e quelle di ricaduta, malgrado i suoi limiti e le sue contraddizioni, la democrazia liberale ha superato due guerre mondiali, sconfiggendo i suoi principali antagonisti sia sul piano militare sia su quello teorico, e si è poi consolidata, grazie al contributo delle tradizioni politiche del socialismo (in tutte le sue versioni) e del cattolicesimo sociale, nella forma tardomoderna della socialdemocrazia. Che poi i regimi socialdemocratici, nei loro meccanismi oggettivi di funzionamento, non rappresentino che una mera approssimazione della “democrazia ideale”, è un aspetto della realtà politica incontestabile. Del resto, osserva uno dei più stimati pensatori italiani del XX secolo, Norberto Bobbio, «la democrazia perfetta non può esistere e di fatto non è mai esistita» (Bobbio, 1987, p. 375). E non è realizzabile per la semplice ragione che gli ideali su cui si fonda l’intero edificio democratico moderno non appartengono al mondo imperfetto in cui si sviluppa la nostra esperienza di cittadini. Di fronte a questa amara ma realistica constatazione, lo studioso di politica non ha che due alternative: la prima, rifiutare categoricamente tutte le ! 38! !

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realizzazioni parziali di regimi democratici sparse per il mondo; la seconda, accettare, senza rassegnazione, una concezione “più limitata” di democrazia che consenta il riconoscimento, ai fini pratici, del “materiale democratico” e, nel contempo, non precluda le possibilità di una riduzione del divario tra ideali e realtà. Intorno a questa seconda ipotesi si sono ritrovati numerosi pensatori democratici contemporanei, i quali hanno pensato bene di fissare una serie di universali procedurali – l’espressione è di Norberto Bobbio – allo scopo di ordinare i sistemi politici in base al loro grado di democratizzazione. Già Schumpeter, si ricorderà, aveva introdotto una distinzione fondata sulle procedure: la democrazia – scriveva l’economista austriaco – è «un metodo di cui una nazione si serve per giungere a determinate decisioni» (Schumpeter, 1942, trad. it. p. 253). Prima di lui, un altro illustre intellettuale, Hans Kelsen, aveva etichettato la democrazia come uno strumento per la creazione dell’ordine sociale (Kelsen, 1929). Alcuni decenni più tardi, lo studioso americano Robert Dahl ha arricchito questa tradizione fissando un elenco di requisiti minimi necessari al funzionamento di una democrazia di massa. «In questo libro – osserva Dahl – preferisco riservare il termine “democrazia” per indicare quel sistema politico, una delle cui caratteristiche sia la capacità di “rispondere” completamente, o quasi, alle esigenze dei cittadini […] Premetto, inoltre, che un governo duraturo, in grado di rispondere alle preferenze dei cittadini e in un contesto di eguaglianza politica, deve consentire a tutti una serie definita di possibilità: 1) formulare le proprie preferenze; 2) che queste siano presentate ai concittadini e al governo mediante il ricorso ad un’azione individuale o collettiva; 3) che esse abbiano lo stesso peso sulla condotta del governo, o che, in altri termini, non vi siano discriminazioni a seconda dei contenuti o dell’origine di tali preferenze» (Dahl, 1971, trad. it., pp. 27-28). Partendo da questi presupposti, lo studioso americano ne ricava otto garanzie istituzionali che un regime politico è obbligato a rispettare per potersi dire democratico: 1) libertà di organizzazione e di associazione; 2) libertà di espressione; 3) diritto di voto; 4) diritto dei capi politici a competere per ottenere il consenso; 5) eleggibilità alle cariche pubbliche; 6) pluralismo dell’informazione; 7) elezioni ! 39! !

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libere e corrette; 8) istituzioni che rendano il governo dipendente dal voto e dalle altre espressioni di preferenza politica. È evidente che queste “procedure” attribuiscono un valore limitato alla democrazia: in altri termini, non bastano queste garanzie per rendere una comunità politica democratica nel senso pregnante del termine. Tuttavia, esse hanno il merito di consentire, quantomeno a livello accademico, il superamento di tutte quelle difficoltà concettuali che da sempre ruotano attorno al fenomeno democratico.

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CAPITOLO SECONDO LA TECNOCRAZIA NEL PENSIERO DEI CLASSICI DELLA SOCIOLOGIA

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2.1 Tecnocrazia: inquadramento del problema Nell’ormai lontano 1984, Norberto Bobbio dava alle stampe la prima edizione de Il futuro della democrazia, una raccolta di saggi in cui trovano sistemazione le intuizioni e le riflessioni maturate nel corso di una vita dedicata interamente allo studio dei fenomeni politici. Nel primo saggio del libro – da cui trae il titolo l’intera raccolta – il pensatore torinese, invitato a formulare alcune osservazioni sullo stato attuale dei regimi democratici, indicava il pericoloso avanzamento del potere dei competenti come uno dei principali fallimenti – o, se si preferisce, una delle «promesse mancate» – della democrazia: «il progetto politico democratico – scrive Bobbio – fu ideato per una società molto meno complessa di quella di oggi […]; via via che le società sono passate da un’economia familiare ad un’economia di mercato, da un’economia di mercato ad un’economia protetta, regolata, pianificata, sono aumentati i problemi politici che richiedono competenze tecniche […]; se il protagonista della società industriale è l’esperto non può essere il cittadino qualunque». E conclude: «la democrazia si regge sull’ipotesi che tutti possano decidere di tutto. La tecnocrazia, al contrario, pretende che chiamati a decidere siano i pochi che se ne intendono» (Bobbio, 1984, pp. 30-31, corsivi nostri). L’idea che l’uomo della strada – il cittadino comune – non sia in grado, per immaturità e incompetenza, di affrontare le principali questioni pubbliche è un’idea – lo abbiamo già visto nel precedente capitolo – vecchia quanto gli stessi ideali democratici. In un’ottica di storia del pensiero politico, infatti, il copyright di questa che potremmo definire come una disposizione culturale avversa all’uguaglianza politica viene solitamente attribuito ad uno dei più noti pensatori antichi, Platone. Nella Repubblica, il discepolo di Socrate concepiva la società come un complesso organico in cui avrebbe regnato la “giustizia” solamente quando ciascun individuo avesse realmente esercitato le funzioni più appropriate alle sue attitudini personali. Coerentemente con questa concezione organicistica della società, nonché in vista della perfetta armonia delle forme politiche, Platone attribuiva a una élite di sapienti, opportunamente selezionati in base alla loro devozione al bene comune, il ruolo di “guardiani” (cfr. Dahl, 1985b). ! 42! !

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A prescindere da ciò che ha scritto Platone – le cui opere, peraltro, hanno avuto un’indiscussa influenza nella lunga storia del pensiero politico – l’obiezione del “governo dei guardiani” è una delle più ricorrenti e delle più impegnative che la democrazia abbia mai dovuto affrontare. È ancora Norberto Bobbio, infatti, a ricordarci come nei testi di filosofia politica, nel lungo e tortuoso periodo che va da Machiavelli a Hegel, uno dei temi centrali è stato quello concernente la giustificazione degli arcana imperii (Bobbio, 1990). E che cos’è la segretezza del potere, si domanda Bobbio, se non un modo per escludere coloro che non sanno – e che non devono sapere – dalle questioni politiche? «Considerato il potere sovrano nelle due facce tradizionali – si legge in Democrazia e segreto – quella esterna e quella interna, la ragione principale della segretezza rispetto alla prima è, come dice chiaramente Hobbes, il non far sapere al nemico le proprie mosse, la convinzione che una qualsiasi mossa è tanto più efficace quanto più costituisce per l’avversario una sorpresa; rispetto alla seconda, invece, soprattutto la sfiducia nella capacità del popolo di capire quale è l’interesse collettivo, il bonum commune, la convinzione che il volgo persegue i propri interessi particolari e non ha occhi per vedere le ragioni dello stato» (Ivi, p. 355). I diversi regimi autoritari che si sono succeduti nel corso dei secoli hanno più o meno velatamente fatto ricorso a queste argomentazioni per legittimare il potere di una minoranza di individui e per reprimere le ambizioni della maggioranza. Per contro, il pensiero democratico – e, più in generale, la filosofia illuministica, la cui essenza è mirabilmente scolpita nel motto kantiano “abbi il coraggio di servirti della tua ragione” – ha contribuito in maniera determinante ad abbattere tutti i divieti posti a difesa degli arcana imperii. In effetti, l’uomo disincantato, vale a dire l’uomo che – per riprendere uno dei temi centrali del pensiero weberiano – orienta le sue azioni non tanto in conformità a forze misteriose quanto alla luce di aspettative scientificamente provate, non ammette segreti di nessuna natura, tantomeno nella sfera della politica. Può essere interessante, in questa prospettiva, ricordare come il filosofo Immanuel Kant (1724-1804), nel saggio Per la pace perpetua (1795), ! 43! !

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proponesse come soluzione all’annoso e controverso problema dell’immoralità della politica l’istituzionalizzazione della pubblicità degli atti di governo e, quindi, di riflesso, la ferma condanna alla segretezza dei medesimi (Ibidem). In altri termini, Kant sostiene che il modo migliore – se non altro quello più efficace – per evitare la pratica degli arcana imperii, tipica degli stati autocratici, sia quello di sottoporre i governanti al controllo dei governati tramite una serie di regole che garantiscano la pubblicità degli atti politici. Ma quale governo è in grado di soddisfare una tale esigenza di trasparenza? Nei fatti, l’unica forma di potere che ammette la pubblicità delle sue determinazioni è quella democratica, sia nella sua veste classica – mediante la partecipazione diretta dei cittadini al processo decisionale – sia nella sua versione moderna – attraverso la pubblicità delle sedute parlamentari, l’esercizio della libertà di stampa e il diritto di accesso agli atti politico-amministrativi. D’altra parte, anche nell’era della democrazia di massa, la crescente intellettualizzazione della società, lungi dal rendere gli individui pienamente consapevoli del proprio ruolo politico, sembra aver posto le premesse per l’ascesa al potere di una nuova oligarchia (la cui legittimazione si fonda, in ultima analisi, su una nuova tipologia di arcana). Se, infatti, è innegabile che l’illuminismo – inteso, alla maniera del filosofo ebreo Moses Mendelssohn, come processo di educazione dell’uomo all’uso della ragione (cfr. Outram, 2005) – «ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni» (Adorno e Horkheimer, 1947, trad. it., p. 11), è altrettanto evidente che l’aumento della complessità sociale, di cui l’uso spregiudicato della ragione costituisce la forza motrice principale, richiede sempre più spesso l’adozione di strategie e di soluzioni talmente complesse da essere inaccessibili alla maggioranza degli individui e, perciò, incompatibili con qualsiasi forma di sovranità popolare. Detto diversamente, la minaccia del governo dei sapienti, la cui giustificazione principale risiedeva nel riferimento all’esperienza e alla saggezza di una élite aristocratica, si ripresenta in età tardo-moderna nella veste del “governo dei tecnici”, vale a dire di coloro che, in virtù di una preparazione

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tecnico-scientifica adeguata, si propongono alla guida della moderna società industrializzata. La distinzione tra governo dei guardiani – o dei sapienti – e governo dei tecnici non è quindi casuale, né semplicemente formale. Al contrario, essa rivela il senso profondo di un’epoca che si contraddistingue, tra le altre cose, per il fatto che «l’economia ha assunto una posizione civile (culturale e strutturale) eminente, preminente o addirittura escludente ed esclusiva» (Fisichella, 1997, p. 19). Pertanto, ci sembra opportuno circoscrivere l’utilizzo del termine-concetto “tecnocrazia” all’analisi dei fenomeni potestativi propri di quelle società in cui prevalgono – per tornare ancora una volta a Weber – comportamenti fondati su scelte razionali e strumentali2. Il che significa, in altri termini, che il fenomeno tecnocratico diventa rilevante allorché i sottosistemi di agire razionale rispetto allo scopo superano i limiti tollerabili dall’autorità delle tradizioni culturali su cui si fonda il dominio necessario al mantenimento dell’ordine in una società suddivisa in classi socio-economiche (Habermas, 1968). In questa prospettiva, può essere utile ricordare come il declino delle società tradizionali – cioè di quei sistemi politici in cui «vige una qualche immagine centrale del mondo (mito, religione, “storica”) allo scopo di legittimare efficacemente il dominio» (Ivi, p. 207) – si realizza nel momento in cui viene istituzionalizzato un modo di produzione (capitalistico) che, da un lato, garantisce una crescita costante !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 2

!Jürgen!Habermas distingue tre tipi di azioni: strumentali, razionali e comunicative. «L’agire strumentale è organizzato secondo regole tecniche, che si basano su un sapere empirico. Esse implicano in ogni caso prognosi condizionali su eventi osservabili, fisici o sociali […] Il comportamento di scelta razionale si basa [invece] su strategie, queste a loro volta su un sapere analitico. Esse implicano deduzioni da regole di preferenza (sistemi di valori) e massime generali» (Habermas, 1968, trad. it., p. 205). Agire strumentale e agire razionale costituiscono, insieme, la base di quella che Weber aveva definito azione razionale rispetto allo scopo. Per contro, l’agire comunicativo rappresenta una tipologia d’interazione fondata su aspettative reciproche rese vincolanti dalla condivisione di norme sociali (religiose, tradizionali, morali). I comportamenti razionali rispetto allo scopo concernono l’universo dell’economia: l’attore sociale, in pratica, organizza i mezzi e seleziona le possibili alternative di comportamento in relazione all’obiettivo da realizzare; l’azione comunicativa, invece, appartiene a quello che Habermas definisce universo della vita socio-culturale. In conclusione, tutti i sistemi sociali possono essere classificati sulla base dell’importanza relativa di una tipologia d’azione rispetto all’altra, per cui nelle società tradizionali prevalgono azioni di tipo comunicativo, laddove nelle società moderne si ha una preponderanza di azioni razionali rispetto allo scopo.

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della produttività da lavoro nel medio-lungo periodo e, dall’altro, implica un’espansione permanente dei sottosistemi di agire razionale, rendendo quindi problematica «la forma di legittimazione del dominio tramite interpretazioni cosmologiche del mondo, proprie delle grandi civiltà» (Ivi, p. 209). Accade, pertanto, che in un ambiente socio-politico improntato ai principi dell’economia capitalistica, in cui lo stato di emergenza è diventato la condizione normale di sviluppo delle dinamiche economiche, mentre la ricerca dell’efficienza rappresenta il criterio che plasma tutte le decisioni, pubbliche o private che siano, l’affidamento del ruolo di decision-maker alle tecnostrutture si presenta come la soluzione più desiderabile in ragione di un’oggettiva necessità di competenza. Su questo sfondo, tanto la teoria quanto la prassi democratica – ancorché nella loro versione difensiva – mostrano evidenti segni di debolezza. Abbiamo forse raggiunto un limite intrinseco della democrazia? Siamo forse obbligati ad affidarci a una soluzione non democratica? Ammesso che la risposta sia affermativa, dovremmo limitare il potere dei competenti a un insieme circoscritto di scelte politiche o, viceversa, dovremmo estenderlo a tutto l’arco decisionale pubblico? Nel caso in cui adottassimo la prima delle due soluzioni – affidamento parziale delle decisioni di pubblico interesse alle tecnostrutture – fino a che punto essa è compatibile con la democrazia? Questi e altri interrogativi ci impongono di analizzare in maniera più approfondita il complesso fenomeno tecnocratico.

2.2 Tecnocrazia: i precursori La vasta e articolata gamma di problematiche inerenti al fenomeno tecnocratico ha trovato la sua prima sistematica elaborazione teorica a cavallo tra la prima rivoluzione industriale – detta anche rivoluzione del macchinismo – e la rivoluzione dell’organizzazione (Pasdermadjian, 1959). Per la precisione, è con le opere di Claude-Henri de Saint Simon (1760-1825) e Auguste Comte (1798-1857) che ha inizio la stagione della riflessione sul declino del potere ! 46! !

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politico e che si posano le basi per lo sviluppo dell’ideologia tecnocratica. Essi, pertanto, costituiscono il punto di partenza obbligatorio di ogni discorso sulla tecnocrazia (sebbene il termine non compaia ancora nelle opere dei due maestri francesi del positivismo sociale). La marcia dell’umanità, afferma Saint-Simon, procede inevitabilmente alternando epoche organiche a epoche critiche, cui corrispondono sistemi sociali organici – incentrati «sulla intima connessione e non contraddittorietà» dei loro principi e delle loro istituzioni costitutivi, «per cui in ultima analisi ogni parte possa e debba concorrere alla costruzione di un tutto unitario» – e sistemi sociali disorganici – nei quali l’instabilità si presenta come il carattere dominante (Fisichella, 1965, p. 19). Coerentemente con questa filosofia della storia – la cui “ossatura” ricorda lo schema dialettico hegeliano – il filosofo francese individua nel periodo in cui vive gli elementi di una grave crisi che investe, insieme, le principali istituzioni sociali, gli istituti culturali e gli uomini che occupano le posizioni di potere. Cerchiamo adesso di vedere rapidamente quali sono i caratteri fondamentali di questo disordine socio-politico prima di proseguire la nostra indagine sul fenomeno tecnocratico. L’origine della crisi, osserva Saint-Simon nelle Opinions littéraires, philosophiques et industrielles (1825), risiede nella filosofia critica moderna di matrice lato sensu liberale. Invero, la predicazione di certi intellettuali criticorivoluzionari ha favorito la diffusione nel panorama sociale europeo di idee e di atteggiamenti incompatibili con l’ordine e l’equilibrio sociale. Il primo nemico da sconfiggere è, dunque, il pensiero critico considerato tanto nei suoi principi fondamentali quanto nelle sue applicazioni reali. Ma quali sono, in concreto, le idee che tanto spaventano il filosofo positivista? In primo luogo, Saint-Simon disapprova e respinge l’individualismo e lo spirito competitivo di origine protestante. «Depuis la dissolution du pouvoir spirituel européen – si legge nelle pagine del Nouveau christianisme – résultat de l’insurrection de Luther; depuis le quinziéme siécle, l’esprit humain s’est détaché des vues les plus générales, il s’est livré aux spécialités, il s’est occupé de l’analyse des faits particuliersê, des intérêts privés des différentes classes de la société» (Nouveau christianisme, ! 47! !

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1825, O.C., III, p. 375). L’etica protestante, in altre parole, ha instillato nella mente degli uomini l’idea che il singolo individuo sia una sorta di homo clausus, ossia un essere autonomo e a se stante, promuovendo così il momento dispersivo rispetto al momento organico della vita mentale e sociale. In secondo luogo, Saint-Simon censura la mitizzazione dei concetti di uguaglianza e libertà. Queste idee, infatti, sono molto efficaci laddove vengano usate per nutrire le aspirazioni rivoluzionarie della massa. Tuttavia, ammonisce il filosofo francese, una volta smantellate le barriere di un regime, non si può pensare di costruirne uno nuovo trasformando questi principi in dogmi assoluti. Coloro che promuovono la realizzazione di un tale progetto politico dovrebbero rendersi conto – come l’esperienza giacobina insegna – che rischiano solamente di perpetuare l’abuso di potere, il disordine sociale e l’anarchia. Occorre, invece, uno scopo positivo affinché la società civile possa ricomporsi organicamente in un nuovo sistema politico. La critica saintsimoniana non risparmia neppure le architetture statuali attraverso cui erano state concretate le idee sopra richiamate. Questo punto è di fondamentale importanza ai fini della comprensione del pensiero politico di Saint-Simon. Tuttavia, non essendo il tema centrale della nostra trattazione, ci limitiamo a osservare come dagli scritti saintsimoniani emerga una sostanziale avversione nei confronti del costituzionalismo moderno e, più in generale, delle idee giuridiche a partire dalle quali erano state modellate le istituzioni dei principali Stati continentali. Ma per quale ragione Saint-Simon nutre questa antipatia nei confronti di uno strumento che, per i pensatori liberali, costituisce una garanzia insostituibile delle libertà individuali? Innanzitutto, perché un ordinamento realizzato unicamente per preservare la libertà, ancorché depurata dal radicalismo di certi intellettuali rivoluzionari, attribuisce alla politica una funzione meramente passiva. Un sistema politico-sociale, come abbiamo già evidenziato, ha invece bisogno di un but positif per costituirsi e conservarsi integro nel tempo. A ciò si aggiunga che nell’ottica saintsimoniana tutte le “forme politiche” sono storicamente determinate e, come tali, destinate a decadere nel momento in cui venisse meno il contatto con la realtà sociale che ! 48! !

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le ha partorite. Non si capisce allora, osserva polemicamente Saint-Simon, per quale assurda ragione si continui ad attribuire tanta importanza a un modello costituzionale – quello inglese – che è stato concepito circa un secolo prima di quell’evento straordinario che è la Rivoluzione francese (1789): «Montesquieu a été grand admirateur du régime social établi en Angleterre, et il a eu très grande raison, car cet état de choses est incontestablement très superieur à tout ce qui avait existé auparavant; mais il ne faut pas en conclure que, si Montesquieu vivait aujourd’hui, il ne concevrait pas le moyen d’améliorer considérablement cet état de choses» (Catéchisme des industriels, 1823-1824, O.C., III, p. 248). È evidente allora che per Saint-Simon qualsiasi indagine sui fenomeni potestativi non possa prescindere da un richiamo al primato dei fatti concreti, in particolare quelli di natura economico-sociale. Se dunque gli elementi economico-sociali sono indissolubilmente legati alla componente politica, è soprattutto sulla legge che istituisce e disciplina la proprietà che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione per comprendere la distribuzione del potere nella società. In altre parole, la stratificazione della società in classi socio-economiche e la composizione delle élites dirigenti tende a rispecchiare la posizione che hanno gli individui nei confronti della proprietà. Così, afferma Saint-Simon, coloro che hanno un rapporto privilegiato con il capitale3 occupano generalmente posizioni sociali più prestigiose – e quindi detengono quote di potere maggiori – dei soggetti nullatenenti. Naturalmente, anche l’istituzione della proprietà sottostà «alla legge superiore e generale del progresso continuo, naturale e inevitabile» (Fisichella, 1965, p. 33), ragione per cui è lecito aspettarsi che le élites di domani avranno una composizione sociale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 3

!Il filosofo francese aveva ben chiara la distinzione tra proprietà fondiaria, proprietà industriale e reddito percepito. La prima è il risultato delle guerre condotte dai signori nella fase teologicofeudale dell’umanità. Essa, pertanto, si fonda sulla prepotenza del più forte – sull’esprit de conquête – ed è quindi ispirata all’ignobile sentimento dell’egoismo. La seconda, invece, nasce e si sviluppa a partire dall’XI secolo a fianco del latifondo attraverso il lavoro manuale dei primi artigiani. «L’affranchissement [degli schiavi e della servitù della gleba] créa une propriété industrielle ayant puor origine le travail, propriété distincte, indépendante et bientôt rivale de la propriété territoriale, qui était purement d’origine et de nature militaire» (L’Organizateur, 18191820, O., XX, p. 82). Di conseguenza, il reddito prodotto dalla proprietà industriale ha un “valore morale” superiore di quello prodotto dalla proprietà fondiaria.

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differente dalle quelle odierne. La Rivoluzione francese, con il conseguente “passaggio del testimone” dall’aristocrazia alla borghesia, ne è la conferma. A questo punto è lecito domandarsi a quale categoria sociale dovremmo ricondurre la futura classe dirigente. Su questo problema Saint-Simon sembra non avere dubbi: i borghesi – uomini di legge, membri dell’esercito senza titolo nobiliare, nonché beneficiari di rendite – hanno il merito di aver cancellato una parte dei privilegi degli aristocratici. Tuttavia, essi non hanno avuto e non possono avere la forza politica per condurre un vero e definitivo conflitto contro il mondo dell’aristocrazia, per la semplice ragione che «ils sont dans la réalité une noblesse au petit pied; leur existence comme corporation politique ne peut pas se prolonger au delà de celle de la véritable noblesse» (Catéchisme des industriels, 1823-1824, O.C., III, p. 161). La rivoluzione borghese, in breve, è stata una rivoluzione incompiuta. Fortunatamente, evidenzia con toni premonitori il filosofo positivista, la storia dell’umanità è giunta a un bivio. L’analisi scientifica della realtà sociale europea indica ormai a chiare lettere «la nécessité absolue de retirer aux légistes et aux métaphysiciens l’influence politique universelle qu’on leur accorde, et qui ne tient qu’a l’opinion présumée de l’excellence de leurs doctrines» (Du système industriel, O., XXI, p. 11). Il vettore della dinamica sociale, si sta muovendo «à l’ombre de la constitution militaire – sulla cui base era stato edificato l’ordine feudale – qui se modifie graduellement, vers la constitution industrielle, véritable destination de l’espèce humaine civilisée» (Ivi, O., XXII, p. 185). Questo movimento, che, per ovvie ragioni di natura economica e commerciale, ha assunto una dimensione internazionale, porterà inevitabilmente al potere una nuova classe sociale: la classe degli industriels. La stessa Rivoluzione francese è una chiara conseguenza del processo di industrializzazione: «Si l’on veut absolutement assigner une origine à la révolution française, il faut la dater du jour où a commencé l’affranchissement des communes et la culture des sciences d’observation dans l’Europe occidentale» (Ivi, O., XXI, p. 78). Sfortuna ha voluto, però, che la classe sociale legata direttamente all’attività produttiva non riuscisse, vuoi per mancanza di organizzazione politica, vuoi per una sorta di ! 50! !

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soggezione culturale nei confronti della borghesia, ad impedire che i légistes di cultura metafisica assumessero le leve del comando. Ma chi sono gli industriali di cui parla il filosofo francese? E come sarà organizzato il nuovo sistema sociale? «Un industriel – afferma Saint-Simon – est un homme qui travaille à produire ou à mettre à la portée des différents membres de la société, un ou plusieurs moyens matériels da satisfaire leurs besoins ou leurs goûts physiques […] Touts les industriels réunis travaillent à produire […] ils forment trois grandes classes qu’on appelle les cultivateurs, les fabricants et les négociants» (Catéchisme des industriels, 1823-1824, O.C., III, p. 67). La classe degli industriali è quindi composta da tutti quei soggetti che, diversamente dai proprietari terrieri, non sfruttano un diritto acquisito per ricavarne una facile rendita, ma investono quotidianamente i loro risparmi e le loro fatiche fisiche per produrre ricchezza. Si tratta indubbiamente di una definizione molto generica, tanto da includere al suo interno uno svariato numero di soggetti, indipendentemente dal loro rapporto con gli strumenti della produzione. Una definizione che sicuramente Karl Marx avrebbe contestato e che, di fatto, rifiuterà alcuni decenni più tardi allorché scriverà con Engels il Manifesto del partito comunista (1848). Tuttavia, essa consente l’individuazione di quella che può essere considerata come la chiave di volta dell’intero edificio saintsimoniano: il concetto di produzione industriale. Si legga in proposito questo passaggio tratto da L’industrie: «La politique […] n’est plus livrée au caprice des circostances; son sort n’est plus attaché à celui d’un pouvoir, d’une forme, d’un prejugé […] la politique est donc, pour me résumer en deux mots, la science de la production, c’est-à-dire la science qui a pour objet l’ordre de choses le plus favorable à tous les genres de productions» (L’industrie, 18161818, O., XVIII, p. 189). La produzione di beni è dunque l’obiettivo più autentico che una società libera dalle ottuse convinzioni metafisiche possa perseguire. D’altra parte, la realizzazione di questo scopo primario richiede un processo di socializzazione che consenta di plasmare la società europea sul modello dello stabilimento industriale. Occorre, in altre parole, una nuova dottrina – l’industrialisme – che ! 51! !

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si faccia carico della necessità di ristrutturare i rapporti sociali in vista del comune scopo produttivo. Ma quali e come devono essere, secondo SaintSimon, i caratteri e i contenuti di questa rivoluzionaria dottrina sociale? In primo luogo, il pensiero industrialista deve essere sistemico, organizzativo e propositivo. Esso, in altre parole, rifiutando qualsiasi concezione critica e dispersiva della vita intellettuale e sociale, si propone di garantire l’ordine e la prosperità mediante una direzione razionale dei rapporti sociali. In secondo luogo, la speculazione industrialista deve avere le qualità della unitarietà e della sinteticità, per cui la sfera politica, la sfera economica e quella sociale rappresentano «tre momenti di un’unica e globale situazione teorica e pratica» (Fisichella, 1965, p. 69). In terzo luogo, l’industrialismo stabilisce una rinnovata concezione dei principi democratici di uguaglianza e libertà. Per essere più precisi, l’idea di uguaglianza, una volta svuotata dei suoi contenuti criticorivoluzionari, inadatti a una società che aspira all’intima coesione delle sue parti, «consiste en ce que chaqun retire de la société des bénéfices exactement proportionnés à sa mise sociale, c’est-à-dire à sa capacité positive, à l’emploi utile qu’il fait de ses moyens» (Du système industriel, O., XXII, p. 17). La libertà, dal suo canto, diviene direttamente funzionale all’«égalité industrielle» nella misura in cui «elle consiste […] à développer, sans entraves et avec toute l’extension possible, une capacité […] utile à l’association» (Ivi, O., XXI, pp. 15-16). È evidente, in queste parole, il rifiuto categorico della concezione individualistica e privatistica del principio di libertà, tipica della tradizione politica liberale. L’ondata riformatrice saintsimoniana non risparmia neppure l’istituto giuridico della proprietà privata. Del resto, allo stesso modo in cui gli sforzi individuali devono essere piegati alle esigenze collettive della produzione industriale, anche «le droit individuel de propriété ne peut être fondé que sur l’utilité commune et générale de l’exercice de ce droit» (L’industrie, 18161818, O., XIX, p. 90). Ciò, tuttavia, non significa proporre l’eliminazione del diritto di proprietà, la cui titolarità, secondo Saint-Simon, può benissimo restare nelle mani dei privati. Significa, invece, intervenire sulle modalità di ! 52! !

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esercizio del diritto stesso affinché possa garantire il risultato migliore, in termini di produttività, per l’industria e quindi per la collettività. D’altra parte, se è vero, come abbiamo visto in precedenza, che le categorie economiche si trovano in rapporto di reciproca dipendenza con quelle politiche – per quanto nello schema saintsimoniano questo rapporto tenda a muoversi dall’economico al politico – allora è altrettanto agevole constatare come la subordinazione della proprietà alle esigenze della collettività richieda una profonda trasformazione di tutte quelle architetture istituzionali che sono state concepite per un mondo ispirato al sentimento dell’egoismo. La soluzione prospettata da Saint-Simon circa la riforma delle principali istituzioni politiche prende avvio da una considerazione generale sui processi potestativi. Gli uomini, si legge in uno dei passaggi più significativi de L’organizateur, bramano il potere non per il desiderio del potere in sé, ma come mezzo di utilità e di piacere. Essi ricorrono al dominio sui loro simili non «pour amor de la domination», ma perché «ils trouvent commode, puor leur paresse et leur incapacité, de fair travailler les autres à leur procurer des jouissances, au lieu de coopérer à ce travail» (L’organizateur, 1819-1820, O., XX, p. 126). Questo stato di cose, proprio delle società pre-industriali, non solo è moralmente riprovevole, ma è anche altamente dispendioso in termini di energie fisiche e psichiche. L’umanità, però, ha finalmente compreso l’inutilità di continuare a condurre una lotta fratricida e sta gradualmente sostituendo «le désir de commander aux hommes» con «le désir de faire et de défaire la nature» (Ivi, O., XX, p. 126). Il passaggio da un oggetto all’altro del potere comporta una profonda trasformazione del carattere stesso del potere. Per essere più precisi, l’atto di imperium, per cui l’autorità impone un comportamento ai soggetti subordinati sotto la minaccia dell’esercizio della forza fisica, viene ad essere sostituito dalla dimostrazione scientifica, la cui capacità di condizionamento risiede nell’utilità oggettiva della decisione, frutto di valutazioni formulate sulla base di indagini scientifiche della realtà. Detto diversamente, l’attività governativa cede inesorabilmente il posto all’attività amministrativa, consentendo così agli ! 53! !

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uomini di «se débarrasser des institutions dont l’utilité n’est qu’indirecte, pour établir celles qui serviraient le plus directement le bien public», vale a dire l’efficienza produttiva (Catéchisme des industriels, 1823-1824, O.C., III, p. 144). In quest’ottica, l’apparato coercitivo dello Stato – e con esso tutte le istituzioni liberali poste a difesa dell’individuo – non ha motivo di esistere se non nella fase di transizione dal regime governativo – dove l’assenza di uno scopo positivo comune a tutti i membri richiede necessariamente l’utilizzo di mezzi repressivi per garantire la coesione sociale – al regime amministrativo. Resta a questo punto da chiarire la questione relativa alle modalità di accesso e di promozione ai nuovi centri potestativi, che sono, di fatto, centri di direzione della produzione. A tale proposito, afferma Saint-Simon, è opportuno che le leve del comando vengano affidate alle persone più qualificate, cioè a coloro che, in virtù della loro preparazione tecnico-scientifica, nonché della loro esperienza nel campo dell’industria, sono in grado di combinare i vari elementi (umani e materiali) del processo produttivo in modo da garantire un livello di produzione in equilibro con le esigenze della società. Il passaggio dallo iussum al demonstratum, pertanto, non equivale alla realizzazione di un assetto politico-sociale perfettamente orizzontale, in cui tutti i membri della classe-non-classe dei lavoratori-produttori sono chiamati a contribuire pariteticamente all’attività di direzione strategica della grande manifattura sociale. Evidentemente, il filosofo francese immagina una società modellata da «l’admirable caractére des combinaisons industrielles, que tous ceux qui y concourent sont, en réalité, tous collaborateurs, tous associés, depuis le plus simple manouvrier jusqu’au manufacturier le plus opulent, et jusqu’à l’ingénieur le plus éclairé» (L’organizateur, 1819-1820, O., XX, p. 150), ma, di fatto, è costretto a introdurre delle distinzioni di ruolo – cui corrispondono delle asimmetrie di potere – basate sulla destinazione funzionale dei soggetti impiegati nel processo produttivo. Ciò, in termini pratici, significa che gli individui dotati di una conoscenza globale delle variabili della produzione – gli industriels dirigeants, come li chiama Saint-Simon – andranno a occupare una posizione più alta nella piramide sociale di coloro che hanno una competenza ! 54! !

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settoriale. In ultima analisi, è nel principio della divisione del lavoro che vanno cercate le ragioni della gerarchizzazione sociale. Auguste Comte condivide la tesi secondo cui la distribuzione del potere nella società industrializzata deve rispecchiare la ripartizione delle attività lavorative. Una ripartizione – merita sottolinearlo – che non deve avvenire su basi politiche – la politica per Comte è il regno dell’incompetenza, del libero arbitrio che si trasforma in abuso, degli infiniti dibattiti inconcludenti e della corruzione morale e materiale (cfr. Fisichella, 1997) – bensì attraverso quei criteri tecnico-scientifici propri dei gruppi sociali più evoluti. A differenza di Saint-Simon, però, l’autore del Cours de philosophie positive, lungi dal considerare il principio della divisione del lavoro un mero criterio funzionale, si spinge oltre denunciandone i limiti e le contraddizioni. La specializzazione, avverte Comte, se non viene tenuta sotto controllo, può rivelarsi un pericoloso fattore di deterioramento dell’intelletto individuale e, conseguentemente, di cattivo funzionamento del sistema sociale. Quanto al primo ordine di problemi, la divisione del lavoro rischia di generare individui «trés capable sous un rapport unique et monstrueusement ineptes sous tout les autres aspects, trop communs aujourd’hui chez les peuples les plus civilisés, ou ils excitent l’admiration universelle» (Cours de philosophie positive, 18301842, IV, p. 318). D’altra parte, la parcellizzazione delle attività lavorative minaccia seriamente anche la coesione sociale: i lavoratori, infatti, incapaci di comprendere «un intérêt commun devenu de plus en plus vague et indirect» (ibidem), si riuniscono in corporazioni che tendono ad agire indipendentemente dal sistema di cui sono parte, alimentando così le tendenze centrifughe a scapito di quelle centripete. Insomma, ciò che «la sociabilité – le competenze sociali – gagne en étendue, elle le perd en énergie» (Sistème de politique positive, 1851-1854, IV, p. 198). Di fronte a questi problemi, l’idea di un prolétaire interchangeable – prima teorizzato da Charles Fourieur (1772-1837), poi approfondito da Marx ne L’ideologia tedesca (1845) – appare a Comte tanto bizzarra quanto la filosofia del laissez faire è incapace di garantire uno sviluppo armonico dei processi economici. Occorre, invece, cercare un equilibrio tra il ! 55! !

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principio della separazione del lavoro e il principio della cooperazione degli sforzi, vale a dire tra il momento analitico e il momento coesivo della produzione industriale. Le tendenze dissociative, insite nella specializzazione delle funzioni, sono ulteriormente aggravate dai conflitti tra imprenditori e lavoratori. Invero, se nella prima fase di sviluppo del capitalismo – quella che Comte definisce “spontanea” – padroni e lavoratori vivevano in una condizione di sostanziale armonia – complice la scarsa frammentazione delle attività lavorative – con la crescente utilizzazione delle scoperte scientifiche e tecnologiche nei processi produttivi e la conseguente espansione delle imprese, si è venuta a creare una situazione che mette i vertici e la base dell’industria l’uno contro l’altra. In questa prospettiva, la concentrazione della ricchezza e degli strumenti della produzione nelle mani di pochi individui – pur avendo una chiara utilità sociale, in quanto «base nécessaire de la séparation des travaux» (Ivi, II, p. 158) – contribuisce sicuramente ad alimentare il malcontento tra coloro che vivono esclusivamente del loro lavoro. Se questa è la diagnosi, la terapia, secondo Comte, deve essere cercata nella pianificazione razionale e positiva delle attività produttive. È necessario, per dirla con le parole di uno dei più autorevoli studiosi del positivismo sociale, Domenico Fisichella, che tutte le attività lavorative coesistenti e concorrenti nella società vengano incorporate «in un sistema di previsioni e in un complesso di piani generali e/o di programmi aziendali volti a conferire razionalità allo sviluppo economico e a evitare le crisi e le cadute» (Fisichella, 1997, p. 38). Solo un plan de réorganisation general può, infatti, ristabilire l’armonia tra gli interessi di classe, recuperare il pieno impiego delle forze produttive – eliminando le inefficienze dovute agli attriti intra productionem – e garantire un’adeguata preparazione alla massa dei lavoratori. Peraltro, anche il diritto di proprietà, laddove fosse sottoposto alle necessità della collettività, non costituirebbe più una minaccia per i non abbienti. Poco importa, afferma Comte, chi sia il proprietario nominale dei mezzi di produzione, a patto che «leur emploi

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normal soit nécessairement utile à la masse sociale» (Cours de philosophie positive, 1830-1842, VI, p. 357). Naturalmente, la predisposizione e l’attuazione periodica di piani di riorganizzazione sociale – in una parola l’amministrazione (non il governo) della società tutta – implica l’esistenza di una struttura potestativa. Si pone, quindi, anche per Comte il difficile problema di individuare le figure cui affidare le leve del potere. A tal proposito, si legge ancora nel Cours, gli unici soggetti in grado di assicurare «la feconda coesione della universalità delle vedute con la unità dell’azione» sono coloro che «indirizzano e amministrano lo sviluppo industriale» (Fisichella, 1965, pp. 199-200), cioè gli industriels dirigeants, come li aveva chiamati Saint-Simon, coloro che posseggono un degré de généralité superiore alla media. In effetti, osserva Comte, «le caractére propre de l’entrepreneur est certainement plus général et plus abstrait que celui du simple ouvrier, dont l’action et la responsabilité sont moins étendues» (Cours de philosophie positive, 1830-1842, VI, p. 347). Gli operai, dal loro canto, una volta abbandonato il progetto velleitario di una società senza classi, soltanto acquisendo consapevolezza della dignità e dell’indispensabilità della propria funzione esecutiva potranno superare lo stato di frustrazione e di alienazione in cui sono stati confinati a seguito dell’industrializzazione intensiva della società. Esistono, in altre parole, dei limiti oggettivi – degli «embarras insurmontable» (Ivi, VI, p. 176) – nei confronti dei quali la scienza sociale non ha alcun potere se non quello di individuarli per evitare che inutili forzature possano mettere a repentaglio l’intero sistema. Orbene, la distinzione tra industriali dirigenti e industriali esecutori o, per usare i termini comtiani, tra patriziato industriale e proletariato industriale è uno di questi. A questo punto si possono abbozzare alcune riflessioni – a mo’ di conclusione – sul pensiero dei due autori francesi. La prima questione che ci preme affrontare riguarda la natura dei contenuti delle opere saintsimoniane e comtiane. La domanda che ci poniamo, in sintesi, è la seguente: le teorie di Saint-Simon e di Comte rientrano nel genere delle teorie astratte o in quello delle teorie realistiche? Si tratta, in altre parole, di proiezioni sul futuro di natura ! 57! !

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scientifica o di natura filosofica? Beninteso, non è possibile disquisire su ognuna delle molteplici questioni che riempiono le pagine dei due pensatori positivisti. Tuttavia, a livello generale, possiamo abbozzare una sorta di suddivisione tra contenuti descrittivo-esplicativi e contenuti prescrittivo-giustificativi. In altre parole, le teorie sopra esposte assolvono a una innegabile funzione descrittivoesplicativa nella misura in cui rimangono fedeli ai fatti concreti del loro tempo, ma sconfinano nell’utopia laddove prevedono la scomparsa del potere politico e, di riflesso, l’estinzione dello Stato. Del resto, se è vero, come sostiene Domenico Fisichella, che i due maestri del positivismo francese vedono con largo anticipo che «questo della persuasione e dei condizionamenti mentali e morali, e non quello storicamente scontato della forza, sarà il modo pressoché inedito dell’esercizio futuro del potere dell’uomo sull’uomo», nonché quello «della pressione ideologica e della manipolazione propagandistica in una società caratterizzata […] da una grande comunità di consumi, non solo materiali» (Fisichella, 1965, p. 331), è altrettanto innegabile che, a distanza di circa due secoli, la società non si è dépolitisée, né la politica ha perso il suo carattere antagonistico. Semmai ciò che è cambiato – ma lo vedremo meglio in seguito – è l’equilibrio tra sfera politica e sfera economica, nel senso che i confini tra i due territori si sono spostati a tutto vantaggio del dominio economico. Qual è, dunque, il merito da attribuire ai due pensatori positivisti circa la comprensione del fenomeno tecnocratico? Secondo il nostro modesto parere, Saint-Simon e Comte, tracciando le linee «dello sviluppo in senso positivo della civiltà occidentale» (Ivi, p. 330), hanno saputo scorgere brillantemente i rischi insiti nei processi di razionalizzazione dell’universo della vita socio-culturale. In altri termini, se noi la leggiamo “alla rovescia”, l’opera saintsimoniana e comtiana suona più come un monito rivolto all’umanità contro il pericolo di un “assolutismo tecnocratico”, che non come un progetto di società ideale. Non a caso i due autori francesi, nello stesso momento in cui annunciano l’imminente realizzazione di una società «tutta tesa nello sforzo produttivistico, totalmente incorporata in un sistema di piani volti in maniera esclusiva alla attuazione del più alto grado possibile di intervento sulla natura esterna, guidata da una classe ! 58! !

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unicamente pensosa dei traguardi industriali» (Ivi, p. 229), avvertono l’urgenza di introdurre una sorta di correttivo spirituale per evitare che i rapporti umani, privi di ogni riferimento ai «valori della trascendenza», scadano al livello di una delle tante variabili del processo produttivo. Così, a fianco del moderno direttore industriale, Saint-Simon e Comte collocano la figura dell’intellettuale positivo, una sorta di clero secolarizzato – composto da filosofi della morale, scienziati teorici e uomini d’arte – il cui compito è quello di ricomporre in unità organica la funzione intellettuale e la funzione morale, da una parte, e di stimolare la sensibilità positiva delle masse, dall’altra. Per concludere, entrambi i filosofi francesi possono essere considerati a tutti gli effetti gli antesignani del pensiero tecnocratico. Pur nel contesto di una società sostanzialmente arretrata, essi hanno avuto la lungimiranza di indicare nella trasformazione in senso funzionale della proprietà e nella conseguente emersione di una élite di dirigenti industriali due delle tendenze fondamentali della futura società industrializzata. Di più, essi hanno saputo vedere nella pianificazione economica lo strumento principale di attuazione degli interessi generali di una comunità di individui. Un’intuizione che si rivelerà feconda non solo per lo sviluppo di nuove elaborazioni teoriche, ma anche per la stessa prassi economica dei paesi economicamente più avanzati.

2.3 Tecnocrazia: la teoria della rivoluzione manageriale The Managerial Revolution. What is happening in the world (1941), scritta dal saggista statunitense James Burnham all’avvio della seconda guerra mondiale, è un’opera che, se non fosse per la distanza temporale e soprattutto culturale che la separa dalla stagione del positivismo sociale, potrebbe essere etichettata, con i dovuti distinguo, come una continuazione – verrebbe quasi da dire “un aggiornamento” – del lavoro saintsimoniano e comtiano. In effetti, la tesi centrale del testo, che l’autore si propone di dimostrare scientificamente, è quella secondo cui la società capitalistica, o borghese, si sta muovendo in ! 59! !

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direzione della cosiddetta società manageriale. «Ciò che accade in questo periodo di transizione – osserva Burnham – è un movimento del gruppo o classe sociale dei managers […] movimento inteso alla conquista del predominio sociale, del potere e del privilegio, della posizione di classe dominante […] Di più, questo movimento si estende a tutto il mondo, ed è già molto sviluppato in tutte le nazioni, benché si trovi a un diverso grado di sviluppo nelle diverse nazioni» (Burnham, 1941, pp. 66-67). Ciò non dovrebbe stupire se si considera che nei due decenni precedenti alla pubblicazione del libro, per la precisione a cavallo tra l’economia di guerra e il New Deal rooseveltiano, proprio negli Stati Uniti di Burnham era sorto un singolare movimento il cui scopo dichiarato era quello di sostituire i politici e gli uomini d’affari al potere con gli ingegneri e gli scienziati4. Ma in che cosa consiste, precisamente, questa rivoluzione manageriale? Ogni sistema sociale, scrive Burnham, si caratterizza per la presenza al suo interno di un gruppo dominante, vale a dire di un insieme relativamente piccolo di individui – comunque sia è sempre una minoranza – che controlla, «mediante la forza personale, o, come avviene nelle società complesse, con l’appoggio minacciato o effettivo del potere statale» (Burnham, 1941, pp. 55), gli strumenti della produzione e in virtù di questa prerogativa riesce ad ottenere un trattamento !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 4

!Il Technocracy Movement nacque negli Stati Uniti intorno alle prime associazioni di scientific management: l’American Society for Mechanical Engineers, l’American Institute of Mining Engineers, la New Machine dell’ex-assistente di Taylor, Henry Laurence Gantt, di cui ancora oggi conosciamo il diagramma omonimo impiegato per il controllo dell’avanzamento della produzione. Il minimo comune denominatore dei membri del movimento tecnocratico è rappresentato dall’ostilità nutrita nei confronti dei proprietari assenteisti e, più in generale, dei grandi capitalisti (Gallino, 1978). Si legga in proposito questo passaggio di The engineers and the price system di Thorstein Veblen, considerato da molti studiosi come una sorta di manifesto programmatico del movimento: il funzionamento della moderna economia industriale viene «deliberatamente ostacolato mediante le discordie, le errate direttive e la disoccupazione delle risorse materiali, degli impianti e della manodopera in ogni occasione in cui gli uomini di governo o i capitani della finanza sono in grado di porre le mani sul suo meccanismo». Poi continua: «tutti i popoli civili soffrono di comuni privazioni perché il loro stato maggiore di esperti industriali è in tal modo obbligato a ricevere ordini e a sottostare al sabotaggio degli uomini di governo e degli interessi costituiti» (Veblen, 1921, trad. it., p. 941). Su questo sfondo, Veblen arriva a prefigurare l’istituzione di un «soviet di tecnici» cui affidare la guida degli affari economici «sulla base del comune interesse all’efficienza produttiva, all’impiego economico delle risorse e all’equa distribuzione dei beni di consumo prodotti» (Ivi, p. 1008).!

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privilegiato nella distribuzione della ricchezza prodotta. Si noti, come lo stesso autore evidenzia, che tale definizione esula da considerazioni circa la natura del governo e le caratteristiche del diritto di proprietà, per cui l’individuazione delle élites al potere avviene esclusivamente sulla base di criteri sostanziali. In particolare, Burnham ne indica due: in primo luogo, il controllo effettivo degli strumenti della produzione; in secondo luogo, il livello di ricchezza posseduta. Così, è facile riconoscere come nell’economia feudale – in prevalenza agricola – il controllo della terra attribuisse ai signori feudatari lo status di classe dominante, laddove nell’economia postmedievale, la crescita dell’importanza relativa dei settori industriali e finanziari ha favorito l’ascesa della classe dei capitalisti. Ed è altrettanto plausibile che in una società senza classi, qualora esistesse, nessun gruppo specifico controllerebbe i mezzi di produzione e, di conseguenza, non vi sarebbero trattamenti privilegiati sulla distribuzione del reddito, se non in conformità a fattori non economici. In questa prospettiva, di evidente impronta marxiana, il ruolo delle istituzioni politiche – e con esse quello delle ideologie e delle credenze su cui si regge l’intera impalcatura statuale – è limitato alla protezione degli interessi della classe dominante. D’altra parte, l’espressione “lotta per il potere” denota tutte quelle azioni – non solo violente – poste in essere da una classe sociale per acquisire il controllo dei mezzi di produzione e, quindi, i relativi privilegi sociali. A tal proposito, può essere utile ricordare come «la costruzione del predominio borghese» cominciò a realizzarsi gradualmente dentro la società feudale, quando gli «istituti politici, religiosi ed educativi erano ancora diretti nell’interesse dei signori feudali […] portando una percentuale sempre maggiore del commercio e della produzione entro la struttura della forma capitalistica dei rapporti economici» (Ivi, p. 61). E così proseguì fintantoché la classe sociale emergente non raggiunse un livello di sviluppo economico talmente elevato da essere incompatibile con la vecchia struttura politico-sociale. Arrivati a quel punto era inevitabile che la borghesia attuasse una trasformazione radicale delle strutture statali in modo da renderle favorevoli ai suoi interessi particolari. La classe dei capitalisti, si legge ancora nel testo burnhamiano, ha raggiunto l’apice del potere ! 61! !

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nei primi anni del XX secolo. Ma adesso una nuova classe emergente si sta facendo strada all’interno della struttura capitalistica, allo stesso modo in cui, nel tardo Medioevo, i primi mercanti cominciarono ad erodere porzioni di potere alle élites feudali. «La conclusione di questo periodo di trasformazione – afferma categoricamente Burnham – che è da attendersi in un avvenire relativamente prossimo, troverà la società organizzata in un sistema del tutto diverso […] Nella nuova struttura sociale un diverso gruppo o classe – i managers – sarà la classe dominante o dirigente» (Ivi, p. 69). Messa in questi termini, la problematica relativa all’esito della lotta per il potere, per quanto sia intrinsecamente e logicamente coerente, sembra soffrire di un eccesso di semplicismo. Cionondimeno, il testo burnhamiano contiene tutta una serie di “elementi fattuali” sui quali vale la pena soffermarsi. Innanzitutto, chi sono questi soggetti cui l’avvenire dovrebbe riservare il privilegio di classe dominante? I managers sono coloro che sovrintendono alla produzione di beni e servizi: essi, in termini pratici, dirigono e coordinano la vasta gamma di attività e di compiti che intervengono nel corso di un normale processo produttivo. Come gli operai e i tecnici, pertanto, si trovano in rapporto funzionale con i mezzi di produzione – non ne sono proprietari se non in percentuali ridottissime – ma a differenza di quelli si collocano al livello funzionale più alto della catena della produzione. Osserva Burnham: «è un errore (in cui cadde il Veblen, fra altri) confondere questa funzione direttiva e coordinatrice col lavoro scientifico e d’ingegneria […] Dopo tutto, gl’ingegneri e scienziati […] non sono che lavoratori altamente qualificati, non diversi di tipo dal lavoratore molto abile che sa costruire uno strumento di precisione o far funzionare un tornio molto complesso» (Burnham, 1941, trad. it., pp. 73-74). Nella fase del capitalismo nascente, il proprietario dei mezzi produttivi poteva gestire in perfetta autonomia l’intero processo della produzione. In pratica, proprietario e manager si identificavano nella stessa persona. Con il passare del tempo, però, la progressiva espansione delle imprese e la crescente applicazione delle scoperte tecnico-scientifiche nei processi industriali hanno generato un vero e proprio moto di scissione tra il momento della titolarità e il ! 62! !

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momento dell’esercizio, per cui coloro che un tempo assolvevano alle funzioni manageriali – i proprietari dei mezzi di produzione – «si ritirano essi stessi dal management, così che la differenza nelle rispettive funzioni diventa anche una differenza nelle persone che le assolvono» (Ivi, p. 75). Peraltro, evidenzia Burnham, è possibile distinguere quattro gruppi di individui in relazione al tipo di rapporto che sussiste con uno specifico settore di produzione: 1) il gruppo dei direttori di produzione, detti anche direttori generali; 2) il gruppo dei direttori finanziari; 3) il gruppo dei capitalisti finanziari; 4) il gruppo degli azionisti. I membri del primo gruppo sono coloro che si occupano del processo produttivo concreto (i managers nel senso stretto del termine)5. Il loro ambito di azione può variare dal singolo stabilimento fino a coprire un intero settore industriale. I membri del secondo gruppo, invece, hanno il compito di guidare la società verso il profitto. Essi, per la precisione, trattano i prezzi delle materie prime, fissano quelli dei prodotti finiti e negoziano le condizioni di finanziamento della società. Quanto al terzo gruppo, si fa riferimento a tutti quei soggetti che mediante «holding companies, direttorati interconnessi, banche e altri sistemi» controllano le attività di svariati settori industriali e commerciali, indipendentemente dalle esigenze produttive e finanziare della singola società. Infine, gli azionisti sono i proprietari legali delle società. Formalmente, essi sono i titolari dei mezzi produttivi, ma, salvo rari casi, «essi non esercitano alcun controllo reale sulla società, se non per quel minore elemento di controllo sui profitti (o meglio, sui dividendi dichiarati) della società che proviene loro dal possedere azioni preferenziali anziché ordinarie» (Ivi, pp. 77-78). La differenza tra il terzo e il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 5

!Burnham sembra circoscrive l’utilizzo del termine “manager” ai soli individui che gestiscono (to manage) in modo razionale i fattori produttivi allo scopo di ottenere il miglior risultato in termini di produttività. Si tratta, a nostro parere, di una reductio ad unum priva di oggettività. Si consideri, in proposito, questo elenco di mansioni tratto dalla voce “dirigenti” del Dizionario di Sociologia del sociologo Luciano Gallino: 1) apertura di nuovi stabilimenti e chiusura di quelli preesistenti; 2) emissioni di azioni, obbligazioni e prestiti; 3) determinazione del tasso di crescita produttiva, commerciale e finanziario; 4) politica di mercato; 5) politica di ricerca e sviluppo; 6) ammodernamento delle tecnologie di produzione; 7) strategie di ingresso su nuovi mercati; 8) assunzione e addestramento dei lavoratori; 9) politica retributiva; 10) gestione delle relazioni sindacali (Gallino, 1978). Non a caso, nell’odierno linguaggio aziendalistico, si parla di managing director, general manager, export manager, area manager, personnel manager, project manager, product manager, etc.

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quarto gruppo, pertanto, è più di sostanza che non di forma, nel senso che i capitalisti finanziari posseggono generalmente una quota molto elevata di azioni, tale da consentirgli di influire significativamente sulle dinamiche di interi settori produttivi. A ben vedere, tutti e quattro i gruppi di cui sopra partecipano in qualche misura del controllo dei mezzi di produzione. E, naturalmente, tutti i “controllori” – sulla base di quanto abbiamo detto in precedenza – ricevono, come contropartita della loro posizione preminente, un trattamento preferenziale circa la distribuzione della ricchezza prodotta. Tuttavia, rileva Burnham, la distribuzione del potere, in termini di capacità di controllo e di ricchezza posseduta, è tutt’altro che omogenea. Invero, i soggetti appartenenti al capitalismo finanziario e, in parte, anche gli azionisti ricevono un trattamento economico superiore a quello dei managers, a fronte di un potere di controllo in costante diminuzione. Ciò, in estrema sintesi, significa che si è verificato uno squilibrio tra ricchezza e controllo. Questo stato di cose, però, non può durare all’infinito. «Il controllo sull’accesso ha un valore decisivo e, quando consolidato, porterà con sé il controllo del trattamento preferenziale della distribuzione: ossia, sposterà la proprietà in modo non ambiguo verso la nuova classe che esercita il controllo» (Ivi, p. 87). Due dinamiche, secondo Burnham, contribuiscono all’ascesa sociale del management: la pratica dell’azionariato di massa e l’intervento del governo nell’economia. La prima dinamica concerne la frammentazione del diritto di proprietà tra una moltitudine di soggetti – di nuovo gli azionisti – con scarsi, per non dire nulli, poteri decisionali. Molte società – sicuramente quelle più grandi – ricorrono a questa pratica per attingere risorse fresche direttamente dai mercati finanziari. Tuttavia, l’azionariato di massa, se da un lato fornisce una parte dell’ossigeno di cui il sistema economico necessita, dall’altra contribuisce ad attenuare quel legame tra proprietà e mezzi di produzione che per secoli ha rappresentato la pietra angolare del capitalismo. Quanto al governo, esso interviene nella sfera economica sempre più spesso, sottraendo importanti settori «al regno dei rapporti economici capitalistici» (Ivi, p. 97). Un fenomeno che, agli occhi di Burnham, ricorda i tempi in cui i primi borghesi (artigiani, ! 64! !

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mercanti e banchieri) conquistavano quote di produzione e di commercio alla classe dominante medievale. In particolare, la statalizzazione dell’economia – nel senso più ampio dell’espressione – significa il trasferimento del controllo effettivo della produzione a degli individui che sono pienamente assimilabili ai managers delle grandi corporation. Insomma, «il processo di estensione della proprietà e del controllo governativi significa […] un continuo incremento del predominio manageriale sull’insieme dell’economia» (Ivi, p. 100). Alla luce di queste considerazioni, viene da chiedersi per quali ragioni i capitalisti non facciano niente per arrestare o, quantomeno, per rallentare questa dinamica. Nel breve periodo, il “capitale” può sfruttare a proprio vantaggio le esternalità positive generate dall’intervento pubblico. «I capitalisti – sottolinea Burnham – non trarranno un beneficio diretto dall’impresa governativa; ma questa, avendo ancora l’impresa privata come perno del suo sistema di leve, può ancora venire manipolata indirettamente a beneficio dell’impresa privata e quindi dei capitalisti» (Ivi, p. 108). Le cose, però, cambiano se ci poniamo in un’ottica di lungo periodo. Se, cioè, immaginiamo una società in cui la sfera economica è completamente sotto la proprietà e il controllo del governo. Per quale motivo, allora, il capitale consente allo Stato di agire in modo tale da indebolire la struttura generale dei rapporti sociali ed economici capitalistici? Esistono delle ragioni oggettive contro le quali i capitalisti non possono fare niente. L’incessante calo della produzione, il prosciugamento degli investimenti privati, la crescita costante del tasso di disoccupazione, la necessità di regolare il commercio estero, nonché l’incapacità di assumersi il rischio della realizzazione di grandi opere sono, agli occhi di Burnham, i segni evidenti del collasso della società capitalistica e del prossimo avvento della società manageriale6. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 6

! È interessante notare come Burnham, nel descrivere le caratteristiche principali della futura economia manageriale, prenda di fatto a modello le caratteristiche dell’economia pianificata in uso allora nella Germania nazista e nella Russia sovietica: «la sua struttura è fondata sulla proprietà e il controllo statale dei maggiori strumenti di produzione [...] non è ormai più necessario che ogni singolo ramo dell'industria, o che l'industria nel suo insieme, operi in vista di un profitto [...] la funzione della moneta sarà considerevolmente ridotta [...] i beni e i servizi non si presentano come "beni fungibili" (commodities) in modo così pieno ed esteso come sul mercato capitalistico [...] il regolamento della produzione non sarà lasciato al funzionamento

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Ogni gruppo organizzato, piccolo o grande che sia, ha bisogno di un “centro potestativo”, ossia di un’istituzione riconosciuta da tutti, o quantomeno dalla maggioranza, come l’organo da cui provengono le regole che disciplinano la vita di gruppo. Nella società capitalistica questa «localizzazione della sovranità» avviene nell’istituzione parlamentare. Non ci interessa, in questa sede, valutare le ragioni che l’autore adduce per giustificare l’attribuzione dell’aggettivo “capitalistico” a un istituto che per sua natura può servire gli interessi di qualsiasi gruppo sociale. Ci interessa, però, ai fini della nostra indagine sulla tecnocrazia, l’idea secondo cui la sovranità parlamentare – il cuore pulsante della politica – non è altro che una pura finzione – una sovrastruttura – per mascherare i veri rapporti di potere. «Le regole (leggi) delle varie società – puntualizza Burnham – non provengono [dai parlamenti]. Le loro riunioni non sono che delle operazioni di propaganda, come una parata o una campagna di radio e di stampa. Spesso i parlamenti si adunano solo per sentire uno o due discorsi: rappresentano una specie di risuonatore, e simboleggiano realisticamente la nazione [...] Ma non si fanno mai iniziatori di alcun provvedimento; quando accettano qualcosa sempre si tratta di provvedimenti già presi da altri organi» (Ivi, pp. 133-134). Nella Russia sovietica, nella Germania nazista e finanche, seppur in misura minore, nell’Italia fascista, dove il processo di managerializzazione è molto avanzato, i parlamenti continuano a sopravvivere, ma le decisioni che contano vengono prese dall’organo che controlla il partito unico o, nella migliore delle ipotesi, da commissioni tecniche e uffici amministrativi di varia natura. D’altra parte, fa notare Burnham, anche gli Stati Uniti stanno vivendo una situazione di questo tipo, sebbene la trasformazione sia ancora nella fase embrionale. «Il Congresso non è ancora la stessa cosa come il Reichstag di Hitler o il Congresso dei Soviet di Stalin. Ma è già andato assai più in là di quanto il Congresso stesso non sarebbe disposto ad ammettere. Accade ancora talvolta che il Congresso si “rivolti”, ancora di tanto in tanto esso “disciplina” un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! automatico del mercato ma verrà guidato in modo consapevole e deciso da certi gruppi di uomini» (Ivi, pp. 120-123).!

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organo amministrativo o lo abolisce; ma questi atti sono come le piccole tirannie di un vecchio ormai quasi impotente» (Ivi, p. 137). La trasformazione della società capitalistica in società manageriale, ossia il passaggio del dominio dalla borghesia ai managers, spinge quindi il «centro della sovranità» dal parlamento agli uffici amministrativi. Si noti come questo fenomeno, secondo Burnham, abbia un valore sia simbolico sia pratico. Ha un’importanza simbolica in quanto il parlamento rappresenta la vecchia società e con essa la vecchia classe dirigente (per cui il gruppo emergente deve sbarazzarsi di tutto ciò che ricorda in qualche modo il passato). Ma ha anche una funzione pratica nella misura in cui i nuovi istituti amministrativi sono funzionali alle esigenze tecniche della moderna economia industrializzata. Certo, osserva l’autore, inizialmente è molto probabile che si verifichi un po’ di confusione tra la vecchia e la nuova classe dirigente; ma più passa il tempo, più l’attività governativa si espande, acquisendo le funzioni che prima erano lasciate alle imprese private, più i managers conquistano posizioni di potere nella gerarchia sociale. E in tutto questo la democrazia che fine fa? Di fatto, il sistema manageriale sembra lasciare poco spazio all’autodeterminazione degli individui. Lo stesso Burnham riconosce che Russia, Germania e Italia «che più si sono spinte verso la struttura di una società manageriale hanno tutte, oggi, dittature totalitarie» (Ivi, p. 142). Dobbiamo forse ricavarne che tutto il mondo occidentale si sta muovendo in direzione del totalitarismo? La risposta dell’autore è piuttosto ambigua, ma merita comunque di essere affrontata. Nella società capitalistica esiste una netta demarcazione tra sfera politica e sfera economica, sebbene, nell’ottica burnhamiana, la prima fosse pienamente subordinata alla seconda. Al contrario, nella società manageriale, politica ed economia si fondono l’un l’altra dando vita ad un unicum imperniato sulla figura del manager. Ciò non sta a significare che tutte le funzioni politico-burocratiche – come, ad esempio, la guerra, la diplomazia, la propaganda e l’ordine pubblico – cessino di esistere definitivamente. Una qualche linea di demarcazione, per quanto in forma attenuata, continuerà ad esistere sempre. Tuttavia, è plausibile che, visto il primato del momento economico, tutto ciò che si richiama in vario ! 67! !

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modo alla categoria della politica venga subordinato alle “leggi” dell’economia. Orbene, nella fase di transizione dalla società capitalistica e quella manageriale, le tensioni tra gli interessi dei capitalisti (grandi industriali, banchieri e uomini della finanza), spaventati dal rischio di perdere i propri privilegi, gli interessi dei managers, desiderosi di accrescere i propri benefici, e gli interessi delle masse, intolleranti ad ogni forma di oppressione, trovano, per così dire, un equilibrio in assetti politico-sociali di natura totalitaria, allo stesso modo in cui il passaggio dalla società feudale al primo capitalismo trovò espressione in forme politiche assolutistiche. L’analogia tra passato e presente suggerisce a Burnham che il totalitarismo sia solo una forma transitoria e che «con il consolidarsi della struttura della società manageriale la sua fase dittatoriale (totalitarismo) trapasserà in una forma democratica» (Ivi, p. 156). A circa settant’anni di distanza dalla prima pubblicazione del testo, le conclusioni cui giunge Burnham, sebbene fossero ispirate – come l’autore ricorda a più riprese – da un autentico “sentimento scientifico”, non possono non suscitare qualche perplessità sul lettore. Tutti quanti oggi conoscono le conseguenze, in termini di perdita di benessere economico-sociale, prodotte da una pianificazione economica spinta fino all’eccesso. Per non parlare poi delle nefandezze compiute da quei regimi che l’autore indica come un “passaggio necessario” dell’evoluzione della società occidentale. Fortunatamente la storia ha seguito un’altra direzione. Qual è allora il contributo che The Managerial Revolution può dare alla comprensione del fenomeno tecnocratico? Se noi, parafrasando Zygmunt Bauman, pensiamo alla modernità come un processo di messa in ordine del mondo a partire dal caos – intendendo per contro la premodernità come accettazione dell’ordine naturale – allora è evidente che il modello di società manageriale, improntato alla logica della pianificazione e dell’organizzazione estreme, rappresenta la modernità spinta all’ennesima potenza (Bauman, 1989). Da questo punto di vista, è indubbio che l’opera di Burnham abbia esaurito la sua funzione descrittivo-esplicativa. Detto altrimenti, l’unificazione della produzione mondiale, che egli ipotizza nel capitolo dedicato a La politica mondiale dei managers, si è in qualche misura realizzata con ! 68! !

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l’avvento dei calcolatori e dei mass media elettronici. Tuttavia, a dispetto delle previsioni di Burnham, è il libero mercato ad aver trionfato e con esso la logica della flessibilità e della mobilità in ogni ambito della vita sociale. Cionondimeno, il testo burnhamiano contiene degli elementi di analisi interessanti ai fini della nostra indagine sulla tecnocrazia. In primo luogo, egli, ribaltando il concetto centrale della critica marxista, per cui l’egemonia della funzione proprietaria viene spodestata dalla funzione manageriale, getta uno squarcio di luce su delle tendenze antidemocratiche che oggi sono tutt’altro che scomparse. È lo stesso Burnham che, quando si trova ad affrontare il problema circa il futuro democratico della società manageriale, tende a circoscrivere il concetto di democrazia a un insieme di strumenti per consentire «agli oppositori e alle masse di sfogare un poco il loro malumore senza mettere in pericolo le fondamenta dell’edificio sociale» (Burnham, 1941, trad. it., p. 157). In secondo luogo, il nostro autore attribuisce al management (pubblico e privato) un ruolo sociale e politico che normalmente sfugge agli studiosi di economia aziendale. Beninteso, qualche dubbio desta la qualificazione del management come classe sociale distinta e contrapposta tanto ai capitalisti quanto alla massa dei lavoratori. Non mancano, infatti, gli studiosi che, sulla base della condivisione dello stesso «ambiente sociale» e dello stesso «capitale culturale», nonché della stessa esigenza di profitto, tendono a ricondurre il management all’interno della classe dei capitalisti. Sennonché, messo in questi termini, il problema è suscettibile di tante soluzioni quante sono le caratteristiche socialmente rilevanti (ricchezza, reddito, prestigio, educazione, stile di vita, etc.) che decidiamo di impiegare come criterio per la definizione di classe7. Certo è che, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 7

!Secondo Poulantzas, ad esempio, i dirigenti che esercitano «poteri riguardanti sia l’utilizzazione delle risorse, la destinazione dei mezzi di produzione a questo o quell’impiego, etc., sia la direzione del processo lavorativo […] riempiono le “funzioni del capitale”, occupano il posto del capitale e hanno in tal modo un’appartenenza di classe borghese anche quando non detengono la proprietà formale» (Poulantzas, 1974, trad. it., p. 156-157). Quanto al management pubblico – la burocrazia – l’autore greco sostiene che «questa categoria sociale può in determinate congiunture funzionare come forza sociale effettiva. Allora essa interviene sul terreno politico e nella lotta di classe con un peso specifico, non puramente e semplicemente “al rimorchio” né della classe o frazione egemone, né della classe o frazione di cui è originaria o cui appartiene». Tuttavia, conclude Poulantzas, «i “vertici” [dello Stato] appartengono in generale alla classe borghese, non già per le loro relazioni

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a prescindere dalla loro appartenenza o meno alla classe dei capitalisti, tanto i managers delle società pubbliche quanto quelli delle società private sono soggetti dotati di un elevato livello di competenze e come tali sono destinati ad avere un ruolo tutt’altro che marginale all’interno dei moderni sistemi sociali.

2.4 Tecnocrazia: identificazione e campo di intervento dei tecnocrati Fino ad ora abbiamo dato per scontato il significato proprio del termine tecnocrazia. Certamente, alcune coordinate fondamentali sono già emerse nelle pagine precedenti. Tuttavia, non è ancora presente nella nostra trattazione una “definizione euristica”, ossia una spiegazione che ci consenta di analizzare in modo rigoroso le attuali dinamiche di potere. In prima approssimazione possiamo qualificare la tecnocrazia come «l’insieme dei comportamenti dei tecnici che hanno per scopo o semplicemente come conseguenza l’usurpazione delle competenze e delle facoltà di decisione di cui i politici devono rispondere davanti ai cittadini» (Meynaud, 1964, trad. it., p. 5, corsivi nostri). Questa prima definizione, per quanto sia ancora vaga e imprecisa, è tuttavia sufficiente a introdurre tutta una serie di questioni sulle quali intendiamo soffermarci in questo paragrafo. Innanzitutto, chi sono i tecnici e che cosa li differenzia dai tecnocrati? La definizione di tecnico e del suo derivato passa inevitabilmente per quella di tecnica. Senza tecnica, in altre parole, non vi sarebbero tecnici, né tecnocrati. Orbene, in un primo momento, la tecnica si presenta come semplice «pratica controllata dall’intelligenza». Si parla, in questo senso, di tecnica come abilità empirica. Con la progressiva crescita del ruolo della scienza nella società, però, si è venuta affermando una nozione di tecnica intesa come «sforzo sistematico di utilizzazione delle scoperte fatte dagli scienziati» (Ivi, p. 49). !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! interpersonali con i membri del capitale, ma principalmente perché, in uno Stato capitalistico, essi assolvono alla direzione delle funzioni dello Stato al servizio del capitale» (Ivi, p. 162-163).

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Tale relazione, la cui intensità è andata crescendo di pari passo con lo sviluppo dell’economia industriale, ha prodotto un fortissimo legame tra studi teorici e applicazioni pratiche, talché «la scienza trova ormai incentivi non più solo in una disinteressata sete di conoscenza ma nella volontà di accrescere e di rafforzare, all’occorrenza per fini distruttivi, l’attrezzatura tecnica di cui gli uomini dispongono» (ibidem). Così, la “tecnica scientifica” è diventata un elemento irrinunciabile per una moderna società improntata alla produzione di beni e servizi su larga scala e, quindi, volta alla ricerca del miglior utilizzo delle risorse disponibili. Per di più, la funzione tecnica – ossia l’agire razionale orientato al raggiungimento di uno scopo8 – tende a espandersi all’infinito, fino ad abbracciare, almeno in teoria, ogni ambito della vita associata, o quantomeno tutti quelli in cui la razionalità è valutata positivamente9. In questo contesto socio-culturale, in cui prevalgono atteggiamenti «ispirati da considerazioni tecniche e retti dal criterio dell’efficienza», si definisce “tecnico” colui che possiede una competenza al di sopra della media in un particolare settore dell’attività umana. Detto diversamente, il tecnico è un individuo che conosce i mezzi più adatti per raggiungere un determinato obiettivo: l’esperto del settore. Per contro, il generico o generalista – l’industriel di Saint-Simon e il manager di Burnham – è l’esperto del generale, ossia colui che, analogamente al tecnico, «parte dalla competenza e mira all’efficienza», ma, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 8

! Jürgen Habermas descrive lo sviluppo della tecnica come «graduale oggettivazione dell’agire razionale rispetto allo scopo», ossia «proiezione sul piano dei mezzi tecnici» delle «componenti elementari dell’ambito funzionale dell’agire razionale rispetto allo scopo» che inizialmente sono legate al corpo dell’uomo. Secondo il sociologo tedesco, «in un primo tempo sono state rafforzate e sostituite le funzioni dell’apparato motore (mani e gambe), poi la produzione di energia (del corpo umano), poi le funzioni dell’apparato sensoriale (occhi, orecchi, pelle) e infine le funzioni del centro di controllo (il cervello)» (Habermas, 1968, trad. it., p. 200-201). 9 !L’adozione di un concetto molto ampio di tecnica (oggi si parla di tecnica meccanica, tecnica economica, tecnica dell’organizzazione, tecnica dell’uomo, etc.), per quanto sia coerente con lo spirito della civiltà industriale, porta con sé delle conseguenze sul piano pratico non trascurabili. Non tutte le scienze, infatti, possono vantare lo stesso grado di certezza e, quindi, costituire la base per mettere in atto procedimenti pratici privi (o quasi) di rischi. Le scienze fisiche e naturali, tanto per fare un esempio, consentono la prevedibilità delle conseguenze di una data azione in misura molto maggiore delle scienze sociali. Questo, in breve, per dire che un intervento di natura politica, piuttosto che economica o sociale non sempre consente di ottenere i risultati voluti.!

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a differenza di quello, è responsabile del coordinamento del lavoro di diversi specialisti (Fisichella, 1997, p. 44)10. Qual è dunque la differenza tra tecnico e tecnocrate? Alla luce di queste premesse, si può definire il tecnocrate come un individuo che, in virtù della sua competenza e della sua abilità, è in grado di privare il “politico” della facoltà di decidere e di regolamentare autonomamente. In questo senso, è plausibile che la “promozione” al rango di tecnocrate sia più frequente per quei soggetti che si collochino ai livelli funzionali più elevati del processo produttivo. In realtà, osserva Meynaud, l’influenza dei competenti sull’uomo politico «è situata lungo un continuum i cui poli sono l’informazione che il politico riceve dal tecnico senza che ne risultino specifiche costrizioni per il primo, e il dominio esercitato sul primo dal secondo che diventa in tal modo il vero padrone della situazione» (Ivi, p. 59). Sicché, a un estremo abbiamo un regime che possiamo definire tecnocratico “puro” – o governo dei tecnici11 – nel quale «il tecnocrate indica e applica, su basi di competenza, sia i mezzi sia i fini dell’azione sociale» (Fisichella, 1997, p. 54). Una tesi di questo tipo – lo abbiamo già visto nei paragrafi precedenti – appartiene a tutte quelle dottrine che, più o meno esplicitamente, postulano il primato del momento economico su tutte le altre dimensioni del vivere comune. All’estremo opposto, invece, abbiamo un regime politico “puro”, ossia un sistema in cui «il politico indica e applica – in relazione ai suoi criteri – mezzi e fini», ovvero «quello nel quale al competente !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 10

Si consideri che la distinzione tra generalista e tecnico è più analitica che pratica, nel senso che entrambi, per quanto si collochino a un diverso livello funzionale nell’ambito del processo produttivo, partecipano della stessa funzione tecnica, che è, in ultima analisi, una funzione di razionalizzazione del mondo. Inoltre, lo stesso individuo potrebbe benissimo impersonare ruoli diversi a seconda del contesto in cui si trova, per cui «nei suoi rapporti con un uomo politico un certo militare di grado elevato passerà per esperto, mentre nella gerarchia dell’esercito il suo posto potrebbe essere quello di un generico che si basa, per i pareri che deve fornire all’esercito, sulla preventiva consultazione di specialisti (Meynaud, 1964, trad. it., p. 57). ! 11 !L’autore francese Gournay suggerisce di impiegare l’espressione «governo della tecnica» per indicare quelle situazioni in cui «le decisioni essenziali si baserebbero unicamente su considerazioni tecniche […] il governo scientifico della società […] un regime nel quale le azioni del Potere esprimono una volontà di assoluta razionalizzazione dei meccanismi sociali» (cfr. Ivi, p.61). A nostro avviso, però, si tratta semplicemente di un modo diverso per indicare lo stesso fenomeno, motivo per cui crediamo che sia possibile utilizzare indistintamente le espressioni governo dei tecnici, tecnocrazia e governo della tecnica.!

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è tendenzialmente commessa l’indicazione dei mezzi, tra i quali il politico sceglie in relazione a fini politicamente determinati» (ibidem). Infine, tra i due estremi si collocano diverse forme intermedie – o miste – nelle quali i politici subiscono più o meno frequentemente e più o meno surrettiziamente l’intrusione da parte dei tecnocrati. La distinzione tra tecnico e tecnocrate ci conduce direttamente a quella tra tecnocrate e burocrate. In altre parole, la domanda che adesso ci poniamo è se vi siano – e se sì fino a che punto – delle affinità tra tecnocrazia e burocrazia. In prima approssimazione, la risposta è sicuramente affermativa. E lo è per due ordini di motivi: in primo luogo, il potere dei funzionari pubblici è imperniato sulla competenza (§1.3); in secondo luogo, il burocrate si trova in rapporto funzionale con gli strumenti che impiega per espletare la sua funzione pubblica (impersonalità dell’ufficio). Sennonché, la burocrazia moderna possiede una caratteristica distintiva che impedisce una netta sovrapposizione tra la figura del tecnico-tecnocrate – così come lo abbiamo identificato in precedenza – e quella del funzionario amministrativo. Si tratta del principio di legittimità, in base al quale le determinazioni del burocrate sono valide solo se non violano i confini posti dall’ordinamento giuridico (Giglioli, 1976). Ciò, da un punto di vista pratico, comporta due conseguenze: 1) per il corpo dei funzionari pubblici il rispetto delle regole e delle procedure ha un valore superiore alla ricerca dell’efficienza (a meno di non voler ridurre il concetto di “efficienza” al mero rispetto delle procedure); 2) il funzionario è gerarchicamente subordinato ai soggetti che dettano le norme dell’ordinamento giuridico, ossia i politici. Dobbiamo quindi ricavarne che la burocrazia è estranea al fenomeno tecnocratico? Niente affatto. Esistono validi motivi per rifiutare questa tesi. A tal proposito, Jean Meynaud fa notare che più si sale nella scala gerarchica della pubblica amministrazione, più sono frequenti gli sconfinamenti da parte dei funzionari amministrativi: «se non si vuole rimanere in schemi puramente formalistici, è indispensabile includere nella definizione di burocrazia questo passaggio dell’iniziativa politica nelle mani dei burocrati o, in termini meno decisi, questo progressivo accesso alla facoltà di decisione [...] non è raro che la ! 73! !

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macchina amministrativa esca dalla sua funzione subordinata e, per sottolineare la razionalità della gestione o per altri fini particolari, eserciti una pressione sulle decisioni del dirigente politico responsabile o finga di ignorare le ingiunzioni ricevute» (Meynaud, 1964, pp. 105-106). Sulla falsa riga di Meynaud, il connazionale Michel Crozier sottolinea come: «a) in tutte le organizzazioni, per quanto rigide esse siano, ogni attore può contare su un margine di libertà irrinunciabile; b) il fondamento (la posta in palio) dell’azione è essenzialmente il potere (ovvero, la crescita di potere dell’attore); c) il potere è direttamente connesso al controllo delle zone di incertezza che si creano nell’organizzazione; d) gli attori operano quasi sempre con l’intento di trasformare le informazioni possedute in esclusiva in elementi di incertezza per gli altri» (Segatori, 2007, p. 39). Insomma, senza nulla togliere alla capacità di condizionamento delle istituzioni e delle procedure prestabilite, sembra che i dirigenti amministrativi godano di un ampio margine di libertà che, all’occorrenza, gli consentirebbe di influire significativamente sull’attività politica. Peraltro, negli ultimi decenni si è andato affermando su scala internazionale un movimento – il New Public Management12 – che «ha sottoposto a revisione critica le modalità tradizionali di funzionamento dell’amministrazione pubblica» (Pioggia, 2007, p. 120) in vista di un efficientamento degli uffici amministrativi. In questa prospettiva, si è cominciato a parlare di managerialità pubblica per indicare, in sintesi, un «modo di amministrare orientato all’efficienza nell’impiego delle risorse e alla responsabilità in ordine ai risultati» (Ivi, p. 117). Ciò, in altre parole, significa che le differenze un tempo molto marcate tra burocrazia (nel senso classico o

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!Il New Public Management nasce in Inghilterra negli anni '80 sotto la spinta di tre dinamiche convergenti:! 1) la crisi delle risorse pubbliche a fronte di una crescente domanda sociale; 2) l’assunto neo-liberista circa la superiorità del modello organizzativo dell’impresa privata rispetto a quello pubblico tradizionale; 3) il convincimento che il metodo della governance sia preferibile a quello del governement (Segatori, 2007). In breve, l’NPM è un’ideologia che postula la necessità di un ridimensionamento del ruolo dello Stato e, quindi, di un trasferimento di una parte delle funzioni pubbliche al mercato, allo scopo di garantire prestazioni migliori in termini di efficienza, efficacia ed economicità.

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weberiano del termine) e management stanno diventando sempre più labili, sia per quanto concerne i profili funzionali sia per quelli socio-culturali. A fronte di questa “tendenza generale” circa la tecnicizzazione della società tutta, resta da chiarire se sia possibile o meno l’esistenza di un regime tecnocratico “puro”. In altri termini, la questione che intendiamo affrontare è se sia sufficiente la competenza a decidere sui fini di una comunità di individui. L’ideologia tecnocratica, si ricorderà, postula «una concezione oggettivistica del bene comune, di un bene comune conoscibile mediante ragione, e qui mediante ragione “scientifica”» (Fisichella, 1997, p. 55, corsivo nostro). Su questa base, i fautori della tecnocrazia affermano che, attribuendo la direzione della società ai competenti, si eliminerebbero: 1) le tendenze particolaristiche insite nella competizione politica; 2) il problema della corruzione; 3) il ricorso a strumenti coercitivi per la gestione della cosa pubblica. Orbene, esistono diverse ragioni che ci inducono a mettere in discussione un progetto di questo tipo. In primo luogo, i fini di una comunità chiamano in causa opzioni di valori, sentimenti, desideri e passioni che non sono conoscibili mediante procedimento scientifico. In secondo luogo, la competenza può forse contribuire a ridurre in qualche misura i condizionamenti da parte degli interessi particolari – ammesso, poi, che la libera competizione tra interessi contrastanti sia un male per la società – ma non può di certo eliminare il problema della corruzione. Chi ci garantisce che il tecnocrate di turno sia incorruttibile e agisca sempre nell’interesse della collettività? Si consideri poi che il problema del potere – perché di questo si parla – non è solo un problema di come accedere ai centri potestativi, ma anche quello di come conservare la propria posizione di potere. Detto altrimenti, chi ci garantisce che il competente, una volta che abbia legittimamente ottenuto un incarico prestigioso, trovandosi di fronte al dilemma di scegliere tra una strategia scientificamente fondata e una strategia discrezionale, non decida per la seconda se questa gli garantisse maggiore sicurezza circa la possibilità di conservare la propria posizione di potere? Quanto all’eliminazione del ricorso agli strumenti coercitivi come metodo di governo, si tratta di un’ipotesi che, parafrasando Sartori, è tanto razionale quanto irragionevole (Sartori, 1993). In ! 75! !

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proposito, Domenico Fisichella sostiene che: «non è detto che la negazione de jure della dimensione politica si risolva de facto nella scomparsa della politica. È vero piuttosto il contrario, o meglio la conseguenza è vera a metà. In altri termini, con la negazione della politica si pongono le premesse per la scomparsa della politica come politica di garanzie giuridiche e come politica di libertà politica, mentre non è affatto destinata a scomparire la politica nella sua accezione di Realpolitik, di politica di potenza e coazione» (Fisichella, 1965, p. 358). In altre parole, senza politica “di garanzie e di libertà” lo scontro tra le varie potenze agenti nel corpo sociale sfocerebbe necessariamente nel dominio del più forte, che, in una società industrializzata e scientificamente plasmata, corrisponde alla figura del tecnocrate. Insomma, le probabilità di una depoliticizzazione totale della società non sembrano poi così elevate, né sembra desiderabile l’idea di realizzarla. Ciò non toglie che, in un ambiente sociale che si caratterizza per «un alto impiego combinato di fattori economici, scientifici e tecnici» (Fisichella, 1997, p. 59), nel quale i confini tra dimensione economica e dimensione politica tendono progressivamente a svanire (Pasquino, 1983), il politico – colui che dovrebbe ordinare e disciplinare le sintesi civili, finanche ricorrendo all’uso della forza fisica legittima – sia continuamente esposto al rischio di forti condizionamenti e, talvolta, di veri e propri spodestamenti da parte di quei soggetti che abbiamo definito competenti. Da una prospettiva schiettamente analitica, tutto ciò significa che, ferma restando la distinzione (strutturale e funzionale) tra sfera economica, sfera politica e sfera sociale, il compito dello studioso di scienze sociali consiste nel misurare di volta in volta il grado, la frequenza e l’intensità con cui siffatti spodestamenti si verificano. In conclusione, «se s’intende studiare la reale configurazione del processo deliberativo, è indispensabile tracciare un quadro di tutti gli interventi, da qualsiasi parte essi provengano, che possano diminuire o annullare la libertà di scelta o di manovra dei rappresentanti eletti» (Meynaud, 1964, p. 92). Un’operazione forse impossibile se si pretende di valutare l’azione dei tecnici sull’andamento generale degli affari politici, ma che acquista un senso se si tratta soltanto di individuare ! 76! !

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quelle figure apicali che, in virtù del loro status, possono modificare (o determinare) le linee di condotta dei politici.

2.5 Tecnocrazia: il controllo dell’opinione pubblica Volendo riassumere il “quadro teorico” sin qui abbozzato, potremmo definire il fenomeno tecnocratico come il risultato di tre macrotendenze: 1) aumento costante dell’importanza relativa della sfera economica rispetto alle altre sfere dell’agire umano; 2) crescente interdipendenza tra scienza e tecnica, tanto da fare della scienza una vera e propria forza produttiva (forse la più importante); 3) scissione tra titolarità del diritto di proprietà e funzione di controllo delle strutture e conseguente ascesa di una “classe manageriale”. Rispetto a questi trend, l’atteggiamento della politica è stato inizialmente neutrale (Stato minimo o liberale), poi di sostegno (o di stimolo), in un primo momento, attraverso la messa in opera di vere e proprie attività economiche (Stato sociale o gestore) e, in un secondo momento, mediante il controllo e la regolamentazione del mercato (Stato regolatore). Così, quella che un tempo poteva essere qualificata come mera sovrastruttura rispetto ai rapporti di produzione – la politica – diviene un “elemento strutturale” allorché comincia ad “intervenire” nella sfera economica per correggere le contraddizioni proprie di un capitalismo lasciato a sé stesso, ovvero per garantire livelli minimi di benessere a tutti gli individui – e, quindi, conquistarsi il consenso delle masse – senza compromettere la forma privata di valorizzazione del capitale. Tutto ciò, per tornare al tema centrale della nostra trattazione, comporta due conseguenze rilevanti: 1) l’attività politica tende sempre più a configurarsi come “attività compensativa” delle anomalie del libero scambio, ossia come strumento diretto «all’eliminazione di disfunzionalità e all’evitare i rischi che minacciano il sistema, quindi non alla realizzazione di fini pratici, ma alla soluzione di problemi tecnici» (Habermas, 1968, trad. it., p. 216); 2) i politici devono necessariamente ridefinire la loro funzione pubblica – il processo

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decisionale – sulla base di rigorose raccomandazioni scientifiche che lasciano poco spazio alle prese di posizione rispetto ai valori ultimi. Orbene, a questo stadio della ricerca non è ancora possibile formulare analisi rigorose circa l’influenza della tecnica orientata scientificamente sulle linee di condotta intraprese dai politici. Tuttavia, allo scopo di affinare i nostri strumenti analitici, possiamo esemplificare il rapporto tra “politici” e “tecnici” sulla base di quattro modelli idealtipici: 1) modello decisionistico; 2) modello tecnocratico; 3) modello decisionistico allargato; 4) modello pragmatico. I primi due modelli sono già stati vagliati nei paragrafi precedenti: il modello decisionistico, o weberiano, è imperniato sulla netta separazione tra le funzioni del tecnico e quelle del politico, per cui quest’ultimo, trovandosi in una posizione di preminenza, si serve dei competenti per scegliere i mezzi più appropriati al raggiungimento dei fini sociali determinati politicamente; quello tecnocratico, invece, è il rovescio del precedente, per cui il politico è una sorta di organo esecutivo dell’intelligenza scientifica, ovvero la politica viene interamente assorbita dal “potere tecnico” che orienta e prescrive le strategie da seguire. Entrambi sono inadeguati a descrivere le attuali dinamiche di potere per i motivi che abbiamo già abbondantemente esaminato (§2.4). Secondo il modello decisionistico allargato – la cui formulazione porta il nome del politologo tedesco Hermann Lübbe – il rapporto tra il politico e il competente propende oggi a vantaggio del secondo. Sennonché, a differenza di quanto prescrive il modello tecnocratico, Lübbe crede che la razionalizzazione non possa annullare la discrezionalità politica (cfr. Habermas, 1964). Esiste, in breve, un “nocciolo di discrezionalità” inaccessibile alla scienza. Il modello di Lübbe, benché abbia un indiscusso valore descrittivo, non è privo di difetti: chi ci garantisce, infatti, che il nocciolo di discrezionalità debba sottrarsi a un’ulteriore riflessione scientifica? Il filosofo statunitense John Dewey propone come soluzione uno schema incentrato sul rapporto di interdipendenza tra i valori derivanti da posizioni di interesse e le tecniche che possono essere impiegate per soddisfare i bisogni orientati dai valori stessi. In particolare, secondo Dewey i valori possono estinguersi nel momento in cui ! 78! !

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perdono il loro legame con le tecniche atte alla soddisfazione dei bisogni socialmente rilevanti. Viceversa, l’introduzione di nuove tecnologie può costituire l’occasione per la trasformazione di situazioni di interesse e quindi per la nascita di nuovi sistemi di valori (cfr. ibidem). In questa cornice, il politico e il competente interagiscono su un piano paritario, per cui, da un lato, il decisore pubblico, interpretando i bisogni storicamente determinati, ha la possibilità – e il dovere – di orientare lo sviluppo tecnologico e, dall’altro, il competente, sulla base di criteri tecnico-scientifici, controlla, verifica e, se necessario, riformula gli obiettivi politicamente determinati. Dei quattro modelli che abbiamo presentato, quello tecnocratico non è assolutamente conciliabile con la democrazia. Quello decisionistico, semplice o allargato che sia, è compatibile – in base alla teoria weberiana e schumpeteriana – con un modello di democrazia che abbiamo definito elitistico-competitiva (§1.3): il demos sovrano, in qualità di opinione pubblica, sceglie e, quindi, legittima le élites che devono compiere le scelte fondamentali per la vita della comunità. Per contro, il modello pragmatico presenta il grado più alto di compatibilità con il principio di autodeterminazione del popolo. Invero, senza mettere in discussione l’istituto della rappresentanza politica, la comunicazione tra esperti e decisori pubblici – centrale nel modello di Dewey – se vuole «riallacciarsi agli interessi sociali e agli orientamenti di valore di un dato universo sociale» (Ivi, p. 169), deve necessariamente essere istituzionalizzata nella forma della discussione pubblica. Ciò, in altri termini, significa che il pubblico non solo ha la possibilità di partecipare alla definizione della direzione del progresso tecnicoscientifico, ma deve farlo attivamente per sanzionare tutte le scelte che non siano socialmente necessarie o, nel peggiore dei casi, che siano socialmente dannose. Per concludere, in un’ottica prettamente teorica, lo sviluppo della tecnica non sembra essere incompatibile con le forme politiche democratiche. Beninteso, qualcuno potrebbe obiettare, parafrasando Kant, che “questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica”. E in effetti, non sono pochi gli ostacoli che si frappongono alla libera circolazione di informazioni tra cittadini, competenti e decisori pubblici. Si pensi, soltanto per fare un esempio, alle difficoltà che si ! 79! !

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possono incontrare nel trasformare le questioni pratiche della vita quotidiana in problemi formulati scientificamente e, viceversa, nel ritradurre le informazioni scientifiche in un linguaggio comprensibile al grande pubblico. Per non parlare, poi, del livello di spoliticizzazione delle masse e del decadimento di un’opinione pubblica sempre più manipolata dai nuovi mezzi della comunicazione di massa. Dovremmo quindi ricavarne che non può esistere la democrazia? Prima di dare risposte affrettate crediamo che sia opportuno gettare uno sguardo sulle reali dinamiche del potere.

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CAPITOLO TERZO DEMOCRAZIA E TECNOCRAZIA NELLO SPAZIO GLOBALE

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3.1 Stato, democrazia e globalizzazione Nei due capitoli precedenti abbiamo analizzato e confrontato, su un piano prevalentemente teorico, due “opzioni” di governo antitetiche, cercando di metterne in luce i pregi e i difetti, i limiti e le possibilità di sviluppo. In breve, abbiamo visto come la democrazia (liberale) racchiuda in sé l’idea che un gruppo di uomini possa governarsi responsabilmente, se non in perfetta autonomia, per lo meno senza dover ricorrere a qualche forma di legittimazione “superiore”. Per contro, la tecnocrazia, se portata alle estreme conseguenze, rappresenta la forma più evoluta e, verrebbe da dire, più subdola di potere autocratico, in quanto a) la sua legittimazione non si fonda sul carisma del suo leader, né sulla tradizione culturale, bensì sulla affermata competenza in ordine alle principali problematiche poste dalla moderna società industrializzata; b) il suo dominio non si costituisce attraverso dispositivi o apparati che agiscono direttamente sul corpo delle persone, ma piuttosto mediante condizionamenti e manipolazioni mentali che vengono percepiti dagli individui come necessari alla sopravvivenza non solo della comunità, ma della vita stessa dei singoli. Partendo da queste premesse, il nostro obiettivo diventa ora quello di analizzare le concrete dinamiche politiche, sociali ed economiche allo scopo di comprendere chi, come e nell’interesse di quali soggetti – o gruppi di individui – eserciti effettivamente il “potere” nelle moderne democrazie liberali. Detto altrimenti, vogliamo verificare – nei limiti delle informazioni in nostro possesso – se il popolo continui ad essere “il sovrano” – cioè se esso riesca ancora ad influire in maniera sostanziale sulle decisioni relative alla vita collettiva –, oppure se il potere sia passato, più o meno furtivamente, nelle mani di ristrette oligarchie economico-finanziarie. Di più, vogliamo capire se le scelte dei decisori pubblici abbiano ancora il carattere dell’opzione ideologica e/o valoriale, ovvero se siano diventate il frutto di mere valutazioni tecnicoscientifiche volte all’impiego più efficiente delle risorse economiche disponibili. Se, infine, gli ordinamenti costituzionali continuino o meno a essere lo strumento più idoneo a tutelare gli interessi degli individui e a regolare le complesse dinamiche di potere che caratterizzano il mondo contemporaneo. ! 82! !

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Per dare un inizio alla nostra indagine, crediamo che sia opportuno focalizzare fin da subito la nostra attenzione su uno snodo che è al tempo stesso storico e concettuale, ossia fattuale e teorico: il passaggio dal moderno al postmoderno, cioè dalla dimensione nazionale alla dimensione globale. Ciò che ci preme sottolineare è che ormai da alcuni decenni è in corso un processo di ristrutturazione del potere su scala globale che rende insoddisfacente affrontare il fenomeno demo-tecnocratico osservando le interazioni tra gli “attori singoli” e le “strutture” al solo livello di Stato-nazione. Pertanto, è dall’analisi di questo “processo” che dobbiamo partire se non vogliamo commettere lo stesso errore di coloro che, con lo sguardo sistematicamente rivolto al passato, scagliano i loro anatemi contro un nemico o, viceversa, auspicano il ritorno a un eden che in realtà non esiste più. Dal punto di vista storico-fattuale, possiamo esemplificare il processo di globalizzazione ricorrendo alla proprietà geometrica della simmetria. Per essere più precisi, l’epoca moderna è stata caratterizzata da un sostanziale allineamento tra il concetto formale di sovranità – cioè il potere originario, superiorem non recognoscens, inizialmente legibus solutus, poi limitato da una costituzione, da cui ricaviamo che “sovrano” è colui che è in grado di prendere decisioni collettive valide per tutti i membri del gruppo sociale territorialmente strutturato – e la capacità effettiva di uno Stato di raggiungere i propri scopi in campo politico, economico e militare. Orbene, tale simmetria è venuta meno allorché sono intervenute delle separazioni tra il campo formale dell’autorità politica e le sue pratiche reali. Il politologo David Held, cui abbiamo più volte fatto riferimento, ne individua tre: 1) Stato-economia; 2) Sato-diritto; 3) Statocultura (Held, 1995, 2006). La prima separazione concerne i sistemi di produzione, distribuzione e scambio di beni e servizi. In particolare, lo Stato ha perso il controllo su buona parte di questi processi nel momento in cui sono sorte delle imprese che, pur avendo una chiara origine nazionale, sono in grado di perseguire i loro interessi economici su scala globale. Riguardo a questo fenomeno, Sabino Cassese, in sintonia con molti altri autori, sostiene che «se lo Stato continua a svolgere un ! 83! !

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ruolo importante, esso, tuttavia, ha perduto la sua sovranità economica perché, se prima era detentore di una sovranità assoluta, ora è detentore di un potere relativo e [soprattutto] perché i confini dello Stato e i confini dell’economia non corrispondono più» (Cassese, 2002, p. 38). Analizzeremo in modo più approfondito le tensioni tra Stato e mercato nel paragrafo successivo. Per adesso ci basti sapere che la “trasformazione strutturale” delle economie nazionali, che va sotto il nome di “globalizzazione dell’economia”, ha ridotto significativamente il margine di scelta di uno Stato circa la politica economica, per cui, come rileva Jürgen Habermas, non solo il protezionismo è diventato impraticabile, ma le stesse politiche dal lato della domanda – le cosiddette politiche keynesiane – hanno perso la loro efficacia all’interno del quadro nazionale (Habermas, 1998). La seconda separazione riguarda il processo decisionale internazionale, ovvero quel groviglio di regole ultrastatuali, frutto della negoziazione tra i vari attori in competizione nell’arena globale, etichettato come global governance. In realtà, non sembra pienamente corretto in questo caso parlare di una vera e propria separazione, in quanto, se è innegabile che lo Stato-nazione si trova oggi intrappolato in una ragnatela di regole – o, se si preferisce, un «intreccio di condizionalità» (Raveraira, 2007, p. 25) – di cui può vantare solo in minima parte la titolarità, è altrettanto vero che esso continua a essere uno degli attori principali sulla scena globale. Peraltro, la stessa global governance riflette, in qualche misura, il desiderio di molti Stati di costruire un sistema di regolazione flessibile per affrontare i problemi posti dalla globalizzazione. Ad ogni modo, a prescindere da come intendiamo qualificare questo fenomeno, crediamo che di fronte all’emersione di una pluralità di soggetti che agiscono sullo spazio globale – quali gli enti sovranazionali, le organizzazioni e gli organismi intergovernativi, le organizzazioni non governative e le imprese multinazionali – il paradigma classico del diritto internazionale – un sistema «anti-egemonico» e di «auto-equilibrio», fondato sull’indiscutibile preminenza dell’autorità statuale (Focarelli, 2008) – mostri evidenti segni di obsolescenza. Che poi, come si sostiene soprattutto in ambito giuridico, «in assenza di un ! 84! !

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governo globale, dal quale promanino funzioni in quanto soggetto di potere politico sovraordinato a quello degli Stati, non sembra contestabile che le funzioni della global governance, negli ambiti e nei settori in cui si esplicano, trovino, in realtà, legittimazione, di diritto e di fatto, nella volontà “politica” degli stessi Stati di accettare […] limitazioni della loro sovranità» (Raveraira, 2007, p. 27), è un aspetto che non smentisce quanto abbiamo affermato in precedenza, ovvero che, per quanto rimanga formalmente integra, la sovranità statuale subisce pesanti limitazioni sul piano sostanziale. La terza e ultima separazione – quella forse meno evidente, ma non per questo meno importante – investe la dimensione cultural-nazionale dello Stato. Si tratta, in breve, di un fenomeno strettamente connesso all’introduzione di sempre più sofisticati mezzi di comunicazione di massa, i quali contribuiscono all’espansione e al potenziamento delle relazioni umane sia nel tempo che nello spazio, determinando, da un lato, il progressivo affievolimento delle tradizioni e delle identità nazionali e, dall’altro, la nascita di una cultura ibrida e con essa di nuove identità polimorfiche. Insomma, le “interdipendenze globali” evidenziano «il venir meno della distinzione politica fondamentale fra interno ed esterno, cioè della differenza qualitativa tra spazio della legge e spazio del confronto con l’Altro». Lo Stato «non è più ordinatore dello spazio politico, non gestisce più sovranamente il proprio territorio: le sue logiche di stabilità sono travolte dalla “mobilitazione globale”». Inoltre, «la globalizzazione vede anche il formarsi di logiche di regolazione sistemica della politica, informali e sottratte al controllo razionale dei soggetti politici tradizionali – la governance» (Galli, 2011, pp. 56-57). A fronte di tutto ciò, osserva David Held, ogni idea «di sovranità che interpreti quest’ultima come una forma di potere pubblico illimitabile e indivisibile è ormai vuota di significato. La sovranità stessa deve essere concepita oggi come un’entità già divisa in numerose agenzie, nazionali, regionali e internazionali e limitata dalla natura stessa del pluralismo» (Held, 2006, trad. it., p. 513). Alla luce di queste brevi riflessioni sulla globalizzazione, un problema si impone alla nostra attenzione: posto che la democrazia implica l’esistenza di ! 85! !

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una comunità territorialmente delimitata che si governa da sola, ovvero tramite l’elezione di rappresentanti politici, gli effetti prodotti dalla globalizzazione sono compatibili con le forme politiche democratiche? Per rispondere a questa domanda crediamo che sia opportuno ripartire da una breve ricostruzione della “costellazione storica” in cui ha avuto luogo il processo di democratizzazione. Lo Stato moderno – si ricorderà quanto già detto nel primo capitolo – ha origine in risposta ad alcuni grandi eventi che scuotono l’Europa a cavallo tra il XVI e il XVII secolo: la Riforma protestante, le guerre di religione e la nascita di un’economia capitalistica. Inizialmente nella veste dell’assolutismo regio, l’istituzione statuale riesce a consolidare il monopolio della forza fisica legittima all’interno di un territorio ben delimitato (Stato territoriale) che, da un lato, segna il confine tra il dentro e il fuori, cioè tra amico e nemico, e, dall’altro, pone le premesse per lo sviluppo di un demos sovrano. Nello stesso tempo, si assiste allo sviluppo di: a) uno Stato amministrativo, funzionalmente distinto dal mercato autoregolantesi; b) uno Stato fiscale, finanziariamente dipendente dalle risorse prodotte nella sfera privata. Successivamente, tra il XVIII e il XIX secolo, con la costituzione di un popolo-nazione, cioè di un popolo culturalmente integrato, lo Stato moderno, ormai nazionale, si apre alle forme democratiche di legittimazione del potere. Il simbolismo cultural-nazionale, osserva Habermas, «fa prendere coscienza agli abitanti dello stesso territorio di una loro “appartenenza comune”, fino a quel momento astratta e soltanto giuridicamente mediata […] La coscienza nazionale procura allo Stato territoriale, che si è costituito nelle forme del diritto moderno, il sostrato culturale necessario alla solidarietà civica […] Pur essendo (e restando) estranei l’uno per l’altro, i cittadini della stessa nazione si sentono ora reciprocamente responsabili». D’altra parte, continua Habermas, «solo la modalità democratica della legittimazione del potere è ciò che dà compimento all’associazione delle persone giuridiche libere ed eguali. Con il passaggio dalla sovranità principesca alla sovranità popolare i diritti dei sudditi si trasformano, almeno sul piano idealtipico, nei diritti dell’uomo e nei diritti del cittadino» (Habermas, 1998, trad. it., p. 37). ! 86! !

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Per finire, lo Stato costituzionale rappresentativo si trasforma in Stato sociale nel momento in cui decide di intervenire nella sfera economica per attenuare le distorsioni insite nel capitalismo e, quindi, per garantire a tutti i cittadini l’effettivo esercizio delle libertà civili e politiche. Orbene, con l’espansione e l’intensificazione degli scambi economici e culturali di là dalle frontiere statali, tutti i presupposti del governo democratico – la triade costituita da territorio, nazione ed economia nazionale – si trovano in difficoltà, tanto sul piano pratico, quanto su quello teorico. In sintesi, lo Stato continua ad avere il monopolio della forza fisica legittima, ma i confini del territorio nazionale hanno perduto la loro “sacra” invalicabilità. In merito a questo fenomeno, nella letteratura politologica si discute di permeabilità delle frontiere per indicare la facilità con cui non solo i capitali “puliti”, ma anche i traffici illeciti, i pericoli prodotti dall’inquinamento e i singoli individui riescono a muoversi da un punto all’altro del pianeta. Su un piano leggermente diverso, si parla di discrepanza tra decisori e destinatari della decisione per descrivere la possibilità che gli effetti di un provvedimento sconfinino oltre il territorio nazionale. Si pensi, soltanto per fare un esempio, al fatto che la politica monetaria di un singolo paese si ripercuote oggi sui mercati azionari di tutto il pianeta. Oppure, si rifletta sugli effetti che potrebbe avere sulla salute dei cittadini di un altro paese la scelta di collocare un complesso industriale in prossimità dei confini nazionali. Quanto all’elemento simbolico-culturale, abbiamo già accennato agli effetti prodotti dalla “globalizzazione culturale” circa l’affievolimento delle identità nazionali. Occorre qui aggiungere che i grandi flussi migratori che si sono scatenati negli ultimi decenni – in particolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra fredda – hanno determinato una modificazione sensibile della composizione etnica della popolazione dei principali paesi del mondo occidentale. Si parla, in proposito, di società multiculturali per indicare sia uno stato di cose – il meticciato culturale e biologico – sia una sfida posta dalla globalizzazione agli Stati-nazione di tipo classico. Sfida che, nei casi più drammatici – laddove il processo di istituzionalizzazione di una cittadinanza ! 87! !

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multiculturale fallisce – porta alla chiusura subculturale e, conseguentemente, allo scontro interetnico. Se tutte queste tendenze, come evidenzia Habermas, «rafforzano nello Stato nazionale le spinte centrifughe» (Ivi, p. 53), niente è deleterio per la vita della democrazia come la globalizzazione economica. Invero, un ordinamento democratico per poter funzionare e, quindi, per preservarsi nel tempo deve produrre dei risultati. Deve, cioè, garantire ai cittadini quei livelli minimi di benessere sociale che sono necessari al concreto esercizio delle libertà civili e politiche costituzionalmente garantite. Se viene a mancare la giustizia sociale – la solidarietà – si innesca un processo di disgregazione del tessuto sociale che, nel medio-lungo periodo, può avere degli effetti letali per la democrazia. Su questo punto le parole di Habermas sono eloquenti: «revocare il compromesso dello Stato sociale significa far riaccendere le tendenze di crisi che esso aveva neutralizzato. Si producono costi sociali che mettono a repentaglio la capacità integrativa di una società liberale» (Ivi, p. 19). Orbene, tutto questo discorso non avrebbe alcun senso se non fosse che la globalizzazione dei mercati riesce ad aggredire i sistemi di welfare state proprio nelle loro fondamenta. Da una parte, infatti, lo Stato fiscale non è più in grado di raccogliere sul proprio territorio nazionale le risorse finanziarie indispensabili per mettere in piedi una solida rete di protezione sociale, giacché l’accresciuta mobilità dei capitali rende questo compito particolarmente oneroso. Dall’altra, la concorrenza di posizione costringe gli Stati economicamente più sviluppati ad abbassare il livello dei meccanismi di protezione secondo una logica dell’adattamento agli imperativi sistemici che poco ha da spartire con l’autocontrollo democratico. Detto altrimenti, è come se i sistemi economici nazionali fossero intrappolati in un perverso “gioco al ribasso” che premia gli Stati che più si spingono nel ridimensionamento del loro potere. In attesa di una risposta politica ai problemi posti dalla «costellazione postnazionale», scienziati sociali e politologi hanno cominciato ad elaborare nuovi modelli teorici per cercare quantomeno di fornire una rappresentazione

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verosimile dei complessi meccanismi che sottostanno alla riorganizzazione del potere su scala globale. Saskia Sassen, ad esempio, ha rimesso in discussione la tesi secondo cui “globalizzazione” e “Stato nazionale” sarebbero due termini esclusivi. Secondo la studiosa statunitense, infatti, l’idea che i “flussi transnazionali” conducano inesorabilmente al declino della Stato è tanto sbagliata quanto fuorviante. Basti considerare che «gli spazi strategici dove avvengono molti processi globali sono spesso nazionali e i meccanismi che mettono in opera le nuove forme giuridiche indispensabili alla globalizzazione sono spesso parti di istituzioni statali. Analogamente, le infrastrutture che rendono possibile l’ipermobilità del capitale finanziario su scala globale sono collocate in territori nazionali» (Sassen, 1996, trad. it., p. 47). Ciò non toglie, naturalmente, che una teoria che intenda affrontare la difficile questione circa la distribuzione del potere nella società globale debba in qualche modo “riposizionare” le proprie categorie concettuali a un livello diverso da quello precedente fondato sull’assoluta preminenza dell’istituzione statuale. In questa prospettiva, l’autrice statunitense, onde evitare di sminuire la funzione attiva dello Stato, preferisce parlare di una denazionalizzazione dei territori e di una dislocazione della sovranità statale. Detto diversamente, lo Stato, lungi dal ritirarsi dalla scena politica globale, contribuisce ad attivare tutti quei «microprocessi che cominciano a denazionalizzare quanto era costruito come nazionale – politiche pubbliche, capitale, soggettività politiche, spazi urbani, moduli temporali, o qualsiasi altra varietà di dinamiche e domini. A volte – osserva Sassen – questi processi di denazionalizzazione permettono, abilitano, sollecitano la costruzione di nuovi tipi di scalarità globali di dinamiche e di istituzioni; altre volte continuano ad abitare il dominio di ciò che è ancora largamente nazionale» (Sassen, 2006, trad. it., p. 4). Sulla stessa lunghezza d’onda della studiosa statunitense, il politologo tedesco Ulrick Beck descrive l’ambivalenza della globalizzazione ricorrendo al concetto di meta-gioco della politica globale.

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“Globalizzazione”, osserva Beck, significa che «è stato aperto un nuovo gioco, con il quale le regole e i concetti del vecchio gioco vengono derealizzati, anche se si continua a praticarlo. In ogni caso il vecchio gioco […] non è più possibile da solo. Questo semplice gioco assomigliava grosso modo al gioco della dama, nel quale i due giocatori dispongono di un insieme omogeneo di pedine e di mosse corrispondenti. Con la globalizzazione si sono però formati un nuovo spazio d’azione e un nuovo quadro d’azione: la politica si svincola dalle frontiere e dagli Stati; di conseguenza compaiono ulteriori giocatori, nuovi ruoli, nuove risorse, regole sconosciute, nuove contraddizioni e nuovi conflitti» (Beck, 2002, trad. it., p. 6). Sulla contrapposizione tra vecchio gioco e meta-gioco si fonda, quindi, la rappresentazione che l’autore impiega per descrivere lo scenario politico attuale. Nel vecchio gioco «le regole di base e di fondo nell’esercizio del potere e della sovranità» fornivano un quadro sufficientemente solido affinché i vari attori politici potessero esercitare i loro ruoli in base alla logica delle conseguenze attese – l’agire politico come calcolo razionale tra diverse alternative, volto al conseguimento del miglior risultato possibile – o alla logica dell’adeguatezza – l’agire politico come prodotto delle regole, dei ruoli e delle identità dettati da una specifica situazione. Al contrario, nel meta-gioco la politica «entra nella penombra della doppia contingenza»: ciò vuol dire, in breve, che le istituzioni, gli attori, le forme organizzative e le regole del gioco vengono continuamente «infranti, modificati, negoziati, nel corso del gioco» (Ivi, p. 7). Di conseguenza, lo Stato non solo non costituisce più l’arena esclusiva dell’agire politico, ma gli stessi fondamenti del potere statale diventano oggetto delle strategie di potere dei nuovi attori globali. In questa cornice, le possibilità di successo di una “strategia politica” dipendono essenzialmente dalla capacità di sfruttare a proprio vantaggio la “flessibilità” del meta-gioco globale. In altre parole, un programma politico improntato alle vecchie regole del gioco è destinato all’insuccesso. Ciò spiega, secondo Beck, per quale ragione gli Stati si ritrovino oggi in una situazione di soggezione nei confronti del capitale. È come se – per tornare alla metafora ! 90! !

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della dama – il capitale avesse due pedine e due mosse, laddove gli altri attori continuassero ad averne una soltanto. «L’ottica nazionale della politica (e il nazionalismo metodologico della scienza politica) – sottolinea Beck – cementa questa superiorità, tanto nell’ambio del gioco quanto in quello del potere, del capitale che è sfuggito al gioco nazionale» (Ivi, p. 9). Su di un piano di astrazione decisamente superiore, Michael Hardt e Antonio Negri sostengono l’esistenza di un nuovo ordine globale – l’Impero – nel quale una serie di organismi nazionali e transnazionali si ritrovano uniti da un comune obiettivo: «governare gli ambiti della produzione e degli scambi economici e sociali» (Hardt e Negri, 2000, trad. it., p. 14). Secondo i nostri autori, tale ordine mondiale non è il frutto dell’interazione spontanea tra le diverse forze in gioco nell’arena globale, né è il dettato di un centro politico globale, ovvero di una super potenza capace di orientare le linee dello sviluppo storico. Piuttosto, la costituzione dell’Impero sembra rappresentabile come il risultato di entrambe le tendenze, cioè come prodotto, a un tempo, dei flussi economici e comunicativi globali e dell’azione diretta degli Stati che occupano una posizione privilegiata. In questa prospettiva, la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite funge, per così dire, da “cerniera” tra il vecchio ordine internazionale e il nuovo ordine globale, in quanto la sua struttura concettuale, da un lato, è fondata «sul riconoscimento e la legittimazione della sovranità dei singoli stati ed è, in tal senso, profondamente radicata nel vecchio quadro del diritto internazionale definito dai patti e dai trattati. Dall’altro, questo processo di legittimazione diviene efficace solo nella misura in cui trasferisce il diritto sovrano a un reale centro sovranazionale» (Ivi, p. 22). L’Impero sembra aver superato definitivamente le precedenti forme di dialettica interstatale imperniate sulla machtpolitik di matrice imperialista. In effetti, esso è «a un tempo, sistemico e gerarchico, una fabbrica di norme e una produzione di legittimità a lungo termine che ricoprono l’intero spazio mondiale. È configurato, ab initio, come una struttura sistemica, dinamica e flessibile, articolata orizzontalmente» (Ivi, p. 30). Tutto ciò, in termini pratici, significa che l’Impero è in grado di sviluppare «un’integrazione degli attori che pare lineare ! 91! !

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e spontanea», sebbene si fondi, de facto, su: 1) il ricorso alla forza militare come strumento etico, vale a dire come mezzo che, da un lato, serve a creare e garantire la pace e l’ordine e, dall’altro, funge da base di legittimazione dello stesso potere imperiale; 2) l’utilizzo di dispositivi normalizzatori immanenti al sociale, cioè di tecniche di controllo che riescono a produrre integrazione ed esclusione sociale agendo all’interno delle comuni pratiche quotidiane. Venendo dall’astratto al concreto, quello che apparentemente sembra «un disordinato e persino caotico complesso di controlli e organismi […] distribuiti in un vasto spettro di corpi», se visto un po’ più da vicino, si presenta come una struttura di potere piramidale, articolata in tre piani multilivello. Al vertice della piramide troviamo gli Stati Uniti, superpotenza in grado di esercitare l’egemonia sull’uso della forza militare. Sullo stesso piano, ma a un livello inferiore, ci sono gli Stati-nazione economicamente più forti – quelli che «controllano i principali strumenti monetari globali tramite i quali regolano gli scambi internazionali» – e un «complesso eterogeneo di associazioni comprendente più o meno le stesse potenze che esercitano l’egemonia sui livelli militari e monetari». Scendendo di un piano, raggiungiamo quello che, per usare una metafora tratta dalla fisiologia, rappresenta il “sistema circolatorio” dell’Impero, vale a dire la rete delle grandi corporations transnazionali che controllano i flussi di capitale e di tecnologie sull’intero mercato globale. Rispetto a questa funzione, gli Stati-nazione meno potenti agiscono da meri “organizzatori territoriali”, cioè da attori che «catturano e distribuiscono i flussi di ricchezza da e verso il potere globale e disciplinano le popolazioni, per quanto è ancora possibile». Nel terzo e ultimo piano della piramide risiedono tutti gli «organismi che rappresentano gli interessi popolari nell’organizzazione del potere globale». Si tratta, in breve, di una vasta gamma di organizzazioni che si propongono di agire nell’interesse del popolo indipendentemente dagli Stati in cui hanno sede. Tra queste, le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, i gruppi pacifisti e le organizzazioni per l’assistenza medica hanno un ruolo di primordine: esse «estendono la loro azione su tutto lo spazio biopolitico; sono i capillari delle reti di potere». Di più, le loro attività «coincidono con le iniziative dell’Impero ! 92! !

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che, sul terreno del biopotere, vanno “al di là” della politica per soddisfare i bisogni della vita stessa» (Ivi, pp. 289-293). L’istituzione imperiale possiede un dispositivo di comando che si articola in tre momenti distinti: momento inclusivo, momento differenziale e momento manageriale. In particolare, la vocazione universale dell’Impero presuppone che tutti gli individui «siano i benvenuti nei suoi confini senza distinzione di razza, fede, colore, genere, scelte sessuale e così via». Questo passaggio iniziale esige un depotenziamento delle singolarità e, quindi, delle differenze funzionale alla costruzione di un consenso e di un’inclusione appunto universali. «L’Impero – osservano Hardt e Negri – non fortifica i confini con l’espulsione degli altri, bensì attraendoli, come in un vortice, nel suo ordine pacifico» (Ivi, p. 187). Il secondo momento e il terzo, per contro, implicano una valorizzazione, mediante modulazioni, delle differenze culturali che sono state ammesse dentro i confini imperiali. Si tratta, in breve, della stessa strategia che adottano le imprese multinazionali nei confronti dei loro dipendenti o dei loro potenziali acquirenti: organizzare e gestire le diverse variabili – nel nostro caso etnicoculturali – in modo da migliorare il processo lavorativo e aumentare i profitti. «La soluzione imperiale non è quella di negare o di attenuare queste differenze quanto, piuttosto, di affermarle e di sistemarle in un efficace dispositivo di comando» (Ivi, p. 189).

3.2 La big corporation, ovvero il paradosso del conflitto Stato-mercato Sullo sfondo delle tendenze esaminate nel precedente paragrafo, la tesi che intendiamo qui sviluppare è la seguente: la globalizzazione degli scambi economico-finanziari non ha condotto a un regime nel quale sia venuta meno la necessità di ricorrere agli strumenti coercitivi – sulla falsariga dell’idealtipo tecnocratico – né ha privato lo Stato del monopolio della forza fisica legittima. Cionondimeno, essa sembra aver esasperato uno dei temi centrali della scienza e della filosofia politica moderne – il rapporto tra Stato e mercato – occultando, ! 93! !

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nello stesso tempo, il “vero nemico” della democrazia liberale: il predominio delle imprese giganti (soprattutto del settore finanziario). In realtà, affermare che la globalizzazione inasprisce la relazione tra Stato e mercato non è pienamente corretto, per la semplice ragione che essa, come abbiamo visto, rappresenta più uno stato di cose – un risultato – che non un “principio” da cui scaturisce un nuovo ordine economico-sociale. Per questo motivo, se vogliamo comprendere le ragioni che hanno portato alla “rivincita” del capitalismo sullo Stato e sulla democrazia, dobbiamo focalizzare la nostra attenzione altrove. E questo “altrove”, secondo un’opinione ormai consolidata, è rappresentato da quel complesso di idee, di approcci politici e di mentalità che va sotto il nome di neoliberismo13. La transizione neoliberista comincia nei primi anni ’80 allorché il suo principale avversario politico ed economico – la socialdemocrazia o economia sociale di mercato – entra in crisi, complice l’incapacità mostrata dai governi socialdemocratici di fronte alle tendenze inflazionistiche verificatesi nel corso decennio precedente. È in quegli anni, infatti, che i leader delle più importanti economie del mondo – tra cui spiccano i nomi del presidente francese François Mitterrand e del suo ministro dell’economia e delle finanze Jacques Delors, del Primo Ministro britannico Margaret Thatcher, del Cancelliere tedesco Helmut Kohl e del Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan – suffragati dagli studi condotti dalle principali scuole economiche – prima fra tutte quella di Chicago, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 13

Molti studiosi ricorrono al termine neoliberalismo in luogo di neoliberismo per indicare lo stesso fenomeno, ossia senza importanti variazioni di significato. Secondo il nostro modesto parere, si tratta di una scelta impropria, poiché la radice liberalismo ha un significato differente da liberismo. Si rifletta, in proposito, sulle seguenti parole del politologo Giovanni Sartori circa la nascita del liberalismo: «Disgrazia ha voluto, dunque, che il nome venisse coniato quando l’evento forte non era il liberalismo politico ma il liberismo economico. Di conseguenza il liberalismo acquisì una accezione più economica che politica, venne dichiarato “borghese” e “capitalistico”, e si guadagnò così la granitica e longeva ostilità del proletariato industriale. Sfortuna? Sì proprio sfortuna. Perché se “liberalismo” fosse stato inventato, mettiamo, un secolo prima nessuno gli avrebbe potuto attribuire colpe economiche che non ha, e nessuno avrebbe potuto pasticciare – come a tutt’oggi si pasticcia – il liberalismo politico con il liberismo economico [...] Cosa è, allora, il liberalismo puro e semplice, diciamo il “liberalismo classico”? Non è certo l’economia di mercato. É, invece, la teoria e la prassi della libertà individuale, della protezione giuridica dello Stato costituzionale. Si noti che dico Stato costituzionale e non Stato “minimo”» (Sartori, 1993, pp. 197-198).

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capeggiata dal Premio Nobel per l’economia Milton Friedman – cominciano un lento, ma inarrestabile, processo di smantellamento delle principali conquiste sociali e della normativa del sistema finanziario14. Per meglio capire questo passaggio, può essere utile spendere due parole sulle principali caratteristiche dei due orientamenti sopra richiamati. In estrema sintesi, con l’espressione “economia sociale di mercato” si fa riferimento a un’impostazione di politica economica che si colloca «nel vasto spazio intermedio tra mercato puro ed economia statale» (Crouch, 2011, trad. it., p. 12). Per contro, il neoliberismo postula l’idea che la libertà di mercato sia la miglior soluzione ai problemi e alle aspirazioni dell’uomo. L’orientamento socialdemocratico suggerisce di sfruttare la funzione allocativa e innovativa del mercato, cercando, nel contempo, di preservare quantomeno un livello minimo di equità sociale. L’orientamento neoliberista, invece, sussume le nozioni di equità e di giustizia sociale nel principio dello scambio per equivalenti. Ancora, il primo si propone di raggiungere determinati fini sociali mediante: a) gestione keynesiana della domanda; b) strumenti di welfare state; c) relazioni industriali neocorporative, vale a dire triangolazioni tra sindacati, governo e associazioni degli imprenditori finalizzate al bilanciamento delle esigenze del capitale e del lavoro. Il secondo rifiuta categoricamente la gestione dei mercati mediante intervento pubblico, ovvero attraverso forme concertative di qualsivoglia natura. Come ha scritto il sociologo Luciano Gallino, il neoliberismo racchiude una propria teoria dell’occupazione, della distribuzione del reddito e del lavoro. «In conformità a detta teoria, il mercato stabilisce automaticamente quale sia il tasso di occupazione più consono al benessere generale. A sua volta la distribuzione del reddito viene determinata esclusivamente dalla remunerazione dei fattori di produzione: una distribuzione che il mercato dei capitali e del lavoro assicura !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 14

Contrariamente a quanto si crede «la liberalizzazione dei movimenti di capitale non è stata un’invenzione dovuta esclusivamente a economisti, banchieri e politici americani […] Una spinta autonoma in tale direzione, e di grande forza, è provenuta dall’Europa occidentale». Ma l’aspetto più sorprendente sta nel fatto che la «globalizzazione finanziaria è decollata grazie a contributi fondamentali di politici e partiti che si reputavano di sinistra; il che costituisce, a posteriori, un paradosso a fronte di un processo mondiale che è stato condotto palesemente in funzione antioperaia» (Gallino, 2011, p. 69).

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essere, in ogni fase dell’economia, la più equa. Infine il disoccupato è definibile come un individuo cui capita di non possedere la formazione professionale adatta, oppure uno che non accetta il lavoro disponibile o il salario che lo accompagna, o semplicemente non desidera lavorare» (Gallino, 2011, pp. 29). Alla luce di queste brevi considerazioni, non sembra sbagliato affermare che entrambi gli orientamenti incorporano una dottrina economica che funge da base per la conseguente prassi politica. Rispetto a quest’ultima, però, si riscontra una differenza sostanziale tra l’economia sociale di mercato e il neoliberismo: la prima, infatti, propugna il primato della sfera politica sulla sfera economica, dell’opzione ideologica sul calcolo costi benefici, del dialogo costruttivo sulla razionalità economica. All’estremo opposto, il secondo celebra il “ripiegamento” della politica e, conseguentemente, innalza il libero mercato a unico criterio di verità nella gestione degli affari pubblici15. Sennonché, a fronte di questo atteggiamento manicheo, che contrappone l’efficienza e la ricettività delle imprese private all’incompetenza e all’arroganza dei servizi pubblici, si riscontra, nella realtà dei fatti, una forte tendenza al predominio delle «imprese giganti» nei mercati e nella vita pubblica. Ciò, almeno, è quanto sostiene il sociologo Colin Crouch in The Strange Non-Death of Neoliberalism (2011), un interessante lavoro di ricerca che approfondisce il percorso cominciato alcuni anni prima in Post-Democracy (2004).

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Secondo Luciano Gallino, il neoliberismo è qualcosa di più di una mera prassi politica guidata da una dottrina economica. Si legga, in proposito, questo passaggio tratto dal suo ultimo lavoro di ricerca: «L’attraversamento incontrollato dei confini tra politica ed economia non sarebbe potuto avvenire senza l’apporto sostanziale di un’ideologia la quale, dopo essere giunta a pervadere l’intero sistema culturale, ha promosso e legittimato tale processo, e lo ha praticato essa stessa in forze riguardo ai suoi confini con tutti gli altri sottosistemi. Questa ideologia è il neoliberalismo. È risaputo che razionalizzare e legittimare l’agire economico non meno di quello politico è sempre stata, per definizione, la funzione di ogni ideologia» (Gallino, 2011, p. 24). Poi aggiunge a complemento: «Il suo carattere fideistico spiega anche la presa che l’ideologia neoliberale ha avuto sull’immaginazione e sull’agenda politica delle sinistre democratiche europee, dal labour britannico ai socialdemocratici tedeschi, dai socialisti francesi ai postremi discendenti del Pci in Italia» (Ivi, pp. 30-31, corsivi nostri). !

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Secondo il professore britannico, il «progetto neoliberista» fornisce una rappresentazione falsa e ingannevole della realtà perché presuppone che: a) il settore privato sia uno spazio unitario e omogeneo all’insegna dell’efficienza; b) qualsiasi cosa accada nel mercato sia al di sopra delle critiche; c) non esistano alternative migliori al mercato per chiedere o creare qualcosa; d) la società sia una somma di individui guidati esclusivamente dalle loro aspirazioni individuali. Ma non è tutto. L’esistenza di imprese transnazionali, vale a dire di società che «grazie alla loro posizione di forza sui mercati, (1) sono in grado di influenzare questi ultimi avvalendosi della propria capacità organizzativa per porre in atto strategie di predominio sul mercato, e (2) possono farlo nell’ambito di varie giurisdizioni nazionali», rende anacronistica la classica contrapposizione tra lo Stato e il mercato (Crouch, 2011, trad. it., pp. 58-59). Detto diversamente, è come se tra i due litiganti si fosse inserito un “terzo incomodo” che si permette di condizionare, a seconda delle sue necessità e dei suoi obiettivi economici, tanto il mercato quanto i governi nazionali. In realtà, questo fenomeno è sempre stato noto nei “circoli neoliberisti”. A dimostrazione di questo fatto, si consideri che nel corso degli anni ’80, agli albori della controffensiva neoliberista, per contrastare l’approvazione da parte del governo statunitense di leggi antitrust sempre meno tolleranti, numerosi e autorevoli studiosi si adoperarono, insieme ai legali delle multinazionali, per sviluppare un nuovo corpus di principi economici che ha stravolto il significato tradizionale di libero mercato. Senza entrare nei dettagli della materia, può essere interessante notare come alla libertà di scelta del consumatore – che fa da complemento alla libera concorrenza tra imprese – Robert Bork e Richard Posner – due noti accademici nominati giudici durante l’amministrazione Reagan – sostituirono il più vago e controverso concetto di benessere del consumatore, spianando di fatto la strada ai colossi transnazionali. Secondo i due studiosi, il tribunale che è chiamato a decidere in materia di antitrust deve dare priorità alla soluzione che massimizzi il benessere degli acquirenti e non necessariamente le loro alternative di scelta (cfr. ibidem). Ciò, in termini pratici significa che, se la fusione tra più società ! 97! !

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riesce a garantire al sistema economico un incremento di ricchezza maggiore della perdita che subisce il singolo consumatore in termini di quantità e qualità di beni e servizi presenti nel mercato, il giudice deve dare il proprio parere positivo. Una soluzione, quindi, che privilegia nettamente gli interessi degli azionisti a scapito di quelli dei cittadini-consumatori16. Su di un piano leggermente diverso, Luciano Gallino evidenzia come la liberalizzazione dei capitali abbia provocato l’assoggettamento dell’economia reale all’economia finanziaria. Riprendendo un concetto di Lewis Mumford, il sociologo italiano definisce il finanzcapitalismo una «mega-macchina che è stata sviluppata negli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi […] Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona» (Gallino, 2011, pp. 5). Ma come opera la mega-macchina del capitalismo finanziario? A livello generale, essa si contraddistingue dal capitalismo industriale sia per il modo di creare, sia per quello di accumulare il capitale. Rispetto al primo punto, il nuovo capitalismo è imperniato non tanto sulla produzione di valore – caratteristica dei processi economici reali – quanto sulla sua estrazione. Circa il secondo punto, invece, il finanzcapitalismo ha sostituito la tradizionale formula D1–M–D2, per cui si investe denaro (D1) allo scopo di ricavarne una quantità maggiore (D2), !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 16

!Per un quadro più dettagliato sulla scalata delle big corporations si rimanda alle pagine 58114 (cap. III e IV) del testo di Crouch e alle pagine 208-217 (cap. VIII) del testo di Gallino, entrambi citati in precedenza. In breve, l’ascesa dei colossi transnazionali può essere spiegata come l’esito di tre dinamiche convergenti. La prima dinamica, di natura ideologico-culturale, fa riferimento all’affermazione sul piano appunto culturale delle teorie economiche e delle idee politiche neoliberiste. La seconda dinamica, di natura giuridica, concerne lo “smantellamento” della normativa a tutela del mercato e dei consumatori. Per finire, la terza dinamica, di natura economico-finanziaria, riguarda, da un lato, l’introduzione di nuove tecnologie informatiche che consentono di spostare ingenti quantità di denaro da un posto all’altro del pianeta in pochi minuti e, dall’altro, la nascita di potenti investitori finanziari che hanno realizzato numerose acquisizioni e fusioni, stravolgendo il volto dell’industria mondiale.

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passando per la produzione e la vendita di beni e servizi (M), con la formula D1– D2. La differenza è che il profitto si ricava semplicemente facendo circolare il denaro nei sistemi finanziari, senza produrre alcunché di materiale. Per realizzare questa rivoluzione copernicana, il capitalismo finanziario si è dotato di un braccio operativo formato da tre componenti strutturali molto complesse. La prima di queste componenti è costituita da tutte quelle società finanziarie – dette anche bank holding companies – che controllano, nello stesso tempo, banche commerciali, banche di investimento, assicurazioni sul comparto immobiliare, assicurazioni sulla vita, assicurazioni sul credito, casse depositi e prestiti, etc. Si tratta, in sintesi, di reti societarie transnazionali «nelle quali si intrecciano inestricabilmente sia le funzioni che i titoli di proprietà» (Ivi, p. 9). A fianco di questa componente «bancocentrica», la quale, per quanto sia estremamente complessa, resta pur sempre composta da entità visibili, risiede la cosiddetta finanza ombra: un insieme di società e intermediari finanziari privi di «sostanza organizzativa», creati dalle banche con il solo obiettivo di veicolare fuori bilancio i loro cospicui attivi. Infine, la terza componente è costituita dagli investitori istituzionali, ossia da quegli operatori economici – tra cui figurano fondi pensione, fondi comuni di investimento e fondi speculativi – che effettuano considerevoli investimenti in maniera continuativa. Secondo Luciano Gallino, gli investitori istituzionali «sono una delle maggiori potenze economiche del nostro tempo. Gestiscono un capitale di oltre 60 trilioni di dollari, equivalente al Pil del mondo 2009 […] nessuna società finanziaria, e nessuna corporation industriale, può permettersi di ignorare le richieste degli investitori istituzionali» (Ivi, pp. 1112). La loro ingente disponibilità di denaro consente loro di decidere la sorte non solo delle società quotate in borsa, ma anche, come le recenti vicende finanziarie insegnano, degli “Stati sovrani”. Scendendo a un livello di maggiore concretezza, la “formula magica” D1–D2 rivela tutta una serie di strategie e di modalità operative sulle quali vale la pena soffermarsi. Per cominciare, negli ultimi trent’anni si registra una forte espansione dei mercati borsistici, a cui però fa da riscontro una scarsa incidenza degli stessi sulle modalità di finanziamento delle imprese quotate in borsa, a ! 99! !

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conferma dell’autoreferenzialità del settore finanziario. Conformemente a questa tendenza, le banche commerciali più importanti hanno accresciuto i loro attivi sul lato delle attività finanziarie, riducendo l’incidenza della componente legata ai prestiti alle imprese. Si stima che negli Stati Uniti gli attivi afferenti ai prestiti commerciali delle 18 maggiori banche siano scesi dal 20,6% sul totale del 1992 al 10,9% del 2008. Per contro, il reddito complessivo delle attività finanziarie fuori bilancio è cresciuto dal 7% del 1980 al 44% del 2007. In secondo luogo, si riscontra una forte tendenza alla concentrazione di capitali in pochi grandi gruppi del settore bancario latu sensu. A titolo di esempio, si consideri che nel periodo che va dal 1992 al 2008 gli Stati Uniti hanno visto crescere gli attivi delle loro prime 18 banche dal 23% al 60% sul totale degli istituti bancari. Si osservi poi che più o meno nello stesso periodo alcuni grandi investitori istituzionali hanno assorbito circa quattro quinti delle somme che le famiglie destinavano ad acquisti in proprio di prodotti finanziari, assumendo così il ruolo di veri e propri «intermediari universali». Si stima che nel 2007 i primi trecento fondi pensione del mondo avessero in portafoglio il 60% del capitale investito, pari a 12 trilioni di dollari su un totale di 17,5. In terzo luogo, si osserva un’ingiustificabile propensione alle operazioni finanziarie di brevissima durata, finalizzate esclusivamente all’ottenimento di un facile surplus monetario. Ciò, in altre parole, significa che le caratteristiche di un’impresa, la sua situazione patrimoniale, le condizioni di lavoro che offre ai dipendenti hanno sempre meno importanza per le decisioni di investimento. Se ciò, in sintesi, è quanto sta accadendo nel settore finanziario, sul fronte dell’economia reale la situazione non è molto incoraggiante. In primo luogo, la semplicità con cui si ottengono profitti attraverso gli investimenti finanziari sta spingendo molti grandi imprenditori a rivedere la propria politica industriale. In particolare, sempre più imprese manifatturiere hanno cominciato a destinare una parte cospicua dei propri profitti ad attività finanziarie di varia natura, riducendo gli investimenti in capitale fisso e ricerca. D’altra parte, le pressioni esercitate dagli investitori istituzionali – i quali, merita precisarlo, detengono al presente circa il 55% del capitale di tutte le società quotate nelle borse mondiali – sul !100! !

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management aziendale hanno comportato l’adozione di una logica di gestione improntata esclusivamente alla massimizzazione del valore azionario17. Questo fatto si ripercuote anche sulle modalità di selezione e sui comportamenti dei managers, i quali vengono sempre più apprezzati non tanto per le loro abilità gestionali, quanto per la loro capacità di far salire il corso delle azioni. La stessa solerzia con cui il finanzcapitalismo cerca di estrarre valore dagli investimenti finanziari si riscontra anche sul piano del lavoro umano, della natura e del sistema agro-alimentare. Rispetto al primo punto, l’estrazione di valore si realizza mediante: 1) riduzione dei salari e dei sistemi di protezione sociale; 2) delocalizzazione degli stabilimenti e degli investimenti dove il costo del lavoro è più basso; 3) precarizzazione del lavoro; 4) intensificazione dei ritmi di lavoro e riduzione dei “tempi morti”. Ma la modalità più sorprendente è senza dubbio il lavoro non retribuito, cioè quel lavoro che milioni di persone svolgono gratuitamente alimentando flussi incommensurabili di informazioni via web, la cui preziosità è ben conosciuta dalle imprese multinazionali. Riguardo allo sfruttamento della natura e delle risorse agro-alimentari, la strategia del finanzcapitalismo si sviluppa lungo tre direttrici interdipendenti: 1) creazione di monopoli e di oligopoli che controllano l’intera filiera alimentare, dal mercato delle sementi alla distribuzione dei prodotti confezionati, passando per il mercato dei prodotti di base; 2) industrializzazione dell’agricoltura e degli allevamenti di bestiame, in combinato con l’assoggettamento contrattuale degli agricoltori rimasti indipendenti; 3) acquisizione di vasti appezzamenti di terreno (soprattutto in Africa e in Asia) da destinare alle colture estensive18. In breve, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 17

!Per un quadro più dettagliato sull’argomento si rinvia alle pagine 199-224 (cap. VIII) del testo di Gallino già citato in precedenza, dove è possibile acquisire informazioni su numerosi casi di finanziarizzazione di imprese manifatturiere. Merita di essere sottolineato, se non altro perché ci riguarda più da vicino, il caso FIAT. L’azienda automobilistica italiana, infatti, nel 2010 ha deciso di aprire una filiale finanziaria in Argentina allo scopo dichiarato di raccogliere capitali nel mercato locale. Un’iniziativa che, se da una parte non può essere considerata di per sé stessa negativa, dall’altra è emblematica circa l’orientamento che stanno assumendo sempre più imprese manifatturiere. ! 18 Anche in questo caso, per un quadro più preciso sull’argomento si rinvia alle pagine 133-167 (cap. VI) del testo di Gallino. In particolare, il paragrafo dedicato a L’assalto al sistema agroalimentare è ricco di informazioni e di dati sulle principali tendenze del settore. Si consideri, a

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all’arricchimento di poche società transnazionali fa da riscontro un gravissimo impoverimento della natura e un aumento costante dell’inquinamento globale. A questo punto, però, una domanda diventa incalzante: che cosa significa tutto questo per la politica (democratica) di uno Stato nazionale? Significa che i margini di azione del politico si sono ridotti notevolmente, laddove il potere economico ha allargato a dismisura i suoi confini. Beninteso, ci teniamo a precisare che non vogliamo qui compiere la critica al neoliberismo, piuttosto che alla globalizzazione. Siamo consapevoli dei vantaggi che possono derivare –in termini di ricchezza prodotta, libertà di scelta, efficienza e qualità dei servizi – dalla liberalizzazione di alcuni settori di attività produttive (purché si tratti di liberalizzazioni vere e non si parli di libero mercato per camuffare il “potere dei giganti”). Cionondimeno, siamo portati a credere che la comparsa di quelli che abbiamo etichettato come “colossi transnazionali”, in combinato con il “ripiegamento” della politica, abbia, de facto, determinato l’assoggettamento di vasti settori della vita pubblica alle decisioni di attori globali che non sono stati eletti mediante procedimenti democratici. Ulrich Beck, in proposito, sostiene che il potere economico ha dato vita a una nuova forma di sovranità che agisce translegalmente, vale a dire in una sorta di limbo che si colloca al confine tra la legalità e l’illegalità, tra la legittimità e l’illegittimità. «Sovranità translegale significa la possibilità permanente, più o meno istituzionalizzata, di influenzare gli esiti delle decisioni e delle riforme statali al di là di tutti i confini nazionali tra sistemi e funzioni in modo che le loro priorità corrispondano alle priorità dell’estensione del mercato mondiale». (Beck, 2002, trad. it., p. 93). La sovranità translegale, a differenza di quella politica, non si fonda sul ricorso alla forza fisica legittima come extrema ratio, ovvero sulla !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! titolo di esempio, che il 50% del mercato globale delle sementi è controllato da dieci società, di cui tre americane (con il 64%), cinque europee (con il 32%) e due giapponesi (con solo il 4%); l’85% del mercato delle granaglie è detenuto da appena tre multinazionali; infine, un quarto del mercato degli alimenti e delle bevande confezionati è in mano a una decina di “venditori”, tra cui spiccano i nomi della svizzera Nestlè, dell’americana Kraft, dell’olandese Unilever e della francese Danone. A conferma delle tendenze monopolistiche, si consideri, poi, che sempre più società specializzate nel confezionamento e nella distribuzione dei prodotti finiti si sono spinte anche nell’acquisizione di terreni e di stabilimenti produttivi. La già citata Nestlè, ad esempio, dispone di un esercito composto da 280000 dipendenti e 600000 agricoltori sotto contratto.

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minaccia dell’invasione del nemico. Essa, al contrario, è riuscita a perfezionare in maniera sorprendente uno strumento di dominio imperniato sulla minaccia della non-azione, che corrisponde, in ultima istanza, al ritiro degli investimenti economici. «C’è solo una cosa peggiore dell’essere travolti dalle multinazionali, ed è non essere travolti dalle multinazionali» (Ivi, p. 69). Conseguentemente, gli Stati nazionali hanno cessato di fronteggiarsi sul piano militare, quantomeno con le modalità che hanno caratterizzato i rapporti internazionali a partire dalla Pace di Vestfalia (1648) fino alla seconda guerra mondiale, e hanno intrapreso la strada del conflitto economico. Un conflitto che premia gli Stati che riescono a creare in loco le condizioni più favorevoli per la realizzazione dei progetti delle società multinazionali. D’altra parte, la sovranità translegale non si manifesta necessariamente attraverso il meccanismo della concorrenza di posizione. Essa possiede, in una certa misura, la capacità di dar vita ad un “diritto autonomo” che si colloca al di là dell’orizzonte degli ordinamenti nazionali e del diritto internazionale. É il caso, ad esempio, dei tribunali arbitrali di natura privatistica, creati mediante accordo o contratto allo scopo di risolvere controversie di natura commerciale tra società aventi sede legale in paesi differenti. Ma non meno indicativo è il caso del potere di definire gli standard tecnici relativi all’utilizzo di specifiche tecnologie, ovvero di controllare le condizioni cognitive e istituzionali circa la produzione del nuovo. Si tratta forse di questioni lontane dalle preoccupazioni del cittadino comune, ma a una lettura più scrupolosa esse rivelano l’esistenza di un pericoloso squilibrio di potere – potere come conoscenza – che attribuisce alle multinazionali una carta vincente da giocare nella competizione globale. Il quadro che abbiamo fin qui tratteggiato non sarebbe completo se non accennassimo al ruolo giocato sulla scena globale dalle istituzioni economiche internazionali. In particolare, ci interessa evidenziare, in questa sede, come il tentativo di istituzionalizzare forme di coordinamento e di promozione dei flussi economico-finanziari globali non sia riuscito, di fatto, ad attenuare il fenomeno della concorrenza di posizione. All’opposto, la creazione del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale (Bm), prima, e dell’Organizzazione !103! !

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mondiale del commercio (Omc), poi, sembra aver favorito la realizzazione di ampi spazi di operatività per le imprese con forti ambizioni globali19. In questa prospettiva, sono soprattutto il Fmi e la Bm che, nel corso degli anni ’80 e ’90, hanno agito quasi di concerto, sotto pressione dei paesi economicamente più forti – in primis gli Stati Uniti – “imponendo” ai paesi destinatari dei loro finanziamenti quel vasto programma neoliberista che va sotto il nome di Washington consensus20. Ciò, in qualche misura, giustifica le accuse e le critiche che solitamente vengono rivolte all’operato di queste due istituzioni circa la carenza di trasparenza e di accountability, nonché di eccesso di dogmatismo rispetto ai bisogni concreti dei paesi membri. L’Omc, dal suo canto, ha una composizione assembleare che garantisce ai paesi membri una posizione sostanzialmente paritaria e, di conseguenza, le !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 19

Per una descrizione più approfondita sulla storia, sulla governance e sulla mission del Fmi, della Bm e dell’Ocm si rinvia alle pagine 343-445 (cap. III) del testo di Ferdinando Targhetti e Andrea Fracasso, Le sfide della globalizzazione. Storia, politiche e istituzioni (2008). In breve, il Fmi e la Bm sono nate nel 1945 come parti dell’ONU. Il Fmi concede prestiti ai paesi che ne fanno richiesta per tamponate temporanei squilibri nella bilancia dei pagamenti. La Bm, invece, dopo una fase iniziale di ausilio alla ricostruzione post-bellica, si è concentrata sul finanziamento dei paesi in via di sviluppo offrendo prestiti con tassi di interesse agevolati (anche a soggetti del settore privato). Il loro meccanismo di voto è di tipo ponderato: il “peso” nelle delibere riflette la quantità di capitale versato da ciascuno Stato. Per questo motivo, entrambe tendono a soffrire dei condizionamenti da parte dei paesi più ricchi, sebbene i loro interventi dovrebbero essere guidati da considerazioni di natura squisitamente economica. L’Omc, dal suo canto, è stata istituita nel 1995 al termine di uno dei più importanti negoziati multilaterali per la liberalizzazione degli scambi, l’Uruguay round. Essa funge da assise per la discussione e la formulazione di nuovi accordi commerciali. Inoltre, vigila sul rispetto dei medesimi ed è dotata di una “procedura di conciliazione” per la risoluzione delle controversie commerciali sorte tra paesi membri. La sua struttura istituzionale è tendenzialmente democratica: un paese un voto, a prescindere dal “peso relativo” nell’economia mondiale; tuttavia, nel corso degli ultimi anni si registra un incremento costante degli accordi informali tra gruppi ristretti. Siffatta tendenza da un lato contribuisce ad accelerare i tempi di negoziazione, ma dall’altro riduce il grado di trasparenza e di legittimità circa la definizione dell’agenda di lavoro dell’organizzazione. 20 L’espressione Washington consensus, coniata dall’economista statunitense John Williamson, riassume l’insieme di raccomandazioni di politica economica intorno alle quali si era raccolto il consenso del Fmi, della Bm, del Tesoro americano e della Banca centrale americana. In sintesi, questo modello prevedeva: 1) rapida apertura e liberalizzazione dei mercati finanziari e reali; 2) riduzione dell’intervento pubblico a favore del libero mercato; 3) rigorosa disciplina fiscale (bilancio pubblico in pareggio); 4) stabilizzazione macroeconomica prevalentemente attraverso politica monetaria antinflazionistica. Questo approccio è stato ribattezzato dall’economista di origine ungherese George Soros come «fondamentalismo di mercato» (cfr. Ivi, p. 226).

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consente di sfuggire alle accuse sopra richiamate. Sennonché, anch’essa è stata creata esclusivamente allo scopo di promuovere una regolazione “negativa” del mercato che si concreta, in ultima istanza, nel progressivo abbattimento delle barriere commerciali. In conclusione, a tutt’oggi manca una volontà politica transnazionale in grado di correggere le disfunzioni insite nel mercato globale e di ostacolare il potere delle big corporations.

3.3 Europea tra multilateralismo e federalismo L’approccio sistemico e multilaterale alle sfide della globalizzazione, sebbene sia di gran lunga preferibile alla neutralità, non sembra sufficiente, per una sorta di difetto congenito, a promuovere quelle forme di intervento positivo necessarie alla rimozione delle conseguenze sociali cui abbiamo fatto più volte riferimento nel corso del capitolo. In effetti, le organizzazioni internazionali di tipo governativo – ma lo stesso vale per le conferenze intergovernative – non consentono il superamento del modo della concorrenza di posizione, in quanto si tratta di forme di cooperazione incardinate sulla “vecchia” logica dello Stato nazionale. Per dirla con Habermas, l’interdipendenza asimmetrica che qualifica le relazioni tra paesi sviluppati, paesi di nuova industrializzazione e paesi arretrati costituisce un ostacolo insormontabile alla formazione di una volontà transnazionale (Habermas, 1998). Si spiega così, ad esempio, per quali ragioni un assetto politico che continua a viaggiare sui binari dei governi nazionali – i quali, è bene sottolinearlo, devono procurarsi il consenso nell’arena politica nazionale – non è in grado di produrre un accordo per tassare le transazioni finanziarie di natura speculativa. Ma lo stesso vale per l’accordo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni a effetto serra, il quale non sembra essere riuscito a contenere l’inquinamento atmosferico nonostante l’ampia partecipazione della comunità internazionale degli Stati sovrani. D’altra parte, la realizzazione di unità politiche sovranazionali, sebbene non consenta l’eliminazione diretta della logica della concorrenza di posizione, !105! !

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rappresenta, quantomeno in linea teorica, l’unica strada percorribile affinché la politica possa riprendersi una rivincita sulle forze dell’economia globale. Inoltre, come evidenzia lo stesso Habermas, la creazione di unità politiche più grandi determina una riduzione degli attori politici in grado di agire globalmente e, quindi, facilita il raggiungimento di intese vincolanti (Ibidem). Queste brevi riflessioni sul confronto tra ottica multilaterale e approccio sovranazionale ci conducono direttamente al tema di questo paragrafo: il potere nell’Unione Europea. Per la precisione, lasciando sullo sfondo il problema della competizione globale e riportando in primo piano il soggetto principale di questa ricerca, vale a dire il fenomeno tecnocratico, ci proponiamo adesso di tracciare una sorta di mappa del potere istituzionale dell’Unione. Naturalmente, siffatta mappa, benché sia ricavabile da un esame dell’assetto istituzionale europeo – così come si è venuto a formare nel corso dei suoi cinquantacinque anni di vita – si interseca inevitabilmente con tutte quelle vicende politiche ed economiche che recentemente hanno contribuito a riportare l’Europa – sebbene più per difetti che per meriti – al centro della discussione pubblica e accademica. Non mancano, infatti, gli articoli di riviste politologiche che, sullo sfondo della crisi economicofinanziaria globale, ne mettono in risalto: 1) il deficit democratico strutturale; 2) il carattere disfunzionale e la fragilità dell’assetto istituzionale (Hughes, 2012); 3) l’inadeguatezza degli strumenti di governo (Manservisi, 2012); 4) i limiti della governance economica (Fabbrini, 2012; Dehousse, 2012). Orbene, preso atto di queste criticità, sulle quali avremo l’occasione di ritornare, crediamo che un approccio di tipo genealogico sia ai nostri fini di gran lunga preferibile ad un mero appiattimento sulla situazione attuale. Beninteso, con ciò non intendiamo ricostruire tutte le tappe dell’integrazione europea. Un compito di questo tipo, oltre ad essere particolarmente complesso, esula dagli obiettivi della nostra ricerca. Sennonché, ripercorrendo la fase iniziale – lo stato nascente – del processo di integrazione è possibile comprendere le ragioni che hanno portato alla realizzazione di un’istituzione la cui natura possiede, ad un tempo, i caratteri di una federazione di Stati e di una organizzazione di natura intergovernativa. Ed è altresì possibile afferrare le motivazioni che spingono !106! !

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molti autori a descrivere l’Europa come un progetto elitario, fatto più per la gente che non dalla gente. A tal proposito, lo storico italiano Piero Graglia, nella sua breve storia del cammino europeo, evidenzia come negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale si scontrassero due diverse idee di Europa: la prima, di matrice federalista, favorevole all’unificazione integrale del Vecchio continente; la seconda, gelosa dell’indipendenza nazionale e disponibile, tutt’al più, a una semplice collaborazione intergovernativa. Scrive Graglia: «L’idea di unificare l’Europa politicamente ed economicamente, che aveva avuto durante la guerra e la resistenza i suoi profeti e i suoi progetti, parve essere a quel momento una scelta a portata di mano [...] La riorganizzazione dell’Europa però non seguì la via del federalismo [...] ma si basò sulla ricostruzione istituzionale degli Stati nazionali preesistenti al conflitto, gelosi custodi delle loro prerogative» (Graglia, 2000, pp. 12-13). Ben presto, però, la necessità di provvedere alla ricostruzione del tessuto socio-economico europeo, in combinato con le pressioni geopolitiche derivanti dall’insorgenza della guerra fredda, rese evidente l’impraticabilità di un progetto europeo privo di istituzioni comuni. Fu così che prese campo l’opzione dell’integrazione settoriale, un’idea maturata nella mente del francese Jean Monnet – all’epoca Commissario al piano Marshall per la ricostruzione dell’industria francese – che prevedeva la cessione progressiva di “quote” di sovranità da parte degli Stati membri sulla base di aree di interesse economico condivise. In questa prospettiva, la CECA rappresenta il primo tassello di un mosaico che avrebbe dovuto completarsi con la nascita di una vera federazione europea. Partendo da quelle lontane premesse, si è proceduto per tutta la seconda parte del XX secolo attraverso una prima fase marcatamente funzionalista – in cui è il mercato a fare da traino all’integrazione comunitaria – e una seconda fase detta intergovernamentale – in cui l’interdipendenza economica e gli interessi nazionali trovano una sintesi nei processi di negoziazione intergovernativa21. In !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 21

La teoria dell’integrazione funzionale – elaborata dell’economista rumeno David Mitrany in A working pace Syistem: An Argument for the Functionctional Development of International

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questa rappresentazione schematica, lo spartiacque tra la prima e la seconda fase è costituito dall’Atto unico europeo (1986), un trattato che, sulla tortuosa strada che porta all’unione economica e monetaria, ha introdotto una serie di modifiche procedurali per snellire il processo decisionale e facilitare l’armonizzazione delle normative nazionali22. Il percorso naturalmente è andato avanti passando per Maastricht (1992), Amsterdam (1997), Nizza (2001), un tentativo di “costituzionalizzare” l’Europa (2004) ed è, infine, approdato a Lisbona (2007), dove è stato formalizzato un sistema decisionale ibrido, imperniato, a un tempo, su un sistema di governo, per regolare le materie collegate al mercato unico, e su un sistema di governance, per decidere materie sensibili agli Stati membri (Fabbrini, 2012). Il primo sistema è costituito da un «quadrilatero istituzionale» basato su un legislativo bicamerale – composto a sua volta da un Consiglio, inteso come camera di rappresentanza dei governi, e da un Parlamento europeo, inteso come camera di rappresentanza dei cittadini – e su un esecutivo duale – composto da una Commissione, in cui trova !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Organisation (1943), poi aggiornata dal collega Ernst Hass in The Uniting of Europe. Political, Social and Economic Forces (1958) – implica l’idea che l’interesse economico sia sufficiente a superare le istanze di carattere identitario (legate all’appartenenza alla comunità nazionale) e a garantire, come per una sorta di riflesso incondizionato, una lineare integrazione regionale. In questa prospettiva, sono soprattutto le funzioni economiche, ovvero gli interessi condivisi dalle élites, a promuovere, secondo una logica squisitamente tecnicistica, la creazione di organismi sovranazionali. All’opposto, il modello intergovernamentale – introdotto da Andrew Moravcsik in Preferences and Power in the European Comunity (1993) – cerca di recuperare il ruolo della dimensione statuale. In pratica, il processo di integrazione europea, lungi dal presentarsi come il risultato di un mero determinismo economico, si caratterizza per la costante negoziazione circa la creazione di nuove forme di coordinamento sovranazionale da parte dei leader politici nazionali. In questa seconda prospettiva, pertanto, sono gli Stati che si autolimitano reciprocamente allo scopo di ottenere una maggiore efficienza sul piano della politica interna. 22 L’integrazione economica è un processo lungo e complesso in cui si confrontano strutture produttive con capacità e tempi di adattamento differenti. Più l’integrazione è profonda, cioè più coinvolge la mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro), più si rendono necessarie profonde riorganizzazioni dei meccanismi istituzionali dei paesi coinvolti. L’Atto unico europeo, in questo senso, rappresenta uno snodo decisivo nel processo di integrazione. Esso è nello stesso tempo un punto di arrivo e un inizio: la chiara presa di coscienza da parte degli Stati membri della necessità di proseguire la strada intrapresa a Roma nel 1957 attraverso una maggiore armonizzazione delle discipline nazionali. In pratica, l’Atto unico europeo agisce sui meccanismi di relazione tra istituti comunitari e istituti statuali: 1) attribuendo più competenze in materia economica agli organismi europei; 2) rimuovendo il vincolo del voto all’unanimità; 3) sancendo il cosiddetto principio del mutuo riconoscimento (Bianchi, Labory, 2009).

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posto un commissario per ogni Stato membro, e un Consiglio europeo formato dai capi di Stato e di governo degli Stati membri. Come sostiene il politologo italiano Sergio Fabbrini: «Si tratta di un sistema di governo perché il ruolo e le funzioni delle istituzioni sono sufficientemente precisati. [Inoltre, si tratta] di un sistema di governo separato perché nessuna istituzione dipende dalla fiducia delle altre per poter funzionare in quanto tale (Ivi, p. 98). Le istituzioni, infatti, sono indipendenti le une dalle altre, ma allo stesso tempo si trovano legate in un complesso intreccio di relazioni definibile come checks and balances. Il quadrilatero istituzionale può legiferare, ovvero approvare disposizioni vincolanti nelle materie di competenza esclusiva dell’UE (come stabilite nei trattati). D’altra parte, il Trattato di Lisbona, superando la suddivisione in pilastri introdotta a Maastricht, ha formalizzato un regime decisionale differenziato per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza (Pesc) e la politica economica e monetaria (Uem). Si tratta, in estrema sintesi, di un meccanismo decisionale di natura intergovernativa, volto alla ricerca del compromesso tra gli Stati membri, non già alla loro integrazione a livello sovranazionale. In proposito, si osservi che, rispetto alla politica economica, il Trattato di Lisbona ha praticamente centralizzato la gestione della moneta comune – con l’affidamento della politica monetaria ad un istituto federale quale è la Banca centrale europea (Bce) – e, contemporaneamente, ha decentralizzato le politiche fiscali e di bilancio. Così, mentre da un lato la Bce controlla autonomamente l’andamento dei prezzi nel mercato europeo, dall’altro il Consiglio in sede Ecofin, con il supporto tecnico della Commissione europea, invia raccomandazioni agli Stati membri circa il perseguimento di obiettivi comuni e vigila sul rispetto del Patto di stabilità. La crisi economico-finanziaria, come abbiamo già accennato, ha messo in seria difficoltà questa complessa architettura istituzionale in cui convivono aspetti intergovernativi e istituti federali. Molti commentatori, infatti, si sono già pronunciati sostenendo la necessità di fare un passo in avanti verso una maggiore integrazione politica. Altri, invece, hanno sentenziato con accenti catastrofici il fallimento del progetto europeo. A nostro avviso, però, l’aspetto più interessante che è emerso in questi anni di difficoltà (per usare un eufemismo) è il deficit di !109! !

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democrazia delle istituzioni europee. Detto diversamente, la crisi economica ha “esaltato” la distanza che intercorre tra il popolo europeo – ammesso che esista – e le istituzioni comunitarie, alimentando il sentimento dell’euroscetticismo. Lasciando per il momento da parte le risposte che i leader europei hanno dato alla “crisi” – sulle quali avremo modo di ritornare nel capitolo conclusivo – può essere interessante soffermarsi sulle motivazioni che nutrono le radici del deficit democratico europeo. In merito a ciò, lo studioso Giandomenico Majone in una recente ricerca pubblicata dall’Osservatorio sull’Analisi d’Impatto della Regolazione (AIR), riconduce «l’inarrestabile perdita di autorità e di legittimità del progetto europeo» (Majone, 2010, pp. 4-5) a cinque fattori: 1) il modello di integrazione (neofunzionalista); 2) l’assenza di un popolo europeo; 3) la carenza di trasparenza nei processi decisionali; 4) la carenza di meccanismi per valutare, ed eventualmente sanzionare, i decisori pubblici; 5) lo squilibrio tra l’ampiezza dei compiti e la limitatezza delle risorse normative. In effetti, l’edificio europeo è stato progettato, e poi realizzato, partendo dal tetto anziché dalle fondamenta. Il modello di integrazione neofunzionalista, come abbiamo visto, si fondava sul presupposto fallace della superiore efficienza di istituzioni (tecno-burocratiche) create appositamente per “governare” aree di interesse comune. In questa prospettiva (anti-politica o post-politica), i risultati in termini economici derivanti dalla gestione in comune di “porzioni di mercato” sempre più estese avrebbe dovuto convincere i cittadini europei ad abbandonare il sentimento di appartenenza nazionale per accogliere i valori del federalismo europeista. Le cose, però, non sono andate esattamente nella direzione auspicata dai teorici neofunzionalisti. Peraltro, come rileva Majone, «l’idea di una Europa unita economicamente e politicamente, e quindi in grado di superare le guerre fratricide del passato, e di giocare ancora un ruolo significativo sullo scacchiere geopolitico mondiale, è sempre stata la visione di ristrette élite politiche ed intellettuali». Uomini esemplari come Coudenhove-Kalergi, fondatore nel 1923 del movimento Paneuropa; come Aristide Briandt, autore della prima proposta ufficiale di federazione europea; come gli italiani Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, coautori del celebre Manifesto di Ventotene (1941); e poi l’economista !110! !

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Luigi Einaudi, il politico Paul-Henri Spaak, fino ad arrivare ai padri fondatori della Comunità Europea, quali Robert Schuman, Jean Monnet, Alcide de Gasperi e Konrad Adenaue. Certamente, osserva ancora Majone, le idee politiche più influenti sono sempre state il frutto di raffinate elaborazioni intellettuali. Si pensi, soltanto per fare alcuni esempi, ai concetti di libertà e uguaglianza, di Stato e di nazione, di sovranità popolare e di democrazia rappresentativa. Sennonché, a differenza di quelle, «l’ideologia federalista non è mai riuscita a mobilitare politicamente le masse europee, e tanto meno a spingerle all’azione» (Ivi, pp. 7-9). A conferma di questo fatto, si osservi che il tasso di partecipazione alle elezioni europee è calato in maniera costante, a fronte di un progressivo incremento dei poteri del Parlamento (oggi, di fatto, nella procedura legislativa ordinaria il Parlamento ha gli stessi poteri del Consiglio). Inoltre, ci sembra opportuno ricordare che nel 2005, in occasione del referendum popolare sul Trattato Costituzionale europeo, gli elettori francesi e olandesi hanno espresso un parere negativo, costringendo i leader europei a “ripiegare” nel meno generoso Trattato di Lisbona. L’edificio europeo, dicevamo, è stato progettato per produrre risultati tangibili. E in effetti, non si può nascondere che fin quando l’Europa ha generato ricchezza – ammesso che il merito sia esclusivamente europeo e non dipenda, invece, da fattori esogeni – il problema della carenza di legittimità democratica è rimasto nella penombra. La sfiducia nei confronti delle istituzioni europee, però, si fa più marcata nei periodi, come quello attuale, in cui le decisioni riguardano quasi unicamente la distribuzione di sacrifici. Come ha scritto Kirsty Hughes: «Quando le crisi economiche investono in pieno la società, decimando i beni comuni e cambiando le agende politiche, una democrazia funzionale – capace cioè di preservare il dibattito, il contraddittorio politico, la funzione di controllo della stampa e del pubblico, lo Stato di diritto, la responsabilità della politica – risulta vitale». Poi continua: la democrazia «rappresenta il miglior antidoto alla disaffezione e al cinismo di popolazioni chiamate a sopportare duri sacrifici [...] e per questo soggette al richiamo di movimenti populistici che offrono facili ricette e comodi capri espiatori» (Hughes, 2012, p. 258, corsivi nostri). Detto !111! !

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altrimenti, i regimi democratici dispongono, pur con tutti i loro limiti e difetti, «di strumenti efficaci – e comunque [comparativamente] migliori di quelli usati da altri regimi politici – per ridurre i costi di transazione» che si presentano nel corso di qualsiasi crisi economica (Majone, 2010, p. 17). Orbene, le istituzioni europee pagano dei costi di transazione molto elevati, in quanto: 1) non esiste un’opposizione parlamentare stricto sensu; 2) manca una responsabilità politica del Consiglio europeo nei confronti del Parlamento; 3) il Parlamento non ha il potere di formare un nuovo Governo, né l’iniziativa legislativa che spetta alla Commissione; 4) il Parlamento può sfiduciare la Commissione, ma solo previo accordo di tutti i maggiori partiti (è richiesta la maggioranza dei due terzi). In breve, le istituzioni europee sembrano sorde – come il caso greco insegna – di fronte alle istanze provenienti dal basso. Del resto, «i canali di informazione e di dibattito pubblico, e gli strumenti di punizione di cui dispongono gli elettori a livello nazionale sono largamente inesistenti a livello europeo» (Ivi, p. 18). Un problema analogo si presenta sul fronte della politica monetaria. La Bce, infatti, è un organismo tecnico indipendente dalla politica, la cui mission consiste sostanzialmente nel mantenimento del tasso di inflazione medio sotto il livello del 2%. Questa scelta – la completa indipendenza dalla politica – le consente di non subire i condizionamenti del ciclo elettorale – la cosiddetta sindrome del breveterminismo – aumentando, quantomeno in linea teorica, la propria credibilità e, di riflesso, quella del mercato europeo nei confronti degli investitori internazionali. Ma che cosa succede nelle situazioni di emergenza, cioè quando la congiuntura economica è sfavorevole? Lo statuto della Bce non conosce altre “priorità” al di là della lotta all’inflazione. Inoltre, come abbiamo potuto assistere negli ultimi due anni, la quasi totale assenza di un contrappeso politico, ovvero di una politica fiscale centralizzata, si ripercuote in maniera negativa sulla performance economica e, quindi, sulla credibilità delle stesse istituzioni europee.

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3.4 Nazionalismo metodologico vs cosmopolitismo metodologico La dimensione globale, introdotta nel capitolo precedente, ha spostato la nostra attenzione a un livello di analisi diverso da quello statal-nazionale. Lo spazio senza frontiere che si è aperto con la globalizzazione ha proiettato sulla scena politica nuovi attori con nuove strategie, facendo, di fatto, “scolorire” la fede nell’istituzione statale. Ciò che in epoca moderna poteva essere pensato in armonia – la prospettiva d’azione degli attori con la prospettiva scientifica del ricercatore – subisce quindi una frattura che necessita di una ricomposizione. Ulrich Beck, nella sua critica al nazionalismo metodologico, considera l’ottica nazionale come una costante fonte di incomprensioni. Secondo l’autore tedesco, coloro che si ostinano ad analizzare le dinamiche di potere ignorando ciò che sta accadendo sulla scena globale commettono quattro tipi di errori: 1) le variabili del sistema vengono definite come interne o esterne ai confini dello Stato nazionale, trascurando le reali dinamiche transfrontaliere; 2) la dimensione statale viene rappresentata come qualcosa di fisso e, quindi, di immutabile; 3) le trasformazioni dello Stato, di conseguenza, vengono percepite come segni di declino e di decadenza, perdendo così di vista le opportunità aperte dalla nuova dimensione transnazionale; 4) i “poteri” che operano a livello globale vengono concepiti come una proiezione – o una derivazione – dello Stato. Partendo da queste premesse, Beck giunge alla conclusione che tutti i concetti legati alla società moderna – il patrimonio nazionale, l’economia nazionale, la politica nazionale, l’opinione pubblica nazionale, la famiglia e la classe – «devono essere ridefiniti o riconcepiti nel quadro del cosmopolitismo metodologico» (Beck, 2002, trad. it., p. 65). Il suggerimento che ne ricaviamo è senza dubbio fondato: l’osservatore non può più condurre le sue ricerche in base agli assiomi dell’ottica nazionale, perché così facendo fornirebbe una rappresentazione ingannevole della realtà. Tale problema è particolarmente evidente nel campo del commercio mondiale. Si consideri, ad esempio, l’ipotesi di un ricercatore che voglia misurare il grado di globalizzazione economica mediante un indicatore che rileva il volume degli scambi che intercorrono tra diverse nazioni in un lasso di tempo determinato. !113! !

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Un’operazione di questo tipo, pur essendo statisticamente corretta, comporta due tipologie di errori: innanzitutto, essa trascura il fatto che gran parte degli scambi – soprattutto quelli relativi ai servizi e ai capitali – avviene all’interno di reti che sfuggono al controllo degli Stati e perciò non sono immediatamente quantificabili; in secondo luogo, essa ignora l’esistenza di imprese multinazionali che spostano e ricombinano i beni da un punto all’altro del pianeta senza realizzare operazioni di compravendita. Un fenomeno analogo si presenta – forse in maniera meno accentuata – nella sfera politica: la distinzione tra politica interna e politica estera, infatti, tende a svanire nella misura in cui quelli che un tempo erano a tutti gli effetti «fattori esterni» diventano variabili immanenti al sistema politico e, come tali, devono essere poste in relazione con le strutture del sistema stesso. Il disastro nucleare di Fukushima, ad esempio, analiticamente può essere considerato un fattore esterno, ma, nel momento in cui esso va a influire non solo nell’opinione pubblica ma anche nel programma energetico di un altro paese, esso diventa una variabile interna al sistema. Dovremmo quindi abbandonare ogni ragionamento confinato all’interno dello spazio nazionale? Secondo il nostro modesto parere, l’ottica nazionale continua ad avere una sua importanza. Certamente, è necessario, come sottolinea a più riprese Beck, riproblematizzare la distinzione tra il dentro e il fuori, ma, nello stesso tempo, l’assenza di un governo globale ci impedisce di rifiutare categoricamente ogni discorso sul governo nazionale. Insomma, fintanto che la volontà popolare continuerà a strutturarsi in forme politiche nazionali, finché, cioè, i parlamenti e i governi nazionali continueranno ad essere i referenti politici principali dei cittadini, non vediamo il motivo per cui dovremmo smettere di occuparci delle dinamiche di potere al livello di Stato nazionale.

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CAPITOLO QUARTO DALLO SCENARIO MONDIALE AL GOVERNO TECNICO ITALIANO

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4.1 Prologo: perché l’Italia? Coerentemente con quanto scritto nelle pagine precedenti, in questo capitolo intendiamo analizzare il fenomeno demo-tecnocratico con un approccio che, parafrasando Beck, potremmo definire nazionalismo metodologico debole. Detto altrimenti, ciò che ci proponiamo di fare è di integrare fattori prettamente nazionali con fattori internazionali per cercare di fornire una rappresentazione verosimile del potere nello Stato italiano. La scelta dell’Italia rispecchia due ordini di motivi: in primo luogo, essa rappresenta la realtà politico-sociale a noi più vicina, per cui, se da una parte può risultare più difficile assumere un atteggiamento avalutativo nei confronti del problema, dall’altra è sicuramente più semplice reperire le informazioni necessarie. In secondo luogo, l’Italia è stata negli ultimi vent’anni il “banco di prova” di tre esecutivi composti da figure di chiara origine extrapartitica. Esperienze che, nell’immaginario collettivo, hanno richiamato alla mente il fenomeno della tecnocrazia. Pertanto, è nostra precipua intenzione (1) studiare le cause che hanno determinato la loro costituzione, (2) fornire una spiegazione adeguata circa la loro natura e (3) chiarire la loro (in)compatibilità con le forme politiche democratiche.

4.2 Le radici politico-istituzionali del governo tecnico italiano L’11 novembre scorso, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, di fronte all’incapacità della maggioranza – già indebolita dalla scissione della costola finiana – di raggiungere un accordo sulle misure straordinarie per far fronte alla crisi economico-finanziaria, decide di rassegnare le dimissioni. Due giorni dopo, l’ormai ex Commissario europeo per la concorrenza Mario Monti, senatore a vita da appena quattro giorni, viene incaricato di formare un nuovo esecutivo. Non passano nemmeno settantadue ore e il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, dopo una rapida consultazione delle forze politiche parlamentari,

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nomina Mario Monti alla Presidenza del Consiglio e su suggerimento di questi una lista di diciassette ministri, tutti di chiara origine extraparlamentare. Che il Governo Monti – il sessantunesimo della Repubblica italiana – sia, in qualche misura, il portato della crisi economico-finanziaria globale, non si può di certo negare. Tuttavia, siamo portati a credere che le radici di questo “evento straordinario” abbiano un significato di lungo periodo che oltrepassa i problemi contingenti proposti dalla cronaca. Per la precisione, è nella debolezza politica e istituzionale dello Stato italiano che, secondo il nostro parere, vanno ricercate le motivazioni che hanno condotto alla nascita di un esecutivo privo di esponenti del mondo politico. Pertanto, la nostra analisi sul governo tecnico prenderà avvio da alcune considerazioni a carattere generale sulle principali caratteristiche del sistema politico-istituzionale italiano. Tra le tante caratteristiche che contraddistinguono gli Stati dell’Europa meridionale, il tardivo sviluppo delle istituzioni liberali latu sensu è decisamente una delle più rilevanti. Come sottolineano Hallin e Mancini (2004), laddove il connubio tra gli interessi dei proprietari terrieri, della Chiesa e dello Stato assoluto era molto profondo e ben radicato nella società, il liberalismo ha faticato ad affermarsi. Lo Stato italiano ha vissuto un’esperienza di questo tipo. Beninteso, ciò non sta a significare che esista un nesso di causalità tra resistenza delle forze conservatrici ed esistenza del governo tecnico. Eppure, se proviamo a disporci in un’ottica di medio-lungo periodo, possiamo abbozzare l’ipotesi che il persistente vigore degli interessi e della cultura tradizionali, in combinato con la debolezza delle “forze progressiste”, abbia condizionato – in qualche misura – il cammino della società e delle istituzioni italiane, preparandole per esperienze “disallineate” rispetto alla prassi politica dei principali paesi democratici occidentali. Un attento osservatore come il costituzionalista Sabino Cassese, in un recente saggio a commento dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia, ha raccolto alcune interessanti riflessioni intorno ai principali punti di debolezza del nostro sistema socio-politico. Innanzitutto, osserva Cassese, l’Italia ha avuto un difficile processo di costituzionalizzazione. «Ambedue [i suoi] atti fondativi – lo Statuto !117! !

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albertino, ereditato nel lontano 1861 dal Regno di Sardegna, e la Costituzione repubblicana del 1948 – sono stati deboli ed hanno giocato un ruolo secondario nella “Costituzione materiale” del Paese» (Cassese, 2012, p. 180). In particolare, lo Statuto di Carlo Alberto si è rivelato eccessivamente flessibile, tanto da essersi adattato finanche alle peculiarità del regime fascista. La Costituzione del 1948, invece, ha mostrato dei risultati soddisfacenti circa gli sviluppi della sua prima parte – sebbene con qualche anno di ritardo rispetto alla sua entrata in vigore – mentre sul lato dell’ordinamento dei poteri pubblici, essa non è stata in grado di assicurare una sufficiente stabilità governativa, né di produrre un considerevole ricambio politico a livello governativo. Peraltro, alcune delle più importanti prescrizioni costituzionali – il diritto al lavoro, il diritto alla casa, la democrazia sindacale, il diritto allo studio per i capaci e i meritevoli – non sembrano aver trovato piena attuazione, per cui, evidenzia di nuovo Cassese, «la Costituzione è stata [...] sfigurata, nel senso che la realtà costituzionale non corrisponde ai principi e al modello da essa stabiliti» (Ivi, p. 181). In secondo luogo, la vicenda dello Stato italiano è caratterizzata da una bassa propensione iniziale alla partecipazione politica: suffragio ristretto, basso tasso di alfabetizzazione e debole civismo hanno contribuito, in misura differente in base al periodo di riferimento, a mantenere ampie porzioni di popolazione lontane dal corpo politico-amministrativo. A ciò si aggiunga che l’Italia è stata da sempre una nazione di migranti: si stima che, durante i sui primi cinquant’anni di vita, circa 25 milioni di persone abbiano lasciato il suolo italiano. In seguito, durante il periodo del grande boom economico, circa 9 milioni di abitanti si sono dovuti trasferire dal Sud al Nord del paese. Questa esclusione collettiva ha contribuito, da un lato, ad alimentare la sfiducia nei confronti delle istituzioni e, dall’altro, a indebolire il tessuto sociale, già di per sé estremamente fragile. «Ciò che fa una nazione unità, la sua coesione, la sua integrazione, fanno difetto» (Ivi, p. 183). Si comprende, allora, la facilità con cui il fenomeno dell’illegalità – sia di gruppo che individuale – si sia diffuso capillarmente nella società italiana. Da una parte, infatti, il clientelismo e le raccomandazioni – anche la mafia, sebbene !118! !

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il fenomeno mafioso sia molto più complesso – sorgono in risposta alla debolezza delle strutture protettive a carattere universale, dall’altra, l’evasione fiscale e la corruzione rappresentano la reazione alle inefficienze amministrative. In questa prospettiva, un terzo elemento di debolezza tipicamente italiano è costituito dal cosiddetto fenomeno della giuridicità debole, ovvero, per dirla con le parole di Piero Calamandrei, dell’«illegalismo legale» (ibidem). Si tratta, in pratica, della tendenza ad attenuare la generalità delle leggi, per cui alla legislazione generale si affianca una legislazione settoriale, quest’ultima volta a tutelare gli interessi delle aree sottosviluppate. Siffatto fenomeno, in combinato con la tardiva attribuzione dell’autonomia regionale, fornisce una spiegazione – ma non una giustificazione – all’esistenza di una legislazione sovrabbondante, incoerente e perciò difficilmente interpretabile. A tal proposito, Sabino Cassese sottolinea come la mancanza di uniformità nell’ordinamento italiano rappresenti «un’arma per quegli uffici che vogliono valersene per trovare la legge adatta o profittevole, esercitando così il massimo di discrezionalità [e nello stesso tempo] un rompicapo per gli uffici che, in buona fede, vogliano individuare la norma applicabile al caso concreto» (Ivi, p. 185). In quarto luogo, lo Stato italiano non è riuscito a emanciparsi pienamente dalla società civile, intesa come sfera in cui gli individui perseguono liberamente i loro interessi privati. Ciò, in altre parole, significa che gli interessi particolari – specialmente quelli a carattere economico – riescono a penetrare con semplicità nell’organizzazione pubblica, condizionando pesantemente l’interesse generale. D’altra parte, l’osmosi tra interessi economici e Stato-amministrazione riflette un’altra debolezza del sistema socio-politico italiano: la mancanza di un corpo di funzionari pubblici – di una noblesse d’État – dotato di un forte senso di responsabilità e di autonomia professionale. In ambito sociologico, si discute di autorità razionale-legale per descrivere il rapporto che intercorre tra le regole, le procedure standardizzate e gli interessi particolari. In pratica, dove l’autorità razionale-legale è forte, l’ingerenza degli interessi costituiti, di qualsivoglia natura essi siano, viene controbilanciata dall’autonomia professionale dei funzionari pubblici. Per contro, dove l’autorità razionale-legale è debole – dove !119! !

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cioè le regole e le procedure tendono ad essere meno vincolanti – le relazioni di natura personale diventano una prassi e, di conseguenza, il rischio di fenomeni corruttivi si fa molto più elevato. L’aspetto, se vogliamo, più inquietante circa il ruolo dei funzionari statali italiani concerne il modo in cui essi hanno a lungo esercitato le loro competenze. Il politologo francese Jean Meynaud, nella prefazione all’edizione italiana del già citato La Technocratie. Myte ou réalité? (§ 2.4), descrive un’organizzazione amministrativa costantemente sottoposta alle incertezze e alle fluttuazioni della congiuntura politica. «In definitiva – osserva Meynaud – la mia opinione è che l’Amministrazione italiana si serva dei propri poteri – nei limiti in cui ne dispone – piuttosto a fini di conservazione e addirittura di routine burocratica [...] che in uno spirito di valorizzazione sistematica della competenza tecnica» (Meynaud, 1964, p. 20). Il giudizio, però, tende ad essere più sfumato riguardo al ruolo dei dirigenti delle imprese pubbliche. Su questo fronte, infatti, sembra che le figure apicali dispongano di un’autonomia di iniziativa maggiore di quella spettante ai funzionari amministrativi, benché siano entrambi sottoposti al controllo politico. Questa asimmetria tra le due figure di tecnici corrisponde, secondo Meynaud, «all’idea, in fin dei conti ovvia, che in Italia le strutture dell’economia si sono modernizzate più rapidamente di quelle dello Stato» (Ivi, p. 23), per cui, da una parte, la struttura amministrativa ha conservato abitudini risalenti ad una società scarsamente industrializzata e, dall’altra, l’industria – compresa quella pubblica – si è sviluppata rapidamente in uno Stato impreparato a riceverla23.

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!È probabile che questa sfasatura si sia attenuata in seguito alle riforme varate nel corso degli anni ’90. In particolare, si fa riferimento all’introduzione (1) del principio della separazione fra indirizzo politico e gestione amministrativa, (2) del principio della responsabilità dirigenziale in ordine a specifiche competenze, nonché (3) alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti (d.lgs. n. 29/2993; d.lgs. n. 80/1998; d.lgs. n. 165/2001). Le informazioni in nostro possesso, però, non ci consentono di fornire risposte definitive. Sembra, tuttavia, che a una corretta – ma formale – attuazione dei principi sopra richiamati, corrisponda una prassi amministrativa ancora improntata alla vecchia logica “burocratica”, soprattutto tra gli attori di vecchia data. Per informazioni più dettagliate si rimanda a L’amministrazione sta cambiando? Una verifica dell’effettività dell’innovazione nella pubblica amministrazione, a cura di Francesco Merloni, Alessandra Pioggia e Roberto Segatori (2007).!

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A questa “debolezza istituzionale” purtroppo non ha fatto da contrappeso una energica classe politica votata al benessere della cosa pubblica. Certamente, non sono mancate le eccezioni individuali. Tuttavia, in una veduta d’insieme, la politica – forse sarebbe meglio dire i politici – sembra piuttosto aver approfittato di questa fragilità per consolidare il proprio seguito elettorale e per costruirsi una solida “barriera” di garanzie e di privilegi. Del resto, l’eccessiva polarizzazione della competizione politica, da un lato, e la strutturazione della rappresentanza politica su base collettiva – ossia come rapporto tra segmenti della popolazione e istituzioni governative – dall’altro, non hanno costituito un incentivo all’utilizzo imparziale e virtuoso delle risorse pubbliche. Prova ne è, con i dovuti distinguo, la storia politica italiana degli ultimi trent’anni. Qualcuno a questo punto potrebbe giustamente chiedersi come si riallacci tutto questo con la questione del governo tecnico. La risposta è presto detta. Nel corso dei primi anni ’90, allorché tutti i “nodi” – come si usa dire – “sono venuti al pettine”, quando cioè tutte le difficoltà rinviate in precedenza sono diventate improcrastinabili, la politica ha scelto di fare un passo indietro, lasciando l’onere di decidere a delle figure extrapartitiche. Per la precisione, è nella delicatissima fase di transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica che hanno visto la luce i primi due “governi tecnici” italiani: il governo Ciampi (28 apr. 1993 - 16 apr. 1994) e il governo Dini (17 gen. 1995 - 11 gen. 1996). Vediamo, dunque, che cosa è accaduto nel corso di quella drammatica vicenda. Lo storico e politico italiano Pietro Scoppola, in un denso volume in cui ripercorre la storia dei partiti dal dopoguerra a oggi, definisce il sistema politico italiano degli ultimi anni ’80 come «un sistema che galleggia nella crisi». Scrive in proposito Scoppola: «Allora – nella prima metà del XX secolo – una società che era stata sollecitata dal fascismo alla mobilitazione di massa, e che era stata travolta poi dalla guerra e dalla sua tragica eredità, si è affidata e si è identificata largamente con i partiti: alla intelligenza e alla virtù di capi che avevano vissuto [...] le sofferenze e le prove della opposizione al fascismo e della guerra è stato affidato il compito della ricostruzione [...] Dopo quarant’anni di democrazia dei partiti il rapporto si è rovesciato: la classe dirigente – ma certo non è possibile !121! !

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generalizzare e vi sono significative eccezioni – non conosce i livelli di allora; essa si è formata nei palazzi della politica e non nel fuoco delle grandi lotte e delle grandi prove». L’inadeguatezza della politica, però, non trova riscontro in una chiara volontà di cambiamento. Al contrario, i partiti «galleggiano sulla crisi nella constatazione che l’esercizio del potere comporta comunque un ritorno positivo in termini di consenso elettorale» (Scoppola, 1991, pp. 449-450). La questione della necessità di riformare un sistema considerato ormai «anomalo rispetto al modello delle grandi democrazie occidentali» – in quanto privo di una genuina alternanza di governo – era entrata in Parlamento all’inizio degli anni ’80 con la costituzione di una Commissione bicamerale – la cosiddetta Commissione Bozzi – per le riforme istituzionali. Ma, come spesso accade, alle buone intenzioni non coincidono altrettante buone azioni e così, anche in quella circostanza, l’opportunità di una revisione istituzionale che restituisse ai cittadini il diritto di decidere fu vanificata dai contrasti e dagli interessi politici. A questa inerzia della politica – incapace di autoriformarsi e di ridare una boccata di ossigeno alla democrazia – faceva da corollario un impiego del potere fine a se stesso e, per di più, inquinato dal sospetto di infiltrazioni da parte delle “zone d’ombra” del Paese. Ma allora – si chiede Scoppola – che cosa rende così inattaccabile la tenuta dei partiti di maggioranza di fronte alla loro incapacità di risolvere i problemi del paese, in primis a quello di riformare il sistema politico? La risposta va cercata non tanto nella contrapposizione manichea tra una società civile onesta e una classe politica corrotta quanto nella «costante interazione fra società civile, società politica e istituzioni», per cui larghi strati di società civile «si adattano al degrado del sistema e ne traggono profitto» (Ivi, p. 454). In altri termini, il diffuso benessere economico, ottenuto prevalentemente attraverso un considerevole indebitamento pubblico, ovvero attraverso la sottrazione di risorse alle generazioni future, impedisce all’opinione pubblica di percepire interamente la gravità della situazione. Sennonché, l’imperturbabile coscienza degli italiani veniva scossa da una serie di eventi di grande rilievo (alcuni di portata epocale). Da un punto di vista analitico possiamo suddividere le cause che hanno portato allo sgretolamento del !122! !

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primo sistema politico repubblicano in due diversi “contenitori”: da una parte gli elementi esogeni, cioè quelli che hanno agito dall’esterno e indipendentemente dalle condizioni del sistema stesso; dall’altra gli elementi endogeni, ossia quelli che sono immanenti al sistema politico. Nel primo dei due contenitori abbiamo: 1) il crollo del muro di Berlino (1989) e la conseguente mutazione degli equilibri internazionali; 2) il Trattato di Maastricht (1992). Nel secondo, invece, possiamo collocare: 1) la stagnazione dell’economia nazionale a fronte di un’inarrestabile crescita dell’indebitamento pubblico; 2) la recrudescenza del fenomeno mafioso, che raggiunge il culmine nelle stragi del ’92; 3) lo scandalo di “Tangentopoli” e la conseguente indagine giudiziaria denominata “Mani Pulite”; 4) i referendum sulla legge elettorale; 5) l’avanzata della Lega Nord. Si tratta, evidentemente, di un insieme di elementi molto eterogenei che, tuttavia, hanno agito come di concerto nello scardinare il sistema politico italiano formatosi nel secondo dopoguerra. In poche ma efficaci parole, la dissoluzione dell’Unione Sovietica rappresenta la cornice su cui va in scena l’atto finale dei principali protagonisti della Prima Repubblica. La crisi economica alle porte e le stragi di Capaci e di via d’Amelio, in cui persero la vita, tra gli altri, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, costituiscono gli antefatti del dramma. L’inchiesta di Mani Pulite, invece, simboleggia il vero e proprio dramma: una tragedia politicogiudiziaria che vede coinvolti molti esponenti della classe dirigente italiana per reati di corruzione. In questa messa in scena semplificata, l’elemento temporale, ossia ciò che determina la caratteristica dell’eccezionalità rispetto alla normale esperienza politica, viene definito sulla base di: a) le incalzanti richieste di rinvio a giudizio; b) le pressioni della Comunità Europea circa la riduzione del deficit e l’attuazione di una politica di contenimento dei redditi; c) i referendum elettorali sulla preferenza unica (1991) e sul sistema elettorale del Senato (1993) mediante i quali il popolo italiano, forte di una considerevole partecipazione, si pronuncia a favore dell’abbandono del vecchio sistema proporzionale. Ma come in ogni rappresentazione che si rispetti, il “colpo di scena” fa il suo ingresso nel dramma politico italiano dei primi anni ’90, determinando una svolta improvvisa nello sviluppo degli eventi. In particolare, è il Presidente della !123! !

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Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che, fallito il tentativo di “traghettamento” da parte di Giuliano Amato, assume su di sé il ruolo di deus ex machina, affidando il delicato compito di formare un nuovo esecutivo all’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. La scelta di un tecnico, per quanto non sia stata esente da critiche, si reggeva su due solidi pilastri: il primo, come ricordano Pasquino e Salvatore Vassallo, risiede nel fatto che «la stampa e l’opinione pubblica politicizzata sembrano concordare [...] sulla imprescindibile necessità che i partiti facciano un passo indietro rispetto al governo e che, di conseguenza, non sia un politico di professione» a presiederlo. Il secondo, invece, consiste nell’idea che, viste le perduranti difficoltà economiche, il governo venga consegnato nelle mani di una persona in grado di ottenere la fiducia da parte della comunità economica internazionale (Pasquino e Vassallo, 1994, p. 72). Ciampi si trova così nella condizione di poter procedere a un importante ricambio – oltre che a uno snellimento – nella compagine governativa in vista, però, di un allargamento della base politica (data anche l’impossibilità, forse più morale che pratica, di fare esclusivo affidamento su una base politica – quella del precedente governo – scossa dalle inchieste). Senza entrare nei dettagli, la novità più significativa riguardava il cospicuo ricorso a figure scarsamente politicizzate e a professori universitari non parlamentari. Merita ricordare, a titolo di esempio, la nomina del professor Luigi Spaventa al Ministero del Bilancio, del professor Augusto Barbera ai Rapporti con il Parlamento, del professor Luigi Berlinguer, rettore dell’Università di Siena, all’Istruzione, del professor Vincenzo Visco alle Finanze e, infine, di Sabino Cassese al Ministero della Funzione Pubblica. Tutte figure che, pur non essendo “incontaminate” dalla politica – alcuni di loro sono degli “onorevoli” – hanno un’indiscutibile qualificazione tecnica. Quanto al programma di governo, esso può essere schematizzato in tre direttrici: 1) transizione istituzionale sulla base delle indicazioni referendarie; 2) contenimento del deficit pubblico in relazione con una strategia di contenimento dell’inflazione; 3) privatizzazione di alcune aziende pubbliche. Il filo rosso che unisce tali priorità programmatiche «è il tentativo di ricostruire, nel breve arco !124! !

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di tempo di alcuni mesi, un capitale di fiducia nei confronti delle istituzioni statali italiane da parte dei mercati, delle istituzioni politiche internazionali e dei cittadini [...] che si era andato rapidamente estinguendo» (Ivi, p. 77). A questo punto, però, una domanda diventa non rinviabile: ma il primo “governo tecnico” della storia italiana è stato all’altezza delle aspettative? La risposta sembra essere positiva se si considera che, in soli dodici mesi, il nuovo esecutivo ha ottenuto dei risultati soddisfacenti su tutti e tre i fronti: 1) riforma elettorale – peraltro limitandosi a svolgere un ruolo di “supervisore neutrale”, senza cioè interferire nel merito delle opzioni circa il criterio di attribuzione dei seggi; 2) contenimento della spesa mediante una cospicua manovra di 12-13 mila miliardi; 3) contenimento del tasso di inflazione sotto il 4% (grazie anche alla recessione, oltre che all’accordo sul costo del lavoro siglato con i sindacati e le organizzazioni degli imprenditori); 4) trasformazione in ente economico dell’Amministrazione delle poste e telecomunicazioni, nonché privatizzazione del Credito italiano e della Nuova Pignone. Il discorso, però, si fa più complesso se dai problemi contingenti ci si sposta ai problemi strutturali. È più che comprensibile, infatti, che un esecutivo di emergenza, con un raggio d’azione limitato nel tempo e nello spazio, non sia in grado di risolvere, se non in minima parte, quei “mali” che attanagliano il nostro Paese fin dalla sua origine. Certamente, il governo Ciampi ha agevolato la difficile transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica: ha contribuito a raffreddare il clima politico e, conseguentemente, ha facilitato l’adozione della nuova legge elettorale. Ma, nel medio-lungo periodo, la sua azione non sembra essere stata poi così incisiva. E in effetti, a nemmeno un anno di distanza dall’esperienza Ciampi, il Presidente Scalfaro si è trovato per la seconda volta di fronte ad una burrascosa situazione politica che lo esponeva al dilemma tra elezioni anticipate e ricerca di una nuova maggioranza parlamentare. L’esperienza del primo governo della Seconda Repubblica, infatti, si era conclusa dopo appena 225 giorni – meno della durata media dei governi della Prima Repubblica – con le dimissioni del

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Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, “costretto” dalla rottura dell’alleanza politica da parte della Lega Nord24. Questa volta, però, a disturbare la tranquillità degli italiani non hanno concorso fattori esterni al sistema, quanto piuttosto elementi squisitamente politici. In particolare, è Silvio Berlusconi che, contrariamente alle prescrizioni costituzionali – in base alle quali il Presidente della Repubblica può assegnare l’incarico di formare un nuovo esecutivo ad un soggetto estraneo, o comunque diverso, da quello indicato inizialmente dalla maggioranza politica vincente – sostiene di avere il diritto a un reincarico in virtù di un non precisato mandato ad personam conferitogli dagli elettori. L’esito di questa insolita vicenda fu che Scalfaro, dopo aver consultato le forze politiche presenti in Parlamento, decise di attribuire l’incarico alla figura di Lamberto Dini, ex direttore generale della Banca d’Italia, nonché Ministro del Tesoro nel governo Berlusconi. Solamente quattro giorni dopo – per la precisione il 17 gennaio 1995 – nasceva il secondo governo tecnico della storia italiana. Il governo Dini, a differenza di quello di Ciampi, non ha una larga base politica – manca il sostegno del Polo del buongoverno e di Rifondazione – ed è composto – forse per fugare ogni sospetto di “ribaltone” – esclusivamente da tecnici. Inoltre, la componente prevalente proviene dalle fila della burocrazia statale. Gianfranco Pasquino, in proposito, ha scritto: «tutt’altro che sbilanciato a sinistra, il governo Dini pare, al contrario, avere un’impronta in senso lato andreottiana, derivantegli dall’estrazione di non pochi dei suoi esponenti dai corpi burocratico-amministrativi romani» (Pasquino, 1996, p. 162). Al pari di quello, però, ha un programma politico circoscritto nel tempo e nella sostanza. In particolare, il nuovo esecutivo, prima di rassegnare le dimissioni, avrebbe dovuto approvare: 1) una manovra economica correttiva; 2) una decreto sulla !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 24

La caduta del governo si inserisce in un quadro politico particolarmente complesso, nel quale il crescente malcontento sociale – dovuto prevalentemente alla “minaccia” della riforma del sistema pensionistico – fa da sfondo alle tensioni e alle irrequitezze interne ad una maggioranza disorientata di fronte alle proteste dei lavoratori e al nervosismo dei mercati finanziari, nonché “ferita” dall’apertura di un’inchiesta nei confronti del Primo Ministro Silvio Berlusconi. Questo, in sintesi, per dire che il venir meno dell’appoggio leghista rappresenta soltanto la “gocca che fa traboccare” un vaso “colmo” già da alcuni mesi.

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par condicio per disciplinare l’accesso dei partiti alla propaganda televisiva; 3) una contestatissima riforma delle pensioni impostata dal precedente governo. Venendo adesso dall’astratto al concreto, si può dire, in sintesi, che per la compagine governativa guidata da Dini valga lo stesso ragionamento fatto per quella guidata da Ciampi. In altri termini, il bilancio personale e legislativo è sicuramente positivo, in quanto gli obiettivi sono stati tutti centrati nei tempi previsti (naturalmente il nostro discorso esula da considerazioni sui contenuti dei provvedimenti). Ma sul lato del funzionamento della democrazia italiana, cioè sulla stabilità del sistema politico e sull’efficienza del governo, non sembra aver generato effetti irreversibili.

4.3 Il governo Monti-Napolitano Il “caso” Monti, dicevamo, nasce e si sviluppa nel corso di quella che molti commentatori considerano la crisi economico-finanziaria più grave della storia del capitalismo moderno. Crisi che, in verità, ha investito il sistema sociopolitico italiano nella sua interezza: come sfera civile, “vittima” di una delle peggiori recessioni – con tutte le sue ripercussioni sul piano del benessere sociale e dell’occupazione – dai tempi della cosiddetta Great Depression; come sfera statale-istituzionale, “incapace” di accedere ai prestiti nei mercati finanziari internazionali senza mettere a repentaglio la propria sopravvivenza; come sfera politica, palesemente “inadeguata” ad affrontare le sfide proposte dalla stessa crisi. Trattandosi di una vicenda molto recente e, per di più, ancora in pieno corso, non ci è possibile formulare riflessioni di ampio respiro – vista anche la carenza di materiale scientifico dedicata al tema (i pochi testi in circolazione si collocano quasi tutti nel vasto spazio che intercorre tra l’articolo di giornale e la ricerca scientifica). Pertanto, in questo paragrafo abbiamo deciso di raccogliere le nostre osservazioni intorno a due punti principali: 1) la figura di Mario Monti; 2) le possibili “chiavi di lettura” riguardo alla nascita del suo esecutivo. In breve, l’approccio socio-biografico può essere utile per capire chi è Mario Monti, qual è !127! !

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la sua formazione e, quindi, il suo orientamento culturale. Inoltre, esso può aiutarci a ricostruire il network di relazioni – il capitale sociale – che ha contribuito alla sua nomina di Primo Ministro. D’altra parte, l’analisi del processo che ha portato alla costituzione del terzo governo tecnico della storia italiana risponde alla necessità di fornire un’interpretazione “scientifica” di un fenomeno che si presenta come “eccezionale” rispetto alla prassi democratica. Chi è, dunque, Mario Monti? L’aspetto forse più emblematico della sua biografia è rappresentato dalla facilità con cui il Professore riesce a passare da un incarico prestigioso all’altro. All’età di 27 anni – già laureato alla Bocconi e con un’esperienza, sempre da studente, alla Yale University di James Tobin – arriva a Torino per insegnare alla facoltà di Economia e Commercio. Dopo un periodo iniziale in cui alterna l’insegnamento universitario alla collaborazione con uno studio commerciale, Monti entra a far parte del gruppo FIAT e nel 1988 viene designato nel consiglio di amministrazione della stessa casa automobilistica a fianco dei fratelli Agnelli, di Gianluigi Gabetti – «il mago della finanza della famiglia torinese» – e di Franzo Grande Stevens. Come evidenziano, con un accento un po’ polemico, Grandi, Lazzeri e Marcigliano, quelli passati a Torino sono gli anni in cui il “Grigiocrate” conosce Mario Deaglio ed Elsa Fornero: infatti, «con i due coniugi nasce un rapporto che evidentemente non si è interrotto, e che garantirà al governo del professore non solo un ministro, ma anche un atteggiamento decisamente favorevole da parte di una stampa schierata, e che, con Deaglio – ex direttore del quotidiano Il Sole 24 Ore ed editorialista de La Stampa – è impegnata a beatificare il finalmente ritrovato pauperismo italiano» (Grandi, Lazzeri e Marcigliano, 2012, p. 11). Ma sono anche gli anni in cui, alla “corte” della famiglia Agnelli, si consuma una delle vicende più oscure della storia del capitalismo italiano – l’intero comitato esecutivo del gruppo automobilistico viene indagato per falso in bilancio e per presunte tangenti – che si concluderà nel 1997 con l’archiviazione degli atti per insufficienza di prove. Nel frattempo Monti è entrato anche nei consigli di amministrazione di Comit (Banca Commerciale Italiana controllata dall’IRI) e di Generali. Inoltre, !128! !

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nel 1989 viene nominato rettore della Bocconi: carica che ricoprirà fino al 1994, anno in cui passa alla presidenza della stessa università. Insomma, una carriera straordinaria coronata dal conferimento dell’incarico di Commissario europeo per il Mercato – su mandato del governo Berlusconi – e, più tardi, di Commissario europeo alla Concorrenza – su mandato del governo d’Alema. È soprattutto in questa stagione che Monti accresce e consolida il suo prestigio internazionale25. Prestigio che gli tornerà utile alcuni anni più tardi, allorché diventerà Primo Ministro della Repubblica Italiana. Alla luce di questa breve ricognizione del cursus honorum montiano un aspetto balza prepotentemente agli occhi: la lontananza dalla politica, intesa quest’ultima come gestione democratica del potere attraverso l’intermediazione dei partiti. Monti, osservano ancora Grandi, Lazzeri e Marcigliano, è un uomo «abituato a essere nominato e non eletto. A dispetto della formazione liberale e democratica, dimostra una certa allergia ai sistemi elettivi e ai meccanismi di delega rappresentativa, espressione della volontà popolare» (Ivi, p. 21). È lo stesso Professore, infatti, che, il 16 novembre scorso, dopo aver giurato nelle mani di Giorgio Napolitano, dichiara di essere arrivato «alla conclusione che la non presenza di politici nel governo lo agevolerà, togliendo un motivo di imbarazzo» (Pellizzetti, 2012, p. 38). Anche se poi, durante la presentazione del suo esecutivo alle camere, correggerà il tiro affermando di voler «contribuire, in modo rispettoso e con umiltà, a riconciliare maggiormente i cittadini e le istituzioni, i cittadini alla politica» (Graziano e Martufi, 2012, p. 20). Dunque, anche il governo presieduto da Monti – forse per marcare una netta discontinuità con la precedente compagine o, forse, per allontanare anche stavolta ogni sospetto di ribaltone politico – è un governo composto interamente da esperti, di cui sette professori universitari. Tra i nomi più importanti, spiccano quelli di Corrado Passera – navigato banchiere e manager italiano – cui è stato affidato il Ministero dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e Trasporti, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 25

Per dovere di cronaca è giusto ricordare che, dal 1989 al 1992, Mario Monti è stato anche consulente del Ministro del Tesoro Cirino Pomicino. Tra il 2005 e il 2011, invece, ha ricoperto il ruolo di advisor in un board della banca commerciale Goldman & Sachs. Infine, da più di vent’anni collabora con il Corriere della Sera come editorialista economico.

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dell’amica Elsa Fornero – professore ordinario di economia politica – nominata Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di Vittorio Umberto Grilli – ex Direttore generale del Tesoro – designato come Ministro dell’Economia e delle Finanze, di Paola Severino – noto avvocato penalista – prima donna a rivestire il ruolo di Guardasigilli e di Francesco Profumo – ex Rettore del Politecnico di Torino ed ex Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche – nominato Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca26. Quanto al programma, la compagine montiana si muove all’interno di una cornice molto più ampia di quelle dei precedenti governi tecnici. Per essere precisi, il fulcro dell’azione governativa è costituito dalla famosa lettera che, il 5 agosto scorso, Jean Claude Trichet e Mario Draghi, rispettivamente l’ex e il neo-Presidente della Bce, hanno fatto pervenire all’allora Primo Ministro Silvio Berlusconi. Tale documento contiene tutta una serie di «misure antispeculative» da adottare con urgenza per garantire la sostenibilità di bilancio e per rilanciare la crescita. In particolare, i due “tecnocrati” europei avrebbero “consigliato” ai decisori pubblici italiani di intraprendere una strategia complessiva di riforme comprendente: 1) liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali; 2) riforma del mercato del lavoro in modo da favorire «la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi»; 3) misure di correzione della dinamica delle finanze pubbliche attraverso tagli alla spesa e rafforzamento delle regole del turnover; 4) riforma del sistema pensionistico «rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 26

Per completezza riportiamo di seguito i nomi, con i relativi incarichi, degli altri membri della compagine di governo: Anna Maria Cancellieri con mandato al Ministero degli Interni; Fabrizio Barca con mandato al Ministero per la Coesione territoriale; Dino Piero Giarda con mandato al Ministero per i Rapporti con il Parlamento; Giulio Terzi Sant’Agata con mandato al Ministero degli Affari Esteri; Andrea Riccardi con mandato al Ministero per la Cooperazione Internazionale e Integrazione; Lorenzo Ornaghi con mandato al Ministero dei Beni Culturali; Piero Gnudi con mandato al Ministero Affari Regionali, Turismo e Sport; Enzo Moavero Milanesi con mandato al Ministero per gli Affari Europei; Filippo Patroni Griffi con mandato al Ministero della Pubblica Amministrazione e Semplificazione; Renato Balduzzi con mandato al Ministero della Salute; Mario Catania con mandato al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali; Corrado Clini con mandato al Ministero della Salute; Giampaolo di Paola con mandato al Ministero della Difesa.

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pubblico»; 5) efficientamento della pubblica amministrazione; 6) riforma della Costituzione per rendere più stringenti le regole di bilancio27. Naturalmente, noi ci asteniamo da considerazioni circa il merito di questi “suggerimenti”. Ciò che, però, non possiamo sottacere è il fatto che i contenuti della lettera targata Trichet-Draghi – sebbene possano anche essere condivisibili dal punto di vista tecnico – pur lasciando un margine di discrezionalità al «governo di impegno nazionale» – l’espressione è dello stesso Monti – vanno a intervenire nelle parti sensibili del sistema sociale, quasi a voler delineare un preciso “modello di società”. Ma per quale motivo un paese “democratico” accetta che un governo di “non-eletti” dia attuazione a un programma di riforme definito da un organo “non rappresentativo”? Non mancano sicuramente gli analisti che, più o meno realisticamente, hanno risposto a questa domanda formulando seducenti “teorie complottistiche”. Nel testo di Grandi, Lazzeri e Marcigliano, ad esempio, prende corpo l’ipotesi che l’ascesa del “Grigiocrate” sia stata dettata dai poteri forti, ossia dai produttori di energia che controllano «la finanza internazionale che a sua volta controlla gli Stati del pianeta, facendo eleggere dei politici credibili come Obama e Sarkozy». In questa prospettiva, la politica economica imposta all’Italia non è altro che un modello determinato dall’Unione Europea, per conto della finanza internazionale (Grandi, Lazzeri e Marcigliano, 2012, pp. 50-51). Peraltro, questa teoria sarebbe corroborata dalla dichiarazione di Giacomo Vaciago – economista molto vicino a Monti – secondo il quale l’attuale Primo Ministro avrebbe iniziato a lavorare al suo programma di governo alcuni mesi prima del crollo di Berlusconi. Insomma, Monti sarebbe una sorta di «curatore fallimentare» incaricato di amministrare il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 27

Le “sollecitazioni” europee hanno trovato “accoglimento” nella lettera di intenti che il Premier Silvio Berlusconi, il 26 ottobre scorso, in piena crisi dei debiti sovrani, ha inviato a Herman Van Rompuy e Josè Barroso, rispettivamente il Presidente del Consiglio europeo e della Commissione europea. Tale documento, in breve, contiene una lista abbastanza dettagliata di impegni, con tanto di scadenze, che il governo si assume nei confronti delle istituzioni europee allo scopo di creare le condizioni strutturali per la crescita ed evitare il collasso delle finanze pubbliche. Dal suo canto, il governo Monti ha recepito integralmente i contenuti della missiva di cui sopra e si è impegnato fin dal principio – come si sottolinea a più riprese nelle dichiarazioni programmatiche – a darne piena attuazione nei tempi prestabiliti.

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patrimonio italiano sotto la stretta vigilanza del Giudice delegato, nella figura di Giorgio Napolitano, e dei creditori internazionali (Pellizzetti, 2012). A fianco di queste pseudo-teorie, la cui verificabilità è quanto mai incerta – mancano, ad oggi, le evidenze empiriche per convalidarle – troviamo un gruppo, per la verità molto ridotto, di autori che hanno cercato di fornire una spiegazione più aderente alla realtà circa la nascita del governo Monti. Pertanto, vista la complessità del caso, presentiamo di seguito tre prospettive di analisi differenti – una giuridica, una politica e una economica – in modo tale da avere un quadro esaustivo degli eventi. Marco Olivetti, docente di Diritto costituzionale all’Università di Foggia, si è interrogato circa la presunta illegittimità dei comportamenti tenuti nel corso della crisi da Giorgio Napolitano. La domanda che si è posto Olivetti, in breve, è la seguente: l’atteggiamento del Presidente della Repubblica – il modo in cui ha condotto la crisi politico-istituzionale – è stato semplicemente irrituale oppure ha violato le prescrizioni costituzionali? Si ricorderà, infatti, che fin dai primi giorni di novembre il Capo dello Stato si è addossato enormi responsabilità, tanto da esporre l’istituzione presidenziale alle frecciate della critica più irriverente28. In particolare, Napolitano viene incriminato – in alcuni casi anche lodato, dipende dal punto di vista – di essere l’artefice del governo tecnico, la cui legittimazione starebbe, appunto, non tanto nella «regolare dialettica democratica» tra i partiti, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 28

L’8 novembre, al termine di un colloquio tra Giorgio Napolitano e il Primo Ministro Silvio Berlusconi, la Presidenza della Repubblica annunciava con un insolito comunicato la volontà del governo di dimettersi. Il giorno seguente, forse sotto la pressione dello spread crescente, il Presidente emetteva un secondo comunicato nel quale confermava la volontà di Berlusconi di dimettersi. «Anche in questo caso – osserva Olivetti – la dichiarazione presidenziale appariva poco rituale, quasi un commissariamento di un governo in carica, che formalmente godeva ancora della fiducia parlamentare» (Olivetti, 2012, p. 234). Nei giorni successivi, quelli che precedono la nomina di Monti, Napolitano continuava a interloquire con l’opinione pubblica straniera, i mercati e gli altri governi europei allo scopo di sdrammatizzare la situazione. «Anche dopo la formalizzazione delle dimissioni del IV governo Berlusconi [...] l’andamento della crisi confermava il ruolo eccezionale del Capo dello Stato: l’incarico a Monti (la sera del 13) era infatti più il frutto di una scelta presidenziale che una indicazione della maggioranza delle forze politiche rappresentate in parlamento» (Ivi, p. 235). Inoltre, il nuovo esecutivo si presentava alle camere, contrariamente alla prassi costituzionale, senza aver nominato i sottosegretari e senza un programma ben definito, ottenendo un consenso dalle «proporzioni insolitamente ampie».

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quanto nell’emergenza nazionale e nell’iniziativa del Presidente29. Siamo forse in presenza di un vulnus alla democrazia? Le scelte di Napolitano, secondo Olivetti, devono essere giudicate alla luce dell’evoluzione del suo mandato presidenziale. A partire dal 2009, infatti, si sono verificati degli episodi che hanno persuaso il Presidente ad assumere un «ruolo di guida politica», facendosi anche carico di «posizioni difficilmente compatibili con la debolezza della sua legittimazione democratica» e con la irresponsabilità politica prevista dalla Costituzione per la sua figura (Olivetti, 2012, p. 237). D’altra parte, nel panorama politico italiano si è spesso registrato un «rapporto di proporzionalità inversa» tra i poteri presidenziali e la funzionalità del meccanismo parlamento-maggioranza-governo, per cui all’inefficienza di quest’ultimo ha fatto da contrappeso un ruolo più incisivo del Capo dello Stato. Ciò, però, se da un lato rappresenta una sorta di “asso nella manica” dei regimi parlamentari, dall’altro non deve indurci ad assumere posizioni indulgenti nei confronti di palesi violazioni costituzionali. Non a caso gli studiosi tendono a giustificare forme di protagonismo presidenzialista nei soli casi di “emergenza” (il caso più frequente è la crisi di governo che porta allo scioglimento anticipato delle camere, ma esistono casi anche più “drammatici” come lo stato di assedio, lo stato di guerra o di eccezione, nei quali il Presidente è chiamato ad assicurare la continuità delle istituzioni). Pertanto, possiamo ricondurre il caso Napolitano a una delle fattispecie di cui sopra. Naturalmente, non è sufficiente per sciogliere ogni riserva il fatto – tutt’altro che irrilevante – che il Parlamento ha espresso la sua fiducia al nuovo esecutivo. Se così fosse, tutto il nostro ragionamento non avrebbe alcun senso. Il “giudizio”, allora, dipende dal significato che si intende attribuire al concetto di “stato di eccezione” o di “emergenza”: se l’aggressione alle finanze pubbliche da parte della speculazione finanziaria costituisce un buon motivo per dichiarare – !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 29

Rispetto al ruolo del Presidente della Repubblica, se si prescinde dai già citati governi Ciampi e Dini, l’unico precedente storico degno di nota è il governo presieduto da Giuseppe Pella (19531954), un economista, più che un politico, “scelto” dal Presidente Luigi Einaudi per dare vita ad un “governo amministrativo”, il cui unico scopo era quello di approvare la legge di bilancio.

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metaforicamente parlando – lo stato di eccezione allora la condotta incriminata è tutt’altro che illegittima. Certo è che, dal punto di vista squisitamente giuridico, non sembra opportuno parlare di sospensione della democrazia, quanto piuttosto di un’alterazione del normale funzionamento delle istituzioni repubblicane. Ma per quale motivo Napolitano, nella veste di garante della Costituzione, non ha optato per lo scioglimento anticipato delle camere? La risposta, secondo Paolo Martelli è più politica che giuridica e va indagata nella vicenda «unica italiana, avvenuta all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, di radicale sovvertimento del sistema dei partiti» (Martelli, 2012, p. 228). In altre parole, il politologo italiano sostiene che i soggetti politici sorti dalle ceneri della Prima Repubblica sono privi di una tradizione e di un’adeguata esperienza di governo, per cui «potrebbero non trovare così inconcepibile essere sottratti pro tempore alle pressioni della gestione del potere esecutivo», soprattutto quando la gravità della situazione richiede l’adozione di provvedimenti impopolari. In quest’ottica, l’opzione del governo tecnico sotto tutela presidenziale rappresenta una sorta di «aggiustamento pragmatico» che il sistema politico italiano ha architettato per compensare la sua intrinseca debolezza. Le ipotesi di Olivetti e di Martelli sono entrambe fondate, ma colgono il fenomeno nella sua sola dimensione superficiale. Per contro, Giuliano Sapelli, studioso di Storia economica, in un recente pamphlet dal titolo provocatorio, L’inverno di Monti, ha cercato di spingersi oltre, indagando le radici storicoeconomiche del governo tecnico italiano. Secondo Sapelli, per comprendere il passaggio in corso bisogna partire da tre presupposti storico-fattuali interconnessi: (1) l’Italia è uno Stato a tardiva unificazione, (2) profondamente legato alle dinamiche internazionali e, come tale, (3) a debole consolidamento democratico. Dei tre presupposti, l’«intreccio tra nazione e internazionalizzazione» – come lo chiama Sapelli – rappresenta la chiave di volta dell’ascesa politica di Monti. Come si spiega questo legame? Nel corso degli ultimi vent’anni, sulla scena politica si sono avvicendati al “comando” due blocchi politici contrapposti sul versante – e non solo – della politica estera: il blocco di centrodestra, impersonato da Silvio Berlusconi e il !134! !

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blocco di centrosinistra, guidato da Romano Prodi; il primo rappresenta «tutta la specificità antropologica del modello [produttivo] italiano» e, perciò, si pone in netto contrasto, non solo economico, con il legame (subalterno) internazionale; il secondo, invece, costituisce il referente politico del blocco di potere delle grandi banche e delle poche imprese internazionalizzate e, come tale, si pone in armonia con il nesso tra nazione e internazionalizzazione. Questa “sfasatura” – politica, culturale ed economica – è stata attenuata dall’istituzione di una moneta unica e di una burocrazia unica a livello europeo, le quali hanno “mascherato” il divario esistente tra il modello economico italiano e quello dei paesi europei più virtuosi, in primis quello tedesco. Che cosa possono condividere – si domanda Sapelli – tutti quegli «attori economici che un tempo vivevano di svalutazioni competitive ora impossibili, con il sistema economico-sociale tedesco? Si tratta di piccole e piccolissime imprese [...] di proliferazione di lavoro autonomo, ma anche di precarietà del lavoro, di lavoro nero, di aumento dei differenziali di crescita tra Nord e Sud, di espansione dell’illegalità mafiosa...» (Sapelli, 2012, p. 32). In realtà, non hanno molto da condividere, ma fintanto che la crescita economica ha stemperato le contraddizioni essi hanno potuto vivere armoniosamente. Sennonché, la crisi economico-finanziaria globale ha riacutizzato tutti i contrasti – quelli “interni”, tra i due blocchi politico-culturali, e quelli “esterni”, tra i diversi sistemi produttivi – ed ha riportato in primo piano il problema circa l’anomala convivenza tra la macro-rigidità monetaria e la micro-flessibilità reale (§3.3). Il tutto accompagnato dalla minaccia del rischio default e da un fanatismo ideologico liberistico che impedisce all’Italia di ricorrere agli aiuti di Stato per compensare la debolezza della propria struttura produttiva. È in questa cornice che Giorgio Napolitano, preso atto dell’impossibilità di ricucire il nesso tra nazione e internazionalizzazione con le “pedine” di cui dispone – vale a dire con un blocco al potere «eterogeneo rispetto alla disciplina tedesca richiesta all’Europa» e con un’opposizione politica impegnata a cercare la propria identità – decide di affidarsi alla figura di Mario Monti. Lo scopo della manovra, secondo Sapelli, è meramente pragmatico: rinegoziare i vincoli europei

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in modo da «ampliare le aree di micro-flessibilità nazionali e ridurre tutto quello che è possibile della macro-rigidità monetaria sovranazionale» (Ivi, p. 50). In conclusione, non sembra discutibile la buona fede del Presidente della Repubblica, il quale ha agito sicuramente per tutelare l’unità nazionale. Tuttavia, la sua scelta ci pone di fronte al rischio, per nulla infondato, di un’involuzione tecno-presidenzialista del sistema politico italiano. Resta da aspettare per vedere come si muoveranno le forze politiche e come reagiranno i cittadini nella fase successiva alla crisi.

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE All’inizio di questo lavoro di ricerca ci siamo domandati chi fossero gli effettivi detentori del potere nei moderni sistemi sociali e politici. L’ipotesi che abbiamo avanzato è che la democrazia rappresentativa stia vivendo ormai da alcuni decenni un processo di metamorfosi che la fa assomigliare sempre più a un “guscio vuoto”, senza che ne siano messi in discussione i presupposti logici e valoriali. Detto altrimenti, l’intero nostro lavoro è stato animato dall’idea secondo cui, in una moderna società industrializzata, la cui complessità tende a crescere in funzione dell’importanza del momento economico, il vero protagonista non sia il cittadino comune – punto di partenza di ogni teoria democratica – bensì i soggetti “competenti”. In quest’ottica, il concetto di tecnocrazia – o governo tecnico – consentirebbe una corretta lettura del funzionamento della società e degli apparati di governo contemporanei. Si tratta adesso di portare a compimento – alla luce del “materiale empirico” descritto nei due capitoli precedenti – la verifica dell’attendibilità di questa ipotesi. •

Il mercato globale come base per una nuova oligarchia tecno-economica Nelle pagine precedenti abbiamo visto come il rapporto tra il capitale e lo

Stato sia cambiato radicalmente intorno alla fine degli anni ’70 del XX secolo, in seguito all’emersione di processi di natura economica, tecnologica e ideologica. In breve, nel trentennio che segue la seconda guerra mondiale si afferma su ampia scala a partire dall’Europa – in misura minore negli Stati Uniti – un modello di sviluppo che abbiamo definito “socialdemocratico”, in quanto cerca di armonizzare gli interessi dei capitalisti con le aspirazioni dei lavoratori, ovvero l’instabilità dei mercati con le esigenza di sicurezza della vita delle persone. In questa fase gli Stati possono gestire “discrezionalmente” le rispettive economie attraverso: 1) politiche anticicliche sul lato della domanda; 2) offerta di servizi in ambiti estranei al mercato (welfare state); 3) restrizioni quantitative e/o tariffarie alle importazioni e/o alle esportazioni; 4) strumenti di capitalismo monopolistico di stato.

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Nel corso degli anni ’70, la fine del gold standard (1971), prima, e le due crisi energetiche (1973 e 1979), poi, pongono le premesse per un vero e proprio rovesciamento della prospettiva: tutto ciò che fino a quel momento era stato visto non solo come strumento di sicurezza sociale, ma anche come base per la crescita economica (i lavoratori sono la classe che può mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza sociale, ma, nello stesso tempo, sono anche gli unici soggetti che, se adeguatamente retribuiti, possono alimentare i consumi di massa) diventa un ostacolo da eliminare. Il trentennio successivo, infatti, è contraddistinto da un netto arretramento della sfera politica rispetto alla sfera economica. Il modello di gestione keynesiano “tradizionale” viene rimpiazzato da un keynesismo di natura privatistica (Crouch, 2011), imperniato non sull’indebitamento pubblico come sostegno alla crescita economica, bensì sull’indebitamento dei cittadini. Nello stesso tempo, l’amministrazione pubblica accorcia la distanza dal settore privato, privatizzando/liberalizzando imprese e servizi pubblici e/o assimilando linguaggi e schemi interpretativi propri del mondo delle imprese. D’altra parte, nell’attuale trentennio neoliberista si assiste all’ascesa economica e politica di quelle che abbiamo etichettato come big corporations, cioè enormi colossi transnazionali in grado di condizionare tanto il mercato quanto i singoli Stati attraverso: 1) attività di lobbying; 2) creazione di un diritto autonomo; 3) definizione di standard tecnici; 4) negoziazione con gli Stati delle condizioni per la localizzazione di nuovi investimenti; 5) controllo delle condizioni cognitive e istituzionali circa la produzione di nuovi prodotti. Ciò, naturalmente, non sta a significare che gli Stati siano completamente assoggettati alle imprese giganti, né che queste ultime non abbiano bisogno degli Stati per condurre i loro affari. Tuttavia, il capitale globale esercita oggi un “potere” talmente grande da essere difficilmente compatibile con i presupposti democratici. Si consideri, a titolo di esempio, quanto si è verificato nel corso dell’ultima crisi finanziaria: i principali gruppi del settore bancario latu sensu, dopo alcuni decenni di profitti fondati sulla speculazione, hanno rischiato il collasso. Molti governi nazionali, di fronte al pericolo di una catastrofe che, con !141! !

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molta probabilità, avrebbe prodotto delle conseguenze peggiori di quelle che oggi conosciamo, hanno deciso di intervenire versando alle banche ingenti somme di denaro pubblico. Questi provvedimenti sono stati associati a un ritorno – da alcuni invocato e da altri avversato – dello Stato interventista. Osservazione corretta, se non fosse che alcuni dei governi in questione hanno dovuto rinunciare – come “contropartita” – a una parte dei loro sistemi pubblici di protezione sociale. Non meno significativo, sempre per restare nell’attualità, è il ruolo delle agenzie di rating, potenti organismi privati di natura tecnica chiamati a definire gli standard per misurare il grado di rischiosità di un investimento finanziario. Si tratta, in breve, di una funzione pratica che gli investitori istituzionali e il sistema bancocentrico (§3.2) hanno istituito per orientare le proprie scelte di investimento nel modo più virtuoso, ovvero più redditizio. Niente di particolare finché si opera tra privati nel settore privato (anche se non mancano i critici che ne sottolineano la debole imparzialità). Sennonché, qualche perplessità sorge quando le agenzie di rating esprimono le loro sentenze sul grado di solvibilità dei debiti pubblici: un rating negativo, infatti, potrebbe determinare dei trasferimenti di capitale tali da mettere a repentaglio l’equilibrio di uno Stato sovrano. Tutto questo discorso riporta in primo piano molte delle categorie e dei modelli che abbiamo affrontato nei primi due capitoli. A questo punto, quindi, il problema che abbiamo di fronte è il seguente: come possiamo interpretare l’evoluzione del rapporto/conflitto tra Stato e capitale alla luce del concetto di tecnocrazia? A livello macrosociologico, gli ultimi sessant’anni di storia segnalano una progressiva crescita del momento economico rispetto alle altre dimensioni del vivere comune. Non ci interessa qui capire se sia stata l’economia, supportata dalla scienza, ad abbattere le barriere della politica e del sociale, piuttosto che la politica a identificarsi con i fini dell’economia. Ci interessa, però, il fatto che la comunità – «il luogo fisico e simbolico dove si riproducono le persone e le loro forme base di convivenza» (Gallino, 2011, p. 16) – sia stata “colonizzata” da forme di agire proprie del sistema economico, per cui si è venuto a realizzare una sorta di tacito assenso nei confronti di quello che appare come lo scopo !142! !

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primario della civiltà occidentale: la produzione industriale. Un fenomeno che ricorda il modello di civiltà tratteggiato da Saint-Simon e Comte, se non fosse che in luogo della logica organicistica, per cui ogni entità viene subordinata all’interesse primario della collettività, si è andata affermando una logica marcatamente utilitaristica. In altri termini, il modello di azione razionale rispetto allo scopo, proprio dell’universo dell’economia, si è imposto sul sistema sociale, ma, nello stesso tempo, ha perso il contatto con i limiti imposti dalla cosiddetta razionalità oggettiva, spalancando così le porte all’irresponsabilità sociale e all’azzardo morale (l’attore sociale seleziona i mezzi più adeguati al raggiungimento dello scopo desiderato senza preoccuparsi delle conseguenze sociali delle sue azioni). La politica, dal suo canto, si è allontanata progressivamente dai sistemi di valori e dalle ideologie tradizionali. Come abbiamo già visto in precedenza (§2.5), essa tende a riconfigurarsi come un’attività compensativa delle anomalie del mercato, (1) eliminando le disfunzionalità del libero scambio, (2) evitando i rischi che minacciano il sistema sociale e, infine, (3) preparando il terreno per gli investimenti privati. In questa prospettiva, gli Stati sembrano essere regrediti al ruolo di meri organizzatori territoriali (§3.1), vale a dire soggetti politici il cui scopo principale – fatto salvo, naturalmente, quello minimo che compete a ogni comunità organizzata territorialmente, ossia l’ordine interno e la difesa esterna – consiste nel catturare i flussi di ricchezza che circolano nel mercato globale. Quanto al potere dei “competenti” – posto che il loro ruolo nel sistema sociale cresce in funzione dell’importanza del momento economico (Fisichella, 1997) –, si può ipotizzare l’esistenza di un trend positivo che attraversa l’intero arco storico considerato. Rispetto a questa tendenza generale, però, riteniamo necessario formulare alcune precisazioni, soprattutto alla luce dello “snodo” – teorico e pratico – socialdemocrazia-liberismo. In particolare, ci interessa porre in evidenza come nella fase socialdemocratica – per quanto la sfera economica, e con essa il ruolo dei managers (pubblici e privati), sia andata espandendosi – la sintesi delle varie istanze sociali sia rimasta saldamente in mano ai politici, i quali hanno potuto così orientare l’intero sistema sociale in vista di obiettivi di !143! !

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natura extraeconomica, quali l’equità e la giustizia. Volendo ricondurre questa “situazione” all’interno di modelli idealtipici, saremmo tentati di affermare che la triangolazione tra tecnici, decisori pubblici e opinione pubblica si sia svolta secondo lo schema decisionistico (o weberiano), laddove la democrazia era più “debole”, ovvero secondo lo schema pragmatico, nei casi in cui la democrazia era più consolidata e l’opinione del pubblico più “vivace” (§2.5). Per contro, nella fase neoliberista lo scettro del potere è passato dalla politica a una sorta di oligarchia tecno-economica, la cui legittimazione risiede non nella volontà del popolo, non nel libero mercato – come una certa retorica neoliberista sostiene –, ma nella razionalità strumentale in ordine ai successi economici nel mercato (Beck, 2002). Merita ricordare, a questo proposito, che le imprese transnazionali tendono a ostacolare il libero flusso delle informazioni valorizzabili economicamente e, perciò, impediscono qualsiasi dibattito pubblico sulla bontà/malvagità dei loro obiettivi (salvo che a posteriori). In realtà, già nei primi anni ’80, ricercatori del calibro di Robert Dahl e Charles Lindblom, con lo sguardo rivolto soprattutto sullo scenario statunitense, rilevavano come le grandi imprese esercitassero un’influenza politica talmente forte da compromettere il delicato equilibrio del pluralismo democratico (§1.4). Di fronte a questo fatto, i teorici pluralisti cercarono una soluzione nel modello neocorporativo, il quale non elimina il fenomeno del lobbying, ma lo formalizza e, così facendo, responsabilizza le imprese rispetto a obiettivi extraeconomici. Sennonché, anche le riflessioni di Dahl e Lindblom restano ancorate a un universo sociale anteriore alla globalizzazione economica. Detto altrimenti, il neocorporativismo ha un senso quando i confini dell’economia sono definiti e il governo, nel ruolo di mediatore super partes, può facilitare l’adozione di accordi tra imprese e sindacati organizzati territorialmente. Ma in un mondo in cui l’economia non ha più confini, tanto la teoria del pluralismo quanto quella del neocorporativismo risultano profondamente inadeguate a descrivere le reali dinamiche di potere. Tanto più che lo stesso concetto di “lobbying” ha perso il suo valore euristico di fronte alle mega imprese transnazionali, la cui attività va molto al di là della semplice pressione sul decisore pubblico. In merito a ciò, si !144! !

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ricordi che nel 2011 l’amministratore delegato della FIAT Sergio Marchionne ha annunciato l’uscita del gruppo automobilistico torinese da Confindustria, in quanto – si legge in una lettera indirizzata all’allora Presidente degli industriali Emma Marcegaglia – la FIAT, «che è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale con 181 stabilimenti in 30 paesi, non può permettersi di operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato». Ergo, la FIAT non è più disposta a sottostare a vincoli che minacciano i suoi interessi economici. Qualcuno potrebbe controbattere che Sergio Marchionne è stato anche il regista, insieme al Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e ai sindacati, dello straordinario salvataggio della casa automobilistica Chrysler. Certamente, ma ciò non fa che confermare quanto abbiamo sostenuto fino ad ora, cioè che l’impresa transnazionale, nel perseguire i suoi obiettivi, indirizza i propri investimenti dove le condizioni sono più favorevoli. Il che non sempre corrisponde con le aree del mondo economicamente arretrate, disposte a tutto pur di intercettare il flusso di denaro che si sposta nella rete globale. Può ben darsi – il caso Chrysler ne è la conferma – che l’impresa, soprattutto se appartiene a un settore tecnicamente avanzato, scelga una destinazione più costosa, in cambio di un’infrastruttura più moderna e di un livello di istruzione più alto. Per concludere, ci teniamo a precisare che non intendiamo mettere in discussione l’idea, pacifica, circa l’esistenza di sfere sociali in cui un’oggettiva necessità di competenza impedisce alle procedure democratiche di operare. Né vogliamo trascurare le difficoltà organizzative cui vanno incontro le imprese – soprattutto quelle medio-piccole – nella competizione globale. Il problema qui riguarda la nascita di un asse tra potere economico – nella figura dell’azionista – e potere tecnico-gestionale – nella figura del manager – che, nella dimensione della big corporation, minaccia seriamente l’autonomia delle comunità politiche democratiche organizzate territorialmente.

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L’Unione Europea: apologia della “funzione” e deficit democratico Nel condurre la nostra analisi sul governo dell’Europa ci siamo mossi

seguendo due direttrici complementari: 1) l’Europa come possibile risposta alla sfida lanciata dal capitalismo globale; 2) il deficit democratico delle istituzioni comunitarie. In particolare, ripercorrendo la dinamica del processo integrativo abbiamo potuto constatare come, nel complesso, esso sia stato di tipo funzionale, cioè imperniato sulla condivisione di interessi economici in continua espansione. L’integrazione, in altre parole, ha seguito la strada del progressivo abbattimento delle barriere – integrazione negativa – che impedivano il libero movimento di merci, servizi, capitali e persone, senza che ciò venisse accompagnato da forme di intervento positivo. Il Trattato di Lisbona (§3.3) ha consentito il superamento della precedente “struttura a pilastri” ed ha così creato le condizioni per un futuro “esercizio collettivo” di «funzioni più intimamente legate al concetto di sovranità statale» (Gozi, 2011, p. 11). Tuttavia, ad oggi, mancano strumenti correttivi volti a una redistribuzione della ricchezza che non sia un puro riflesso della razionalità allocativa del mercato. L’unica attività politica redistributiva è quella esercitata mediante la Politica agricola comune e i fondi strutturali, ma si tratta di strumenti a carattere settoriale e poco incisivi (vista l’esiguità del bilancio comunitario). Dall’opzione funzionalista discende poi un assetto istituzionale atipico – tendenzialmente autoreferenziale – la cui “anima” dimora non nell’istituzione parlamentare, come la teoria liberale classica prescrive, bensì nella Commissione europea, organo tecnico-burocratico composto da 27 commissari indipendenti, in grado di esercitare: 1) il monopolio della funzione di iniziativa legislativa; 2) la funzione di vigilanza sul rispetto dei trattati e della normativa comunitaria; 3) la funzione esecutiva circa le decisioni degli organi comunitari; 4) la funzione di rappresentanza dell’UE a livello internazionale. Tra i vari compiti, quello concernente l’iniziativa legislativa rappresenta senza dubbio uno degli anelli deboli della democrazia europea. Se, infatti, è vero che la Commissione non è una struttura impermeabile alle istanze economicosociali – i vari Comitati e gruppi di lavoro consultivi presenti a Bruxelles ce lo confermano – è altrettanto evidente che la sua natura e le modalità di selezione !146! !

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dei suoi componenti pongono seri problemi di accountability. Il Parlamento, dal suo canto, ha recuperato una parte del terreno nei confronti delle altre istituzioni – dopo Lisbona colegifera in numerose materie insieme al Consiglio; elegge, su proposta del Consiglio europeo, il Presidente della Commissione; può censurare i lavori della Commissione; etc. –, ma resta pur sempre un’assemblea debole dal punto di vista politico, in quanto è priva di una vera dialettica parlamentare e di un controllo efficace nei confronti della funzione esecutiva. Peraltro, il problema del deficit democratico trova una spiegazione anche nel fatto che il processo decisionale europeo tende ad attenuare il legame politico tra gli esecutivi nazionali, quando agiscono a livello comunitario, e i rispettivi parlamenti. Questo fenomeno di deresponsabilizzazione si manifesta soprattutto nelle discipline particolarmente sensibili per gli Stati – vale a dire nei casi in cui gli elementi integovernativi prevalgono ancora su quelli comunitari – e costituisce, a nostro avviso, il vero tallone d’Achille nei momenti di maggiore difficoltà, quando cioè i leader europei sono chiamati a prendere provvedimenti invisi all’opinione pubblica. Si ricordi, a questo proposito, che sul fronte della politica economica e monetaria, il Trattato di Lisbona ha istituzionalizzato un sistema ibrido (§3.3), che si contraddistingue per la presenza di un forte organismo tecnocratico – la Banca centrale europea –, cui fa da contraltare un debole governo dell’economia. Questa asimmetria ha rivelato tutta la sua inadeguatezza nel momento in cui la crisi economico-finanziaria ha reso necessaria l’adozione di misure straordinarie per scongiurare il collasso delle finanze di alcuni paesi membri. Si osservi che qui non stiamo mettendo sotto accusa l’efficacia del Patto di stabilità e crescita, piuttosto che del Semestre europeo, entrambi, peraltro, palesemente inadeguati. Il vero problema risiede nel fatto che la gestione intergovernativa non è in grado di garantire trasparenza, né di preservare il dibattito pubblico (salvo che a cose fatte), generando, di conseguenza, una sorta di rigetto incondizionato verso tutti i provvedimenti che vengono adottati. Ciò, a maggior ragione, si verifica quando sullo sfondo si muovono soggetti privi di qualsiasi legittimazione democratica

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come il Presidente della Bce e il capo del Fmi, ovvero quando l’agenda politica è dettata dai leader dei paesi europei economicamente più forti. In conclusione, l’Unione Europea si presenta oggi come una democrazia tutt’altro che compiuta. La realizzazione di un mercato unico sotto la vigilanza di organismi tecnico-burocratici è di certo un risultato importante, ma non basta per controbilanciare il potere di quella che abbiamo definito come “oligarchia tecnoeconomica”. D’altra parte, il governo politico dell’economia è troppo debole per affrontare efficacemente le emergenze, giacché (1) non possiede strumenti adeguati, (2) ha bisogno di rinnovare costantemente il compromesso politico tra gli Stati membri ed (3) è distante dai cittadini comunitari (recenti sondaggi indicano un costante incremento di sentimenti antieuropeistici e nazionalistici). Alla luce di queste riflessioni, l’unica strada percorribile sembra quella di una maggiore integrazione politica a livello comunitario. Occorre, in altre parole, che l’equilibrio instabile tra politica, mercato e tecnica si sposti a vantaggio della prima, in modo da riportare l’economia e la finanza nei binari dell’equità e della giustizia sociale, attraverso una “gestione flessibile” che solo la politica, e non la tecnica, può garantire. Ma questa idea – politicamente allettante e teoricamente plausibile – si scontra, oggi, con la cruda realtà di un’Europa che fa molta fatica a riconoscersi come una “comunità di destino”. Resta da attendere e vedere come reagiranno i leader europei, per capire, cioè, se prevarrà l’interesse nazionale e, quindi, la logica intergovernativa affiancata da una struttura tecnico-burocratica, oppure se vincerà l’interesse comunitario con l’istituzione di un “vero” governo europeo. •

Il caso italiano: tecnocrazia o semplicemente “competenza”? Nell’ultimo capitolo di questa ricerca abbiamo constatato come la scena

politica italiana degli ultimi vent’anni sia stata “catturata” – ferma restando la nota esperienza berlusconiana – da tre esecutivi composti – parzialmente in un caso e totalmente negli altri due – da figure di chiara origine extrapartitica o, comunque, con un “debole” legame politico. Ripercorrendo gli eventi, abbiamo anche osservato come tutte e tre le esperienze trovino giustificazione nel nesso !148! !

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tra nazione e internazionalizzazione (forse un po’ meno per il Governo Dini) – vale a dire nella debolezza nazionale che fa dell’Italia un paese tendenzialmente subalterno – e nello stato di eccezione che ha “imposto” allo Stato italiano di adottare soluzioni inedite. Rimane a questo punto da chiarire quale sia la loro natura e, quindi, quale sia il loro rapporto con le forme politiche democratiche. Si ricorda, sulla base di quanto detto in precedenza (§2.4), che un organo è definibile tecnocratico quando (1) è composto da soggetti scelti sulla base della loro competenza, (2) i quali sono “padroni della situazione”, giacché indicano sia i mezzi che i fini dell’azione sociale esclusivamente su basi tecnico-scientifiche, ovvero (3) senza ricorrere alla minaccia della forza fisica legittima. All’opposto, un organismo è politico quando (1) è composto da soggetti selezionati sulla base di criteri politici (ad esempio l’elezione), i quali sono a loro volta “padroni della situazione”, ma, diversamente dai tecnocrati, (2) imprimono un orientamento alla società sulla base di opzioni ideologico-valoriali, (3) ovvero attraverso il ricorso alla coercizione. Infine, un organo è definibile burocratico quando è imperniato sulla competenza, ma gerarchicamente subordinato ai politici. Ciò detto, come possiamo etichettare i governi Ciampi, Dini e Monti? Secondo il nostro parere, siamo in presenza di tre esecutivi chiaramente politici, ma a debole politicità. Detto diversamente, i governi di cui sopra sono politici nella misura in cui le loro scelte si fondano, in ultima istanza, su un legittimo potere di coercizione. Tuttavia, la loro composizione tende a esaltare il “lato tecnico” che la moderna società industrializzata impone ad ogni gruppo dirigente. Pertanto, crediamo che sia inopportuno continuare a parlare dello Stato italiano come di una tecnocrazia, cosi come è mistificante definire “tecnici” stricto sensu i governi guidati da Ciampi, Dini e Monti. Del resto – lo abbiamo già detto, ma merita sottolinearlo – nel campo delle scienze sociali non esiste una tecnica apolitica sulla falsariga delle scienze naturali, per cui ogni scelta finisce inevitabilmente per soddisfare certi valori e, quindi, per privilegiare/danneggiare una parte della società rispetto a un’altra. Quanto al problema della (in)compatibilità con la democrazia, va detto – fermo restando il fragile consolidamento della democrazia italiana (§4.2) – !149! !

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che tutti e tre i governi in questione sono “formalmente democratici”, in quanto hanno ricevuto – seppur con qualche forzatura – l’investitura a norma di legge costituzionale e godono finanche della fiducia del Parlamento. Cionondimeno, qualche perplessità sorge dal punto di vista della “democrazia sostanziale”. Ciò che intendiamo evidenziare, in altre parole, è che, rispetto alla prassi politicocostituzionale dell’Italia repubblicana – incentrata sul partito come monopolio dell’azione politica –, gli esecutivi a composizione extrapartitica rappresentano una vera e propria soluzione di continuità. Tanto più che la compagine guidata da Monti si muove all’interno di una cornice programmatica praticamente senza limiti. Tutto ciò, in conclusione, lascia immaginare che sia in corso una sorta di metamorfosi istituzionale – il ricorso sempre più frequente alla decretazione d’urgenza ne è la conferma – in vista di un rafforzamento del potere esecutivo a scapito del legislativo. Detto diversamente, il passaggio dei tre governi (dei) tecnici potrebbe voler dire, come sostiene Martelli (§4.3), che i partiti politici sorti dalle ceneri della Prima Repubblica siano troppo deboli per affrontare le situazioni emergenziali, ma, nello stesso tempo, potrebbe anche significare che lo Stato italiano abbia bisogno di un esecutivo più efficacie, magari guidato da personalità prestigiose – il che non equivale a figure extrapartitiche –, in grado di rispondere prontamente alle sfide poste dalla globalizzazione. Del resto, che ci piaccia o meno, il “ritmo della vita” assomiglia sempre più a quello innaturale dei flussi economico-finanziari globali e sempre meno a quello del dialogo e del confronto politico. Ma se ciò si dovesse concretizzare, che fine faranno i partiti politici? Se il “baricentro” della politica dovesse approdare nelle mani dell’esecutivo, come reagiranno i moderni custodi della democrazia? Si ricorda, in proposito, che i sistemi parlamentari sono tali perché imperniati sulla condivisione del potere tra esecutivo e legislativo (Sartori, 1994). Condivisione che, fatto salvo il sistema di tipo inglese di “premierato” – nel quale Primo Ministro è a capo di un governo monopartitico, per cui è libero di «scegliere e di sostituire i ministri che gli sono

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davvero “subordinati”» (Ivi, p. 117) –, implica una (continua) negoziazione delle cariche di governo da parte dei partiti di maggioranza. Il problema, in altre parole, concerne la necessità di trovare il “giusto” compromesso tra stabilità governativa, efficacia ed efficienza dell’iniziativa di governo e l’esistenza di un sistema pluripartitico ancora molto polarizzato. Fino ad ora le risposte sono state date in chiave di personalizzazione della politica, ovvero di aggiustamenti pragmatici per compensare le disfunzioni del sistema. Ma le recenti vicende sembrano suggerire a chiare lettere che sia giunta l’ora – per la verità sono molti anni che se ne discute – di un riordino dell’architettura costituzionale. Beninteso, non intendiamo, in questa sede, farci promotori di un assetto di tipo presidenzialista, piuttosto che semipresidenzialista. Peraltro, si tratta di questioni estremamente complesse che esulano dal nostro lavoro di ricerca. Cionondimeno, ci preme sottolineare che se, da una parte, la personalizzazione della politica convive difficilmente con un’architettura improntata alla logica collegiale, dall’altra, gli aggiustamenti pragmatici sono per loro stessa natura provvisori e, perciò, non risolutivi. In definitiva, la presenza del “governo tecnico” segnala l’esistenza di un malfunzionamento dell’assetto politico-istituzionale. Ciò non giustifica sterili demonizzazioni del “nostro tempo”, ma, nondimeno, esso dovrebbe bastare ad esortare gli “addetti del settore” circa l’adozione di provvedimenti adeguati, prima che l’anomalia comprometta seriamente la tenuta democratica del sistema politico italiano. •

Democrazia vs tecnocrazia: che cosa resta oggi dell’edificio democratico? La risposta a questa domanda, come abbiamo avuto modo di constatare,

è estremamente complessa. A seconda della posizione che assumiamo e della prospettiva in cui ci poniamo, le dinamiche del potere rivelano configurazioni che non sono declinabili in un paradigma univoco. Parlare di democrazia – così come di tecnocrazia – può quindi risultare fuorviante se non si fanno le dovute precisazioni.

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Eppure, in una veduta d’insieme sembra possibile poter affermare che, ad oggi, gli elementi tecnocratici – nel senso “debole” con cui abbiamo usato questa espressione – siano di gran lunga superiori agli elementi democratici. La democrazia, in altre parole, trionfa formalmente su scala globale, ma, nello stesso tempo, cede lo “scettro” a istanze di dominio che trovano fondamento nella funzione del profitto supportata dalla tecnica. Non si tratta semplicemente di una condizione in cui tutti sono invitati a prendere parte attivamente alla vita economica – nella veste di consumatori –, senza che vi corrisponda un “adeguato” coinvolgimento nella vita politica – in qualità di cittadini. Si tratta, piuttosto, di una progressiva – ma incompleta – identificazione della politica e del sociale con l’universo dell’economia. Una identificazione, sempre più penetrante, che tende a conferire “cittadinanza” esclusivamente a ciò che è compatibile con il profitto. D’altra parte, ciò che resta di politico non sembra in grado di ridare lo slancio e la vitalità a quelle istituzioni, sorte nel corso degli ultimi due secoli di storia, che continuiamo a chiamare “democratiche”. Il paesaggio globale si presenta disseminato di «rovine della politica moderna» (Galli, 2011, p. 83), cariche di valori e di significati simbolici, ma incapaci, al momento, di essere all’altezza della situazione. Che fare? La democrazia, diceva Norberto Bobbio, è una strada, non una meta (Bobbio, 1987). E, di certo, non saremo noi a decretare la fine di questa strada, né a indicare la direzione “giusta” da seguire. Una considerazione finale, però, crediamo di poterla fare: il «disagio della democrazia» – per dirla con Galli –, cioè il senso di disaffezione misto a odio e indifferenza che si prova di fronte alle “promesse non mantenute”, non si misura adeguatamente con la complessità della democrazia stessa e del reale. L’apatia politica, da un lato, e la ribellione, dall’altro, nascono e si sviluppano in un uomo che non è stato educato – o è stato diseducato – alla democrazia. Questo, in conclusione, per dire che solamente attraverso la presa di coscienza di questa complessità – la stessa complessità che giustifica l’ascesa sociale dei soggetti “competenti” – il disagio può «converstirsi in critica attiva». !152! !

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Soltanto, cioè, smettendo di essere spettatori (passivi) della propria miseria, l’umanità può riappropriarsi del controllo sulla propria esistenza.

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