DIDONE TRA MITO E REALTÀ

July 22, 2017 | Autor: Sabrina Stella | Categoria: History, Phoenicians, Carthage (History), Dido and Aeneas
Share Embed


Descrição do Produto

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA Dipartimento di Civiltà e forme del Sapere Corso di Laurea in Storia

Laurea triennale in Storia

TESI DI LAUREA DIDONE TRA MITO E REALTA’

RELATORE Prof. Paolo XELLA Giuseppe MINUNNO CANDIDATO Sabrina Stella

ANNO ACCADEMICO 2013/2014

1

Sommario

Capitolo 1 1. Le fonti antiche

5 5

1.1. Timeo di Tauromenio

5

1.2. Gneo Nevio e Virgilio

9

1.3. Ovidio

18

1.4. Annali di Tiro

23

1.5. Giustino e l’Epitome di Pompeo Trogo

29

Capitolo 2 2. Eventi narrati e storicità

36 36

2.1. Regalità e religiosità nel mondo fenicio

36

2.2. Cipro

42

2.4. Cartagine, il problema della regalità e dei sacrifici

50

Conclusione Bibliografia

56 59

Introduzione

2

La storia, si sa, è fatta di persone. Le persone entrano in contatto tra loro e creano eventi, la natura circostante fa loro da sfondo e ne permette la completa interazione. Se a questo quadro aggiungiamo l’intervento divino, trasformiamo la storia in un racconto mitico. Molto spesso questi racconti si basano su eventi realmente accaduti (con tutte le modifiche necessarie a renderli immortali e indelebili nelle memorie degli uomini) o possiedono comunque una base storica plausibile. Ricordare Omero con l’Iliade e quasi d’obbligo, dove l’evento storico, verosimile nelle sue dinamiche prettamente politiche e militari, viene sapientemente rimodellato e condito di mitologia creando un racconto dove mito e realtà si fondono alla perfezione. Numerosi studiosi, da lungo tempo, indagano sulla vicenda troiana domandandosi su dove inizi il mito e dove la realtà storica.

Come l’Iliade, molti altri racconti

presentano le stesse caratteristiche e problematiche, con la realtà storica che si fonde al mito e all’invenzione. In questa sede ho intenzione di parlare del mito della regina Didone, la principessa fenicia che, dopo essere fuggita dalla madrepatria Tiro, fonda una città lungo le coste del Nord Africa, Cartagine. La sua storia è stata raccontata per più di duemila anni e plasmata in base ai mutamenti della cultura occidentale, delineando così i mondi simbolici con cui Didone entrava in contatto (il potere, i valori, la mentalità, i costumi). Della stessa opinione sono P. Bono e M.V. Tessitore quando affermano che la storia della regina di Cartagine è stata raccontata a lungo, mutando col tempo in base ai contesti culturali, politici e ideologici. In questo modo dall’intrecciarsi del mito di Didone con la

3

storia è possibile rintracciare altre informazioni radicate nel contesto storico in cui la vicenda è narrata. Se si pensa al mondo greco e romano è possibile trovare tracce della loro storia nel racconto che essi stessi espongono, poiché plasmato su loro stessi: atto artistico di autoconsapevolezza storica che al tempo stesso riconosce i valori identificati nel testo precedente e li trasforma per far loro servire gli usi del presente.1 I riferimenti alla sua storia sono contenuti in diverse opere latine e greche, ognuna delle quali racconta la vicenda in modo diverso. Per quanto documentazione indiretta, i testi antichi sono molto importanti poiché ci aiutano a discernere una plausibile realtà storica dalla mera invenzione. Per la vicenda di Didone il nodo della matassa è grande e intricato e molto lontano dall’essere sciolto. Non voglio di certo, in queste poche righe, risolvere il problema riguardante la veridicità della figura di Didone, prima come principessa e poi come regina di Cartagine, poiché sarebbe presuntuoso e inappropriato. Ho intenzione di presentare singolarmente le fonti classiche su Didone, individuare dei punti importanti nei singoli testi per farne una breve analisi, senza però mettere in discussione la documentazione. Esporrò anche alcune teorie su gli argomenti e dopo questa prima parte espositiva, la seconda sarà dedicata ad una valutazione della documentazione per cercare di appurare la base 1

P. BONO, 1984, p.1.

4

storica dietro il mito, infine concluderò esponendo una possibile ricostruzione del mito, delle sue origini e della sua formazione in base alle fonti analizzate e al materiale preso in esame. I documenti che esaminerò, come detto in precedenza, sono quelli di natura classica poiché rappresentano, ancora oggi, una risorsa importante per le informazioni che contengono. Dapprima troviamo la testimonianza greca di Timeo di Tauromenio, relativa al IV-III a.C., con una prima versione della storia. Le fonti successive sono relative al periodo romano e prendono le distanze da Timeo per ragioni storico-letterarie. Sto parlando di Virgilio con la sua Eneide, di Nevio con il Bellum Poenicum e Ovidio con l’Eroidi. Posizione diversa assumerà la documentazione di Giuseppe Flavio negli Annali di Tiro, dove la narrazione lascerà il posto a una rassegna cronologica dei sovrani della città fenicia di Tiro. Infine Giustino, attraverso l’Epitome di Pompe Trogo, ci fornirà una descrizione dettagliata della vicenda secondo l’ottica di un romano delle province.

5

CAPITOLO 1 1. LE FONTI ANTICHE

1.1. Timeo di Tauromenio Prima di parlare della Didone passionale e famosa che tutti, o quasi, abbiamo conosciuto sui libri di letteratura del liceo, comincerò dicendo che esiste una principessa forte e virtuosa, fedele al proprio compagno, che lascia la sua patria Tiro per fondarne una nuova. Ciò che la caratterizza è la forza e il senso del dovere verso la città e i suoi abitanti, una figura protagonista del suo racconto, che compie un viaggio lungo e pieno di difficoltà. Infine per adempiere a una promessa fatta al marito defunto decide di togliersi la vita. La vicenda riguarda il mito di fondazione di Cartagine giunto fino a noi tramite uno storico siceliota, Timeo di Tauromenio. Vissuto tra il IV e il III secolo a.C. Timeo narra questa storia nella sua grande opera in 38 libri, le Storie, che ripercorrono le vicende dell’Occidente greco partendo dalle origini mitiche alla morte di Agatocle, nel 289 a.C. Di questo immenso lavoro ci sono pervenuti solo 164 frammenti, dai quali ci possiamo fare un’idea della struttura delle Storie e del suo contenuto. Timeo, inoltre, cerca di dare una sistemazione cronologica alla fondazione delle colonie greche usando come dato principale la cronologia del più famoso evento panellenico, le Olimpiadi (da qui la data di fondazione di Cartagine). Il metodo seguito da Timeo è stato messo più volte in discussione, soprattutto dallo storico Polibio2, che lo condanna per la scelta delle fonti, non sempre attendibili, e per l’abile 2

POLIBIO, Storie, Libro XII, 3.

6

rielaborazione in chiave erudita che lo portano a sottolineare aspetti moralisti e retorici delle vicende. Nonostante tutto è proprio nei frammenti di Timeo che troviamo la storia di Didone ripresa da Virgilio nell’Eneide, almeno fino a quando l’intervento divino di Cupido indurranno in lei un amore smisurato per Enea, distanziandosi così dalla storia del siceliota. Del mito ne esistono diverse varianti, alcune si differenziano per le modalità di morte della regina, altre per i nomi o altri piccoli dettagli. La versione di Timeo è conservata come riassunto in uno scolio di un autore anonimo3in cui si parla di figure femminili eroiche e tra queste c’è Theiosso, chiamata Elissa in fenicio, figlia del re di Tiro e sorella di Pigmalione, fondatrice della città di Cartagine. Morto il padre Mutto succede al trono il fratello Pigmalione responsabile della morte di suo marito Sicheo, sommo sacerdote del dio poliade della città, Ercole (Melqart fenicio). Per questo motivo Elissa fugge da Tiro con alcuni suoi concittadini e tutti i suoi beni. Approdata in Libia, Elissa riceve il nome Δειδὼ

dalla

popolazione locale a causa delle sue numerose

peregrinazioni. Fondata la nuova città Didone rifiuta la proposta di matrimonio del re libico Iarba e per sfuggire alla pressione della sua gente si uccide buttandosi in una pira, innalzata per una finta cerimonia che avrebbe dovuto scioglierla dai suoi giuramenti verso il primo marito, Sicheo. Non viene menzionata la storia della pelle di bue, tagliata a strisce per ottenere molta più terra su suolo d’Africa. Probabilmente manca il 3

S. RIBICHINI, Miti mediterranei, atti del convegno internazionale, Fondazione I. Buttitta, Palermo, 2008, p. 102-114.

7

frammento al riguardo ma altri scrittori successivi ne parleranno molto e dettagliatamente. In un frammento4 Timeo afferma, che ne dica Polibio, di aver attinto ad autentici documenti fenici. Il nome della protagonista, Elissa, sembra di chiara origine fenicia, trasportato nel greco Theiosso, e solo in un secondo momento diventerebbe Didone, un soprannome datole dai Libici. Numerose sono state le ipotesi successive riguardo il significato di questo secondo nome. In accordo con Timeo c’è chi ha dato a Didone il significato di “errante, vagante5”, tra gli autori classici ricordiamo Servio che nel suo commento all’Eneide intende Dido come virago “donna capace di virilità, di coraggio virile” in quanto ha preferito la morte e la fedeltà al primo marito piuttosto che accettare la proposta di matrimonio del sovrano libico. Servio scrive: Dido vero nomine Elissa ante dicta est, sed post interitum a Poenis Dido appellata, id est virago Punica lingua, quod cum a suis sociis cogeretur cuicumque de Afris regibus nubere et prioris mariti caritate teneretur, forti se animo et interfecerit et in pyram iecerit [...] ob quam rem Dido, id est virago, quae virile aliquid fecit, appellata est; nam Elissa proprie dicta est.6

4

Cfr. 7 JACOBY, cfr. Haegemans, 2000, p.280-281. HONEYMAN, 1947, p.77. 6 Ad Aen., I, 340; IV, 36, 335, 674. 5

8

Traduzione E’ stato detto prima che Elissa è il vero nome di Didone, ma dopo morta è stata chiamata Didone dai Cartaginesi, che in lingua punica vuol dire donna capace di virilità. Quando fu costretta dai suoi stessi compagni a sposare qualsiasi dei re dell’Africa e era legata dall’amore al suo primo marito, forte nella mente si uccise buttandosi in una pira accesa […] Per questo Didone è stata chiamata donna coraggiosa, la quale fece qualcosa di virile.

Eustazio7 propone un‘interpretazione ancora diversa, affermando che gli indigeni avevano chiamato la donna Διδὼ perché da essa ingannati, quasi fosse stata l’assassina del proprio uomo a causa dell’omicidio commesso da suo fratello (il termine greco è ἀνδροφόνος). Si potrebbe continuare ancora per molto, visto che numerosi esperti si sono confrontati ed hanno proposto numerose interpretazioni e soluzioni (come Giovanni Garbini8 che pone Elissa/Theiosso in rapporto con il greco θεῖος, “divino” e il verbo

θειόω, “consacrare, considerare sacro”

o varie radici di origine semitica come “muoversi”, “affrettarsi”, o ancora “seno”, “mammella”, una donna virile nel senso di donna amazzone9) ma

7

Ad Dion. Per., 195, in Muller, GGM, II, p. 251. G. GARBINI, I Fenici. Storia e religione, 1980, p. 199-200. 9 L. VATTIONI, 1978, p.28-29, 1994, p.93-94. 8

9

nessuna si è imposta con decisione sulle altre lasciando la questione ancora aperta. Dal racconto pervenutoci dai frammenti di Timeo sappiamo che Elissa fugge dalla sua patria a causa dell’assassinio di suo marito, sommo sacerdote del dio, perpetrato da suo fratello Pigmalione. Con i suoi beni fugge via e approda in Africa, dove viene soprannominata Didone. Qui la città prospera e la principessa diventa oggetto di mira dei sovrani locali. Piuttosto che accettare le nozze con Iarba, Didone si uccide gettandosi tra le fiamme, innalzate per una finta cerimonia. Timeo lascia intravedere un fattore molto importante nel suo racconto, il fattore probabilmente scatenante la fuga di Elissa, ovvero il conflitto tra regalità e classe sacerdotale. La sua morte infine ricorda da vicino i riti sacrificali fenici del passaggio nelle fiamme. Uno sfondo storico plausibile pare ci sia, a una prima occhiata. Ma prima continuerò l’esposizione della documentazione al riguardo così da avere un quadro più ricco.

1.2. Gneo Nevio e Virgilio L’immagine che conferisce Virgilio a Didone è di stampo letterario e perciò molto diversa da quella di Timeo. Se con il siceliota siamo a cavallo tra il IV e il III secolo a.C. ora ci troviamo a Roma sotto il potere di Augusto nel I a.C. e quello che Virgilio narra è la storia di Enea, eroe troiano figlio di Anchise, che fugge da Troia dopo la sua caduta. Viaggia per mare e solo dopo molte peripezie giunge nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Il mito di fondazione di Roma per opera di un eroe fuggito alla caduta della città troiana è già presente nel Bellum

10

Poenicum di Nevio, scritto all’incirca tra il 215-217 a.C. durante la seconda guerra punica. Del poema ci sono pervenuti solo dei frammenti dai quali possiamo ricostruire su larghe linee la vicenda. Nevio narra dapprima della guerra in corso, fondendo i modelli omerici dell’Iliade e dell’Odissea all’epos guerresco della lotta di Roma contro Cartagine10, poi si dilunga in un viaggio alla scoperta delle origini del popolo romano parlando del viaggio di Enea, di come una tempesta lo costringa ad approdare sulle coste del Nord d’Africa, a Cartagine, dove accetta l’ospitalità della regina Didone. Secondo alcuni studiosi è in questi frammenti che andrebbe ravvisata la prima traccia della storia d’amore tra Enea e Didone, terminata con una maledizione a causa della partenza dell’eroe per il Lazio. Da qui l’origine dell’odio tra il popolo romano e quello cartaginese, ma sulla storia d’amore ci furono probabilmente delle dispute già nell’antichità. Varrone11 pare abbia sostenuto la versione secondo cui a innamorarsi di Enea non fu Didone ma Anna (sorella della regina) e che per lui si era uccisa buttandosi tra le fiamme. A tal proposito si legge in Servio: “Sane sciendum Varronem dicere, Aeneam ab Anna amatum (naturalmente va riconosciuto ciò che disse varrone, Enea fu amato da Anna)12” e Servio Danielino continua dicendo: “Varro ait non Didonem sed Annam amore Aenea impulsam se supra rogum intermisse (Varrone -disse- non Didone ma Anna si gettò sulla pira spinta dall’amore per Enea)13.” 10

Cfr. P. BONO - M.V. TESSITORE, Il mito di Didone, avventure di una regina tra secoli e culture, Milano Mondadori, 1998, p.23. 11 Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) avrebbe sostenuto questa versione forse nel perduto De Familiis Troianis. 12 Ad Aen., V, 4. 13 Ad Aen., IV, 682.

11

Il rapporto tra Nevio e l’Eneide di Virgilio è oggetto di studio trattato ampiamente dagli studiosi e non è questa la sede adatta per approfondire l’argomento. Virgilio vuole raccontare la storia di Enea e Didone come momento cruciale del destino di Roma, dove Enea si trova a scegliere, rendendo la sua decisione fatale in entrambi in casi ma in modi e con conseguenze differenti. La Didone dell’Eneide è diversa dalla regina che abbiamo incontrato precedentemente in Timeo. In accordo con il “mito fenicio” Didone, principessa di Tiro, fugge dagli intrighi di suo fratello. Pigmalione, avido di ricchezze, aveva fatto uccidere Sicheo, il più ricco tra i Fenici e marito di Didone. Pigmalione lo aveva ucciso di nascosto davanti agli altari14 e per molto tempo aveva nascosto tutto alla sorella. Il fantasma del marito insepolto venne in sogno a Didone e le rivelò tutto mostrandole dove l’arma lo aveva trafitto. Le raccomandò di fuggire e come aiuto le rivelò la posizione dei suoi vecchi tesori sottoterra, oro e argento. Didone preparò la fuga insieme ai suoi compagni o a quelli che nel regno avevano paura o in odio Pigmalione. Presero le navi e le caricarono d’oro. A capo dell’impresa una donna. Giunsero sulle sponde dell’Africa e la regina comprò tanta terra quanta ne potesse circondare una pelle di bue e quel suolo fu chiamato Byrsa: Imperium Dido Tyria regit urbe profecta, germanum fugiens. longa est iniuria, longae ambages; sed summa sequar fastigia rerum. huic coniunx Sychaeus erat, ditissimus auri 14

Sicheo era sacerdote del dio Melqart.

12

Phoenicum, et magno miserae dilectus amore, cui pater intactam dederat primisque iugarat ominibus. sed regna Tyri germanus habebat Pygmalion, scelere ante alios immanior omnis. quos inter medius venit furor. ille Sychaeum impius ante aras atque auri caecus amore clam ferro incautum superat, securus amorum germanae; factumque diu celavit et aegram multa malus simulans vana spe lusit amantem. ipsa sed in somnis inhumati venit imago coniugis ora modis attollens pallida miris; crudelis aras traiectaque pectora ferro nudavit, caecumque domus scelus omne retexit. tum celerare fugam patriaque excedere suadet auxiliumque viae ueteres tellure recludit thesauros, ignotum argenti pondus et auri. his commota fugam Dido sociosque parabat. conveniunt quibus aut odium crudele tyranni aut metus acer erat; navis, quae forte paratae, corripiunt onerantque auro. portantur avari Pygmalionis opes pelago; dux femina facti. devenere locos ubi nunc ingentia cernes moenia surgentemque novae Karthaginis arcem, mercatique solum, facti de nomine Byrsam,

13

taurino quantum possent circumdare tergo.15

Traduzione Tiene il potere la tiria Didone partita dalla città fuggendo il fratello.E' un oltraggio lungo, lunghi gli intrighi; ma seguirò i sommi capi delle vicende. A costei era marito Sicheo, il più ricco d'oro dei Punici, e amato dal grande amore della misera, a lui il padre l'aveva data intatta e l'aveva unita inprime nozze. Ma teneva i regni di Tiro il fratello Pigmalione, per malvagità più feroce di tutti gli altri. Tra essi venne in mezzo il furore. Egli empio cieco per amore dell'oro abatte con l'arma Sicheo di nascosto che non temeva davanti agli altari; sicuro degli affetti della sorella; ed a lungo nascose il fatto e fingendo molto il malvagio illuse con vana speranza l'afflitta amante. Ma lo stesso fantasma del marito insepolto venne nei sogni alzando i pallidi sembianti in modi straordinari; svelò i crudeli altari ed il petto trafittodall'arma, scoprì tutto il cieco delitto della casa. Allora raccomanda di affrettare la fuga e andarsene dalla patria e come aiuto per la via rivelò vecchi tesori sotto terra, una ignota quantità di oro e argento. 15

VIRGILIO, Eneide, Libro I, v.340-368.

14

Così sconcertata Didone preparava fuga e compagni. Si radunano quelli che avevano o crudele odio o paura del tiranno; le navi, che per caso eran pronte, le prendono e le carican d'oro. I beni dell'avaro Pigmalione son portati per mare; capo dell'impresa una donna. Raggiunsero i luoghi, dove ora vedraii le enormi mura e la nascente fortezza della nuova Cartagine, e comprati il suolo, Birsa dal nome del fatto, quanto potessero circondare con una pelle di toro.

La regina offre ospitalità ai troiani e durante il banchetto chiede a Enea di narrarle le sue vicende. In grembo a Didone siede il figlio dell’eroe, Ascanio, sostituito da Cupido. La madre di Enea, Venere, vuole essere sicura che la regina non muti il suo atteggiamento benevolo verso il figlio e spinge Cupido e farla innamorare dell’eroe. In un primo momento Didone rimane fedele al suo voto di castità nei confronti del defunto marito ma poi la passione la travolge (grazie anche all’incoraggiamento della sorella Anna) e si arrende iniziando a trascurare tutto per l’amore di Enea. Giunone e Venere si accordano e durante una battuta di caccia un temporale spinge Enea e Didone a rifugiarsi in una grotta, creando così la situazione ideale per favorire la loro unione. Didone vorrebbe che Enea non partisse più per l’Italia, abbandonando il suo destino, ma Giove invia Mercurio a ricordare all’eroe il suo dovere, così Enea decide di partire. A nulla valgono le suppliche di Didone. Presa dal dolore finge di voler offrire un sacrificio purificatore e si uccide

15

trafiggendosi con una spada e maledice Enea mentre le navi troiane prendono il largo verso l’Italia.

Tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum exercete odiis, cinerique haec mittite nostro munera. nullus amor populis nec foedera sunto. exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor qui face Dardanios ferroque sequare colonos, nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires. litora litoribus contraria, fluctibus undas polipt imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque.

Traduzione Poi, voi, o Tiri, trattate con odio la stirpe e tutto il popolo futuro, ed inviate alla nostra cenere questi regali. Per i popoli non ci siano alcun amore e patti. Sorgi tu, un vendicatore, dalle nostre ossa sì, insegui i coloni dardani col ferro e col fuoco, ora, dopo, in qualunque tempo si daranno le forze. Prego lidi opposti a lidi, onde a flutti, armi ad armi: combattano sia loro, sia i nipoti.16 La maledizione di Didone diventa la causa profonda delle guerre tra il popolo romano e il popolo punico, la radice dell’odio, proprio come in Nevio. 16

VIRGILIO, Eneide, Libro IV, v. 622-629.

16

Virgilio utilizza questa versione della vicenda per scopi ben diversi da quelli storiografici. La storia di Didone ed Enea si inserisce in un contesto più ampio, quello della conclusione delle guerre civili, che per anni avevano scosso lo stato romano, e la ritrovata stabilità sotto il governo imperiale di Augusto. Era stato proprio lui, Ottaviano, a portare la pace dopo la battaglia di Azio con la sconfitta di Antonio e Cleopatra. La regina d’Egitto non era altro che l’elemento orientale e barbaro che aveva traviato la virtù di un uomo romano, Antonio, con il lusso sfrenato e la passione amorosa, facendo prevalere non la ragione ma l’amore. Cleopatra, la donna orientale pericolosa, intelligente e seduttrice, era la personificazione

dell’irrazionalità

emotiva,

una

donna,

quindi

naturalmente portata alle mollezze d’amore, preferendo le esigenze private allo stato. Cleopatra e Didone incarnano l’Oriente istintivo e carnale, l’altro, il non romano, l’estraneo che corrompe e fiacca il corpo e lo spirito con l’ozio, la libidine e le ricchezze. Così era stato per Enea, che come Antonio, era stato sedotto dal fascino delle donne d’Oriente. L’eroe troiano però era riuscito a sfuggire al fascino di Didone in tempo, anteponendo lo stato e il suo destino, la ragione, la virilità e la pietas all’ amor e alle frivolezze incarnate nella figura della donna orientale Didone. Virgilio così giustifica la legittimazione dell’autorità di Augusto e celebra la sua vittoria finale contro le truppe barbariche di Antonio, ormai vittima dell’Oriente. Cleopatra e Didone, le due regine, dopo la sconfitta si riscattano, ritrovando la dignità perduta tramite il suicidio.

Sic, sic iuvat ire sub umbras.

17

hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto Dardanus, et nostrae secum ferat omina mortis. dixerat, atque illam media inter talia ferro conlapsam aspiciunt comites, ensemque cruore spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta atria: concussam bacchatur Fama per urbem.

Traduzione Così, così è bello andar sotto le ombre. Il crudele dardano beva con gli occhi questo fuoco dall'alto, e porti con sé i presagi della nostra morte. Aveva detto, e le compagne in mezzo a tali parole la vedono crollata sull'arma, e la spada spumeggiante di sangue e cosparse le mani. Va il grido alle alte stanze, la Fama furoreggia per la città sconvolta.17 Enea e la romanità vincono sul fascino orientale, Didone è sconfitta. In egual misura Augusto vince su Antonio e Cleopatra e ancora Roma vince sull’elemento barbaro. Questo scontro tra due mondi era elemento ricorrente della propaganda augustea già prima dell’inizio della guerra, quando si preparava allo scontro con Antonio (fu nel 32 a.C. che pronunciò “tota Italia”). Nelle Res Gestae riporta “Mi giurò fedeltà l’Italia intera di sua volontà, e mi chiese di esserle condottiero nella guerra che vinsi ad Azio18.” 17 18

VIRGILIO, Eneide, Libro IV, v. 660-666. Res Gestae , par. 25.

18

Augusto si appella alla tradizione romana nella sua campagna come salvatore e portavoce del mos maiorum, tema forte nella società romana, baluardo della purezza dei costumi antichi in decadenza a causa della corruzione e del lusso introdotti dall’Oriente (non serve che io citi Marco Porcio Catone Maior al riguardo). L’episodio narrato da Virgilio (l’incontro di Enea con Didone) è molto importante per lo scopo primo del poema. Ottaviano ha celebrato il suo trionfo dopo Azio (31 a.C.), non ha rivali e il 16 gennaio del 27 a.C. il Senato gli conferisce il titolo di Augustus. In suo onore gli viene conferito il titolo di augurium augustum, appellativo di enorme importanza che identifica ora Ottaviano come il nuovo Romolo. La ricostruzione dello stato romano è il suo ambizioso progetto e per farlo ha bisogno di un solido consenso. La figura di Ottaviano come rifondatore, come nuovo Romolo, ben voluto dagli dei, prende forma nel poema virgiliano attraverso la ricostruzione della genealogia mitica della gens Iulia. Ovviamente l’analisi dell’Eneide di Virgilio è molto più lunga e complessa e sarebbe riduttivo ridurla a queste poche pagine, ma quello che voglio sottolineare è il motivo alla base della differenza tra la Didone di Timeo e quella virgiliana, dove non abbiamo più la regina forte e fedele ma sofferente e abbandonata, un quadro commovente e triste che finisce in tragedia, col suicidio, proprio con la spada che il suo amato le aveva donato.

1.3. Ovidio Se la Didone virgiliana poco prima di morire arde di furore e desiderio di vendetta maledicendo Enea, la regina che troviamo nelle Heroides di

19

Ovidio è del tutto diversa. Scritta non molto tempo dopo l’ascesa al potere di Augusto, le Heroides è una raccolta di epistole immaginarie che trattano d’amore o dolore, scritte da famose eroine mitiche (Arianna, Penelope, Fedra, Medea per citarne qualcuna). Tra queste c’è la lettera che Didone scrive a Enea, piangente e con in grembo una spada, con l’intento di convincerlo a restare a Cartagine avvalendosi di argomentazioni importanti, come il pericolo di prendere il mare durante certi periodi, la notizia di una gravidanza inattesa, la minaccia del suicidio. Il quadro di Elissa, dipinto da Ovidio, è di una donna che piange la sua sorte e rimpiange il suo passato, supplica l’amato di restare e, priva di tutta la forza che Timeo e Virgilio le avevano dato, perde la sua dimensione mitica e quasi eroica per diventare fragile e dolente. Didone è qui una donna come le altre, una donna che, non essendo un uomo, incontra molte difficoltà a portare avanti una città da sola e piange se stessa e il suo passato funesto. Didone comincia la lettera chiamando se stessa Elissa, principessa famosa per la sua reputazione di purezza sia del corpo sia dell’anima. Ora, grazie ad Enea, non lo è più, ma nonostante tutto lei non riesce a odiarlo. La Didone ovidiana ama lo straniero Enea anche ora che l’ha abbandona per raggiungere le coste dell’Italia. Nec quia te nostra sperem prece posse moveri, alloquor: adverso movimus ista deo! sed meriti famam corpusque animumque pudicum cum male perdiderim, perdere verba leve est.

20

Certus es ire tamen miseramque relinquere Didon […] non tamen Aenean, quamvis male cogitat, odi, sed queror infidum questaque peius amo.

Traduzione E non mi rivolgo a te nella speranza di poterti commuovere con la mia preghiera: questa iniziativa è contro il volere del dio. Ma, avendo gettato via con disonore la mia buona reputazione dovuta ai meriti e la purezza del corpo e dell'anima, è cosa da poco sprecare delle parole. Ormai sei deciso, Enea, ad andartene e ad abbandonare l'infelice Didone.19 [...] Tuttavia non odio Enea, benché mediti il mio male, ma lamento la sua slealtà e, pur lamentandomi, lo amo di più.20 Enea è dipinto come uomo menzognero e perfido, crudele, che non ha a cuore la sorte della donna che aveva detto di amare. Qui Enea è tutto fuorché virtuoso e colmo di pietas, in perfetta antitesi con l’Enea virgiliano. Numerose le accuse lanciategli contro da Elissa ma l’aspetto tragico che le aveva conferito Virgilio scompare completamente. Forse la mancanza di tragicità è la vera forza che Ovidio vede in Didone o semplicemente la donna mitica scompare del tutto per trasformarsi in una 19 20

OVIDIO, Heroides, VII, 5-9. OVIDIO, Heroides, VII, 31-32.

21

semplice donna fragile che nonostante tutto ama il suo uomo e non gli augura mai la morte. Didone rimpiange la sua stoltezza, l’aver gettato l’unica cosa che aveva, l’onore e la virtù, quel funesto giorno in cui si unì ad Enea in una grotta. Afferma addirittura di aver sentito quel giorno la voce delle Eumenidi che le anticipavano il suo destino. Ora che ha tradito la fedeltà di Sicheo proverà vergogna quando lo incontrerà nel regno dei morti. La questione dell’onore perduto è ribadito molte volte nella lettera, ciò che preme in lei, la vergogna di cui si è macchiata, l’ha sporcata per sempre. Non riesce a vivere senza Enea e senza il suo onore. Il suo destino è funesto sin dalla gioventù, quando Pigmalione, per avidità, uccise sugli altari di Tiro suo marito Sicheo. Didone non è forte, coraggiosa, astuta e intraprendente come l’Elissa di Timeo (o quella di Pompeo Trogo, ma lo vedremo in un secondo momento) ma è quasi timorosa, si trova in difficoltà per la sua posizione di straniera e donna. Sembra quasi abbia bisogno d’aiuto ma con la morte tutto il peso che grava su di lei sparirà per sempre. Durat in extremum vitaeque novissima nostrae prosequitur fati, qui fuit ante, tenor: occidit internas coniunx mactatus ad aras et sceleris tanti praemia frater habet, exul agor cineresque viri patriamque relinquo et feror in dubias hoste sequente vias; adplicor ignotis fratrique elapsa fretoque; quod tibi donavi, perfide, litus emo. urbem constitui lateque patentia fixi

22

moenia finitimis invidiosa locis.

Traduzione Il destino, che ho sempre avuto in passato, persiste sino alla fine e accompagna gli ultimi momenti della mia vita. Il mio sposo è morto, assassinato presso l'altare di Tiro e mio fratello si gode la ricompensa di un delitto così grande. Vengo costretta all'esilio e abbandono le ceneri di mio marito e la patria; sotto l'inseguimento nemico, sono spinta in un pericoloso cammino. Sfuggita al fratello e al mare, approdo tra gente sconosciuta e acquisto quella terra che ti ho donato, traditore. Fondai una città ed eressi mura che si estendono per lungo tratto e destano l'invidia delle regioni vicine. Ci sono guerre in fermento: straniera e donna sono provocata a combattere e, inesperta, allestisco con difficoltà le porte per la città e gli armamenti.21 Per ultimo Didone scongiura Enea di non partire, perde completamente la dimensione di regina e si riduce quasi ad una nullità, quidlibet esse feret riporta Ovidio. si pudet uxoris, non nupta, sed hospita dicar; dum tua sit Dido, quidlibet esse feret. 21

OVIDIO, Heroides, VII, 115-124.

23

[…] nec consumpta rogis inscribar Elissa Sychaei, hoc tantum in tumuli marmore carmen erit: praebuit Aeneas et causam mortis et ensem. ipsa sua Dido concidit usa manu.

Traduzione Se ti vergogni di avermi in moglie, che non mi si chiami tua sposa, ma ospite; pur di essere tua, Didone accetterà di essere qualunque cosa. 22[...] non sarò più indicata come Elissa, moglie di Sicheo, ci saranno soltanto questi versi incisi nel marmo del sepolcro: "Enea ha fornito il motivo della morte e la spada; Didone è morta grazie alla sua stessa mano".23

1.4. Annali di Tiro Fino ad ora abbiamo parlato di Didone attraverso la letteratura latina e greca con Timeo, Virgilio, Nevio e Ovidio ma nulla si è detto sulle fonti fenicie. Purtroppo non possediamo fonti letterarie fenice, di conseguenza non abbiamo documenti sulla vicenda della regina Didone.. Detto ciò è ovvio che acquistino importanza alti tipi di testimonianze, indirette, che 22 23

OVIDIO, Heroides, VII, 171-172. OVIDIO, Heroides, VII, 197-200.

24

seppur scarse, ci permettono di avere un quadro approssimativo, o quanto meno di farci un’idea, della letteratura fenicia. Secondo quanto riporta Giovanni Garbini la più importante documentazione indiretta della letteratura fenicia in nostro possesso sono i frammenti di Filone di Biblo presenti nel primo e nel quarto libro della Praeparatio Evangelica di Eusebio. L’opera storica originale di Filone si intitolava Storia fenicia ed era, secondo quanto affermava lo scrittore, una versione dell’opera di Sancuniatone, autore fenicio vissuto al tempo di Salomone. Questi frammenti trattano della mitologia e cosmogonia fenicia, più precisamente dell’origine della materia e degli animali, del sole, della luna, delle stelle e delle costellazioni e ancora dei venti, della pioggia e degli e degli uomini. Ci sono anche descrizioni sulla nascita della religione, del fuoco e del culto ed altre notizie sulla religione del paese. In un secondo piano, invece, si pongono i frammenti di un’altra opera che viene tradizionalmente chiama Annali di Tiro che permette una “valutazione della letteratura fenicia (o almeno di un suo genere letterario) più immediata di quanto sia possibile con il testo di Filone 24.” Notizie circa gli Annali di Tiro ci sono giunti grazie al Contro Apione e alle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, il quale fa riferimento ad una lista basata su una storia perduta di Menandro di Efeso che a sua volta affermava di aver attinto direttamente da fonti fenicie, ovvero dalle cronache di Tiro. Lo stesso Giuseppe afferma, riguardo Menandro di Efeso:

24

cit. G. GARBINI, I Fenici, storia e religione, p.71.

25

Ἀλλὰ πρὸς τούτῳ παραθήσομαι καὶ Μένανδρον τὸν Ἐφέσιον. γέγραφεν δὲ οὗτος τὰς ἐφ᾽ ἑκάστου τῶν βασιλέων πράξεις τὰς παρὰ τοῖς Ἕλλησι καὶ βαρβάροις

γενομένας

ἐκ

τῶν

παρ᾽

ἑκάστοις

ἐπιχωρίων γραμμάτων σπουδάσας τὴν ἱστορίαν μαθεῖν.

Traduzione scrisse gli atti di ognuno dei re verificatisi presso i Greci e i barbari, avendo compiuto lo sforzo di studiare gli avvenimenti storici sugli scritti locali di ognuno [...] scrivendo dunque intorno a quelli che regnarono a Tiro, quando giunge a Hiram dice così25 Secondo quanto riporta Giovanni Garbini Giuseppe Flavio si sarebbe avvalso di un ulteriore testimonianza per avvalorare l’autenticità delle fonti citate, ovvero di un certo Dione sempre nel Contro Apione. Riassumendo quindi Giuseppe Flavio avrebbe utilizzato le fonti di un compilatore tratte da cronache locali in lingua greca: il fatto che Menandro fosse greco d’Asia (Efeso o, secondo altre fonti, Pergamo) e non un fenicio non consente dubbi: certamente egli non fu il traduttore

25

G. FLAVIO, Contro Apione, I, 116.

26

degli Annali di Tiro né di alcuna altra opera “barbara”26 A sostegno di quest’affermazione Garbini porta altre prove, come la traduzione dei nomi dei mesi locali in greco (cosa che presupporrebbe una conoscenza dei calendari di Tiro maggiore dell’ellenistico Menandro) o la resa del toponimo tirio Eurychoron. La conclusione è che gli Annali di Tiro furono tradotti in greco da un fenicio stesso, di Tiro, che conosceva quindi il greco. Ciò che sta alla base dell’opera di Menandro è proprio questa versione greca della storia di Tiro. Nel Contro Apione ritroviamo quindi tracce della nostra regina e della colonia fenicia di Tiro, Cartagine. Parlando di archivi Giuseppe Flavio scrive: ἔστι τοίνυν παρὰ Τυρίοις ἀπὸ παμπόλλων ἐτῶν γράμματα δημοσίᾳ γεγραμμένα καὶ πεφυλαγμένα λίαν ἐπιμελῶς περὶ τῶν παρ᾽ αὐτοῖς γενομένων καὶ πρὸς ἀλλήλους πραχθέντων μνήμης ἀξίων. [108] ἐν οἷς γέγραπται, ὅτι ὁ ἐν Ἱεροσολύμοις ᾠκοδομήθη ναὸς ὑπὸ Σολομῶνος τοῦ βασιλέως ἔτεσι θᾶττον ἑκατὸν τεσσαρακοντατρισὶν καὶ μησὶν ὀκτὼ τοῦ κτίσαι Τυρίους Καρχηδόνα.

Traduzione

26

cit. G. GARBINI, I Fenici, storia e religione, p.73.

27

Vi sono pertanto presso i Tiro, da numerosissimi anni, degli scritti redatti pubblicamente e conservati con grande cura, relativi ai fatti degni di memoria avvenuti presso di loro e presso gli altri. In questi (scritti) è registrato che a Gerusalemme il tempio fu eretto dal re Salomone centoquarantatre anni e otto mesi prima che i Tiri fondassero Cartagine.27 Questo vuol dire che è stato lo stesso Flavio a interpretare gli scritti, altrimenti i Tiri avrebbero avuto capacità profetiche giacché nulla poteva presagire la fondazione di una colonia nel Nord Africa centoquarantatré anni dopo. A seguire Giuseppe Flavio enumera tutti i sovrani di Tiro così da calcolare la data di fondazione della città fenicia da Hiram I a Elissa. Riporto qui l’ultima parte della cronologia dei re fenici: τούτου διάδοχος γέγονε Μέττηνος υἱός, ὃς βιώσας ἔτη λβ ἐβασίλευσεν ἔτη κθ. τούτου διάδοχος γέγονεν Πυγμαλίων, ὃς βιώσας ἔτη νη ἐβασίλευσεν ἔτη μζ. ἐν δὲ τῷ ἐπ᾽ αὐτοῦ ἑβδόμῳ ἔτει ἡ ἀδελφὴ αὐτοῦ φυγοῦσα

ἐν

τῇ

Λιβύῃ

πόλιν

ᾠκοδόμησεν

Καρχηδόνα. συνάγεται πᾶς ὁ χρόνος ἀπὸ τῆς Εἰρώμου βασιλείας μέχρι Καρχηδόνος κτίσεως ἔτη ρνε μῆνες η. ἐπεὶ δὲ δωδεκάτῳ ἔτει τῆς αὐτοῦ βασιλείας ὁ ἐν Ἱεροσολύμοις ᾠκοδομήθη ναός,

27

G. FLAVIO, Contro Apione, I, 107-108.

28

γέγονεν ἀπὸ τῆς οἰκοδομήσεως τοῦ ναοῦ μέχρι Καρχηδόνος. κτίσεως ἔτη ρμγ μῆνες η.

Traduzione Gli successe Matgenus suo figlio; visse 32 anni, e regnò nove anni: Pygmalion gli successe; visse 56 anni, e regnò 47 anni. Ora, nel settimo anno del suo regno, sua sorella fuggì via da lui e costruì la città di Cartagine in Libia. Così tutto il tempo dal regno di Hirom, fino alla costruzione di Cartagine, è pari alla somma di cento cinquantacinqu anni e otto mesi. Da allora il tempio fu costruito a Gerusalemme nel dodicesimo anno del regno di Hirom, ci sono stati dalla costruzione del tempio, fino alla costruzione di Cartagine, centoquarantatre anni e otto mesi.28 Dal passo leggiamo chiaramente che a Matgenus (re Mitto, padre di Pigmalione e Didone) successe, dopo nove anni di regno, Pigmalione. Questi visse cinquantasei anni e per quarantasette regnò (su Tiro). Nel settimo anno del suo regno sua sorella (Elissa) fuggì da lui e costruì una città in Libia, Cartagine. Tutto il regno di Hiram I fino alla costruzione di Cartagine è pari alla somma di centocinquantacinque anni e otto mesi. Per quanto i dati in nostro possesso siano una fonte non di prima mano, restano fondamentali poiché gettano un po’ di luce su quella che doveva essere l’opera originale, ovvero lo scritto greco di un autore fenicio, fonte 28

G. FLAVIO, Contro Apione, I, 125-127.

29

di Menandro a sua volta fonte di Giuseppe Flavio. Il dato importante, secondo la mia visione, è la premessa dell’autore, cioè la veridicità storica dei dati riportati nel suo scritto. Il Contro Apione non è concepito come opera letteraria (dove l’invenzione o la libera rielaborazione non trova ostacoli strutturali) ma come testo veritiero e storico. Lasciando un attimo da parte gli studi filologici che hanno messo a nudo gli escamotages di Flavio Giuseppe, il dato profondo sta nel fatto che per lo storico ebraico la vicenda di Pigmalione, della fuga di sua sorella alla successiva fondazione di Cartagine, erano un dato vero e indiscusso. Per citare infine una frase di Giovanni Garbini: “I diversi brani della Storia di Tiro citati da Flavio Giuseppe, pertanto, si trovano rispetto a quest’opera nello stesso rapporto in cui si trovano le Periochae e l’Epitome di Floro rispetto a Livio o l’opera di Giustino rispetto alle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo.29”

1.5. Giustino e l’Epitome di Pompeo Trogo Marco Giuniano Giustino, storico romano dell’epoca degli Antonini, ci ha lasciato un racconto molto dettagliato sulla storia di Didone nell’Epitome delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo. Interessante è la figura dell’autore originario, contemporaneo di Virgilio ma nato nella Gallia Narbonense, autore sì latino ma provinciale, dove la propaganda augustea non interessava come poteva esserlo invece a Roma o per l’autore dell’Eneide. Lo scritto di Pompeo Trogo è quindi privo di encomi ad Augusto e alla sua politica. Di conseguenza, la versione della 29

cit. G. GARBINI, I Fenici, storia e religione, p.80.

30

storia di Didone, è diversa da quella virgiliana, funzionale alla celebrazione di Roma sulla rivale storica. Trogo ci narra la storia di “una Didone casta che non cade nella trappola amorosa di Enea.”30 Gli abitanti di Tiro, abbondando di ricchezze, decisero di mandare i giovani in Africa a fondare Utica. Nel frattempo a Tiro morì il re Mutto, 31

, che aveva lasciato come eredi il figlio Pigmalione e la figlia Elissa,

fanciulla di grande bellezza. Elissa sposò Acherba, zio materno e sacerdote di Ercole, che occupava, dopo il re, la seconda carica. Acherba era molto ricco ma per paura del re aveva nascosto le sue ricchezze sotto terra. Tuttavia circolavano delle voci su queste ricchezze e Pigmalione, avido e bramoso, non voleva altro che le ricchezze di Acherba e per queste lo uccise. Elissa serbò rancore verso suo fratello ma lo tenne celato per molto tempo poiché progettava la fuga con alcuni compagni o cittadini che avevano in odio il re. Allora si recò da Pigmalione e con l’inganno lo convinse di voler abbandonare la sua casa, piena di dolorosi ricordi, per trasferirsi da lui. Pigmalione, credendo che con sua sorella sarebbe giunto anche l’oro di Acherba, accettò. All’imbrunire Elissa fece caricare sulle navi le sue ricchezze dai servi mandati dal re e quando fu in alto mare li costrinse a gettare in mare i sacchi di sabbia che aveva imbarcato al posto del denaro. Piangendo si mise a chiamare a gran voce Acherba, pregandolo di accettare le ricchezze che le aveva lasciato come offerte funebri poiché erano state la causa della sua morte. Si volse verso i servi del re e, atterriti con presagi funesti, li convinse a seguirla. A loro si 30 31

cit. P. BONO - M. V. TESSITORE, Il mito di Didone, avventure di una regina tra secoli e culture, p.61. Virgilio chiama Belus il padre di Didone, Servio invece Methres mentre G. Flavio Matgenus.

31

unirono i membri del Consiglio che si erano preparati ad andare in esilio e offerti sacrifici a Ercole si prepararono a partire. Dapprima sbarcarono nell’isola di Cipro, dove era usanza mandare le fanciulle, prima delle nozze e in determinati giorni, sulla spiaggia a prostituirsi per procurarsi la dote e fare libagioni a Venere per l’onestà che avrebbero poi mantenuto. Elissa ordinò di rapire almeno ottanta di queste giovani donne e di imbarcarle sulle navi affinché i giovani potessero sposarle e garantire una discendenza alla città. Il sacerdote di Giove, con sua moglie e i suoi figli, si offrì come alleato e compagno di Elissa dopo aver pattuito che il sacerdozio sarebbe toccato a lui e ai suoi discendenti. Pigmalione intanto, venuto a conoscenza della fuga di sua sorella si preparava a inseguirla ma le preghiere della madre e le minacce degli dei lo fecero desistere. Gli fu predetto che se avesse impedito lo sviluppo di una città nata sotto buoni auspici avrebbe subito il castigo divino. Elissa, giunta in un golfo del Nord Africa, conquistò l’amicizia degli abitanti del posto, lieti del commercio con uno straniero. Comprò un terreno grande quanto potesse essere ricoperto da una pelle di bue. Fece tagliare la pelle a strisce sottilissime, occupando, con quest’astuzia, uno spazio maggiore di quello previsto. Per questo quel luogo fu chiamato Birsa. Gli abitanti dei luoghi vicini iniziarono a commerciare con gli stranieri e col tempo si stabilirono in quella zona. Nacque così una città. Gli Uticensi portarono loro dei doni, così come gli Africani, sicché col consenso di tutti fu fondata Cartagine. Nel gettare le prime fondamenta fu trovata una testa di bue, auspicio di una città prospera ma travagliata e per sempre schiava. Perciò la città fu trasferita altrove e invece lì fu trovata una testa di cavallo, presagio di un popolo guerriero e

32

potente. Fu qui che fu edificata Cartagine. Tutti nei dintorni accorsero e subito la città e lo Stato diventarono grandi. Le risorse di Cartagine erano ingenti così Iarba, re dei Massitani, convocò dieci dei più eminenti cittadini cartaginesi e chiese in sposa Elissa sotto minaccia di guerra. Gli ambasciatori avevano timore della regina così usarono l’astuzia, dicendole che il re africano voleva qualcuno che gli insegnasse usi e costumi più civili. Rimproverati dalla regina, nel preferire la vita agiata a quella aspra per la salvezza della patria, rivelarono le minacce di Iarba e la sua proposta di nozze. Addolorata per l’inganno, ella a lungo invocò Acherba, piangendo, e infine rispose che avrebbe accettato la proposta. Prese tre mesi di tempo e fece innalzare un rogo, dove avrebbe placato l’ombra del marito defunto offrendogli sacrifici funebri prima delle nozze. Uccise molte vittime, poi salì sul rogo e disse al popolo che sarebbe andata a nozze come le avevano ordinato e si tolse la vita trafiggendosi con una spada. Dopo la sua morte fu adorata a Cartagine come una dea. La storia di Elissa termina qui, con il suicidio per mezzo di una spada durante un sacrificio funebre. Giustino termina il suo racconto affermando che Cartagine fu fondata settantadue anni prima di Roma e accenna alla pratica dei sacrifici umani, in particolare del sacrificio dei fanciulli, uccisi sugli altari per placare i mali e chiedere la pace agli dei. Condita est urbs haec LXXII annis ante, quam Roma; cuius virtus sicut bello clara fuit, ita domi status variis discordiarum casibus agitatus est. Cum inter cetera mala etiam peste laborarent, cruenta

33

sacrorum religione, et scelere pro rimedio usi sunt. Quippe homines, ut victimas immolabant; et impuberes (quae aetas etiam hostium misericordiam provocat) aris admoveband, pacem deorum sanguine eorum exposcentes, pro quorum vita dii rogari maxime solent. Traduzione Questa città fu fondata settantadue anni prima di Roma. Il suo valore fu famoso in guerra, quanto la sua situazione interna fu agitata da vicende dovute a discordie. Fra gli altri mali, essendo tormentati anche da una pestilenza, i Cartaginesi ricorsero come rimedio a una cruenta e delittuosa superstizione religiosa. Infatti sacrificavano gli uomini come vittime e accostavano agli altari fanciulli impuberi, di un’età che muove a compassione anche i nemici, implorando la pace divina con il sangue di coloro, per la vita dei quali si suole soprattutto pregare gli dei32. Seguendo l’analisi che ne fanno Bono e Tessitore, la donna bella e astuta vince sul fratello giovane e avido. La prima tappa presso l’isola di Cipro conferisce al viaggio, come i sacrifici a Ercole prima della partenza, garanzia del volere degli dei per la buona riuscita del viaggio di Elissa. La storia che ci racconta Trogo non è incentrata sul destino o sugli dei, 32

Epitoma XVIII, 6.

34

Elissa è scaltra e numerose volte usa l’astuzia per risolvere un problema o far fronte ad una situazione altrimenti irrisolvibile, dalla fuga alla fondazione di Cartagine fino alla sua morte. Non solo Didone è furba, anche la sua gente (Punico cum ingegno sono le parole usate dall’autore), una caratteristica famosa per i popoli di mercanti (lo dice anche Erodo quando parla del rapimento di Io a opera dei Fenici33). I commerci e gli scambi con le popolazioni del luogo sono gli argomenti su cui insiste Pompeo Trogo, una storia non amorosa o sentimentale ma “carica di valenza politica e storiografica34”. Le genti del luogo non potevano che essere favorevoli a un’unione con una regina straniera portatrice di una cultura moderna di tipo mercantile. Si noti come la vicenda della pelle di bue, tagliata a strisce per delimitare il perimetro della città, sia assente nella versione di Timeo. La mano del tempo potrebbe non aver permesso che il frammento in questione giungesse fino a noi oppure le fonti non menzionavano alcun evento simile. Comunque sia, al tempo di Virgilio e Pompeo Trogo lo stratagemma di Elissa doveva essere molto famoso. Secondo quanto riportato negli Atti del convegno internazionale del 200735, come hanno ben evidenziato Scheid e Svenbro, molti dei termini utilizzati nella versione

di

Trogo

sono

senz’altro

romani

(come

“misurare”,

“circondare”) e non punici, inoltre lo stesso termine Birsa, termine semitico, sarà risultato di difficile comprensione per i greci che lo hanno poi associato a Βύρσα. Il luogo di fondazione di Cartagine non è 33

ERODOTO, Storie, I, 1. Cit. P. BONO - M. V. TESSITORE, Il mito di Didone, avventure di una regina tra secoli e culture, p.66. 35 I. E. BUTTITTA, Miti mediterranei. Atti del convegno internazionale, ottobre 2007, p. 102-114. 34

35

nemmeno lo stesso in cui s’insediano dapprincipio a causa della testa di bue ritrovata. In Miti Mediterranei è sottolineato il parallelo tra la storia della testa, prima di un bue e poi di un cavallo, con quella di Roma di Livio36, che narra del ritrovamento di una testa di un uomo sul Campidoglio. Questo porterebbe alla conclusione che la storia della pelle di

bue

è

d’invenzione

romana

quasi

a

“simboleggiare

la

complementarietà di questa città nella sua subordinazione a Roma.37” Ci sono molti elementi tipici dei miti di fondazione greca ma altri che invece mettono in risalto la diversità culturale dei colonizzatori fenici rispetto a quelli greci. Pensiamo ad esempio alla compravendita della terra, alle relazioni commerciali con gli indigeni che cedono il territorio solo in cambio di un affitto annuale. Infine l’alleanza tra i due viene sancita da un matrimonio (Elissa e Iarba) proposto dal sovrano africano alla donna fenicia. Sed et Afros detinendi advenas amor cepit. Itaque consentientibus omnibus Carthago conditur, statuto annuo vectigali pro solo urbis. […] Rex

Maxitanorum

Hiarbas

decem

Poenorum

principibus ad se arcessitis, Elissae nuptias sub belli denuntiatione perit.

Traduzione

36 37

LIVIO, Ad Urbe Condita, I 55, 5-6 e V 57,7. I. E. BUTTITTA, Miti mediterranei. Atti del convegno internazionale, ottobre 2007, p. 109.

36

Ma anche gli Africani furono presi dal desiderio di trattenere gli stranieri. E così, per consenso di tutti, fu fondata Cartagine, essendosi stabilito un canone annuo per il suolo della città.38 […] Iarba, fece venire a sé dieci dei principali cittadini cartaginesi e chiese in moglie Elissa sotto minaccia di guerra.39 Elissa finge di accettare le nozze con Iarba e con astuzia prepara la sua morte. La regina preferisce uccidersi piuttosto che cedersi al re africano, rimane fedele al suo defunto marito e dimostra forza e coraggio, affermando l’autonomia della città fondata. La regina Elissa è una figura femminile forte, che abbandona la patria, il ruolo di moglie e madre per fondare una nuova città, ostile verso i nuovi pretendenti. Tutto l’opposto del ruolo che i Greci e i Romani avevano riservato alle loro donne, ma i Punici furono acerrimi nemici dei Romani e i Greci non furono da meno.

CAPITOLO 2 2. EVENTI NARRATI E STORICITA’

2.1. Regalità e religiosità nel mondo fenicio

38 39

Epitome XVIII, 5. Epitome XVIII, 6.

37

All’inizio della trattazione ho parlato brevemente del mito e di come la vicenda della regina Didone si aggrovigli su se stesa rendendo difficile distinguere il filo che rappresenta il mito e quello che invece attiene ad una eventuale realtà storica. La narrazione è piena di eventi macroscopici, dall’uccisione del sacerdote Acherba per mano del re allo sbarco a Cipro con il rapimento delle fanciulle tenute a prostituirsi per motivo religioso e per finire il suicidio della regina fenicia. Nel momento in cui Pigmalione uccide Acherba, lo fa davvero per le sue ricchezze o una ragione più profonda sta alla base di un gesto simile verso la maggiore autorità religiosa della città? Per capirlo bisogna indagare su queste due figure, soprattutto quella del sovrano, e per farlo dovremmo prendere in esame le testimonianze che i re fenici ci hanno lasciato, magari attraverso le iscrizioni. Qualcuno di loro ci ha lasciato dei testi, ma in quantità davvero ridotta se si paragonano a quelli di altri re. Forse il silenzio delle fonti reali fenicie è dovuto a motivi che secondo Garbini avevano tolto piena autonomia al sovrano. La situazione generale di quel periodo vedeva nell’impero achemenide e nel regno egiziano i due pilastri del potere politico, due super-potenze se confrontate alle città fenicie. Il sovrano fenicio non aveva lo stesso potere di un re achemenide e dal punto di vista esterno era circondato da colossi politici. Credere che questi eventi abbiano influenzato da sempre le città fenicie pare però difficile. A questo punto bisogna indagare all’interno, nel cuore della monarchia stessa. Seguendo il ragionamento del Garbini partiamo dalla regalità della città di Sidone che in età achemenide possedeva istituzioni

38

religiose. In un’iscrizione funeraria40 il titolo sacerdote di Astarte precede iL titolo di re dei Sidoni e Amm’ashtart, sacerdotessa di Astarte, era moglie e sorella del re. La famiglia è dunque endogamica con funzioni sacerdotali. Il carattere sacerdotale della regalità fenicia si ripete anche altrove, come nell’iscrizione funeraria della regina di Biblo, Batno’am, dove il re viene ricordato come sacerdote della Signora, cioè la Signora di Biblo, la divinità principale della città. Anche negli Annali di Tiro ci sono re della città con cariche sacerdotali, come Abbar41 sommo sacerdote, Ittobal42 sacerdote di Astarte. Sempre Giuseppe Flavio riporta: οὗτος ἔχωσε τὸ Εὐρύχωρον τόν τε χρυσοῦν κίονα τὸν ἐν τοῖς τοῦ Διὸς ἀνέθηκεν: ἔτι τε ὕλην ξύλων ἀπελθὼν ἔκοψεν ἀπὸ τοῦ ὄρους τοῦ λεγομένου Λιβάνου εἰς τὰς τῶν ἱερῶν στέγας: [146] καθελών τε τὰ ἀρχαῖα ἱερὰ καὶ ναὸν ᾠκοδόμησε τοῦ Ἡρακλέους καὶ τῆς Ἀστάρτης, πρῶτός τε τοῦ Ἡρακλέους ἔγερσιν ἐποιήσατο ἐν τῷ Περιτίῳ μηνί

Traduzione Inoltre egli [= il re di Tiro, Hiram I] venne a tagliare la legna sulla montagna chiamata Libano per i falegnami del tempio. Di ritorno egli demolì gli antichi santuari e costruì un nuovo tempio a Eracle 40

G. GARBINI, I Fenici, storia e religione, p.55. G. FLAVIO, Contro Apione, I, 157. 42 G. FLAVIO, Contro Apione, I, 123. 41

39

[= Melqart] e ad Astarte. Per primo egli effettuò (la cerimonia) l’egersis di Eracle nel mese di Peritios43 L’egersis era una cerimonia molto solenne annuale, durante la quale si celebrava un evento accaduto nell’epoca del mito e ritualizzato dal rito. Si celebrava probabilmente la morte e resurrezione di Melqart. Chi officiava il rito era chiamato “risuscitatore della divinità”, carica attribuita in origine al re in persona e in seguito a personaggi di spicco della società. Inoltre Melqart significa re della città, il che porta alla conclusione che vi fosse un’antica tradizione mitico-rituale a base della regalità, nella quale forse il dio, con questo nome, veniva considerato come sovrano prototipico, il primo re cittadino. Un’ulteriore conferma in questo senso viene portata dal Garbini che cita il profeta Ezechiele nella sua imprecazione contro il re tiro: “Poiché il tuo cure si è innalzato e hai detto – Io sono un dio, abito in una dimora di dei nel cuore del mare – e invece tu sei un uomo e non un dio44.” Ritornando per un momento indietro, cerchiamo di capire chi, tra le eminenti personalità cittadine, avrebbe potuto avere accesso a tale carica. Per salire al trono era necessario appartenere regolarmente alla dinastia regnante di Biblo, Tiro, Sidone, Araldo o un’altra città dove vigeva la monarchia, fatta eccezione per le vie traverse, l’usurpazione. In questo secondo caso era consigliabile evitare di fare riferimento alla propria genealogia ma collegarsi ad antenati indiretti ma di nobile rango poteva essere un eccellente espediente per accreditarsi agli occhi dei membri 43 44

G. FLAVIO, Ant. Jud., VIII, V, 3, 145-146. Ezechiele, XXVIII, 2.

40

della corte e dei sudditi, magari mettendo in evidenza le proprie virtù di re giusto e retto, proprio come fece Yehimilk, re di Biblo. Una volta acquisito il potere il re non doveva adagiarsi sugli allori avendo come vicini stranieri potenti, ipotetici usurpatori, o superpotenze come l’Egitto, l’Assiria o Babilonia, pericoli tutt’altro che fittizi. Se sul fronte esterno la sicurezza non era mai certa, non si può dire di meno della situazione interna. E la vicenda di Elissa/Didone è un esempio eclatante che la tradizione antica ci ha lasciato. Attraverso fonti di vario genere e natura possiamo intravedere lo strato profondo della società con le lotte intestine e le congiure di palazzo dove i diretti interessati sono Pigmalione, il sovrano, e Acherba, rappresentante della casta sacerdotale e possessore di molte ricchezze. La regalità quindi si trasmetteva per linea maschile diretta, almeno in teoria. Poteva accadere che il sovrano morisse prematuramente e la reggenza passasse a un figlio troppo piccolo. In questo caso era la regina a fare le veci del sovrano fino al raggiungimento dell’età adulta del principe. Nel caso in cui anche il principe fosse morto prima di diventare re il trono passava ai rami collaterali della famiglia, come un cugino. C’era anche l’opportunità per il sovrano di scegliere come erede al trono non il suo primogenito, designando egli stesso un erede legittimo. Una volta soddisfatti tali requisiti il sovrano non poteva dirsi “fatto e finito”, doveva essere accettato e benedetto dalla divinità poliade45. Solo il dio avrebbe potuto assicurare al sovrano un regno lungo, di pace e prosperità.

45

P. XELLA, Il re, in J. Á. Zamora, El hombre fenicio: estudios y materiales, Roma 2003, pp. 23-41.

41

Oltre a essere scelto dalla divinità per guidare il popolo, il sovrano doveva possedere anche la virtù della giustizia e della rettitudine, essenziali per la conduzione del regno. Di tutto questo il re doveva essere grato agli dei, per questo si preoccupava di costruire templi, mantenere in buono stato quelli già esistenti e tributargli onori e offerte di vario tipo. Nell’iscrizione di Yehawmilk si legge: “E conceda [a lui la Signora, la Ba]‛alat di Biblo, grazia agli occhi degli dei e grazia agli occhi del popolo di questo paese e [grazia agli occhi] di tutti i re 46.” Il sovrano è diventato re grazie alla dea e per questo la onora e la ringrazia dedicandole offerte e opere nel santuario. Yehawmilk aveva così il favore divino e poteva governare con le sue doti di giustizia e devozione. L’equilibrio tra sfera divina e mortale, cioè tra gli dei e il popolo, era nelle sue mani. La garanzia della divinità gli conferiva il favore delle genti e la protezione dai sovrani confinanti. Una vera e propria etica governativa insomma. Se alcune iscrizioni parlano del potere politico e religioso detenuto dal sovrano, questo non vuol dire che esso fosse immutabile o prerogativa di tutti i sovrani. Che il re dovesse avere il favore divino è indubbio. La casta sacerdotale si legava, col suo ruolo, strettamente al potere regio. Ritornando alla problematica riguardo allo sfondo storico del mito cartaginese, vediamo come il gesto di Pigmalione s’inserisce in un quadro storico plausibile. La divinità poliade di Tiro era Melqart, protettrice della città e garante della pace e della prosperità grazie al sovrano scelto. Dopo la morte di re Mutto il potere passa a suo figlio che assurge al trono, presumibilmente benedetto da Melqart. Pigmalione non 46

KAI 10: 9-10.

42

possiede poteri concernenti la sfera sacerdotale poiché sono detenuti dal primo sacerdote, Acherba, marito di sua sorella e zio materno. Il re si macchia di omicidio uccidendo il sommo sacerdote e, in questo modo, reca una grave offesa al dio. Pigmalione pare sia stato spinto a tale gesto dalla sua sete di ricchezze, ma potrebbe semplicemente aver protetto la sua carica dal potere di Acherba. Dopotutto il sommo sacerdote era il secondo uomo più importante della città, ricchissimo e fratello della moglie di Mutto, la regina. Elissa a questo punto non era più al sicuro, sia nel caso in cui Pigmalione l’avesse voluta solo per le ricchezze, sia nel caso avesse ordito una congiura contro suo fratello per diventare regina. Tutte ipotesi plausibili stando al contesto storico in cui è narrata la vicenda. Preparata la fuga, la principessa fa compiere dei sacrifici a Melqart dai membri del consiglio per ottenere il favore degli dei e la loro protezione. Pigmalione, infatti, decide di non inseguirla, minacciato dagli dei di castigo in caso fosse andato contro il loro volere. Partita Elissa Pigmalione continua la sua esistenza. Ci sono storie che parlano di lui, del suo regno tirannico e della sua tragica fine, ma non è questa la nostra storia.

2.2. Cipro Partita da Tiro, Elissa fa scalo a Cipro e, ottenuta la fedeltà del sacerdote di Giove, rapisce ottanta fanciulle, intente a prostituirsi al tempio, e riparte con queste alla volta dell’Africa. Non è un caso che la principessa avesse deciso di sbarcare a Cipro, piuttosto che altrove. Le testimonianze archeologiche e storiche rivelano che Cipro intratteneva rapporti commerciali con i Fenici già dal II millennio a.C. e che questi

43

s’intensificarono col passare dei secoli. Nel I millennio Cipro ospitava in alcune sue parti insediamenti stabili a carattere coloniale, poiché le sue varie ricchezze in materie prime (soprattutto le miniere di rame) spinsero i Fenici ad assumerne il diretto controllo. Numerose iscrizioni sono state scoperte a Cipro a testimonianza della presenza fenicia sempre più costante e che, in particolare aveva a Kition il suo centro più importante. Nel capitolo precedente ho brevemente accennato ai pericoli provenienti dalle grandi potenze, in particolare dall’impero Assiro, sempre più in espansione. La Fenicia si ritrovò a fronteggiare l’espansione assira già dal IX secolo e la situazione sarebbe peggiorata ulteriormente tra l’VIII e il VII a.C. Davanti a Sennacherib (704-681 a.C.) il re di Tiro e Sidone, Eluleo, fuggirà rifugiandosi a Cipro. L’isola doveva possedere una certa autonomia a causa della sua posizione, diventando una via sicura per scampare all’invasione Assira. In un passo del profeta Isaia viene confermata la posizione di Cipro rispetto a Tiro: “Non ti colmerai più di esultanza, ora che sei oppressa, o vergine figlia di Sidone; alzati e passa a Kittim, ma anche là non avrai riposo47.” Il riferimento all’isola come luogo di rifugio, seppur non definitivo, pone l’accento sulla migliore condizione della colonia rispetto alla madrepatria. Nell’ambito della pressione assira va letta la fuga di Elissa e lo sbarco a Cipro. Con la madrepatria in situazione pericolosa, il viaggio della principessa verso nuove terre è stato anche interpretato come parte di un disegno ben preciso, la fondazione di una nuova Tiro, lontana dall’Impero Assiro, in un punto strategico in maniera da contrastare la colonizzazione greca a Occidente. Per quanto il risultato fu 47

Isaia, XXIII, 12.

44

effettivamente questo non è possibile sapere se un progetto simile esistesse già a quel tempo. Abbiamo lasciato Elissa dopo lo sbarco a Cipro. Come già sappiamo rapì ottanta fanciulle cipriote dedite alla prostituzione sacra, e le portò con sé per favorire il fiorire della popolazione nella nuova città. La pratica della prostituzione sacra di cui ci parla il mito trova dei riscontri storici nelle civiltà antiche, soprattutto vicino-orientali. La Bibbia, ad esempio, ne fa menzione in un passo del Deuteronomio:

Non vi sarà alcuna donna dedita alla prostituzione sacra tra le figlie d’Israele, né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra tra i figli d’Israele. Non porterai nella casa del Signore tuo Dio il dono di una prostituta né il salario di un cane qualunque voto tu abbia fatto, poiché tutti e due sono abominio per il Signore tuo Dio. 48

Erodoto ci offre una descrizione più dettagliata di questa pratica a proposito degli usi babilonesi:

Ogni donna di quel paese deve sedere nel tempio di Afrodite una volta nella sua vita e fare l'amore con uno straniero. Molte, sentendosi superiori per la loro ricchezza, sdegnano di mescolarsi con le altre e si fanno trasportare sopra un carro coperto fino al 48

Deut. 23, 18-19.

45

tempio e lì si fermano, con un gran seguito di servitù. La maggior parte invece si comporta come segue: nel recinto sacro di Afrodite siedono in molte con una corona di corda intorno alla testa, alcune arrivano, altre se ne vanno; con delle funi tese fra le donne si ottengono dei corridoi rivolti in tutte le direzioni: gli stranieri passano attraverso di essi e fanno la loro scelta. Una donna che si sia lì seduta non se ne torna a casa se prima uno straniero qualsiasi non le ha gettato in grembo del denaro e non ha fatto l'amore con lei all'interno del tempio; gettando il denaro deve pronunciare una formula: "Invoco la dea Militta". Con il nome di Militta gli Assiri chiamano Afrodite. L'ammontare pecuniario è quello che è e non sarà rifiutato: non è lecito perché tale denaro diventa sacro. La donna segue il primo che glielo getti e non respinge nessuno. Dopo aver fatto l'amore, e aver soddisfatto così la dea, fa ritorno a casa e da questo momento non le si potrà offrire tanto da poterla possedere. Le donne avvenenti e di alta statura se ne vanno rapidamente, ma quelle brutte rimangono lì molto tempo senza poter adempiere l'usanza; e alcune rimangono ad aspettare persino per tre o quattro anni.49

49

ERODOTO, Storie I, 199.

46

Secondo Erodoto quindi l’unione avviene nello stesso luogo sacro ma Strabone riferisce diversamente, affermando che l’atto avveniva lontano dal santuario50. Ancora Erodoto aggiunge che un simile costume vigeva anche in alcune parti dell’isola di Cipro. Se per la Babilonia la documentazione non fornisce riscontri eclatanti, per Cipro la questione è diversa51. Sappiamo dalla mitologia greca che Cipro è la terra natia di Afrodite, dea dell’amore nata dalla spuma del mare. Molto spesso è chiamata con l’epiteto Cipride proprio per sottolineare il suo legame con l’isola. Alcuni miti narrano che la prostituzione ebbe origine proprio dalle eroine di Cipro e interpretavano il fatto come segno di una punizione divina. Ovidio nelle Metamorfosi parla delle Propetidi, giovinette di Amatunte, colpevoli di aver negato la natura divina di Afrodite e punite dall’ira della dea che le costrinse a prostituirsi. Perso il senso del pudore il sangue nel loro corpo s’indurì trasformandole in pietra52. Nella versione di Giustino (di cui abbiamo già parlato in precedenza) il denaro dato alle ragazze per prostituirsi non serve al tempio ma rimane alle donne come dote dotalem pecuniam quaesituras. Dall’isola di Cipro proviene un’iscrizione fenicia ritenuta importante per la questione, trovata nel 1879 e risalente al 450 a.C. circa. L’iscrizione proviene dal santuario che la divinità Astarte aveva nella città di Kition, la cui fondazione risale al IX a.C. Su una tavola di alabastro vi è un elenco delle spese sostenute dal santuario nell’arco di due mesi, come i salari di varie classi di persone. Sulla comprensione dei termini nella 50

STRABONE, XVI 1,20. S. RIBICHINI, Al servizio di Astarte. Ierodulia e prostituzione sacra nei culti fenici e punici, Il Congreso Internacional del Mundo Punico, Cartagena 2000, p.58. 51

52

OVIDIO, Met., X 220-242.

47

linea A16, B9-10 sono state fatte diverse ipotesi, come il riferimento ad un salario destinato ad un “cane” che richiamerebbe il passo del Deuteronomio e quindi a dei prostituti maschi. Potrebbe quindi essere una prova della prostituzione maschile in un santuario di Astarte. Nella riga nove ricorre il termine “giovani, ragazze nubili” tradotto da alcuni come “vergini, musicanti”. L’interpretazione più diffusa è quella delle prostitute. Le categorie dei salariati ricevono soldi anche durante le prestazioni di gruppo, in occasione, ad esempio, delle feste. Se anche il termine indica davvero le cortigiane e non le musicanti, è pur vero che la loro partecipazione alle feste o ai riti non presumeva una loro prestazione sessuale obbligatoria come evento rituale organizzato. Numerose fonti antiche, soprattutto romane, parlano di questa pratica. Valerio Massimo ad esempio, parlando del tempio di Venere a Sicca Veneria, racconta che in tempi lontani le donne puniche praticavano un tipo di prostituzione sacra pre-matrimoniale. Le donne nubili si recavano al tempio della dea e là raccoglievano la dote per le nozze donando il loro corpo. Valerio Massimo non parla di prostitute di professione ma di donne libere, che si procuravano la dote in nome della dea Venere, proprio partendo dal tempio. Luciano di Samosata, autore del II a.C., ci parla della festa annuale di Adonis nella città di Biblo (de syria dea, cap.6)

Fanno un gran lutto in tutta la contrada. Quando hanno finito di battersi e di piangere, essi celebrano dapprima i funerali di Adonis, come se fosse morto, poi, il giorno seguente, raccontano che egli vive e lo portano all’aria aperta; inoltre si radono la testa come

48

fanno gli Egiziani dopo la morte di Apis. Quanto alle donne che non vogliono radersi i capelli esse si liberano dall’obbligo con una ammenda, che raccolgono in questo modo: devono essere pronte, durante un intero giorno, a trarre profitto della loro propria bellezza, Il luogo dove esse si trovano è accessibile solo agli stranieri e il denaro che ottengono diventa un’offerta per Afrodite.53

Ogni anno quindi si celebrava il rito di Adonis e le donne libere che non si rasavano i capelli si concedevano agli stranieri soltanto per un giorno e nell’ambito di una festa. Prostituendosi ricevevano del denaro che veniva dato alla dea, rendendo per questo la prostituzione sacra, seppure l'unione non si svolgeva nei pressi di un tempio ma nell’ambito di una festività. Il dato importante sta nel fatto che le donne non sono obbligate a prostituirsi a patto che si taglino i capelli. Anche scrittori cristiani di epoca posteriore, lontani dai fenici, hanno parlato di questa pratica. Eusebio di Cesarea di Palestina, parlando di Costantino, riferisce che l’esercito imperiale pose fine alle pratiche che si svolgevano in onore di Afodite sul Monte Libano, ad Afqa54. Qui secondo il vescovo c’erano una scuola di dissolutezza, illegali commerci con donne, adulteri, episodi ignobili tipici di un posto senza legge e senza controllo. O ancora Sozomeno precisa che grazie a Costantino non fu più permesso alle vergini di prostituirsi con uno straniero alla vigilia delle 53

De syria dea, cap.6 EUSEBIO, Vita Const., III 55.

54

49

nozze. Il vescovo di Alessandria Sant’Atanasio afferma con sicurezza che anticamente in fenicia le donne si prostituivano pubblicamente nei templi offrendo “agli dei di quella regione la primizia del salario del loro corpo. Pensavano con tale prostituzione, di placare la loro dea e di rendersela favorevole55.” Sant’Agostino scrive “ a Venere anche i Fenici offrivano in dono la prostituzione delle figlie, prima di consegnarle ai mariti56”. Di prostituzione sacra si è parlato anche a proposito del santuario etrusco-fenicio di Pyrgi, nel Lazio. Alcuni studiosi ritengono che l’iscrizione ritrovata nel santuario, seppur con prove non molto convincenti, parli di pratiche di prostituzione sacra57. Per quanto riguarda la documentazione epigrafica l’attenzione è ricaduta sui nomi che presentano un matronimico al posto del consueto patronimico. Quest’uso ha fatto ipotizzare che si trattasse di figli illegittimi, probabilmente di donne che esercitavano la prostituzione sacra. Interessante appare “la dedica di una Arisutbaal detta serva dell’Astarte di Erice. Uno dei luoghi dove tradizionalmente veniva esercitata la prostituzione sacra58.” Di prostituzione possiamo quindi parlare, ma bisogna fare delle distinzioni. Si è parlato di prostituzione templare in caso di donne dipendenti dal tempio, come le sacerdotesse. Poi c’è la prostituzione sacra in onore di una festa particolare, quindi per via eccezionale come il caso di Biblo e le feste di Adonis. Abbiamo il caso della prostituzione 55

Athan., C. gentes, 26. Aug., Civ. Dei, IV 10. 57 M.G. LANCELLOTTI, La donna, in J. Á. Zamora, El hombre fenicio: estudios y materiales, Roma 2003, p.194. 58 M.G. LANCELLOTTI, La donna, in J. Á. Zamora, El hombre fenicio: estudios y materiales, Roma 2003, p.194. 56

50

sacra pre-matrimoniale dove le fanciulle si offrono come rito alla dea e per procurarsi la dote. Questa la troviamo principalmente in Fenicia, a Cipro e a Sicca Veneria anche se non esclusiva del mondo feniciopunico. Ovviamente la presenza della prostituzione sacra non va alla pratica della prostituzione vera e propria, che era sicuramente presente in moltissimi paesi, sia orientali che occidentali, regolamentata in base alle usanze e alle credenze del posto. Quelle riportate non vogliono essere delle prove inconfutabili della pratica della prostituzione sacra, così com’è descritta nel mito fenicio. Numerosi studi con nuove ipotesi continuano a dare al quadro una visione sempre migliore. Quello che mi preme sottolineare è che la presenza di queste testimonianze possono tranquillamente avvalorare una ipotetica veridicità storica della vicenda delle ottanta ragazze rapite da Didone.

2.3. Cartagine, il problema della regalità e dei sacrifici. Sbarcata nel Nord Africa, la principessa fenicia instaura rapporti con la popolazione locale di tipo commerciale, compra un pezzo di terra e vi costruisce il primo insediamento. Solo in un secondo momento inizierà la costruzione della città di Cartagine, sul suolo dove era stata ritrovata la testa di un cavallo. Durante il suo regno la città prosperò e la regina diventò oggetto del desiderio da parte dei re locali. Re Iarba la chiese in sposa sotto minaccia di guerra. In tutta risposta Didone preferì gettarsi tra le fiamme (Timeo) o trafiggersi con una spada (Pompeo Trogo). Il suo

51

sacrificio esemplare porta Didone a essere adorata come una dea59. Elissa/Didone viene quindi ricordata come la fondatrice della città di Cartagine e sua prima regina, portatrice su terra africana delle usanze fenicie regali e religiose. Molti autori greci e latini, parlando di Cartagine e della sua organizzazione politico-amministrativa, si riferiscono alla sua suprema autorità con termini che potrebbero far pensare all’esistenza di un’istituzione regale. Le tracce di questo ipotetico periodo monarchico della città di Cartagine, almeno dal punto di vista archeologico, ci sfuggono, e la natura e la scarsità delle fonti sull’argomento non aiutano. L’unica testimonianza è proprio il mito di Didone, prima e forse unica regina di Cartagine. Seppure Elissa avesse portato con sé l’istituto monarchico, questo avrebbe avuto le stesse connotazioni di quello fenicio, della madrepatria Tiro. Tuttavia il mito non è abbastanza per conferire fondamento storiografico alla monarchia cartaginese. Se le problematiche dell’ambiente di corte fenicio e la prostituzione a Cipro possono far parte di uno sfondo storico plausibile alla narrazione, questo non è lo stesso per la Didone regina, dove non è più la storia che fa da sfondo al mito ma il mito che fa da sfondo alla storia. Allora bisogna avanzare con cautela evitando ipotesi fantasiose che cadrebbero nel ridicolo. Fino ad ora non sono state trovate prove dell’esistenza effettiva di una monarchia a Cartagine tra il IX e l’VIII secolo a.C. Con un nuovo approccio W. Ameling ha studiato la vicenda dandone una sua interpretazione. Egli ammette l’inutilizzabilità di Didone come personaggio storico, ma ipotizza tre fasi del periodo monarchico della 59

Epitoma XVIII, 6.

52

città. La prima vedrebbe un re con pieni poteri fino alla metà del VI a.C.; nella seconda il re non era altro che un primus inter pares tra i nobili e infine una terza, risalente al V secolo a.C., dove il re, privato dei suoi poteri militari, viene rilegato a officiante di simboli sacrali. Con quest’ultima fase l’istituzione regale decade60. Gli scrittori greci e latini hanno usato termini come basileus e rex per indicare la suprema carica in vigore a Cartagine, e non avevano molte alternative visto l’inesistenza, nella loro lingua, di un termine che corrispondesse alla perfezione alla carica punica. Il termine semitico “sufeti” è di difficile traduzione e molto spesso le fonti hanno parlato della presenza di due re, in carica per un tempo limitato e scelti tramite elezione. Aristotele così elogia la costituzione di Cartagine61:

Pare che anche i Cartaginesi abbiano una buona costituzione e per molti aspetti migliore di quella degli altri […]la magistratura dei Centoquattro è simile all’eforato (sennonché non è peggiore di esso, perché i membri della magistratura spartana sono scelti a caso, quelli della magistratura cartaginese secondo il criterio del valore personale), e tra i re e il consiglio degli anziani c’è perfetta analogia. Anzi, queste istituzioni sono migliori a Cartagine, in quanto qui i re non derivano sempre dalla stessa schiatta, né da una stirpe a caso ma semmai, se ci 60

P. XELLA, Il re, in J. Á. Zamora, El hombre fenicio: estudios y materiales, Roma 2003, pp. 23-41.

61

ARISTOTELE, Politica, 1272b, 24- 1273b, 26.

53

sono stirpi che si sono distinte, vengono scelti da queste senza far prevalere il criterio dell’età. […] Di presentare o non presentare certe decisioni al popolo sono padroni i re insieme con gli anziani, quando tra queste autorità vi sia accordo; in caso contrario è il popolo che decide anche di queste questioni. E quando re e anziani presentano una qualche proposta al popolo, non gli espongono solo i pareri delle autorità per sentire la sua decisione, ma i membri dell’assemblea sono veramente in grado di decidere e possono opporsi a chi ha recato la proposta; il che non

accade

nelle

altre

costituzioni.[…]La

costituzione di Cartagine tende ad allontanarsi dall’aristocrazia

per

avvicinarsi

soprattutto

all’oligarchia.

La regalità a Cartagine, salvo futuri ritrovamenti, non può essere dimostrata e i successori della mitica Didone, stando invece a ciò che è certo, scelsero l’oligarchia piuttosto che il governo nelle mani di un’unica persona.

Le tradizione di Elissa/Didone, piuttosto che da interpretarsi come mito di fondazione di una regalità punica realmente esistita, servono al contrario a sottolinearne il fallimento e, quindi, la sua inattualità storica. Con queste premesse mitiche Cartagine, nella

54

visione dei vincitori, non avrebbe mai potuto ben funzionare fino alla fine e reggere il confronto con il potente e perfettamente strutturato stato romano62.

Se la regalità cartaginese non può essere confermata, secondo alcuni studiosi, il suicidio della regina rimanderebbe ai riti del tophet, un tipo di morte rituale nel fuoco. Altri personaggi nella storia vengono ricordati per questo, come Amilcare, che si gettò tra le fiamme dell’altare dove stava sacrificando delle vittime, durante la battaglia di Imera63o il suicidio della moglie di Asdrubale davanti all’avanzata di Scipione. La morte delle due donne, entrambe nel fuoco, potrebbero essere accostate, la prima come inizio e la seconda come fine di quella che fu la capitale di un impero marittimo, Cartagine. Come ho detto in precedenza, il dio poliade di Tiro era Melqart, il cui nome significare re della città. Dediche a questo dio sono state ritrovate in molte colonie fenicie, tra queste Cartagine. Secondo Strabone a Melqart sacrificavano i naviganti64, dio della navigazione, che aveva guidato sul mare i primi abitanti di Tiro. Per questa sua caratteristica, probabilmente “Melqart non tardò a divenire un dio strettamente connesso con l’espansione fenicia, e, più precisamente, tira65. Elemento importante, alla guida del mio discorso, è la morte del dio, avvenuta nel fuoco di una pira, dove Melqart si sarebbe gettato volontariamente. Per questo il dio è ricordato come signore del fuoco. La sua morte viene descritta anche dal profeta Ezechiele in un passo 62

P. XELLA, Il re, in J. Á. Zamora, El hombre fenicio: estudios y materiales, Roma 2003, pp. 23-41. ERODOTO, Storie VII, 166. 64 STRABONE, III, 5. 65 S. RIBICHINI, Morte e sacrificio divino nelle tradizioni sul pantheon fenicio, in F. Vattioni, Sangue e antropologia biblica nella Patristica. Atti della settimana di studi, Roma 1982, pp. 817-823. 63

55

dell’Antico Testamento66 . Il fuoco aveva un ruolo importante nel mito ma anche nel suo culto presso le città fenicie attraverso il molok, un sacrificio la cui vittima veniva totalmente donata alla divinità tramite il fuoco. L’autoimmolazione nel fuoco portava il dio sul piano dell’immortalità. La resurrezione di Melqart era un elemento centrale delle feste in suo onore, dove il sacerdote officiante era chiamato risuscitatore della divinità. A questo rito fa probabilmente riferimento il libro dei Re riguardo alcuni riti compiuti sul monte Carmelo, dove dei sacerdoti cercavano di risvegliare il loro dio per ottenere il fuoco sulla pira delle offerte67. L’immortalità viene dunque raggiunta per mezzo del fuoco, elemento mediatore tra il mondo mortale e il mondo divino. In quest’ottica va vista, probabilmente, la morte di Didone tra le fiamme e la sua successiva divinizzazione (come riferisce la versione di Giustino). A questo punto il collegamento, anche solo concettuale, di Elissa e il suo suicidio, con la pratica dei sacrifici nel mondo fenicio-punico, viene spontaneo. Il passaggio nel fuoco appare come “un eventuale processo di trasformazione della vittima, che le avrebbe (in ipotesi) potuto consentire di accedere a una sorte particolare nell’aldilà proprio a causa del suo passaggio attraverso il fuoco. Il fatto che né le vittime né i genitori dovessero piangere e la presenza della musica (Plutarco) farebbe pensare a un contesto volutamente festoso e non tristemente funebre68.” Bisogna dire che questi riti avevano lo scopo di scongiurare catastrofi e pericoli, erano richieste volte al mantenimento della pace e della 66

Ezechiele 28, 14-16, 18. Re I, 18, 23-28. 68 P. XELLA, Sacrifici di bambini nel mondo fenicio e punico nelle testimonianze in lingua greca e latina – I, Studi epigrafici e linguistici sul Vicino Oriente Antico 2009, p.91. 67

56

prosperità della comunità. Il mio scopo, in questa sede, non è trattare del problema dei tophet69 e dei riti sacrificali dei fanciulli poiché rischierei di essere troppo sintetica e poco esaustiva visti i numerosi studi al riguardo. Voglio solo sottolineare che l’autoimmolazione della regina Didone rientra perfettamente in quadro storico-culturale della civiltà feniciopunica e ne rievoca pratiche di natura religiosa. Elissa, principessa tira fondatrice di una città che muore gettandosi tra le fiamme, da una parte, Melqart, dio della navigazione connesso all’espansione fenicia, che muore gettandosi tra le fiamme, dall’altra. Il racconto fenicio si avvale di molti topos dei miti di fondazione e Didone, con il suo suicidio tra le fiamme, segue una linea precisa tracciata dalla sua cultura natale.

Conclusione Il mio studio giunge qui al termine. Abbiamo visto la regina Elissa/Didone attraverso gli occhi degli autori antichi, seguito la sua storia attraverso il tempo, percepito la base storica del suo tempo attraverso il mito. La vicenda di Didone rispecchia presenta molti aspetti tipici del mito di fondazione (il viaggio favorito dalla divinità, lo stabilirsi in una zona non culturalmente avanzata dove l’eroe fondatore porta cultura e leggi, la presenza di un animale sul suolo dove edificare come indice di presagio,

69

Per uno studio approfondito sui tophet rimando ai lavori di P. Xella.

57

la presenza di un rito), ma all’interno si scorge la realtà storica che può aver portato il mito alla forma da noi conosciuta. La principessa Elissa fugge da Tiro probabilmente a causa di una lotta di potere a palazzo tra il re, suo fratello, e il sommo sacerdote, suo marito Sicheo/Acherba, terminata nel sangue con la morte dell’autorità religiosa per mano del potere regale. Temendo ritorsioni da parte di suo fratello Elissa fugge verso la meta sicura più vicina, un’isola coloniale fenicia, Cipro. Prima di partire fa compiere dei sacrifici a Melqart (Ercole), il dio poliade della città di cui il suo defunto marito era il sommo sacerdote, per favorire una navigazione propizia. Giunta a Cipro rapisce ottanta fanciulle dedite a prostituirsi al tempio di Astarte per favorire la prole del nuovo insediamento che andrà a fondare. Giunti in Africa Elissa instaura dei rapporti con la popolazione locale a livello commerciale subordinando la costruzione di una città a un tributo annuo. Cartagine prospera diventando preda ambita dei re Africani. Uno di questi, Iarba, chiede la mano di Elissa così da favorire un’unione tra la popolazione locale e gli stranieri. La regina si rifiuta preferendo la morte ad un nuovo matrimonio. Era legata a suo marito Sicheo tramite giuramento di fedeltà e, con coraggio, preferisce perire piuttosto che macchiare il suo nome. Si da la morte buttandosi nel fuoco proprio come fece il dio Melqart per rinascere, secondo il mito. In questo modo Didone conferisce carattere divino alla fondazione di Cartagine, ricordando, con il suo sacrificio, il dio, lo stesso di cui suo marito era sacerdote. La regalità a Cartagine non ha mai trovato conferma nelle fonti archeologiche, ma pare comunque plausibile che una manciata di uomini siano fuggiti da Tiro, in balia di conflitti tra potere monarchico e

58

sacerdotale (per non parlare dell’ingerenza Assira sempre maggiore ai confini), ed abbiano deciso di fondare un piccolo insediamento in Africa. Instaurando rapporti con gli indigeni hanno prosperato e ingrandito il centro costruendo in una zona propizia, infine avranno conferito sacralità al luogo con un sacrificio (il molok o passaggio nel fuoco). In seguito, col passare del tempo, la storia di questi uomini si sarà trasformata, con una figura importante a capo dell’impresa (magari diretta protagonista della politica di Tiro), una divinità favorevole alla fondazione della città e una regalità nata e finita con l’eroe mitico, sancita da un evento forte, legato alla sfera divina, a Melqart, ovvero un sacrificio, compiuto con serenità a protezione dell’onore sia dell’eroe che della popolazione cartaginese. Questa è la mia possibile ricostruzione del mito e delle sue origini. Spero, con questo elaborato, di aver raggiunto lo scopo che mi ero prefissata all’inizio.

Bibliografia M.G. Amadasi Guzzo, Il tofet. Osservazioni di un’epigrafista, sepolti tra i vivi, 2008.

Aristotele, Politica, Universale Rizzoli, Milano 2003. Atti del convegno mondiale scientifico di studi su Virgilio (Mantova, Roma, Napoli, 19-24 settembre 1981) a c. dell’Accademia Nazionale Virgiliana, Mondadori, vol. 2.

59

G. Bartoloni, M.G. Benedettini, Evidenza ed interpretazione di contesti funerari in abitato, p.347-362. A. Beschaouch, Cartagine, la leggenda ritrovata, 1994. C. Bonnet, Melqart. Mythes et cultes de l’Hèraclès tyrien en Mèditerranèe, Namur, 1988.

P. Bono e M. Vittoria Tessitore, Il mito di Didone, avventure di una regina tra secoli e culture, 1998.

G. Flavio, Contro Apione I, 107-108, 116, 125-127, 157.

G. Flavio, Antichità giudaiche VII, V, 3, 145-146.

G. Garbini, I Fenici, storia e religione, 1980.

M.G. Giustino, Storie Filippiche. Epitome da Pompeo Trogo, Amantini e Ruscono libri, Milano 1981. C. Grottanelli, I connotati “fenici” della morte di Elissa, religioni e civiltà, 1972, p. 319-327.

W. Huss, Cartagine, Ed. Il Mulino, 1999.

60

M.G. Lancellotti, La donna, in J. Á. Zamora, El hombre fenicio: estudios y materiales, Roma 2003, p. 191-194.

E. Lipinski, Dictionnaire de la civilisation Phènicienne et Punique, 1992.

F. Mazza, S. Ribichini, P. Xella, Fonti classiche per la civiltà fenicia e punica, Roma, 1988.

M'hamed H. Fanta, Fenici e Cartaginesi, p.60, 1997.

R.C. Monti, The Dido episode and the Aeneid, 1981.

S. Moscati, Gli adoratori di moloch, Jaca Book, 1991

S. Moscati, I Fenici e Cartagine, 1972

S. Moscati, I Fenici. Ieri, oggi, domani, Roma, 1995, p. 95-105. S. Moscati, La fortuna di Elissa, in “Rendiconti delli Accademia Nazionale dei Lincei”, serie VIII, 40, 1985, p. 95-98.

S. Moscati, Le civiltà antiche e primitive. Il mondo punico, 1980.

K.O. Müller, T. Müller, Letronne (Antoine-Jean, M.), Fragmenta historicorum graecorum I, A.F. Didot, 1848, p.197-200.

61

J. A. M. Nuñez, Trogue-Pompèe sur Carthage, in “Karthago”, 22, 1990, p. 11-19.

E. Paratore, Nuove interpretazioni sul mito di Didone, 1955, p. 71-72.

S. Ribichini, Morte e sacrificio divino nelle tradizioni sul pantheon fenicio, in F. Vattioni, Sangue e antropologia biblica nella Patristica. Atti della settimana di studi, Roma 1982, p. 817-823. S. Ribichini, Didone l’errante e la pelle di bue, in I.E. Buttitta, Miti mediterranei, Atti del convegno internazionale, Palermo 2008, p.102114.

S. Ribichini, Al servizio di Astarte. Ierodulia e prostituzione sacra nei culti fenici e punici, Il Congreso Internacional del Mundo Punico, Cartagena 2000, p.55-64.

B. Rives, Tertullian on Child Sacrifice, 1994, p. 54-63.

F. Stavrakopoulou, King Manasseh and Child Sacrifice: Biblical Distortions of Historical Realities, Berlin/New York, 2004. F. Vattioni, Sant’Agostino e la civiltà punica, 1968. R. Vincenzi, Cartagine nell’Eneide, in “Aevum”, 1985, p. 97-106.

62

P. Virgilio Marone, Eneide I, 340-368, IV, 5-9, 32-34, 115-124, 171-172, 197-200, Ed. 2010. P. Xella, “Del buon uso” di A. Brelich: sacrifici umani e uccisioni rituali, in I. Baglioni (ed.), Storia delle religioni e archeologia. Discipline a confronto, Roma, 2010, p. 305-311. P. Xella, “La religione fenicia e punica: studi recenti e prospettive di ricerca”, in M. E. Aubet, J.A. Zamora Lopez (edd.), Nuevas perspectivas I: La investigación fenicia y púnica, Cuadernos de Arqueología Mediterránea, 13, Barcelona, 2006, p. 51-59.

P. Xella, Il re, in J. Á. Zamora, El hombre fenicio: estudios y materiales, Roma 2003, p. 23-41.

P. Xella, Per un modello interpretativo del tophet. Il tophet come necropoli infantile?, Atti del Convegno Internazionale, Roma 2008, p.259-279.

P. Xella, Sacrifici di bambini nel mondo fenicio e punico nelle testimonianze in lingua greca e latina – I, Studi epigrafici e linguistici sul Vicino Oriente Antico 2009, p.59-100.

P. Xella, Un uccisione rituale punica, Consiglio nazionale delle ricerche, Roma 1975.

63

64

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.