Di cosa parliamo quando parliamo di corpi (parlando di cinema) - \"Aut Aut\", 2006

July 6, 2017 | Autor: Luca Malavasi | Categoria: Body representations in art, cinema and literature, Cinema Theory
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Di cosa parliamo quando parliamo di corpi (parlando di cinema) LUCA MALAVASI

mente richiamarsi alla dimensione soggettiva ed emozionale del film e del suo spettatore. Parlare di corpi, infatti, significa automaticamente convocare un'entità incarnata, percettiva e individuale che mal si adatta allo scientismo semiologico, che dagli anni sessanta domina, con fortune alterne, la riflessione teorica in ambito cinematografico; meglio allora, com'è stato fatto, allestire un teatro d'ombre, fantasmi e simulacri quale risultato esistenziale del reale una volta sottoposto ai processi di smaterializzazione del dispositivo cinematografico. Neppure la ricerca cognitivista degli anni novanta che, proprio attorno alle passioni vissute dallo spettatore e costruite dal testo ha definito uno dei suoi fields di maggior successo e interesse, è approdata se non a una teoria compiuta della presenza e dell'azione dei corpi in rapporto al cinema, quanto meno a una sua più pertinente valutazione. Il caso è tanto più curioso se si pensa che il cosiddetto cinema postmoderno - per semplicità, quello prodotto negli ultimi vent'anni soprattutto negli Stati Uniti - ha fatto del corpo, e spesso consapevolmente, il proprio oggetto privilegiato, indicando l'intreccio profondo che nella contemporaneità lega il corpo al problema della memoria, dell'identità, della soggettività e della storicizzazione dell'esistenza. Del resto la visibilità e la centralità del corporeo, del somatico e dell'estesico nelle pratiche sociali e artistiche del secondo Novecento - ma anche il più generale sbilanciamento verso il percettivo e il sensibile a scapito del cognitivo nei processi di figurazione e costruzione soggettiva - sono in parte una diretta conseguenza di ciò che il cinema, fin dalle origini, ha fatto al corpo nello spazio ambiguo della rappresentazione cinematografica, (dis)articolandone la percezione all'incrocio tra potenzialità tecnologiche, rispetto fenomenico e procedure simboliche. 3

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l problema della corporeità del/nel cinema ha ricevuto solo di recente un'adeguata attenzione in sede teorica e analitica. Si stenterebbe a crederlo, considerati la centralità del corpo-attore nella logica narrativa del film, il dibattito, antico quanto la teoria del cinema, attorno all'"impressione di realtà" o, ancora, la tendenza precoce ad "antropomorfizzare" la tecnologia cinematografica allo scopo di fondare la possibilità di un discorso estetico in rapporto al film. A ritardare un discorso in grado di farsi carico del tema del corpo in rapporto al cinema hanno contribuito zavorre culturali e impedimenti disciplinari di varia natura. Innanzitutto una generale incapacità di dialogo con altri ambiti di ricerca delle scienze umane, e la tradizionale incomunicabilità tra critica e teoria del cinema, per cui la seconda appare incapace di approfittare delle intuizioni della prima, normalmente più "precoce" perché a diretto contatto con il "corpo" del film. Inoltre l'ipoteca dello strutturalismo che, com'è noto, ha evacuato dal proprio orizzonte (non senza ragione, almeno inizialmente ) ogni prospettiva che potesse anche solo lata1

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1. E quasi esclusivamente in ambito inglese e francese, in uno spazio "spurio" che incrocia ricerca fenomenologica e post-strutturalismo con l'analisi testuale e con il cognitivismo. Tra le pochissime pubblicazioni in italiano, segnaliamo T. D'Angela (a cura di), Corpo a corpo. Il cinema e il pensiero, Falsopiano, Alessandria 2006, con interventi, tra gli altri, di Edoardo Bruno, Roberto D e Gaetano, Carlo Sini. 2. "Il corpo era stato escluso dalla teoria semiotica non solo per via del formalismo e soprattutto del logicismo che prevalevano nella linguistica strutturale degli anni sessanta, ma anche in ragione di una teoria dell'azione, che, come risaputo, pagava un notevole tributo nei ri-

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aut aut, 330, 2006,

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guardi della logica formale e persino della teoria dei giochi" (J. Fontanille, Figure del corpo. Ver una semiotica dell'impronta, 2004, Meltemi, Roma2004, p. 19). 3. Si vedano in proposito gli studi sviluppati nell'ambito della teoria dell'enunciazione dalla "scuola milanese" che fa capo a Gianfranco Bettetini e a Francesco Casetti. 4. Cfr. E Pitassio, Attore/Divo, I l Castoro, Milano 2003, in particolare là dove riflette sui processi di costruzione del corporeo e della sua visibilità contemporanea, a partire dall'intreccio tra cinema, tecnologia e procedure simboliche e sociali.

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Proprio l'esistenza ambigua del corpo in rapporto al cinema e la pluralità delle istanze corporee che ruotano attorno al dispositivo cinematografico sono forse la cruciale ragione per cui la ricerca su questo tema è parsa a lungo frenata se non addirittura consapevolmente marginalizzata. Occuparsi del corpo in relazione al cinema produce infatti un'immediata moltiplicazione delle possibili entrate nella questione, rifrange le prospettive disciplinari e identifica una pluralità di oggetti non ancora sufficientemente gerarchizzati; mettendo fuori gioco, almeno in parte, la possibilità di una prospettiva olistica e di unapureté teorica che, a questo stadio della ricerca, avrebbero l'effetto di chiudere, anziché aprire, il dibattito. In modo ancora più "compromettente", la valorizzazione della dimensione corporea implicata nel dispositivo cinematografico sembra spingere verso una ridefinizione complessiva, e spesso radicale, di nozioni, portati teorici e strumenti analitici rimasti a lungo intoccati, un po' come è accaduto di recente nell'ambito della teoria semiotica con gli studi di Jacques Fontanille. Convocare l'elemento corporeo significa infatti riconsiderare alla radice il problema della significazione e della comunicazione del film, intervenendo contemporaneamente a ridefinire le procedure, i soggetti e le "cornici" in cui il processo di visione si realizza. Nelle pagine che seguono, il problema della corporeità implicata nel dispositivo cinematografico viene affrontato separatamente, di volta in volta insistendo su un diverso livello (rappresentazione, enunciazione, riproduzione); e, a ogni livello, gli assunti teorici saranno esemplificati attraverso l'analisi di alcuni film o porzioni di film. Resta inteso che la separatezza della trattazione - in parte necessaria - non presuppone né indica una indipendenza dei diversi livelli né, tanto meno, suggerisce una "autosufficienza" teorica delle questioni sollevate che, al contrario, si dispongono lungo un percorso fortemente causale e interconnesso.

A. La rappresentazione

Il problema dello sguardo e del senso del guardare da parte di uno spettatore già da tempo educato a uno sguardo cinematografico, fino ai limiti dell'usura delle origini immaginarie e mitiche e delle

logiche semiotiche e linguistiche del film, si è fatto via via più centrale nel cinema contemporaneo, anche se sganciato, almeno a prima vista, dalle implicazioni politiche e ideologiche a cui lo avevano legato le nuove cinematografie degli anni sessanta. E, per esempio, il caso di David Lynch o di Abbas Kiarostami nella lettura di Jean-Luc Nancy, i quali pongono il problema dello sguardo e della sua origine, natura, forza con una consapevolezza che va decodificata a costo di misurarsi con una certa incertezza ermeneutica. In questi e altri autori, ha scritto Nancy, il cinema diventa "qui e ora un'altra forma di presentazione, come certamente lo era fin dall'inizio, ma che oggi esso libera per se stessa" : oggi, ossia nel momento in cui sembrerebbe scomparsa una chiara demarcazione estetica e ontologica tra reale e immaginario, e in cui i (corto) circuiti dello sguardo si danno già come relazione-trappola tra soggetto della visione e cosa vista, proprio nel momento di massima astrazione dal reale. Il cinema si impossessa, in altre parole, di una nuova capacità propriamente realista (e di un nuovo modo di essere realista). Esso ritrova, a cent'anni di distanza dall'inizio di quel processo di spettatorializzazione dell'esistenza di cui è stato il principale agente, il proprio contributo alla costruzione del mondo; e ritrova, soprattutto, e in modo problematico, la propria posizione interna a questo mondo: "Esso ne fa parte precisamente nel senso che ha contribuito a strutturarlo così com'è: come un mondo in cui lo sguardo sul reale si è risolutamente sostituito alle visioni di ogni specie, alle previsioni, alle preveggenze". Il che implica l'idea di una nuova pregnanza offerta al soggetto e di un nuovo modo dell'esperienza come "una forma e una forza che precede e che fa maturare una messa al mondo, la spinta di uno schema dell'esperienza mentre assume i suoi contorni" ? Consapevole postmodernamente (ossia anche in modo ludico ma non per questo meno lucido, si pensi a Brian De Palma) del proprio lavoro trasformativo e della propria responsabilità nella costituzione di nuovi schemi e nuove logiche di prensione e rela5

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5. J . - L . Nancy, Abbas Kiarostami. 6.

L evidenza del film (2001), Donzelli, Roma 2004, p. 13.

Ibidem.

7.1vi,p. 14.

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zione con il reale, molto cinema contemporaneo finisce insomma per costituirsi come movimento del reale nel momento esatto in cui pone il problema del proprio sguardo. A costo di sfiorare il paradosso, esso si costituisce quale interrogazione del reale nell'istante in cui supera la dialettica modernista deU'autoriflessività e si fa enfaticamente cinematografico. Quando, per esempio, si rende visibile in quanto processo di costruzione di uno sguardo, articolazione di un movimento, selezione-negazione di un profilo della cosa e di una sua esistenza spazio-temporale; quando fa vacillare la congruenza sinestesica che lo caratterizza (si pensi alla ricerca di tutto, o quasi, il cinema di Jean-Luc Godard), quando enfatizza la discontinuità e flirta con l'assenza dell'immagine, l'invisibilità e la morte della visione (Marguerite Duras), oppure con i dati bruti che è chiamato a lavorare: il tempo, lo spazio, il corpo, magari restituiti nella durata esistenziale che non possiedono più in quanto unità percepibili e "universali" percettivi. L'emergenza di questa nuova condizione di esistenza e di funzionamento delle immagini, sia in chiave ontologica che epistemologica e sociale, spinge quasi naturalmente verso una specifica attenzione alla dimensione incarnata del racconto cinematografico, invitando a una prima, decisiva mossa teorica che interessa il piano della rappresentazione. Si tratta di tornare a guardare al cinema in chiave fenomenologica ed esperienziale, riconnettendo problematicamente il segno al suo referente, pensando il film come altro sguardo sul mondo, in tensione tra determinazioni tecnologiche (proprie del medium), apparati simbolici e culturali, ed esperienza individuale. Si tratta qui, in altre parole, di riconsiderare lo statuto esistenziale dell'immagine cinematografica e, di conseguenza, il suo valore antropico e la sua "spendibilità" estetica. Sia Merleau-Ponty sia Dufrenne, per esempio, concordano nel sottolineare che ciò che il "segno" traduce non è mai semplicemente un significato o un fatto (il "senso" di una parola, il "contenuto" di un'immagine) ma un emblema sensibile della cosa in sé. Scrive il primo: "La fun8

8. Cfr. P. Brun, Poétique(s)

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du cinema, L'Harmattan, Paris2003.

zione del film non consiste nel farci conoscere i fatti o l'idea. Kant dice con profondità che nella conoscenza l'immaginazione lavora a vantaggio dell'intelletto, mentre nell'arte l'intelletto lavora a vantaggio dell'immaginazione. Vale a dire: l'idea o i fatti prosaici vi figurano solo per dare al creatore l'occasione di cercare loro emblemi sensibili e di tracciarne il monogramma visibile e sonoro. Il senso di un film è incorporato al suo ritmo come senso d'un gesto che è immediatamente leggibile nel gesto, e il film non vuole dire nient'altro che se stesso" . E Dufrenne, anche se a proposito del linguaggio poetico: "Si può parlare di espressione allorché questa carne [la materialità carnale della parola] incarna il senso, allorché la significazione è propriamente naturale". E potremmo richiamare anche Nancy quando, a proposito del linguaggio, scrive di un al di là o di un al di qua del sens langagier rappresentato dal farsi respiro e voce della parola: "Soffio e voce, o colore e timbro, traccia, passo, balzo, granello, tocco, intervallo, sospensione ecc". L'idea è insomma che il cinema possegga, in quanto arte del tempo e dello spazio, la possibilità di far emergere l'idea "allo stato nascente", ossia come oggetto offerto allo spettatore in quanto sostanziato e inevitabilmente compromesso con lo spazio-tempo dell'esperienza, che è poi quello dei ritmi di montaggio, della durata delle inquadrature, della forma della loro successione e progressione, del fluire dei corpi. Non un'essenza o un simbolo concettuali, dunque, ma piuttosto un emblema sensibile e una nuditàfenomenica: una certa figura di spazio-tempo in quanto profilo della cosa ed esperienza rivelata dell'esserci. I contenuti stessi dell'immagine si danno allo spettatore in quanto fenomeni puri (l'uomo colto "nella sua condotta o nel suo comportamento"). Il cinema infatti "ci offre direttamente questa maniera speciale di essere al mondo, di trattare le cose e gli altri, che è per noi visibile nei gesti, nello 9

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9. M . Merleau-Ponty, "Il cinema e la nuova psicologia", in Senso e non senso (1948), il Saggiatore, Milano 2004, p. 79. 10. M. Dufrenne, Lapoétique, PUF, Paris 1973, p. 241. 11. J . - L . Nancy, "Les arts sefontles uns contreles autres", in A A . V V . , A r t , regard, écoute. La perception à l'oeuvre, Presses Universitaires de Vincennes, Paris 2000, p. 162.

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sguardo e nella mimica, e che definisce con evidenza ogni persona che conosciamo". E la stessa linea che Merleau-Ponty segue anche nella sua analisi sulla pittura, quando ricorda come "trasferendo nella sfera visiva ciò che appartiene ad altri campi sensoriali, il pittore si spinge oltre i 'dati visibili' in senso stretto e amplia le potenzialità della visione, poiché espone agli sguardi e rende esplicito quel reale operare percettivo che l'opinione comune non attinge". Di qui, l'idea che lo scopo dell'arte pittorica - ma potremmo ben dire, con le dovute differenze, anche dell'arte cinematografica - non sia Vimitazione o la riproduzione, ma lo svelamento della visione umana come facoltà percettiva. E se ciò può accadere è perché, dietro l'immagine, è al lavoro qualcuno "installato nel visibile, intento a considerarlo da un certo luogo". Come fa rilevare Anna Sordini, "ciò che ogni visione sottintende, e che inevitabilmente sfugge a chi compie l'esperienza visiva, è dunque la collocazione particolare del corpo-vedente nello spazio 'reale' (intersoggettivo), il suo orientamento nel mondo: le tecniche pittoriche, che tentano di riportare su una superficie piatta e limitata uno spettacolo ampio e tridimensionale, possono far ciò solo esprimendo la singolarità della posizione del pittore di fronte al modello (anche se egli non dipinge dal vero, esiste comunque nella sua mente una 'scena' vista da uno specifico punto d'osservazione, che va tradotta nel quadro) ". Rilievi, questi ultimi, di fondamentale importanza in quanto ci indicano il senso dell'esperienza estetica - sia sul versante della produzione sia su quello della ricezione - nello svelamento, ossia nella mostrazione e nella presa di coscienza, compiute essenzialmente attraverso la concentrazione sinestesica, della nostra stessa esistenza sensibile, del nostro profilo di corpi aperti alla pluralità dell'esperienza; ma hanno anche il pregio di ricordarci, dietro l'opera d'arte, in posizione arretrata ma tutt'altro che nascosta, la pre12

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12. M. Merleau-Ponty, "Il cinema e la nuova psicologia", cit., p. 80. 13. A. Sordini, "Pittura e metafisica nell'ultimo Merleau-Ponty", in M . Merleau-Ponty, I I corpo vissuto, il Saggiatore, Milano 1979, p. 196. 14. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile ( 1964), Bompiani, Milano 1969. 15. A. Sordini, "Pittura e metafisica nell'ultimo Merleau-Ponty", cit., p. 197.

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senza di un soggetto creatore: soggetto empirico che sente e, nella fattispecie, sublima il suo sentire nel vedere, funzionando da crocevia percettivo e centro sinestesico, grazie al quale l'opera d'arte {tutte le opere d'arte) assume in primo luogo la forma di uno sguardo particolare dell'uomo sulle sue proprie facoltà percettive. Uno sguardo che di "particolare" ha soprattutto la coscienza di sé, manifestata anche grazie alle procedure trasformative, in termini di significante, imposte dal "linguaggio" dell'arte e dalle sue istituzioni; e che condivide con l'oggetto dello sguardo il campo, i mezzi per sostenerlo e per raccontarlo. Così, ogni singola immagine cinematografica, ogni suo singolo "momento", renderebbe percepibile uno dei tanti profili attraverso cui si manifestano le cose, e di cui parla proprio Merleau-Ponty sulla scorta di Husserl. Ogni istante manifestato contiene di conseguenza, allo stato di ritenzione o di protensione, altri momenti della cosa, altri profili della serie infinita della sua manifestazione: "In tutti gli atti di percezione, gli aspetti dell'oggetto percepito attualmente rinviano agli aspetti che non sono ancora, o che lo sono stati precedentemente". L'immagine allora si fa traccia o vestigia dell'oggetto, non semplicemente in quanto cosa che sta al posto di qualcos'altro, ma in quanto connettore che dà luogo all'oggetto, non limitandosi a rappresentarlo, proprio perché dell'oggetto continua a tramandare una sorta di esistenza aspettualizzata (per dirla in termini semiotici), ossia uno dei possibili profili di manifestazione dell'oggetto nel suo rapporto con un soggetto. Di più: il cinema - soprattutto quello contemporaneo - finisce per costituirsi anche come circuito propriamente filosofico in cui al soggetto è offerta l'occasione di guardarsi nel suo guardare, ossia di cogliersi nell'atto di costituirsi in quanto soggetto in rapporto a un orizzonte fenomenico di oggetti. La rappresentazione assumerà dunque le ca16

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io. V. Campan, "La phénomenologie en écho à la semiologie", in A A . V V . , AprèsDeleuze. Philosophie et esthétique du cinema, Place Publique éditions, Paris 1996, p. 30. 17. Sullo stesso tema, si veda anche L . Roy, Petite phénomenologie de l'écriture fìlmique, Nota Bene, Quebec 1996, in particolare pp. 22-24. 18. A l problema ha dedicato un'ampia riflessione Vivian Sobchack, The Address of the Eye. A Phenomenology ofFilm Experience, Princeton University Press, Princeton (NJ.) 1992.

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ratteristiche di una rivelazione, tra presenza e assenza, coscienza del sé e dell'altro, emersione ed evanescenza: "Si manifesta qui [nell'idea di rappresentazione] il riferimento a qualcosa di già dato, che viene ripreso o ritrovato, ripetuto o rifiutato, rivelato o ricoperto, riproposto o rinviato; qualche cosa che ci precede o ci sta di fronte, è precostituita o ci precostituisce e attende di essere portata nella luce o nel nascondimento, nell'essere della coscienza e della decisione o nel non essere del rinvio e della ripulsa". Il cinema del danese Lars von Trier rappresenta, al proposito, un caso emblematico, anche per via dell'atteggiamento ironico che attraversa tutta la sua filmografia e contraddistingue le sue dichiarazioni di "poetica"; un cinema sempre soggetto all'inversione ludica, sempre pronto al vacillamento del senso e al cambiamento di segno. Del resto Von Trier è anche, non a caso, l'unico regista contemporaneo che, attraverso il manifesto del Dogma 95, si è posto delle regole. Regole (consapevolmente) già vecchie, perché sollecitate da un'idea di realismo cinematografico sorpassata all'origine, e di fatto utili, retoricamente, all'esercizio dell'ironia e del tradimento divertito. Più e meglio di altri, Lars von Trier, proprio grazie al decalogo dogmatico, si è rivelato uno dei più acuti "sabotatori" filosofici dello sguardo occidentale cui ha dedicato anche i "contenuti" dei suoi film: da una trilogia sull'Europa a una sugli Stati Uniti d'America. Lo ha rivelato particolarmente in Dancer in the Dark (2000), dove egli gioca un doppio sguardo facendo collidere un'idea "ingenua" di realismo cinematografico (ricorrendo alla tecnologia digitale, all'assenza di fotografia, al rispetto scenografico e a una recitazione "tipologica" assestata sul quotidiano), con quella di un iperrealismo squisitamente cinematografico. Senza soluzione di continuità tecnologica e drammaturgica, con gli stessi mezzi e sfruttando cinicamente lo scivolamento tipico del musical dal reale al suo antidoto sognante, Lars von Trier accosta due modalità di sguardo profondamente antitetiche. Da un lato, le scene "in tempo reale", colte secondo le retoriche più tipiche dello sguardo dogma19

19. V. Melchiorre, Sul concetto di rappresentazione,

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tico (oscillazione antropomorfa della macchina da presa, discontinuità psicologica e non narrativa del montaggio, vicinanza e anzi dipendenza del punto di vista dell'inquadratura dal corpo degli attori e dal loro "sentire"); dall'altro lato, la macchina da presa rigorosamente fissa, la moltiplicazione anatomica - non più psicologica né drammaturgica - del punto di vista, la variazione continua degli angoli di ripresa e delle distanze, secondo una logica di ubiquità e irrequietezza che rimanda al potere stesso di uno sguardo non più antropomorfo ma squisitamente tecnologico, orchestrato a partire dalle cento e più videocamere (una specie di circuito chiuso) che circondano, fino a soffocare, le parti musical - cantate e danzate - del film. Si crea così un conflitto irrisolto, apparentemente normalizzato dal fluire senza strappi di uno "stile" nell'altro, tra un atteggiamento di mortificazione delle potenzialità tecnologiche e narrative del cinema a contatto con la realtà e un atteggiamento violentemente creativo, in cui l'apparato tecnologico-linguistico del cinema fa letteralmente a pezzi i contenuti figurativi e fenomenici dell'immagine. Notomizzando il reale attraverso una temporalità non più cronologica e una spazialità incerta, si celebra e si manifesta non solo una doppiezza che attraversa, più o meno sotterraneamente, tutta la storia del cinema (tanto da rendere Dancer in the Dark una riuscita sintesi tra l'Europa e l'America del cinema, giusto a metà delle due trilogie), ma si rilancia anche un interrogativo sulla natura e l'identità dello sguardo, tra un massimo di realismo - raggiunto attraverso studiatissime strategie retoriche culturalmente determinate - e un massimo di irrealismo - orchestrato per differenza rispetto alle logiche che governano il primo sguardo e a partire dal dominio della tecnologizzazione dello sguardo. Più e meglio di David Cronenberg, che lavora più a smarcare l'idea di una corporeità carnale data una volta per tutte a causa del connessionismo tra organico e inorganico che caratterizza la società contemporanea, Lars von Trier spalanca l'indeterminatezza delle "misure" che costituiscono il reale - ossia il rapporto tra supporto senziente, attenzione percettiva e dato sensibile offerto e al tempo stesso costituito dalla prensione razionale del

"Comunicazioni sociali", 1988.

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soggetto - sui fronti opposti di un diverso movimento dei protagonisti e degli oggetti della visione. Opponendo due modelli basati su modalità opposte di "presa" cinematografica sul reale, enfatizza così il gioco percettivo e, insieme, la mobilità trasformistica, tra organico e meccanico, degli elementi coinvolti. La crisi dello sguardo contemporaneo diventa allora crisi della identificazione dello sguardo, della sua identità, posizione, proprietà, del suo poter essere variamente una funzione umana, una finzione tecnologica (con la tecnologia che si "comporta" come se fosse umanamente segnata) e una proprietà inorganica ormai spostata rispetto al soggetto, delegata ai dispositivi che lo circondano, lo eccedono, lo superano.

B. L'enunciazione Ma perché sia logicamente possibile quanto detto finora, è necessaria una seconda integrazione, o riconnessione, tra corporeo ed enunciativo. Si tratta, più in generale, di guardare alla visione come a un processo esperienziale e incarnato in cui, sia sul versante della produzione sia su quello della ricezione, sono in azione soggetti complessi, carnali, sensibili, egopatici. Ancora una volta è il cinema contemporaneo a offrire lo stimolo per un aggiornamento teorico e una trasformazione di prospettiva, grazie a una serie di "punti di crisi" che hanno messo progressivamente in discussione logiche testuali più tradizionali e assestate, da quella del narratoreideologo, onnisciente e invisibile, del cinema classico, a quella del narratore-autore, soggettivo e scoperto, del cinema moderno. Lo ha fatto, per esempio, svuotando in termini formali l'origine del racconto cinematografico (comenella "soggettiva vuota"), oppure delegittimando, in termini epistemologici, l'autorità del narratore (penso al numero crescente di narrazioni "false" o semplicemente incerte) o, ancora, disumanizzando lo sguardo, che si è fatto enfaticamente tecnologico (penso al diffondersi di movimenti di macchina e figure di sguardo del tutto "impossibili", che attraversano, esplorano e raccontano la realtà diegetica secondo un'attitudine esclusivamente "virtuale"). Complessivamente, debolezze, incertezze e metamorfosi di ordine materico o epistemologico che rilan-

ciano il problema delle precondizioni della significazione e dei processi di narrativizzazione del reale, indicando all'origine di tutto un "venditore" di immagini dallo statuto sempre più ibrido e incerto, contraddittoriamente e contemporaneamente debitore di una pratica "umana", recuperabile per via analogica, e di una ai limiti dell'umano, sottomessa agli apparati trasformativi della tecnologia digitale. Il problema, sul piano generale della fruizione testuale, è stato posto in particolare da Eric Landowski e Jacques Fontanille, dalla cui riflessione emerge la necessità di rivolgere nuova attenzione agli "apparati" coinvolti nella semiosi e nello scambio comunicativo; un détournement epistemologico che approfitta intelligentemente dei risultati emersi da ambiti confinanti come quelli della filosofia analitica e della pragmatica, con i lavori di Mark Johnson e George Lakoff, e del cognitivismo, con il contributo di Varela, Thompson e Rosch, per i quali appare necessario ripartire dalla filosofia merleaupontiana per arricchire lo sguardo delle scienze cognitive ponendo al centro della riflessione l'uomo in quanto soggetto incarnato e la sua esperienza vissuta: "Riteniamo che la cultura scientifica occidentale richieda una considerazione del nostro corpo sia come struttura fisica, sia come struttura esperienziale vissuta; in breve, come entità 'esterna' e 'interna', biologica e fenomenologica". Il corpo non è semplicemente i l presupposto "meccanico" della semiosi, il suo centro di smistamento e il suo supporto razionale in quanto luogo di mediazione tra interocettivo ed esterocettivo. Nei testi restano memorie, impronte e figure riconduci20

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20. M. Johnson, The Body in theMind.

ofMeaning,

Imagination,

andRea-

e vita quoti-

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21. F.J. Varela, E . Thompson, E . Rosch, ha via di mezzo della conoscenza. tive alla prova dell'esperienza

Le scienze

cogni-

(1991), Feltrinelli, Milano 1992.

22. A partire dall'idea che le scienze cognitive trattino normalmente un soggetto senza "Self". Cfr. su queste e altre questioni, le osservazioni di D . C . Dennet, Review ofEJ. Varela, E. Thompson, E. Rosch, TheEmbodiedMind, "AmericanJournalofPsychology", 106,1993,pp. 121-126. 23. F.J. Varela, E . Thompson, E . Rosch, La via di mezzo della conoscenza. tive alla prova dell' esperienza,

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TheBodilyBasis

son, University of Chicago Press, Chicago 1987; J . Lakoff, M. Johnson, Metafora diana (1980), Bompiani, Milano 1998 .

Le scienze

cogni-

cit., pp. 15-16.

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bili a un lavoro e a una presenza del corpo, e il simulacro dell'enunciatore va ripensato come insieme di dati e portati che ineriscono sia la dimensione cognitiva sia quella sensibile, somatica, percettiva. I l corpo del soggetto enunciatore, come chiarisce Fontanille nella sua analisi del reportage, può assurgere, con tutta la sua evidenza e materialità di superficie carnale e mobile, a principio di funzionamento modale del testo: ne costituisce la motivazione e, attraverso la dinamica del suo movimento, si apre alla molteplicità percettiva del mondo. È ancora il corpo, attraverso la sua memoria sensibile, a ricondurre i dati percettivi raccolti - instabili in quanto "occasioni di senso" - a una concreta possibilità di prensione. I l problema posto da tanto cinema contemporaneo, "informe" e "incorporeo", andrà dunque rilanciato a partire da questa vicinanza originaria. Non per negare semplicemente l'esistenza di una base corporea preesistente logicamente a ogni atto di enunciazione ma per raccogliere informazioni sulle metamorfosi percettive, affettive e motorie e sull'immaginazione propriocettiva che il cinema, tramite simulacri enunciativi "alieni", passa più o meno insensibilmente all'esperienza e alla prassi dello spettatore. Del resto, come ha sottolineato di recente Eric Landowski, a caratterizzare l'epoca contemporanea è il visibile non più dato una volta per tutte ma costruito incessantemente nella relazione fra soggetto e mondo. Il che conduce inevitabilmente alla necessità di avviare un'analisi del visibile che tenga conto, in primo luogo, degli effettivi e molteplici regimi di presenza e di interazione fra soggetti e oggetti, a partire dall'idea che la visibilità sia "una dimensione del reale tra le altre" e che, contemporaneamente, essa collabori alla costituzione del reale, erigendovi modelli che non riguardano soltanto la sua "sensatezza" - rimandando e lavorando valori di ordine ideologico - ma anche la sua "sensibilità", contribuendo a forgiare regimi percettivi, estesici, affettivi. 24

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24. In J . Fontanille, Figure del corpo. Ver una semiotica

dell' impronta,

cit.. cap. X I .

25. E . Landowski, "Modi di presenza del visibile", in P. Basso (a cura di). Modi gine. Teorie e oggetti della semiotica

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visiva, Esculapio, Bologna 2001, p. 136.

dell'imma-

Così, accanto ai processi di messa in crisi del dato corporeo, il cinema contemporaneo si caratterizza, per differenza soprattutto con quello classico, anche per un atteggiamento opposto, che implica regimi di presenza dell'enunciatore - e, di conseguenza, del destinatario - molto più marcati, e definiti proprio a partire da una maggiore evidenza del dato corporeo, che si impone come elemento configurante dei processi di visione. Se l'idea di ocularizzazione è stata giustamente sovrapposta a quella letteraria di focalizzazione nella descrizione dei regimi di presenza e azione del soggetto enunciatore nel testo cinematografico, oggi sembra necessario compiere un passo ulteriore verso un'idea di corporalizzazione del punto di vista, negata o affermata che sia. Spess^TìSfaTtÌTàcCanto e in contrasto con la logica della "levitazione" digitale dell' "occhio peduncolato" (Balàzs), il cinema contemporaneo fa del corpo non semplicemente un'istanza premessa logicamente al racconto, ma ne manifesta la presenza attraverso una mobilità rigorosamente antropomorfa, magari ai limiti dell'atonia semantica, per cui il corpo presente nella costruzione della visione e nell'elaborazione del senso si impone come l'unico elemento effettivamente donato allo spettatore. Parallelamente, è al corpo dello spettatore, alle sue memorie figurative e percettive, alle sue "posture" e alla sua esperienza vissuta che questo cinema si rivolge, suggerendo la necessità di ripartire dal corpo in quanto costrutto sociale e luogo di passaggio di saperi e sentori pre-culturalizzati. Affiorano così temi correlati come quelli dell'identità, dell'individualità, della definitezza del corporeo ecc. Il caso forse più emblematico, se non altro per la coerenza delle scelte formali e poetiche e per il modo in cui alla fine il corpo diventa un dispositivo morale proprio in quanto superficie sensibile e percettiva, è Elephant (2003) di Gus Van Sant. Il film, com'è noto, prende spunto da fatti realmente accaduti, al centro di un'altra celebre pellicola, completamente opposta quanto a scelte formali e di genere, ossia Bowling a Colombine Una nazione sotto tiro {Bowling/or Columbine, 2002) di Michael Moore. Di fatto, però, non costruisce alcuna "trama" attorno all'elemento cronachistico, azzerando la manipolazione romanzesca o 107

narrativa degli eventi a favore di un regime quasi esclusivamente mostrativo. Esaltando un vedere organizzato in termini mostrativi, che ne riducono l'implicazione ideologica, Gus Van Sant sceglie di esautorare lo sguardo imperativo, perché anonimo, del narratore, estroflettendolo negli operatori narrativi interni al testo, i personaggi, narratari a loro volta privati di ogni facoltà moralizzatrice e ridotti a pure tecnologie dello sguardo-esibizione, ossia al loro essere corpi in movimento, semplicemente presenti e partecipi, in quanto materia sensibile e superficie senziente, ai fatti che li circondano. Cinematograficamente, la scelta si realizza in una modalità di ripresa che confonde soggettività e oggettività, grazie alla riduzione che opera nei confronti deìY'mdividuo-dramatis personae, non più soggetto inteso come categoria metafisica né individuo di ordine socio-politico-economico ma dispositivo meccanico dello sguardo (qui pura e semplice facoltà biologica). La macchina da presa, completamente dipendente dalla presenza e dal movimento dei corpi nel film, riprende attraverso una serie di lunghi e "vuoti" piani-sequenza, vi si "incolla" letteralmente, in una posizione che verrebbe normalmente definita semi-soggettiva (la macchina da presa arriva quasi a coincidere con lo sguardo del personaggio) ma che in questo caso insegue l'obiettivo opposto, ossia quello di definire la possibilità di uno sguardo oggettivo, qui trovato, di fatto, nell'unico spazio possibile: accanto e in funzione dei corpi degli attori senza i quali non potrebbe esservi alcuno sguardo, dal momento in cui si rinuncia al racconto - , vicinissimo a loro ma non compromesso con la loro soggettività. La macchina da presa si lascia così portare da operatori mobili di sguardo, di cui assume la postura non il punto di vista - , sottomettendosi alla loro velocità, direzionalità, altezza, orientamento; delegando insomma i parametri pro26

27

28

26. Sui rapporti tra narrare e mostrare al cinema, si veda A. Gaudreault, Dal letterario alfilmico (1988), Lindau, Torino 2000. 27. Nel senso che Greimas attribuisce al processo di moralizzazione cfr. A.J. Greimas, J . Courtés, Semiotica.

Dizionario

ragionato della teoria del linguaggio (1979), L a Casa Usher, F i -

renze 1986. 28. Su questi aspetti si veda M. Maffesoli, Note sulla postmodernità no 2005.

108

(2003 ), Lupetti, Mila-

priamente filmici che definiscono la messa in forma dello spazio a un formante in continua evoluzione, aprendosi così ai disegni del caso e alla "banalità" delle forze che definiscono l'essere al mondo del soggetto. Il cinema di Gus Van Sant, consapevole di come ogni realismo sia, in fondo, una retorica e una questione di "stile", riparte da dentro il cinema, ritrovandovi la sua matrice antropica - in un'incarnazione non soggettiva - e la sua originefenomenologica - nell'apertura all'esperienza di un soggetto senziente. Prima di Elephant, il regista aveva sperimentato questa strategia narrativa in un film meno visto ma sicuramente più estremo, Gerry (2002), dove, per circa un'ora e mezza, non succede nulla e la macchina da presa appare completamente sottomessa al "progetto" (o, in questo caso, alla sua assenza) dei personaggi, istituendo così una coincidenza puramente percettiva tra corpo spettatoriale, corpo meccanico (della macchina da presa) e corpo enunciazionale; enfatizzando i parametri dell'esperienza umana, la sua presenza mobile e sensibile tra le cose, la sua vita "mondana", e donandoli in quanto dati puri, in attesa di un investimento di senso e di una elaborazione narrativa. Alla logica narrativa dell'alternanza, teorizzata da Raymond Bellour e tipica del cinema classico, si sostituisce una logica della continuità. In entrambi i casi, il regista americano invita a ripartire dal corpo; dall'occhio, non dallo sguardo; dal vedere, non dal guardare; insomma, da\Yesserci del cinema nel reale, annullato sotto il profilo cognitivo e patemico dalla relazione puramente meccanica e funzionale - procedere, muoversi, vivere - che intrattiene con i corpi del testo. Anche la complessa struttura temporale di Elephant, che ricomincia per tre volte - senza segnalare mai la fine di una " storia" e l'inizio dell'altra - affidandosi a guide diverse, non smentisce la ricerca di questa reductio. Ha il tono del progetto affidato al caso e mette semmai in scena - nell'urto tra il movimento dei corpi all'interno della scuola e la "storia" dei due attentatori, raccontata in flashback con incastri di frammenti relativi al futuro - l'ingresso del narrativo nel sensibile, del racconto nel fatto. All'operazione di Gus Van Sant va infine riconosciuta una valenza ideologica-o, meglio, anti-ideologica-molto forte. Lafusio109

nalità di ordine sensibile che istituisce tra i corpi in gioco nel processo di visione, l'insistenza sulla mostrazione degli eventi contro il loro racconto e la manifestazione di una postura e di un atteggiamento percettivo piuttosto che di una ragione e di un sapere razionali, indirizzano verso una specie di riappropriazione del meccanico. Di fronte alla tragedia inspiegabile dei due studenti che ammazzano senza rimorsi docenti e compagni, convinti di vivere letteralmente dentro una specie di videogioco (che si allarga fino a occupare tutto lo spazio dell'inquadratura, sostituendosi cinematograficamente alla realtà); di fronte alla confusione propriamente materica e fenomenologica di reale e virtuale, testimoniata dalla illusoria contiguità tra vita e gioco, Gus Van Sant reagisce invitando a ritrovare il rapporto dello sguardo con la sua origine biologicomeccanica e la sua presenza reale tra le cose. Di fronte alla dissolvenza del virtuale, ritrova tutta la durezza del reale, portato sullo schermo nella sua durata, evidenza, e banalità; e infine, di fronte all'ubiquità di uno sguardo - quello del cinema - ormai sempre più tirato verso un'esistenza dis-umana, spettacolare e tecnologica, priva di relazioni con l'etica "gravitazionale" che lo contraddistingue all'origine, ritrova una posizione da cui tornare a guardare quello che ci circonda. In uno spazio ambiguo, visivamente semi-soggettivo e ontologicamente oggettivo: uno spazio-tempo di risonanza del soggetto con le cose che lo circondano, in attesa di costruire la propria realtà a partire da una condizione di (compresenza.

C. La riproduzione Quest'ultimo rilievo sugli effetti di presenza, e le osservazioni fatte sulla consistenza e la matericità del reale con cui Gus Van Sant ripopola lo schermo, induce a una terza mossa: il riallineamento del significante alia natura sensuosa propria dell'immagine, prodotta in buona parte dalle sue caratteristiche di base (tridimensionalità, movimento, colore...) e da fenomeni particolari di ingrandimento/ espansione (il primo piano) o accelerazione/compressione (il montage, il ralenti) che funzionano perlopiù in termini plastici, astratti, materici, anche grazie alla particolare situazione percettiva in cui è posto lo spettatore (il buio della sala) e alla forma del di-

spositivo cinematografico (il grande schermo, con tutti gli "allargamenti" e le "incurvature" cui è andato incontro lungo la storia del cinema), che contribuiscono a intensificare il potere impressivo, o meglio, presente e sensibile dell'immagine. Su questo tema ha insistito di recente, ed efficacemente, Malcom Turvey che, in polemica con le teorie dell'immaginazione di Carroll e Smith, è tornato sulla questione dell'emozione sollecitata dalla visione di un film, suggerendo la necessità di valorizzare maggiormente i "materiali" che la costituiscono e la rendono possibile e, nella fattispecie, la natura figurativa e "verosimile" del piano dell'espressione. All'interno delle coordinate offerte dal cognitivismo, Turvey suggerisce, in altri termini, la necessità di "ridare corpo", valori e funzioni alle immagini cinematografiche in quanto specifiche modalità di presenza e di presentazione, rette da specifiche proprietà costitutive e strutturali. Una necessità legata al desiderio di chiarire meglio l'emergenza di un coinvolgimento spettatoriale, anche emozionale, e di distinguerlo da quello che interviene in altre situazioni di fruizione di prodotti di fantasia. Turvey sostiene quindi l'utilità di distinguere fra media che generano emozioni esclusivamente attraverso l'immaginazione mentale (come nel caso dei libri) e media che generano emozioni (anche) attraverso unaphysicalperception. Il che equivale a evocare, nel caso del cinema, sia la dimensione della sensuosità dei materiali di cui è composta l'immagine, sia il loro "valere" in termini plastici e figurativi (con rimandi, rispettivamente, a schernita figure di senso). L'immagine arriva perciò a produrre una perceptual approximation di cui si giova il lavoro di immaginazione dello spettatore, a differenza di quanto accade nella lettura, dove la proiezione immaginativa risulta la sola responsabile del processo elicitante dell'emozione. La natura figurativa dell'immagine e i suoi " costituenti" (colori, lu29

30

29. M . Turvey, "Seeing theory: O n perception and emotional response in current film theory", in R. Alien, M . Smith (a cura di), Film Theory and Philosophy, Oxford University Press, Oxford 1997, pp. 431-457. 30. Cfr. N . Carroll, The Philosophy York 1990,

e M . Smith, Engaging

of Horror

Characters:

Or Paradoxes

Fiction,

Emotion,

o/the Heart, Routledge, New and the Cinema,

Clarendon

Press, Oxford 1995.

110

Ili

ci e ombre, effetti di tridimensionalità e profondità ecc.) sono in altre parole all'origine di una diversa relazione e reazione all'immagine da parte dello spettatore. I l che implica una intensificazione emozionale sperimentata durante la visione di un film rispetto al coinvolgimento emotivo prodotto da altri media. Il discorso di Turvey ci richiama insomma all'origine percettiva, non soltanto immaginativa, della visione cinematografica: il "mondo immaginario" del cinema non vive in noi in quanto semplicemente proiettato o costruito dalla/nella mente dello spettatore ma si trova anzitutto difronte a noi, a contatto con noi; in altre parole, l'immagine cinematografica non è soltanto pensata, ma in primo luogo percepita, vista, sentita. Ne deriva che quello che l'immagine produce non è semplicemente un effetto di realtà ma, in termini percettivi, e grazie alle sue caratteristiche di base, un effetto di presenza che si fonda, rilanciandola, su una percezione in praesentia del mondo narrativo, della "cosa" in sé, e non semplicemente su una sua scomposizione analitica e ricostruzione immaginativa. Del resto, spostando di poco l'asse del discorso, proprio in ambito cognitivista, il ruolo del corpo dello spettatore è stato valorizzato anche in quanto superficie reattiva, carnale e muscolare, in grado di rispondere e adeguarsi alle situazioni rappresentate senza mediazioni cognitive. Si tratta di fenomeni di simulazione emotiva di origine involontaria, indicati come affective mimicry e automatic reactions. I primi, in particolare, testimoniano del fenomeno per cui involontariamente, non soltanto al cinema, tendiamo a replicare le espressioni facciali (in questo caso specifico, connesse alla dimensione affettiva) dell'altro: secondo la teoria del feedback di James, ciò avviene allo scopo di intensificare, attraverso un'espressione facciale appropriata, ossia speculare a quella che vedo, la mia esperienza emotiva. Le automatic reactions, invece, sono risposte involontarie in cui lo spettatore, allineato con il personaggio attra31

31. M i sembra interessante notare a questo proposito come nell'ambito della sociologia delle emozioni, proprio i concetti di imitazione (Tarde) e di mimesi (Girard) godano di notevole fortuna nella spiegazione della costruzione del desiderio e dell'emozionalità. Cfr. S. Tomelleri, "Emozioni e teoria mimetica di René Girard", in B. Cattarinussi (a cura di), Emozioni e sentimenti nella vita sociale, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 141-146.

112

verso fenomeni di identificazione o empatia, partecipa del suo stesso shock, prodotto per esempio da un rumore o da un movimento improvviso. Il caso della musica, in termini più generali, testimonia emblematicamente dell'esistenza di una partecipazione non cognitiva ma non per questo "irrazionale" - e prevalentemente sensibile dello spettatore in sala, e del ruolo che essa svolge in sinergia con i più abituali processi di elaborazione formale dei contenuti del film. Tutto il cinema contemporaneo ha manifestato un interesse crescente per la valorizzazione della dimensione materica e percettiva dell'immagine, indirizzandosi consapevolmente a un piano di relazione che passa in un certo senso "alle spalle" dei processi di significazione: i sensi appaiono stimolati in quanto tali, e non come veicoli verso il senso. Si tratta di strategie comunicative che ricorrono a una specifica valorizzazione dei dati e dei valori sensibili dell'immagine, e che hanno di mira una sorta di ricezione "automatica" o "mimetica" da parte dello spettatore, un coinvolgimento ritmico, musicale e in fondo "fisiologico", in cui lo spettatore si trova a rispondere, per adeguazione o shock, in modo vagamente meccanico e deterministico, agli stimoli prodotti dal racconto cinematografico. Stimoli che, tra l'altro, non necessariamente danno avvio o accesso a un processo di significazione, pur rappresentando spesso i puntelli dell'"attenzione" spettatoriale. Il cinema accede così a uno statuto comunicativo di ordine propriamente contagioso, in cui, come ricorda Landowski, è all'opera una grammatica dell'unione fondata su una modalità di relazione fra soggetto e mondo alternativa alla logica della giunzione. Si tratta, in sintesi, di una modalità di significazione in cui gli effetti di senso dipendono non più da "oggetti di valore" di cui appropriarsi nel quadro di un'elaborazione cognitiva, "ma dalla pura e semplice 32

32. Sui processi di coinvolgimento dello spettatore nella fiction attraverso la mediazione del personaggio, hanno suggerito nuovi spunti di riflessione proprio gli studi di ispirazione cognitivista, screditando in parte l'idea di identificazione a favore di un più vasto range di possibilità, a partire dalla rielaborazione del concetto - sviluppato nel quadro dell'estetica - di empatia.

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copresenza degli aitanti gli uni agli altri"? Copresenza che se la teoria del cinema ha sempre postulato come impossibile - semmai immaginaria, simulacrale e proiettiva, - il cinema contemporaneo sembra invece percorrere come una nuova, diversa possibilità di relazione e scambio tra schermo e spettatore, all'incrocio tra nuove modalità di presenza dell'immagine e dello spettatore. Dove la prima, contro e nell'indifferenza della narrazione, enfatizza i propri contenuti percettivi e il secondo, sopraffacendo una dominante di ordine cognitivo, amplifica le proprie attitudini sensibili. Fino a costituire quel tocco impossibile - perché il contagio si regge sulla prossimità e contiguità corporea - messo in scena all'inizio di Minority Report, quando il personaggio interpretato da Tom Cruise si tende fino a sfiorare l'immagine del figlio morto, Sean, che, proiettata in dimensioni reali su una parete, emerge dalla bidimensionalità dello schermo per muoversi verso l'attore. Il punto d'arrivo di questa grammatica dell'unione di ordine contagioso, fondata sullo stimolo e l'enfasi percettiva, è un vero e proprio "genere" che Amiel e Couté, nel loro prezioso studio dedicato alla forma (e alla sua crisi) del cinema americano contemporaneo, identificano come la macrostruttura di riferimento di tutto o quasi il cinema blockbuster? Si tratta di una rielaborazione dell'idea di cinema d'azione in cui quest'ultima non ha a che fare con i contenuti del film ma con il suo linguaggio; un genere in cui la gestione classicamente qualitativa della velocità e del ritmo (valori di ordine musicale e a-semantico) si trovano reinterpretati in chiave puramente quantitativa. Non modulazioni o variazioni ma pure e semplici accelerazioni e rallentamenti, in cui la velocità perde il proprio valore astratto per imporsi come valore ed elemento in sé, strutturato attorno ai poli - fisiologici anziché musicali - della velocità e del riposo, nell'indifferenza dei contenuti dell'immagine. A questo stesso principio puramente percettivo, che mira a stimolare la presenza corporea dello spettatore e a offrirgli in dono lo spettaì

4

33. E . Landowski, "Al di qua o al di là delle strategie", in G . Manetti, L . Barcellona, C . Rampoldi (a cura àcì) ,11 contagio e i suoi simboli. Saggi semiotici, 34. Cfr. V. Amiel, P. C o u t é , Formes

Klincksieck, Paris 2003.

114

et obsessions

ETS, Pisa2003, p. 35.

du cinema américain

contemporain

colo effettistico delle potenzialità percettive della tecnologia cinematografica, riferiscono anche altre strategie linguistiche, tra cui la variazione gratuita e continua dei valori connessi all'inquadratura (distanza, angolazione, inclinazione). L'effetto finale è una saturazione dell'immagine in movimento attraverso il movimento offerto come grandezza percepibile in quanto tale, svincolata da una grammatica e da un'estetica. Non diversamente accade nell'ambito dell'inquadratura, in cui si assiste oggi alla pura presenza dell'immagine in quanto superficie, alla sua texture: la materialità sensibile dell'immagine degli oggetti è donata allo spettatore come pian au regard, sotto la vernice di un'immagine. Il fenomeno è tanto più rilevante per la sospensione - temporanea - che produce nei confronti della logica sintattica del film: piani irrelati tra loro, sganciati dalla logica stringente del montaggio e privati di uno spazio fuori campo o, meglio, valorizzati nel loro esistere in quanto superfici concrete, piegate verso lo spettatore, a forzare la dimensione meno praticata del fuori campo, quella che idealmente separa platea e set, mondo reale e mondo cinematografico. Non a caso, soprattutto in ambito francese, si comincia a parlare oggi di un cinema tattile o aptico: cinema da toccare, fatto di immagini piene ed "emerse", visione tattile e materica, da assumere attraverso lo sguardo ma da elaborare come dato offerto ad altri sensi - il tatto, l'olfatto, il gusto. Se ne trovano esempi molteplici, per fare soltanto un paio di nomi, nel cinema di Steven Spielberg e di Michael Mann. Molto altro si potrebbe aggiungere al riguardo; restano consapevolmente esclusi dalle pagine precedenti alcuni punti di fuga e temi oggi irrinunciabili: i l più interessante riguarda gli effetti "performativi", da mettere utilmente in prospettiva nel quadro della ricerca sociosemiotica, prodotti dalle nuove configurazioni sensibili, percettive e corporee del cinema sull'esperienza reale e sui suoi limiti fenomenici. Il tema dell'esperienza mediata, costruita ed elaborata dal film in quanto luogo di passaggio e scambio non soltanto ideologico ma anche direttamente connesso alle nostre facoltà percettive e sensibili (e non ristrette al solo ambito del visivo), 115

gode oggi, non a caso, di un'attenzione tutt'altro che passeggera nell'ambito degli studi sul cinema, sospinto inoltre dal moltiplicarsi, anche in Italia, di studi legati alle pratiche e alle logiche della ricezione. Il tema, declinato in rapporto alla corporeità, pone per esempio il problema del contributo del cinema e, più in generale, dei prodotti audiovisivi, nell'elaborazione delle configurazioni corporee, nella definizione dei limiti percettivi dell'esperienza e nella costruzione di una "sensibilità sociale". Qui entra in gioco, inoltre, l'attuale ricerca attorno al figurale™ che, prendendo le mosse da Lyotard e Deleuze, spinge, nel caso specifico degli studi cinematografici, a una nuova analisi delle rappresentazioni corporee intese come sede di una continua rinegoziazione dei valori connessi all'identità e alla soggettività, ma anche ai rapporti tra umano e inumano, organico e inorganico e così via. Si tratta di approcci che, a gradi diversi di complessità, impiegano le rappresentazioni e le "possibilità" del corpo umano nel cinema contemporaneo come spie, indizi e sintomi di processi estetici e sociali più vasti, di cui esso non si fa semplice testimone ma luogo privilegiato di figurazione e realizzazione. Perché attorno al corpo, e non soltanto al cinema, si addensano oggi, rivelandosi e caratterizzandosi, i grandi interrogativi che attraversano la società postmoderna.

Il ragno e la fanciulla. L'immagine del corpo in Cronenberg DAMIANO CANTONE

35

35. Per tutti, si veda l'ultimo lavoro di F. Casetti, L'occhio za, modernità, Bompiani, Milano 2005.

del Novecento.

36. Cfr. N . Brenez,De la figure en generalet ducorpsenparticulier. cinema, De Boeck, Bruxelles-Paris 1998, e l d . , Figuration/Défiguration 1993.

116

Cinema,

esperien-

L'invention figurative au "Admiranda" 5-7 ' '

lo cerco sempre di mostrare quel momento unico e bloccato in cui ciascuno vede ciò che c'è sulla punta della sua forchetta: momento possibilità,

cioè

quel

in cui ci si rende conto che la realtà non è che una debole e fragile come tutte le altre

possibilità.

D . Cronenberg

S

i ha una strana sensazione assistendo a un film di Cronenberg, come di un progressivo allontanamento da quello che stiamo vedendo, una specie di distacco emotivo che ci permette - tra l'altro - di sopportare una serie di immagini cosiddette "forti" (è stato il primo regista a mostrare la detonazione di una testa) senza rimanere troppo turbati. Non proviamo orrore né generalmente repulsione, ma piuttosto un'ambigua sensazione di disagio crescente, che persiste anche dopo il film, visto che i finali cronenberghiani sono tutt'altro che catarchici e liberatori. Piuttosto che spettatori, ci troviamo nella posizione di osservatori, la nostra curiosità o la nostra attrazione affascinata superano di gran lunga il nostro coinvolgimento, come se stessimo assistendo a un esperimento scientifico. Più volte è stato rilevato come nei suoi film circoli un'atmosfera da "sala operatoria", anche se essa non dipende da una precisa scelta estetica: spesso, anzi, i luoghi in cui vengono ambientati non sono asettici e anonimi, ma sporchi, vissuti e consunti (prendiamo per esempio il suo film considerato più algido, Crash: le scene-chiave si svolgono sul sedile posteriore sfasciato della vecchia macchina di Vaughan, in un deposito di rottami, fino al finale in un'aiuola spartitraffico). Del resto, in sala operatoria, o in laboratorio, abitano molte delle ossessioni e dei temi del regista canadese. Sale operatorie e laboratori sono presenti fin dai suoi esordi, pensiamo ai ricercatori di Stereo, o alla clinica per trapianti di pelle di Shivers, passando per lo studio di ginecologia dei fratelli Mantle in Dead aut aut,330,2006. 117-131

117

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