Dionisiaco e sacro tra Otto e Novecento fino a De Martino

June 15, 2017 | Autor: Giampiero Moretti | Categoria: Aesthetics, History of Religion
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI «L’ORIENTALE» DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE E SOCIALI

STUDI FILOSOFICI XXXVI 2013

BIBLIOPOLIS

STUDI FILOSOFICI XXXVI 2013 Università degli Studi di Napoli «L’Orientale» DIRETTORE RESPONSABILE: Alberto Postigliola COMITATO DIRETTIVO: Lorenzo Bianchi, Rossella Bonito Oliva, Biagio de Giovanni, Maria Donzelli, Giampiero Moretti COMITATO SCIENTIFICO: Carmela Baffioni, Mauro Bergonzi, Giuseppe Cataldi, Amedeo Di Maio, Roberto Esposito, Stefano Gensini, Girolamo Imbruglia, Francesca Izzo, Giuseppe Landolfi Petrone, Giacomo Marramao, Luigi Mascilli Migliorini, Giulio Raio, Gino Stanzione, Elena Tavani, Massimo Terni, Maurizio Torrini. – Membri stranieri: Bronislaw Baczko (Genève), Charles Burnett (London), Clive Cazeaux (Cardiff), Michel Delon (Paris), Jean Ferrari (Dijon), Daniel Fulda (Halle (Saale)), Pierre Guenancia (Dijon), Ute Guzzoni (Freiburg), Catherine Larrère (Paris), Jean Mondot (Bordeaux), Maria-Cristina Pitassi (Genève), Jean Starobinski (Genève), Jürgen Trabant (Berlin, Bremen) REDATTORE CAPO: Arturo Martone VICE REDATTORI CAPO: Antonio Rainone, Antonella Sannino REDAZIONE: Pasquale Arfé, Nicoletta de Scisciolo, Elisabetta Mastrogiacomo, Tiziana Pangrazi, Mariassunta Picardi, Mara Springer, Alessandro Stavru I contributi proposti per la pubblicazione vanno inviati, con un abstract in inglese e con cinque parole chiave, sempre in inglese, contestualmente al Direttore responsabile ([email protected]) e al Redattore capo ([email protected]), in duplice copia, di cui una rigorosamente anonima e senza riferimenti bibliografici personali al fine di sottoporla alla doppia procedura di blind peer review. La Direzione di Studi Filosofici ha sede presso l’Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Pal. Giusso, Largo San Giovanni Maggiore, 30 – 80134 Napoli L’Amministrazione di Studi Filosofici ha sede presso la casa editrice «Bibliopolis, edizioni di filosofia e scienze», Via Arangio Ruiz, 83 – 80122 Napoli Telef. 081/664606 – fax 081/7616273 Internet sito: www.bibliopolis.it – e-mail: [email protected] La Rivista è altresì disponibile all’indirizzo http://digital.casalini.it/bibliopolis Studi Filosofici ha periodicità annuale Abbonamenti: cartaceo  30,00; cartaceo + on-line per utenze private  40,00 per utenze istituzionali  60,00 Autorizzazione del Tribunale n. 2402 del 25-6-1980

SOMMARIO SAGGI

ROBERTO MELISI, Teoria musicale e tecniche di composizione astrologica in Marsilio Ficino

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ORESTE TRABUCCO, Fortunio Liceti. Un aristotelico nella Repubblica delle Lettere

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FEDERICO BONZI, Le réformisme à l’aube des lumières. L’abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre

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MARA SPRINGER, Proposte per una metaforologia vichiana. Corpi, sensi e passioni fra bestialità e umanità

91

FABRIZIO LOMONACO, Per l’Apologia di Pietro Giannone

119

MICHEL DELON, Option matérialiste et travail des images chez Diderot

133

PAOLO QUINTILI, Diderot, ou le matérialisme désenchanté. Philosophie biologique et épistémologie

147

GIAMPIERO MORETTI, Dionisiaco e sacro tra Otto e Novecento fino a De Martino

167

PIERRE GUENANCIA, Des fourmis et des hommes. Le débat LéviStrauss / Sartre

189

PIETRO RESTANEO, Il concetto di potere nel pensiero di Ju. M. Lotman

209

JEAN FERRARI, Conservation et décadence. Des mots et des choses

235

ARTURO MARTONE, Metamorfosi del Gusto o sua costitutiva plurivocità? Linee guida per un approccio storicoculturale al significato del (senso del) Gusto

247

6

SOMMARIO

MARCO MAZZEO, I sensi del pirata. Perché «empirico» non vuol dire «estetico»

261

FILIPPO SILVESTRI, Logiche del senso. Per un possibile confronto Husserl/Peirce

285

NOTE, INTERVENTI, RECENSIONI

VINCENZO RESTELLI, Meister Eckhart e la sua biblioteca ideale

309

VINCENZO FERRONE, Il Tardo Illuminismo come epoca storica

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INDIRIZZI DEGLI AUTORI

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GIAMPIERO MORETTI DIONISIACO E SACRO TRA OTTO E NOVECENTO FINO A DE MARTINO

A Sergio Givone per i suoi 70 anni

Abstract The essay titled The Dionysian and the Sacred Between the Years 1800 and 1900 to De Martino studies the relationship between the notions of “Dionysian” and “sacred” in the thought of the ethnologist Ernesto De Martino (1908-1965) and, in particular, in some of the studies he carried out in the 1950’s and 1960’s as well as in the historical/religious thought of German philosophers such as Rudolf Otto (1869-1937), Leo Frobenius (1873-1938), and Ludwig Klages (1872-1956) at the confluence of the 19th and 20th centuries. The attempt to clarify the similarities and differences between those two notions within a hermeutical perspective which is inevitably indebted to Nietzsche’s thought (18441900) forms the core of this study.

Keywords Ethnology – History of religions – Nietzsche – Sacred – Dionysius and the mythical thought

Vorrei cercare di circoscrivere il mio intervento il più efficacemente possibile rispetto ad un tema così vasto e complesso. In primo luogo mi sia consentito evidenziare che il fino a, nel titolo, segnala subito che non abbiamo dinanzi un percorso lineare, di facile individuazione; saremo piuttosto chiamati ad un’interpretazione per la quale forse i contorni del percorso stesso riusciranno a delinearsi, tra le asperità di un terreno molto frastagliato e pieno di insidie proprio per l’interprete. Tanto per fare un esempio, ed entrare così già in argomento, non prenderemo le mosse da un’analisi storico-critica, e neppure da una definizione, di quel che si vuole qui intendere con dionisiaco e sacro. Partendo in tal mo-

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do rischieremmo infatti, nel primo caso, una forte genericità, mentre, nel secondo, una notevole apoditticità. Certo, nel corso dell’esposizione i termini dionisiaco e sacro verranno contestualizzati e dotati di un’esplicita valenza ermeneutica, ma, almeno inizialmente, e proprio rispetto al tema ed a quel fino a (De Martino), mi sembra molto più opportuno chiamare in causa la circolarità ermeneutica e la sua nota esigenza che vuole che spesso punto di partenza e di arrivo della riflessione si cambino di posto. Nel 1959 De Martino pubblica sulla rivista Nuovi Argomenti un intervento importante, dal titolo Mito, scienze religiose e civiltà moderna, e, negli stessi anni, un altro saggio intitolato Promesse e minacce dell’etnologia, entrambi presenti nel volume Furore, simbolo, valore del 1962; è da quei due saggi che si decide qui di partire1, poiché essi, così ci pare, consentono di individuare, con una certa precisione, per quanto il termine possa valere in ambiti come quelli qui affrontati, cosa De Martino intendesse con sacro (e dunque anche cosa cercare lungo il cammino a ritroso fino a inizio Ottocento), e come tale cammino-ricerca intersechi il dionisiaco, in maniera da far sì che da tale incrocio risultino anche lumi maggiori sulla posizione complessiva dello stesso De Martino. I due saggi si richiamano tra loro non solo tematicamente, ma anche per l’impostazione del problema, che è sostanzialmente il medesimo: nel caso del primo dei due, vale a dire Mito, scienze religiose e civiltà moderna, si afferma fin dall’inizio che: negli ultimi quarant’anni […] si è venuto affermando in Occidente un vario movimento di pensiero che tende a rivendicare l’autonomia della religione e del mito nel quadro di una tematica esistenzialistica alimentata da un continuo riferimento alla concreta varietà dei fenomeni religiosi della storia umana [, movimento rappresentato da] etnologi come Frobenius, Jensen, Malinowski, Leenhardt, storici e fenomenologi della religione come R. Otto, Hauer, van der Leeuw, Eliade, W. Otto, Kerényi, sociologi come

1 E. DE MARTINO, Furore, simbolo, valore, Milano, Il Saggiatore 2013. Ne esiste anche un’edizione Feltrinelli, Milano 2002, con un’interessante Introduzione di Marcello Massenzio. Mi informa il Collega Pietro Angelini, i cui importanti studi su De Martino sono ben noti, che il saggio Promesse e minacce dell’etnologia, effettivamente scritto nel 1961, consiste tuttavia nella versione variamente modificata di un precedente saggio intitolato Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, in «Società», 3-1953, pp. 313-342.

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Lévy-Bruhl, Lévi-Strauss e Caillois, filosofi come Cassirer, Bergson, Bachelard, Gusdorf, psicologi come Jung e Neumann [, i quali tutti] hanno inaugurato una valutazione della vita religiosa e del mito che, in netto contrasto con l’età precedente, è orientata verso il riconoscimento di profonde motivazioni esistenziali del sacro, del mitico, del simbolico2.

Il secondo saggio, Promesse e minacce dell’etnologia, inizia a sua volta affermando che: il risveglio di interesse per la materia etnologica nella cultura contemporanea non è, in generale, accompagnato da una corrispondente consapevolezza del giusto significato da attribuire a questo risveglio nel quadro del cosiddetto nuovo umanesimo3.

Se ora poniamo una accanto all’altra le due citazioni, veniamo immediatamente condotti al cuore del problema di entrambi i saggi: è il sacro una dimensione metastorica, con la quale l’esistenza umana in quanto tale, quindi sempre e comunque, è chiamata ad entrare in rapporto, come in seguito ad una sorta di silenzioso quanto imperioso appello, oppure esso è da considerarsi un fenomeno variegato e multiforme ma in relazione eminente con l’esistenza storica dell’uomo, nel senso che, benché lo studioso chiami sacro tale fenomeno, questa definizione rinvia di fatto a molteplici forme del sacro, irriducibili ad unità, così che qualsiasi tentativo di oltrepassare la linea della storia costituisce un movimento scientificamente indebito e ingiustificato? Esistenziale, e composti, è termine che compare spessissimo nel saggio Mito, scienze religiose e civiltà moderna; il lettore ne resta francamente colpito e non è semplice ricondurlo ad un orizzonte di significato unitario. Esso vuol dire (per De Martino) individuale, singolare, personale, ma vuol dire anche (così crediamo) profondo, intimo, irriducibile. A ben vedere, l’esistenziale così inteso è però anche lo spazio irripetibile e autentico nel quale il sacro, ovvero una forma di esso, compare; esistenziale è ciò che è indirizzato, diretto, verso il sacro, o una sua forma storica, ma è anche ciò che dal sacro, o da una forma storica di esso deve, per De Martino, in qualche modo proteggersi, per non esserne, se ci si passa il

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E. DE MARTINO, Op. cit., pp. 14-15. Ivi, p. 75.

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termine, inghiottito4: storia, in questo contesto, sembra allora essere la risposta attiva, scelta, dell’individuo emancipato e culturalmente consapevole, affinché le crisi, che gli individui e l’umanità sperimentano continuamente nella loro esistenza, non cerchino risposte, e magari persino le trovino, nell’abbraccio con l’irrazionale. Anche per questo le posizioni di Frobenius, in etnologia, e di Rudolf Otto, in ambito fenomenologico-religioso, appaiono a De Martino necessarie di approfondimento e discussione. Kulturgeschichte Afrikas di Leo Frobenius viene pubblicato nel 1933, come il Dioniso di Walter F. Otto, sul quale torneremo più avanti. Nello scritto Promesse e minacce dell’etnologia, De Martino cita un lungo passo da questa ricerca di Frobenius del 1933, presentandolo come: «documento esemplare della minaccia irrazionalistica dell’etnologia contemporanea». La preoccupazione di De Martino nasce dal termine Ergriffenheit, da Frobenius utilizzato per descrivere il modo in cui l’esistenza umana viene per così dire afferrata dalla realtà ad esso esterna (e implicitamente caratterizzata come sacra), e quasi plasmata, incanalata verso una forma di civiltà/cultura. Se è l’essenza della pianta a ergreifen l’esistenza umana, nascerà una civiltà vegetale (la quale si caratterizzerà concretamente attraverso l’agricoltura), se è l’essenza dell’animale ad afferrarla, prenderà forma una civiltà animale (caratterizzata infine dall’allevamento), e così via, nel caso in cui ad esempio sia il cosmo ad afferrare l’esistenza; l’interesse preoccupato di De Martino è però come detto indirizzato al concetto stesso di Ergriffenheit, afferramento, come dovremmo tradurre in italiano: 4 Problematica molto simile ci parve, a suo tempo, essere presente negli scritti di Karl Kerényi, specialmente nel momento in cui li si metta a confronto con quelli del suo sempre riconosciuto maestro Walter F. Otto e ci si concentri sull’espressione volutamente duplice con cui proprio Kerényi parla del mito come mito dell’uomo (genitivo oggettivo e soggettivo, cioè). Eppure De Martino inserisce in una medesima linea ermeneutica sia W.F. Otto sia Kerényi. Cfr. K. KERÉNYI, Scritti italiani (1955-1971), a cura di G. Moretti, Napoli, Guida 1993, pp. 5-15; W.F. OTTO, Il mito, ed. it. a cura di G. Moretti, Genova, il melangolo 2007², pp. 5-19, con ulteriori indicazioni bibliografiche. A. MAGRIS, nel suo un po’ troppo autoreferenziale L’esperienza del divino in Carlo Kerényi, in Neuhumanismus und Anthropologie des griechischen Mythos. Karl Kerényi im europäischen Kontext des 20. Jahrhunderts, a cura di R. Schlesier e R. Sanchiño Martinez, Rezzonico, Locarno 2006, p. 17, nota, riconduce giustamente il termine esistenziale, così caro anche a Kerényi, all’influenza (anche) di Karl Reinhardt. La vicinanza tra Kerényi e De Martino è a nostro avviso fra l’altro individuabile proprio nella preoccupazione di entrambi di tenere lontano la riflessione e la ricerca sul mito e sulla mitologia da qualsiasi apertura all’irrazionale.

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che cosa può essere, infatti, questa gratuita Ergriffenheit che sarebbe all’origine della creazione culturale, questo lasciarsi prendere, o addirittura ghermire, da un aspetto particolare della realtà? A quanto pare nulla di accessibile alla ragione storica, ma un prodigio e nulla più. L’essere-afferrati-da è semplicemente il rischio che sottende ogni vita culturale5.

De Martino coglie molto lucidamente la posta in gioco. Innanzitutto, non si accontenta della consueta traduzione italiana di Ergriffenheit con commozione, ristabilendo, nella sua citazione da Frobenius, il vero significato del termine, che consiste precisamente nell’individuare, per la realtà esterna e indipendente dall’esistenza umana, una origine del tutto autonoma e potente, la polarità attiva dell’azione dell’afferrare; nella sfera esistenziale, individuale-collettiva, viene còlta invece la dimensione passiva del rapporto di afferramento. E tuttavia: può una cultura-civiltà originarsi attraverso un afferramento, una spinta passiva proveniente dall’esterno? Nella prospettiva neoumanistica di De Martino, chiaramente, no. Non solo non vi sarebbe spazio per l’elemento della scelta, della decisione, del taglio, della cesura fra natura da un lato e cultura dall’altro, ma anzi, in tal modo, verrebbe sancita al più alto dei livelli, quello del sacro appunto, la prosecuzione della natura nella cultura, rendendo quest’ultima altresì necessaria. Pericolosa è inoltre per De Martino tale caratterizzazione dell’origine della cultura-civiltà anche perché, proprio nell’esperienza del sacro, verrebbe mantenuta sempre aperta verso di essa una strada non soltanto immaginata e poetata dall’invenzione mitica, ad esempio conservata in una leggenda popolare dai contorni indefiniti, una sorta di proiezione individuale-culturale insomma: se avesse ragione Frobenius, l’origine naturale della cultura e della civiltà verrebbe invece a presentarsi come un qualcosa di sempre nuovamente attingibile al di là, – in questo caso un prima – del mondo storico dell’uomo. Del resto, poche pagine prima di quella citata da De Martino, Frobenius, come anche altrove, si esprime in maniera molto chiara in proposito. L’uomo – egli scrive –:

5 E. DE MARTINO, Op. cit., pp. 89-90. Sia l’edizione di L. FROBENIUS, Storia delle civiltà africane, Torino, Bollati Boringhieri 1991² (la prima tr. it. è del 1950) sia quella, recentissima, L. FROBENIUS, intitolata più correttamente Storia della civiltà africana, Milano, Adelphi 2013, presentano purtroppo la versione, a nostro avviso fuorviante, di commozione.

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può comprendere il mondo dei fatti. Ma l’uomo è anche determinato dalla realtà. Lo sono anche tutti gli altri fenomeni; ma, più di ogni altro organismo, l’uomo è atto a recepire la realtà. Si può presumere che anche gli altri esseri abbiano questo dono in forma rudimentale. Ma esso giunse a compimento solo nell’uomo, in determinate fasi dell’umanità. Recepire la realtà significa facoltà di essere commossi dall’essenza dei fenomeni – non dai fatti, ma dalla realtà che li determina – o, in altre parole, non dai fatti stessi, ma dall’essenza dei fatti6.

Se sostituiamo l’espressione essere commossi con quella giusta, e cioè essere afferrati, il quadro è sufficientemente chiaro. Nella prospettiva di Frobenius, i fenomeni sono prodotti da una realtà che precede e si sottrae ai fatti, ai quali la scienza invece è spontaneamente diretta e che essa effettivamente raggiunge e comprende, ma da cui non viene afferrata, come invece l’uomo è predisposto ad essere. Frobenius chiamava Paideuma quella predisposizione, a metà tra il fisico e lo psichico. Ora, al di là della differenza davvero frontale rispetto a De Martino, per il quale l’essere afferrati non solo non può avere valenza o valore di cultura ma anzi ai suoi occhi è la trama di veri e propri: rischi esistenziali che le singole civiltà sono chiamate, ciascuna a suo modo, a ridurre e a risolvere, [in quanto] la condizione fondamentale della cultura non sta nell’essere afferrati o posseduti dall’essenza delle cose, ma nell’afferrarla e possederla in termini operativi e di pensiero, nell’istituire quel tanto di distanza da rendere possibile un agire7,

al di là, come detto, di questa decisiva differenza, per Frobenius l’essere umano è veramente degno di tale nome soltanto nell’attimo del contatto immediato con quella sacra e segretamente attiva realtà, che determina i fatti e la storia anche umana, fatti cui la scienza è sì diretta, ma 6 L. FROBENIUS, tr. it. cit., 2013, p. 33. Abbiamo optato per questa recente traduzione poiché essa migliora in un paio di passaggi importanti quella precedente, ma, come si vede, non si spinge fino a restituire il senso dell’Ergriffenheit. In proposito, è utile leggere il motto che R. Otto appone (in memoria di Theodor Haering) al suo Il sacro. Si tratta di un passaggio del Faust (II parte) di Goethe, nel quale, con riferimento all’umanità, è scritto che la parte migliore di quest’ultima, das Schaudern, Ergriffen fühlt [er = der beste Teil] tief das Ungeheuere. Ergriffen non significa qui semplicemente commosso, bensì appunto afferrato in una partecipazione coinvolta che inizia (d)all’esterno, e non certo dall’interiorità commossa del singolo. 7 E. DE MARTINO, Op. cit., p. 90.

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nei quali resta però imprigionata come se essi e soltanto essi fossero l’ultima istanza della vita. Quell’attimo è fondazione poetica della cultura, potremmo aggiungere noi, interpretando Frobenius, in mancanza della quale la civiltà stessa risulta inautentica; per De Martino, invece, il contatto immediato tra essenza dell’uomo e della realtà, va affrontato dialetticamente e forgiato culturalmente, sotto forma di civiltà, che quel contatto rammemora ma da cui vuole tenersi prudentemente distante nelle cerimonie. Per evitare di ricadere nell’indistinto originario, che come si vede De Martino non tanto nega quanto piuttosto vuole, se non proprio esorcizzare, quanto meno confinare nel sacro: la vita culturale istituisce la protezione di dispositivi di ripresa e di reintegrazione, fra i quali stanno il simbolismo mitico-rituale, il sacro, le forme magico-religiose8.

Il sacro è dunque per De Martino un dispositivo di riduzione del rischio di precipitare nuovamente il livello di civiltà, dall’uomo così faticosamente ed a gran prezzo raggiunto, nell’indistinto pre-culturale. Il sacro mantiene in qualche modo viva la memoria dell’origine e tuttavia ne celebra il superamento nella cultura. Per Frobenius, invece, davvero sacra è la memoria dell’origine come qualcosa che si perpetua silenziosamente ma ininterrottamente all’interno della cultura, che la plasma senza posa ma segretamente, e consente in ogni istante, nel rito e nel culto, quel reintegro nell’origine stessa che per De Martino deve piuttosto essere rammemorato come perduto affinché la civiltà prosperi e mantenga vivo il proprio telos. È in quest’orizzonte interpretativo che si comprende forse meglio sia l’interesse di De Martino per la psicoanalisi, e per il suo processo di risanamento delle ferite individuali grazie alla reintegrazione della personalità e della coscienza, spesso soggette al rischio di ricadere nuovamente preda di fantasmi originari (il cui esorcismo vale la ricostruzione del sé, appunto), sia l’opposizione strenua dello stesso De Martino ad ogni forma di relativismo culturale: Europa ed Occidente sono per lui civiltà che più di altre hanno operato l’esorcizzazione dell’indistinto pre-culturale sviluppando un proprio telos, – anche questa, parola usata spesso da De Martino. Caratteristica non secondaria del telos consiste proprio nella rilevazione e nel superamento delle crisi, che pe-

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Ivi, p. 91.

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riodicamente si presentano nella storia della cultura umana, all’interno di, e nel ricorso a, quei dispositivi, il cui studio ha anche dato vita all’apertura verso l’altro, alla ricerca del sé nell’altro, insomma: alla nascita stessa dell’etnologia. Il possibile superamento di una crisi, cui ogni civiltà è esposta, è legato per De Martino alla capacità che quella cultura in crisi ha di riappropriarsi e di proseguire il telos interno a se stessa, telos tuttavia compiutamente storico, fatto cioè di scelte e di risoluzioni, non telos naturalistico, come invece quello di Frobenius. Se dunque è pernicioso, agli occhi di De Martino, considerare l’Europa e l’Occidente alla stregua e sul piano di qualsiasi altra cultura, quasi tutte le culture fossero uguali e indifferenti quanto ad ethos e telos, un indifferentismo che De Martino vedeva spesso emergere – difficile dargli torto – nelle posizioni coeve dell’antropologia, specialmente di derivazione americana, e che egli respinge9, del pari gli è inaccettabile quell’evocazione dell’indistinto (indistinto e indifferente sono qui quasi sinonimi) che Frobenius ammette invece come trama ineliminabile di ogni cultura. A tal punto che, essendo per Frobenius l’indistinto il presupposto metafisico stesso dell’innata disposizione umana a mettersi in contatto con l’origine, indistinto che però Frobenius, nella tradizione in cui è immerso e di cui egli costituisce un apice, chiama ‘natura’, Frobenius risulta chiaramente essere ben più attratto dal fenomeno dell’eruzione di significato che non dal suo riversarsi nelle diverse forme storiche delle varie culture e civiltà. Ed infatti non la storia, come per De Martino, bensì il tempo come origine della storia, è quel che interessa a Frobenius. Il tempo, raccontato dal mito, che allude tanto all’origine fuori da ogni tempo, quanto alla storia umana nel tempo. Ci troviamo ora pronti a prendere in considerazione il ruolo che De Martino assegna a Rudolf Otto, poiché il numinoso – almeno così ci sembra – assume precisamente l’aspetto di quel tempo delle origini che penetra nella storia per poi (apparentemente) lasciarla a se stessa, dando vita ad un processo rammemorativo che è affidato alla fede

9 «Non ha invece nessun senso la pretesa di collocare la cultura occidentale fra tutte le altre, e fingere di poter contemplare da apolide tutte le culture, in una sorta di oggettivismo culturale e metastorico», ivi, p. 103. «Malgrado gli elementi negativi, vistosi e spesso atroci, con cui la crisi si manifesta e minaccia, le alternative vitali che impegnano oggi il mondo si chiamano ancora Europa. Che si debba mantener fede alla ragione, come telos dell’umanità rappresentato in modo eminente dall’Occidente, o che si debba invece abdicare davanti all’irrazionale e tornare a fare di esso il tema fondamentale della vita: questa alternativa si chiama Europa», ivi, p. 105.

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cristiana e che non può dimenticare la propria provenienza altra, persino alternativa, rispetto alla storia. Al contempo va però sottolineato che De Martino ascrive al Cristianesimo10 un ruolo certo non secondario nel processo che conduce l’Occidente ad acquisire ed elaborare il proprio telos, una nozione poi non molto diversa da compito: Effettivamente il cristianesimo, a differenza delle altre religioni dell’ecumene, fa apparire la coscienza del tempo e della storia nel cuore stesso del suo simbolo mitico-rituale, e attraverso i temi della storia santa, del sacrificio dell’Uomo-Dio come evento storico al centro del divenire, e di un processo escatologico che si attua nel tempo, non soltanto dischiude di fatto la storia umana, ma alza il velo sulla storicità della condizione umana e fonda de jure, nella prospettiva della fede, il senso dell’opera, la coscienza della tensione fra situazione e valore11.

Il Cristianesimo costruirebbe dunque il proprio dispositivo del sacro a partire da una nozione di tempo che, vissuta esistenzialmente come una frattura del circolo temporale dell’eterno ritorno che annulla il valore dell’agire, e interiorizzata invece come una freccia indirizzata senza possibilità di ripensamenti alla volta della Fine dei Tempi, non pretende mai che l’esistenza umana si rivolga direttamente, se non nello spazio segreto ma privo di tempo e significato storico della propria coscienza, all’indietro, verso quell’indistinto e indifferenziato che attenta alla storia e al suo percorso significativo di aperture e ricomposizioni di crisi; piuttosto, rivolge un appello all’istituto storico del sacro. Sempre e comunque? Non proprio, ed infatti i dubbi di De Martino a proposito di Rudolf Otto e della sua nozione di sacro sembrano nascere proprio nel contesto di tale interrogativo. Se ora torniamo al saggio del 1959 su Mito, scienze religiose e civiltà moderna, troviamo che De Martino parla di Otto partendo dalla data della pubblicazione de Il sacro, il 1917, anno in cui: ebbe inizio una rivoluzione destinata a imprimere nella vita culturale di una parte notevole del grande spazio eurasiatico un netto atteggiamento di rifiuto rispetto alle forme tradizionali di vita religiosa, 10 Operando conseguentemente una saldatura a nostro avviso davvero molto solida tra la nozione di Europa e quella di Cristianesimo, in una prospettiva neoumanistica, naturalmente. 11 Ivi, p. 60.

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[anno in cui] un teologo e storico delle religioni dell’Università di Marburgo pubblicò un piccolo libro cui doveva toccare una straordinaria fortuna12.

Che vada mantenuto fermo, o meno, il collegamento tra la Rivoluzione Russa e la pubblicazione de Il sacro, certo è che per De Martino questo libro: apre in un certo senso in Germania quell’epoca culturale che è caratterizzata dalla crisi dello storicismo, dal passaggio dal protestantesimo liberale alla teologia della crisi e all’affiorare di una tematica esistenzialistica13.

In cosa consiste tale tematica esistenzialistica, che De Martino accosta esplicitamente ad una stagione culturale per la quale il «tema di uno specifico carattere dell’esperienza religiosa»14 significa del pari un’apertura verso l’irrazionale? Per rispondere adeguatamente occorre rifarsi all’affermazione esplicita di Rudolf Otto secondo cui i cosiddetti ‘predicati razionali’ della divinità: «tanto poco esauriscono l’idea della divinità stessa, che anzi essi sono e valgono soltanto in rapporto a un irrazionale». Poco più sopra, anziché di idea della divinità o del divino, Otto aveva parlato esplicitamente di essenza della divinità, che appunto da quei predicati razionali non viene esaurita. Nel capitoletto successivo, poi, specificando ulteriormente, Otto aggiunge che l’oggetto del suo discorso, il sacro, non solo ‘vive in tutte le religioni’ ma che egli tenterà di parlarne, di determinarlo, facendolo sentire, evidenziandone cioè il carattere di relazione col sentimento (Gefühl), che viene perciò fin dall’inizio presentato come il veicolo legittimato, in modo probabilmente esclusivo, a dialogare con il sacro nella sua scaturigine extra-storica15. Secondo De Martino:

12

Ivi, pp. 17-18. Ivi, p. 18. 14 Ibid. 15 Cfr. di R. OTTO, Il sacro, tr. it. di C. Broseghini, R. Nanini, A. Natale Terrin, Brescia, Morcelliana 2011. Citiamo però qui da R. OTTO, Opere, a cura di S. Bancalari, Pisa-Roma, F. Serra Editore 2010, pp. 203 e 205. Nell’altra traduzione italiana, di Morcelliana, troviamo nel capitolo decimo (Che cosa significa irrazionale?) la seguente ulteriore e importante specificazione da parte di Otto: «Assumiamo come ‘razionale’ nell’idea del divino ciò che di essa rientra nell’area chiara e comprensibile della nostra capacità intellettiva, nell’ambito dei concetti familiari e definibili. E riteniamo che attorno a 13

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questo radicalmente altro e ambivalente costituisce per l’appunto il momento irrazionale della complessa categoria del sacro, [momento che, secondo Rudolf Otto,] si può rivivere e descrivere e suggerire in qualche modo, ma non propriamente rigenerare nel pensiero16.

Giungiamo così al punto centrale del nostro discorso. Quell’irriducibilità del sacro ai contenuti razionali delle religioni storiche, che Rudolf Otto vede come garanzia dell’autonomia, e in qualche modo della libertà, del sacro stesso dall’uso spesso pernicioso che l’uomo può farne17, per De Martino rappresenta invece il segnale che la storia dell’uomo è esposta ad un rischio di bidirezionalità che la civiltà e la cultura umane non sono a suo avviso in grado di sopportare. Nella vita dell’individuo singolo quel sottratto ed irriducibile assume i contorni del rimosso, di cui la psicoanalisi si occupa nel tentativo di ricomporre la psiche individuale. Nella cultura e nella civiltà umane, la porta aperta verso l’irrazionale appare invece a De Martino troppo rischiosa. Oltre quella porta non c’è infatti il sacro, o meglio, non c’è soltanto il sacro, ma c’è anche un altro: il dionisiaco. Non è infatti tanto, o soltanto, l’ipotesi dell’irrazionale come essenza profonda del divino quel che, almeno così ci sembra di poter dire, preoccupa De Martino, quanto soprattutto il fatto che quell’essenza irrazionale assuma i contorni del naturale-dionisiaco e che il sacro possa diventare, consapevolmente o inconsapevolmente, la strada per ricongiungervisi. E se, come si diceva più sopra, la psicoanalisi sembra rappresentare la possibilità di risanare la frattura del sé con le proprie ineffabili profondità, la cultura e la civiltà hanno elaborato nelle religioni, e nel sacro concepito però unidirezionalmente, vale a dire dal divino alla storia (e lungo quest’ultima verso una attesa, nei fatti mai però raggiunta, fine dei tempi), un processo di risanamento e riassorbimento delle cosiddette crisi esistenziali della cultura; un processo che non può permettersi di lasciare aperta, e tanto meno percorribile, la strada verso le profondità segrete, extrastoriche, di un divino concepito in forma dionisiaca. Per usare l’espressione di De Martino, quella strada non è rigenerabile nel pensiero, ovvero: il dionisiaco non è storicizzabile, dunque, miti e simboli

questa zona di chiarezza concettuale si trovi una sfera misteriosa e oscura, che non si sottrae al nostro sentimento, ma al nostro pensiero astratto, e che per questo chiamiamo ‘l’irrazionale’», Op. cit., pp. 97-98. 16 E. DE MARTINO, Op. cit., p. 19 (corsivo nostro). 17 Kerényi avrebbe a tal proposito parlato, com’è noto, di tecnicizzazione del mito.

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hanno il compito, la missione culturale, di attrarre il sacro nella storia e di ancorarvelo, trasformando il suo telos in valori di civiltà. Una posizione, quest’ultima, che non è però priva di conseguenze, e proprio nell’ambito etnologico e antropologico così caro allo stesso De Martino, il quale, a onor del vero, in quei saggi non parla espressamente di dionisiaco: se infatti per Rudolf Otto è il sentimento il veicolo esistenzialmente accreditato a condurre l’uomo nei pressi dell’irrazionale come essenza del divino, e se, come meglio vedremo tra poco, effettivamente in Germania, tra Otto e Novecento, la figura di Dioniso è stata variamente studiata ed analizzata come una configurazione sentimentale-irrazionale di un divino altro rispetto all’Occidente, ecco che proprio al sentimento diventa imputabile l’impossibilità di rigenerare l’irrazionale nel pensiero; quel medesimo, fondamentale sentire, cui però l’etnologo e l’antropologo ricorrono volentieri nel momento in cui avvicinano la spontaneità dell’atteggiamento dei popoli naturali nei confronti del divino. Occorre però adesso cercare di raggiungere fondatamente un livello interpretativo ulteriore, livello che iniziamo ad intravedere appena osserviamo che non fu certo casuale il fatto che il primo importante ripensamento attorno alla figura di Dioniso, in Germania, porti la firma del simbolico Friedrich Creuzer. Siamo nel 1809, e la pubblicazione cui ci riferiamo si intitola sì Dionysus, ma ha un sottotitolo molto indicativo: sive Commentationes Academicae de rerum bacchicarum orphicarumque originibus et caussis18. La figura di Dioniso, che Creuzer rilegge in maniera molto filologicamente paludata, viene in realtà saldamente inserita in un impianto metafisico di filosofia della storia che, partendo da Creuzer e passando (almeno) per Görres, arriva fino a Bachofen, prima di incontrare con Nietzsche un’inversione radicale. La cifra, neppure troppo segreta di tale impianto, è la seguente: agli albori dell’umanità il divino si è palesato in una Uroffenbarung, che si è trasmessa nella storia segretamente quanto efficacemente, conferendo peraltro alla storia stessa un doppio volto: da un lato essa è allontanamento dall’origine simbolicamente sacra e rivelativa, dall’altro, con la Rivelazione cristiana, quella medesima origine va incontro ad un mutamento che, se fa incamminare la storia stessa verso la Fine dei Tempi, e quindi anche verso un inveramento superiore (di quel che all’origine era inizialmente rivelato in maniera ancora soltanto esoterica), esercita tuttavia sull’uomo un fascino tanto costante e potente da co-

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Mohr, Heidelberg 1809.

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stringerlo a guardare contemporaneamente in avanti e però anche all’indietro, affinché di quell’origine venga non solo serbata la memoria ma essa stessa possa essere sempre, concretamente, riattualizzata (nel Simbolo cristiano). Creuzer, in parte insieme a Josef Görres, ricostruisce questo grandioso cammino19, e indica nel destinale passaggio dal simbolo esoterico originario al mito greco-ellenico (essoterico dunque) il momento maggiormente significativo del cammino stesso: poiché nel linguaggio romantico tedesco, di cui Creuzer è autore e portatore eminente, simbolo significa Oriente, Oriente significa natura, e natura significa ciò che fondando il tempo storico è sia fuori sia nel tempo, si comprende immediatamente come il passaggio dal simbolo al mito abbia in sé quel duplice aspetto di decadenza e di speranza utopica che assume romanticamente i contorni del destino. Il destino dell’Occidente, nel suo contemporaneo tramontare, rifiutarsi di tramontare, e voler tramontare per trasformarsi in altro. Teniamo però fermo lo sguardo sul punto essenziale20: nella triade simbolo-mito-storia, che la Romantik elabora e propone nelle sue ricerche al confine tra letteratura, storia delle religioni e filologia, il mito svolge un ruolo dialetticamente intermedio, essendo visto da un lato come il prologo della storia e dall’altro come il ricordo della rivelazione originaria (il simbolo) che precede e fonda ogni storia. Dioniso diventa allora il nome del simbolo che passeggia nella storia attraverso il mito. Anzi, a ben vedere, più che passeggiare, Dioniso danza e folleggia miticamente nella storia. Proprio perciò il dionisiaco non è mai compiutamente storicizzabile, nonostante quel che chiamiamo sacro non possa far altro che provarci. La figura di Dioniso, nelle analisi comparative e universalistiche di Creuzer e di Görres, rappresenta anche il legame fisico, sensibilmente visibile e significativo, tra l’Oriente come alba della cultura in forma di natura, e l’Occidente come civiltà naturale ormai trasformatasi in cultura. 19

Ci sia qui concesso di rinviare almeno ai seguenti lavori: A. BAEUMLER – J.J BA– F. CREUZER, Dal simbolo al mito, 2 voll., a cura di G. Moretti, Milano, Spirali 1983, con ampia Introduzione; F. CREUZER, Simbolica e mitologia, Roma, Editori Riuniti 2004; G. MORETTI, Heidelberg romantica. Romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Brescia, Morcelliana 2013³, con bibliografia aggiornata sull’argomento. Nel nostro: Hestia. Interpretazione del romanticismo tedesco, Roma, Ianua 1988, alle pp. 92-118, si trova il saggio Religioni misteriche e Cristianesimo nel romanticismo tedesco, che affronta la tematica qui per forza di cose soltanto accennata. 20 Non ha perciò senso, in questo contesto, rifarsi a ricerche, pur molto apprezzabili, come ad esempio quella condotta da H. CANCIK nel suo Dioniso in Germania, Roma, Rari Nantes 1988. CHOFEN

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Dioniso diventa perciò sia la memoria dell’Oriente e della natura in Occidente, sia il fondamento naturale che la civiltà occidentale è chiamata a preservare nel mito, nel simbolo e nel rito, oltre che nel culto e nella sua accezione di sacro, affinché la dimensione apollinea dell’esistenza non prevalga al punto da far inaridire del tutto quel rapporto col sacro che pure sempre lo alimenta. Bachofen, in quest’orizzonte ermeneutico di partenza, inserisce una componente certo non del tutto nuova ma sicuramente dirompente nella lettura che egli ne offre. Si tratta, com’è noto, dell’ipotesi di un inevitabile stadio matriarcale nel corso dello sviluppo della cultura umana da naturale a culturale. E il Cristianesimo? Dioniso, collegato come fa Creuzer con l’orfismo e con i culti misterici, che da Oriente sarebbero appunto pervenuti in Grecia, è il dio che, proprio per la sua valenza femminile, si trova misticamente collegato al destino orfico-apollineo dell’anima, e quindi, secondo Bachofen, al superamento del sensibile attraverso il sensibile, al superamento della materia (femminile) attraverso la materia. Agli occhi di Creuzer e di Görres i culti dionisiaci prefiguravano e preparavano il terreno per l’avvento storico-essoterico della Rivelazione cristiana, la quale, tuttavia, e questo punto non è secondario, sarebbe già in qualche misura stata presente nell’originaria rivelazione naturale-orientale. Nell’orizzonte di questa Uroffenbarung il Cristianesimo assume il duplice ruolo di portare a maturazione storica quanto era già insito ab origine (ma prima del peccato originale), e di portarlo a compimento in senso ormai essoterico, superando cioè, nell’universalismo culturale della civiltà cristiana compiuta, quanto di locale e limitato era ancora invece presente nelle vicende cultuali limitate da un’esperienza del sacro legata fisicamente alle varie nature: le sedi mistiche dei culti locali. Dal simbolo universale, ma esoterico orientale-naturale, al mito ellenico dilaniato dalla disputa tra misticismo esoterico-locale e religione apollinea essoterica ma priva di verità oltremondana, al simbolo universale spirituale cristiano, mistico ed essoterico al contempo. Questa la dinamica (= storica) triade romantica, che nella configurazione di una simbolica della storia si oppone in anticipo alla filosofia della storia hegeliana. Bachofen la rinforza, questa tripartizione storico-mitica, introducendo l’ulteriore elemento simbolico-originario dell’età matriarcale, indispensabile fondamento naturale-culturale della successiva età patriarcale-spirituale. Egli opera però in maniera volontariamente meno metafisica e più etnoantropologica, se ci si passa l’espressione un po’ azzardata. Individua cioè tratti matriarcali storicamente sempre presenti, o comunque costantemente riaffioranti anche in età spirituale-patriarcale, e, per quel che con-

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cerne il nostro tema, tratteggia in Dioniso una figura, la cui comparsa religioso-cultuale contestualizza storicamente sia il possibile riemergere di fenomeni matriarcali, sia, all’opposto, ma non paradossalmente, il loro possibile superamento. Dioniso assume insomma l’aspetto di una divinità sia femminile sia maschile, mantenendo gli aspetti religioso-cultuali che aveva acquisito con Creuzer e con Görres ma arricchendosi significativamente di questo ruolo intermedio tra maschile e femminile, tra matriarcato e patriarcato21. Ne emerge il contorno di un Dioniso femminile 22 estremamente originale e non casualmente ben diverso dal profilo del Dioniso di Nietzsche che inizia a delinearsi proprio negli stessi anni e nella stessa Basilea di Bachofen. Infatti, riconoscendo al femminile l’essenziale, dinamico ruolo cultual-culturale di favorire il legame tra natura e cultura attraverso la cura del sentimento religioso, il Dioniso di Bachofen non può essere privo di quei tratti femminili che sempre Bachofen aveva riconosciuto come essenziali per contribuire in maniera fondamentale a trasmettere i principi della religione orfica a tutto il mondo antico: principi che naturalmente per Bachofen provengono da Oriente e preludono al successivo fiorire del Cristianesimo. Un problema ermeneutico, suscettibile di trasformarsi facilmente in una contraddizione piuttosto evidente, nel sistema di Bachofen, sorge nel momento in cui il Cristianesimo protestante, cui peraltro Bachofen ascrive un valore storicamente enorme, sembra diretto ad eliminare al proprio interno qualunque relazione con quel femminile, che invece il Cattolicesimo mantiene (il culto Mariano e l’esteriorità materiale-simbolica in genere). Ma Bachofen, lungo tutta la sua opera, assegna come compito al sentimento interiore, spazio interiore e implicitamente protestante, la trasformazione del femminile, e di tutto quel che di materiale-esteriore esso conserva nella versione del Cristianesimo cattolico, in un percorso spiritualmente immediato con il sacro, un percorso-contatto la cui immediatezza il Protestantesimo, da Schleiermacher a Rudolf Otto, rivendicherà sempre con fermezza, pur perdendo – o quasi – la memoria della sua provenienza. Il sentimento, in origine certamente femminile, ma a fine Ottocento ormai rivisitato spiritualmente in senso pienamente patriarcale e del tutto interiorizzato, 21

Ruolo intermedio che Dioniso, in Bachofen, condivide con il fenomeno dell’amaz-

zonismo. 22 Cfr. il nostro «Dioniso femmineo straniero. Il dionisiaco tra Bachofen, Nietzsche e Otto», in G. MORETTI, La segnatura romantica. Filosofia e sentimento da Novalis a Heidegger, Cernusco L., Hestia 1992, pp. 269-282.

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quindi depurato di ogni aspetto materiale ed esteriore, si afferma perciò come il veicolo pressoché esclusivamente deputato al rapporto con l’invisibile, e con il sacro, il totalmente altro rispetto alla finitezza umana. Rudolf Otto vi farà a sua volta appello. Riportiamoci velocemente alla memoria alcune date: Das Mutterrecht esce nel 1861 e gli scritti bachofeniani di carattere più etnologico sono successivi al 1870; Nietzsche pubblica la Nascita della tragedia nel 1872. Cosa accade tra Bachofen e Nietzsche, in relazione naturalmente al rapporto dionisiaco-sacro? Qualcosa di molto particolare, ma in qualche modo anche di atteso, di consequenziale rispetto alle posizioni di entrambi gli autori. Qualcosa, peraltro, che diverrà ben più evidente ed avrà ripercussioni in quasi tutte le discipline dello scibile soltanto dopo Nietzsche. Il dionisiaco ed il sacro si scoprono incompatibili. I primi segnali di questa incompatibilità si avvertono già nel 1872, allorché Nietzsche propone una visione del rapporto Apollo-Dioniso che non soltanto consente una loro coesistenza, ma per certi versi la richiede espressamente, una coesistenza finalizzata allo scopo dell’azione artistica e creatrice in senso tradizionale-metafisico. Non è qui necessario ripercorrere i punti-base dello scritto nietzscheano del 1872. Basterà sottolineare come, proprio mentre il dionisiaco diviene il tema attorno al quale il pensiero di Nietzsche si coagula fino a diventare quell’esplosivo ermeneutico che tutti conosciamo, gradualmente, ma decisamente, la coesistenza tra Apollo e Dioniso, in Nietzsche, diviene sempre più incerta e problematica, e lo spazio del sacro tende ad essere oggetto di uno smascheramento radicale. Passaggio essenziale della critica di Nietzsche alla metafisica ed al suo statuto conoscitivo, al pensiero occidentale come decadente è costituito precisamente dalla sua critica al romanticismo come incubatore di entrambi (metafisica e decadenza): proprio quella Romantik che, dal 1770 circa in poi, si era variamente e ripetutamente incaricata di tenere aperto il passaggio reciproco tra il dionisiaco, come fattore naturale-vitale, indistinto ma simbolicamente significativo, originario e propulsivo, e il sacro, come spazio civilizzatore e culturale, espressione di una linea che non conducesse soltanto dall’uomo al mondo ma anche, e soprattutto, dal divino all’uomo. La percorribilità del passaggio dionisiaco-sacro manteneva aperto anche il flusso di interscambio tra la natura come serbatoio di segreti significati universali extra-umani e la storia come campo d’azione umana libera ma anche sacralmente orientata. Nel nome dell’insensatezza e della menzogna intrinseche, tanto del fatto quanto della nozione di natura e di cultura-civiltà, così come la filosofia occidentale li aveva prodotti ri-

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correndo alle strutture tradizionali platonico-cristiane, Nietzsche interrompe deliberatamente quel passaggio. Il dionisiaco, ossia il fluire degli eventi al di là di ogni sfera oggettiva di senso e significato, al di là cioè di un loro (degli eventi) valore indipendente dal quantum di azione volente che il soggetto potenziato è chiamato ad immettervi nell’agone dell’esistenza, il dionisiaco è da Nietzsche liberato, emancipato dal potere e dover-significare. Tale liberazione, i cui effetti si dispiegano lungo tutto il Novecento e non cessano certo attualmente di farsi prepotentemente sentire, non abbatte soltanto lo spazio del sacro ma finisce inevitabilmente per coinvolgere nella spirale dell’insensatezza che ne scaturisce qualsiasi progetto umanistico dell’agire umano per valori. Dopo Nietzsche, lo spazio per un umanesimo come atteggiamento capace di operare come se la storia abbia un senso e produca possibili valori in virtù del fatto che gli esseri umani lavorano liberamente ed attivamente a tale progetto, diventa qualcosa di molto stretto, e infine di meramente illusorio. Gli avvenimenti tragici della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, e non soltanto essi, sono lì a dimostrarlo. Nichilismo è la parola d’ordine alla quale secondo Nietzsche si sarebbe dovuto ispirare lo Übermensch resosi dominatore del dionisiaco, esso si è trasformato invece nel suono che l’impotenza dell’ultimo uomo emette nel far fronte al dionisiaco liberato. C’è un nesso strettissimo tra la liberazione del dionisiaco operata da Nietzsche, frutto del suo tentativo filosofico di incanalarlo in una forma di nichilismo gestibile da una nuova figura di uomo, e l’impossibilità di coniugare dionisiaco e sacro senza che l’uno o l’altro prevalgano. Nichilismo, non a caso, è il nome che nelle pagine di De Martino si intuisce sia alle spalle dell’indifferentismo culturale che appiattisce l’Europa ed il suo progetto nell’indifferenza delle culture, una volta che esse siano poste tutte su di un medesimo (e indifferente) piano, sia nell’apertura di credito verso il sacro come irrazionale. E tuttavia: davvero la nozione di sacro di Rudolf Otto rientra nell’orizzonte di apertura verso l’irrazionale, come De Martino le imputa, o non piuttosto essa rappresenta un ultimo, estremo e per certi versi anche parzialmente fortunato tentativo di arginare il dionisiaco, ormai liberato sulla scena europea, mantenendone a tale scopo proprio il legame con il sacro come motore possibile di civiltà? Lo spazio sentimentale, al quale Rudolf Otto affida il rapporto col sacro come totalmente altro, viene pur sempre visto come uno spazio in grado di accogliere tale alterità senza esserne inghiottita, ricorrendo peraltro a formazioni di valore perlomeno simili a quelle di cui lo stesso De Martino affermava, ancora cinquanta anni dopo l’uscita del libro di Otto, l’impor-

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tanza e l’indispensabilità. Non solo: davvero, come De Martino auspicava, è ancora possibile un neoumanesimo capace di orientare positivamente e sensatamente verso il meglio le scelte dell’agire umano, particolarmente oggi, in presenza dell’indebolimento notevole sperimentato da almeno due forti punti di riferimento che lo stesso De Martino mostrava di ritenere invece essenziali per il suo progetto neoumanista, vale a dire socialismo e psicoanalisi? Qualunque risposta si ritenga di dare agli interrogativi appena formulati, e ad altri ancora che potrebbero legittimamente nascere, vale la pena, in conclusione, di gettare un velocissimo sguardo alle tesi di due nietzscheani della prima ora, Ludwig Klages e Walter Friedrich Otto, i quali ebbero entrambi un ruolo non secondario nel dibattito sul dionisiaco nei primi tre decenni del Novecento23. Pur nella diversità, anche molto marcata, delle loro reciproche posizioni, un elemento di vicinanza tra di esse va qui menzionato, in quanto concerne direttamente il nostro tema. Ambedue, intimamente consapevoli dell’importanza rivoluzionaria del pensiero di Nietzsche, ma altresì non disposti a rinunciare al passaggio bidirezionale tra natura-cultura rappresentato dal sacro, cercano di ricostituire il legame di quest’ultimo col dionisiaco. Certo, strutturandolo nel segno del dionisiaco piuttosto che del sacro, a differenza di Rudolf Otto, che peraltro non chiama mai il dionisiaco per nome. Sacro è allora per Klages il portato esistenziale stesso dell’essere umano autentico, nel suo essere liberato dall’abbraccio spirituale-inautentico con ciò che sempre Klages chiama Geist e che assume proprio l’aspetto della civiltà privata del passaggio al dionisiaco, alla profonda significatività della natura. Per Walter Otto, sacro è mitico ed attivo, operativo, essereaperto dell’esistenza umana autentica al discorso naturale, dionisiacamente espresso e tuttavia sacralmente riconfigurato, formato, reso espressivo, tutto ciò nel recupero estremamente deciso tanto dell’impianto apollineo della civiltà e della cultura greche, quanto anche nella conservazione della forza dell’impostazione dionisiaca nietzscheana. Apollo, per Otto, è la volontà di potenza, grecamente sperimentata, capace di dare forma al dionisiaco indistinto e privo di forma; il sacro è l’esito di tale incontro della volontà che per i Greci prese la figura dei loro dèi. Per en23 Si rinuncia a parlare in questa sede dell’opera di autori quali J.W. Hauer, O. Höfler e P. Schneider, nonché dell’avventura del dionisiaco in Francia vissuta da Caillois, Bataille e altri ancora.

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trambi, come si vede, dionisiaco è quasi sinonimo di naturale nel senso di autonomamente, spontaneamente significativo sul piano della storia. Il sacro poggia per entrambi sul dionisiaco ma non viene da quest’ultimo cancellato, nemmeno nel pensiero di Klages, che, tra i due, è di certo il più vicino alle tesi dionisiache di Nietzsche, ma da quest’ultimo si distacca espressamente proprio in un punto essenziale: Klages non accetta (romanticamente) il verdetto nietzscheano sull’intrinseca insensatezza del mondo e della natura, la riduzione dell’esperienza esistenziale autentica del senso del mondo, a menzogna e debolezza. Sull’importanza del ruolo della forma, concetto eminentemente goetheano che Walter Otto erge a spazio simbolicamente esemplare, al cui interno il dionisiaco è trasformato in sacro dall’azione umana del culto e del rito, non è necessario insistere qui ulteriormente24. Il percorso che abbiamo cercato di compiere attraverso quel filone della cultura otto-novecentesca che, così come ci si è presentato in alcuni momenti esemplari, ha infine avuto nell’opera di De Martino, in relazione al rapporto dionisiaco-sacro, un particolare esito, è un percorso naturalmente suscettibile di integrazioni e correzioni, di approfondimenti e di ampliamenti, anche notevoli. Tuttavia, ci sembra di poter dire che almeno una linea essenziale, fortemente emblematica, sia stata enucleata e presa in esame. L’irruzione del dionisiaco sulla scena culturale di primo Ottocento e la sua potenzialità di destabilizzazione del rapporto dell’esistenza umana con il divino nel sacro, sono emerse, crediamo, con sufficiente chiarezza. Il dionisiaco, lungo tutto l’Ottocento, è stato variamente sperimentato, e precisamente, se così possiamo esprimerci, sia come veicolo mondano di valori e contenuti emancipatori, teso talvolta persino a rendere superfluo il sacro (esautorato quanto a legame diretto col divino, celebrato cioè nella sua veste e forma esclusivamente mondana), sia come rinforzo mondano-extramondano di un rapporto, ancora una volta quello dell’esistenza umana con il divino, che subiva ripetutamente l’attacco della secolarizzazione. Dinanzi al pericolo che il dionisiaco, sperimentato nella sua versione estrema, finisse, anche inconsapevolmente, per attrarre definitivamente il sacro nel proprio raggio d’a24 Per quel che concerne L. KLAGES, cfr. La realtà delle immagini. Simboli elementari e civiltà preelleniche, a cura di G. Moretti, Milano, Marinotti 2005; di W.F. OTTO, cfr. Dioniso. Mito e culto, tr. it. di A. Ferretti Calenda, Genova, il melangolo 1990 [cfr. altresì la recente edizione tedesca di questo volume, W.F. OTTO, Dionysos Mythos und Kultus, Frankfurt a.M., Klostermman 2001, con una Postfazione di A. Stavru].

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zione esclusivo, la strada della separazione del secondo dal primo, proprio per l’accusa di irrazionalismo rivolta al dionisiaco, è stata variamente percorsa. Svincolare il sacro dal dionisiaco allo scopo di proteggere quest’ultimo dall’implicita, paventata irrazionalità distruttiva del primo, non significa però soltanto consegnare la storia a se stessa, al momento umano come sua origine, suo scopo e mezzo, rendendola così autonoma, libera e del tutto emancipata dalla spinta oltremondana: significa altresì, inevitabilmente, rischiare di considerare arbitraria l’apertura dell’esistenza individuale nei confronti dell’origine divina della storia, interpretando tale apertura come un prodotto esclusivamente culturale e affidando di conseguenza la sua gestione all’istituzione sacra per eccellenza, la Chiesa, che è tale proprio in quanto da sempre storica e istituzionale. Un esito, quest’ultimo, che in Italia ha ed ha avuto ricadute certamente di non poco conto, in tutti i campi. La Germania, di provenienza protestante, ha tentato con Rudolf Otto di collegare dionisiaco e sacro come forme conciliabili di natura e cultura, ed ha sperimentato questo tentativo sulla scia della progressiva interiorizzazione della nozione di verità dell’esistenza scaturente appunto dall’appello che il Protestantesimo ha elevato, potente, al sentimento individuale come fonte di verità religiose nascoste. Il sentimento, riscoperto ad inizio Ottocento come facoltà esistenziale umana in grado di accedere direttamente, senza mediazioni culturali, al divino e all’irrazionale-naturale, si è così infine trovato a coabitare quasi alla pari con ciò da cui, lungo tutta la storia dell’Occidente, era sempre stato tenuto distante: la verità, e per giunta nella sua forma religiosa, quindi superiore a quella mondana della scienza, cui non di rado è stata, soprattutto nel Novecento, contrapposta. La pretesa di veicolare sentimentalmente, e politicamente, la verità nella storia, ha finito tuttavia paradossalmente per travolgere, e da ultimo annullare, il carattere stesso di verità sentimentale per la cui affermazione la Romantik aveva strenuamente combattuto, una verità che per i romantici non poteva né doveva contrapporsi alla verità del mondo, bensì armonizzarsi con essa ad un livello superiore, più profondo. La posizione inizialmente irreligiosa dell’Umanesimo, successivamente invece molto più disposta ad accettare la separazione, e la differenza, tra natura e cultura, divino e umano, posizione sfociante infine nel neoumanesimo in cui De Martino si riconosce, ha avuto, dinanzi al problema del rapporto tra dionisiaco e sacro, una vita relativamente più semplice. Il sentimento, e la fede come sua espressione storicamente accettabile, non vengono quasi mai vissuti esistenzialmente in maniera così estrema da percorrere, alla volta del divino, una

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loro strada autonoma, senza cioè l’aiuto e la guida dell’Istituzione storica da sempre prepostavi. La mistica ne è certo un’espressione, ma molto elitaria e raffinata, se così possiamo esprimerci; la devozione popolare ne rappresenta la controimmagine, stemperata tuttavia dal suo aspetto locale e, per ciò stesso inevitabilmente, limitato.

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