Dire estetica, fare estetica con l\'architettura

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Descrição do Produto

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INDICE

9

PREFAZIONE

11

ESTETICA E STORIA DELL’ESTETICA IN HEGEL di Leonardo Amoroso

19

QUELLO CHE RESTA DELLA ESTETICA DI CROCE di Tiziana Andina

28

IL PROBLEMA DELLA DEFINIZIONE DELLA BELLE NATURE NELL’ESTETICA DI CHARLES BATTEUX di Fernando Bollino

38

LE RAGIONI DELL’ESTETICA di Carmelo Calì

43

JOEL-PETER WITKIN: UN’ESTETICA DEL FREAK di Francesco Paolo Campione

49

NOMI PROPRI. DELEUZE E LE ARTI di Fulvio Carmagnola

57

LA GAIA ESTETICA di Stefano Catucci

65

STILE: NATURA ED EVOLUZIONE DI UN’IDEA ESTETICA di Alessia Cervini

73

GIUDICARE LA BELLEZZA HA UN FUTURO? di Simona Chiodo

81

ESTETICA E RESISTENZA. LUKÁCS INTERPRETE DI GOETHE di Michele Cometa

91

UOMO E STRUMENTI TECNOLOGICI: UN’ARMONIA TRA ARTIFICIALE E NATURALE di Emanuele Crescimanno

98

ESTETICA ED ECONOMIA IN BENEDETTO CROCE di Paolo D’Angelo

104

LA LINGUA MISTA DI MARÍA ZAMBRANO di Pina De Luca

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6 111

GRAMMATICA, GRADI DI LIBERTÀ E STEIN ALLE LEZIONI SULL’ESTETICA di Fabrizio Desideri

MECCANISMO ESTETICO.

DAL TRACTATUS

121

L’IMMAGINE ARTISTICA TRA REALTÀ E POSSIBILITÀ, TRA «VISIBILE» E «VISIVO» di Giuseppe Di Giacomo

135

DIDEROT E L’EMBODIMENT di Giuseppe Di Liberti

143

AISTHESIS E LIBERTÀ di Roberto Diodato

150

SKULL MANIA. LE DINAMICHE DI UN MOTIVO ICONOGRAFICO TRA ARTE, MODA E DESIGN di Elisabetta Di Stefano

157

PALAZZO NUOVO E ALTRE FOLIES di Maurizio Ferraris

165

IL TARDO STILE DI ERWIN PANOFSKY di Silvia Ferretti

174

HOMO PAMPHAGUS. O DELLA MEMORIA DEL MODERNO di Filippo Fimiani

182

I SENSI E L’ARTE di Elio Franzini

192

LA MUSICA E LE ALTRE ARTI di Enrico Fubini

198

ESTETICI MINORI DEL SUBLIME NEL XVIII SECOLO BRITANNICO di Andrea Gatti

206

ESTETIZZAZIONE DELL’ECONOMIA di Daniele Goldoni

216

COME FOGLIE AL VENTO? OSSERVAZIONI SULL’ATMOSFERA POLITICA di Tonino Griffero

224

OGGETTO ESTETICO E PREDICAZIONE ARTISTICA di Pietro Kobau

232

IL VINO E LE METAFORE DELL’ISPIRAZIONE NELLA POETICA ANTICA di Giovanni Lombardo

243

ESTETICITÀ DIFFUSA COME FORMA DI VITA: LA POSSIBILITÀ DI UN’ESTETICA DEL QUOTIDIANO di Giovanni Matteucci

253

LA FONDAZIONE DELL’ESTETICA E IL SETTECENTO A PARTIRE DA UNA NOTTE DI LUCE di Maddalena Mazzocut-Mis

DI

WITTGEN-

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© Edizioni Angelo Guerini e Associati

7 263

PAROLE IN IMMAGINE. A PROPOSITO DELL’INTERSEMIOSI NELLE ARTI VISIVE di Oscar Meo

271

DIDEROT E LA NATURALITÀ DEL RITMO di Rita Messori

279

STORIA DELL’ESTETICA E STORICITÀ DEL SENTIRE di Pietro Montani

287

SABBIA E ORO. TRA HERMANN HESSE E YUKIO MISHIMA di Giampiero Moretti

295

VICINANZE ABISSALI. ASCOLTARE IL PRESENTE – RISCRIVERE IL PASSATO di Markus Ophälders

303

ESTETICA E CULTURA DEL VALORE di Giuseppe Patella

311

OGGI LA VODKA: NEOESTETICA DEL PURO SPIRITO di Nicola Perullo

319

RITRATTO E MEMORIA. ABBOZZO DI UNA TIPOLOGIA di Giovanna Pinna

328

UBIQUITÀ, SITOSPECIFICITÀ, SITUAZIONE. TRE DATE PER TRE MODI DEL VISUALE di Andrea Pinotti

334

LINGUAGGIO E POESIA IN PAUL VALÉRY di Maria Barbara Ponti

342

C’ERANO UNA VOLTA LE MUSE di Giuseppe Pucci

352

LE PARADOXE DU PLAISIR ESTHÉTIQUE di Baldine Saint Girons

362

DIRE ESTETICA, FARE ESTETICA CON L’ARCHITETTURA di Michele Sbacchi

366

FRA GUERRA E PACE, DAL PARNASO A RYSWICK: UN NEGOZIATORE PER MEDIARE SULLA QUERELLE di Maria Luisa Scalvini

374

ANTONIO BANFI E LA POESIA di Gabriele Scaramuzza

383

COLERIDGE E IL SUBLIME: L’INNO AL MONTE BIANCO di Giuseppe Sertoli

395

ESTETICA DELL’INNOMINABILE TRA ANTONIO TARI E SAMUEL BECKETT di Francesco Solitario

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8 405

ESTETICA E TEORIA DEI MEDIA: LE IMMAGINI IN ALTA E BASSA DEFINIZIONE di Antonio Somaini

415

LE REALTÀ ARTIFICIALI E L’INCONTROVERTIBILE SENTIMENTO DI VITA di Dana Svorova

421

IL FAUT CONTINUER. MEDITAZIONI CARTESIANE DA BECKETT AL WEB di Elena Tavani

431

UNA STORIA PER LA NEOESTETICA (BREVE ELOGIO DELLA CURIOSITÀ TEORETICA DI UN MAESTRO DELLA METODOLOGIA STORIOGRAFICA)

di Salvatore Tedesco 437

HUME E I PUZZLE DEL «VERO GIUDICE DELLE ARTI PIÙ BELLE» di Gabriele Tomasi

447

MISTICA SENZA REDENZIONE di Aldo Trione

453

ORNAMENTO ED ESAPTAZIONE: PER UNA TEORIA PERFORMATIVA DELL’ORNAMENTO di Renato Troncon

459

STILE, MORFOLOGIA E «FILOSOFIA DELL’ORGANICO» IN FREDERIK ADAMA VAN SCHELTEMA di Luca Vargiu

463

«I GIOCHI DEL DOLORE» E L’ESTETICA. NOTE SU LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO LACAN di Stefano Velotti

NEL VII SEMINARIO DI

471

IL LINGUAGGIO DEL RICONOSCIMENTO: PER UNA POLITICA DI QUALITÀ DEI PAESAGGI di Massimo Venturi Ferriolo

481

LE RAGIONI DELL’IMMAGINE. CONSIDERAZIONI SULL’INTERATTIVITÀ di Federico Vercellone

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DIRE ESTETICA, FARE ESTETICA CON L’ARCHITETTURA Michele Sbacchi

Nell’attività dell’architetto il «dire estetica» e il «fare estetica» si intersecano e si fondono in maniera totale e inestricabile. Nella complessità di questa con-fusione l’estetica trova specificazioni, conferme, affinamenti. Il momento di tale effettivo arricchimento della disciplina – è bene premetterlo – è parziale ed episodico ma non per questo accantonabile. Succede infatti che nello studio professionale, nel cantiere o nella simulazione didattica, ovvero sul tavolo da disegno della facoltà di architettura, l’estetica è enunciata, discussa, «messa in opera» frequentemente, seppur frammentariamente, con obiettivi precisi, seppur senza profondi fondamenti concettuali o rigore metodologico. L’estetica è quindi non teorizzata o analizzata, come siamo abituati a fare, ma «utilizzata», se vogliamo strumentalizzata. Ciò, peraltro, avviene con la sfrontatezza priva di pregiudizi, di chi – l’architetto – spesso è inconsapevole del territorio nel quale si sta muovendo. Il dialogo tra architetto e cliente, per non parlare qui di quello tra architetto ed esecutori, è il luogo dove i principi estetici vengono a contatto, spesso brutalmente, con le circostanzialità, con i contesti, con i fatti. E quello tra cliente e architetto è un dialogo prolisso, che accompagna tutti i tempi dell’elaborazione progettuale così come i tempi della costruzione, per protrarsi spesso anche oltre questa, in una dimensione di commento postumo. «Architetto madre» e «cliente padre» come diceva nel Cinquecento Filarete, o, più recentemente, Frank Lloyd Wright pervengono attraverso un rapporto amoroso alla creazione dal nulla di qualcosa di nuovo. Avviene, cioè, fuori dalla metafora, quell’«atto estetologico condiviso» che ci sentiamo di proporre come eufemismo per ciò che comunemente chiamiamo «progetto di architettura». Ed è proprio questo piegarsi, questo aristotelico «adeguarsi» dei principi alla realtà, dei pensieri alle cose, il banco di prova che misura l’estetica, la rende reale, la contamina ma, in fondo, la redime, la legittima, la rende operativa, seppur in un ambito parziale e specifico quale quello dell’architettura, che certo non rappresenta che solo una frazione dello spettro di applicazione della disciplina estetica. È però da notare la differenza che intercorre tra architetto e artista: non è nel fare artistico puro, non quindi nel lavoro dell’artista, dello scultore, o oggi del performer, che l’estetica trova diretta resa dei conti, o così drastica riduzione. Nel fare artistico infatti la circostanzialità è ridotta, limitata, a volte falsata o addirittura – legittimamente sia chiaro – annullata. Per non considerare il caso in cui essa è inesistente per condizione data. L’opera d’arte, come sappiamo, vive un suo statuto privilegiato in cui il rapporto con la materia, con la vita, con la realtà non è irrinunciabile. L’opera d’arte prescinde – ed è questa, anche, la sua grandezza – dalla materializzazione, dalla contaminazione. Più modesta, più ordinaria, più convenzionale è l’attività dell’architetto. Questo «muratore che sa il latino», come lo voleva Adolf Loos, trova il suo posto nel consorzio umano per ragioni molto meno nobili e auliche – in verità si tratta di ragioni più emi-

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© Edizioni Angelo Guerini e Associati

363 nentemente «pratiche»: la semplice costruzione di un rifugio, di una casa, se vogliamo. Così come nel racconto di Vitruvio o nella raffinata definizione di Gregotti, secondo il quale l’atto primordiale dell’architettura è l’impronta del corpo umano sul terreno. Ma proprio questa condizione fenomenologica, acutamente intuita da Gregotti1, sulla scorta delle riflessioni di Merleau-Ponty, ci può illuminare sulla maniera tutta empirica con la quale l’estetica entra a far parte della progettazione architettonica. Ma torniamo alla differenza tra architetti e artisti: sebbene ambedue siano primariamente occupati da problemi di forma, gli architetti pervengono alla forma perché la trattano in termini di produzione, non di definizione. È in questo senso che il fare estetico si caratterizza nel progetto di architettura. Un fine eminentemente pragmatico spinge l’uomo a costruire, a modificare l’ambiente, a mettere pietra su pietra, a segnare il territorio con le sue impronte, atto primordiale dell’architettura. La produzione finalizzata, la produzione di artefatti utili: è questa l’essenza dell’architettura. Ed essa solo successivamente diventa produzione di forma. Un fatto secondo, conseguente, sebbene non secondario. L’architettura, in quanto «arte applicata», accede all’estetica con un percorso inverso rispetto a quello artistico, quasi dovuto, forse subìto, non privilegiato. Non è il risultato estetico il fine primo o comunque unico dell’architettura. Il percorso del progetto di architettura non è quello che univocamente conduce verso il risultato estetico tout court. Piuttosto si tratta di un percorso accidentato, difficile, compromissorio. La stessa genesi duplice dell’opera architettonica, non privilegio unico dell’artista ma fortemente condizionata dal ruolo del cliente, è rivelatrice di questa particolarissima condizione. Nell’interrogarci sul perché di questa condizione abbiamo finora insistito su un singolo aspetto, la circostanzialità dell’architettura. Se da un canto ciò è giusto, tale prospettiva necessita di essere arricchita da un ulteriore elemento. Ci riferiamo alla nozione di «funzione», il cui ruolo è sostanziale nel progetto di architettura. L’architettura infatti, seppur in una certa misura portatrice di valori assoluti e svincolati da un funzionalismo lineare, è comunque strettamente legata al soddisfacimento di una o più funzioni specifiche. Sappiamo bene come ciò abbia portato a posizioni estreme quali quelle di chi teorizzava che la forma segue la funzione (form follows function)2 secondo una corrispondenza diretta, automatica, che non rende conto della realtà e di fatto riduce la ricchezza e complessità del progetto di architettura. Paradossalmente proprio la funzione, che introduce nel progetto di architettura quel dato contestualizzante, contaminativo, di cui abbiamo sinora dibattuto, viene assunta invece come un elemento assoluto, capace di stabilire forme, in maniera univoca, a partire, appunto, da funzioni. Non possiamo che discostarsi da tale posizione, peraltro ancora molto diffusa, che conduce all’illusione che la funzione di un edificio possa determinarne in maniera cogente la forma. Contro tale posizione si sono espressi personaggi come Aldo Rossi e Joseph Rykwert, solo per citarne alcuni3. La funzione, invece, come abbiamo cercato di svelare, più che ricoprire il ruolo di parametro discriminante rispetto alle infinite possibilità formali, arricchisce il progetto di quel quid contestuale che lo complica. La funzione non è quindi una scorciatoia verso la definizione formale ma, nella nostra visione, un percorso tor1

Cfr. Gregotti, V., Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 1966, in particolare il capitolo 3. Vale la pena ricordare, per la sua interessante paradossalità, il fatto che il primo enunciatore di tale slogan non fu un architetto né un ingegnere, come sarebbe lecito aspettarsi, ma uno scultore, Oratio Greenough, per l’appunto. 3 Cfr. Rossi, A., L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966, e Rykwert, J., The First Moderns, MIT Press, Cambridge-London 1980. 2

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364 tuoso. La questione è stata notata da una pluralità di addetti ai lavori, così come da osservatori esterni. Citiamo a tal proposito Gadamer: «Un edificio rimanda al di là di se stesso in duplice senso. È infatti determinato sia dallo scopo a cui deve servire, sia dal luogo che ha da occupare nell’insieme di un certo ambiente. Ogni costruttore deve fare i conti con entrambi questi elementi»4. Più interessante, rispetto al «funzionalismo ingenuo» di chi ha così inteso il rapporto forma/funzione, è la posizione dei rigoristi. Lodoli, il loro maggiore esponente – siamo nel Settecento –, si occupò della funzione, trattando del suo rapporto non già con la forma ma con il concetto, invero più sofisticato, di «rappresentazione». «Sia funzione la rappresentazione» era il suo celebre motto con il quale la rappresentazione – nel senso di Vorstellung – sostituisce il più ambiguo termine di forma5. Ma quanto finora discusso va relazionato a due accadimenti estremamente influenti sulla condizione contemporanea del progetto di architettura. Mi riferisco in prima istanza alla crisi del bello canonico, spesso enunciata come «crisi del classicismo», più correttamente, a nostro avviso, indicata come «era della rappresentazione divisa»6. E, in seconda istanza, al ruolo della nozione di carattere, con tutte le implicazioni che essa implica, non ultima la cosiddetta «estetica dell’atmosfera». L’attuale condizione dell’architettura è frutto di un processo di lunga durata che vede un lento, progressivo mutamento di quelle condizioni che hanno caratterizzato per circa due millenni l’architettura occidentale. In una sintesi rapidissima possiamo affermare che l’architettura fino alla fine del Seicento costituiva uno dei modi di rappresentazione di una realtà soprannaturale. L’architettura era cioè metafora di un ordine macrocosmico esterno di cui costituiva una fisicizzazione. La sua essenziale componente antropomorfica era un chiaro riflesso di questa condizione secondo le dottrine pitagorico-platoniche. L’edificio era metafora del corpo umano in quanto quest’ultimo era assunto come un microcosmo informato all’armonia del macrocosmo. Rispettarne le leggi matematiche – i ben noti rapporti proporzionali – significava garantire, attraverso l’edificio, il perpetuarsi di un ordine divino o soprannaturale. La bellezza derivava in maniera diretta da canoni e rapporti proporzionali tra le parti dell’edificio. L’homo ad circulum di Leonardo, ripreso in quasi tutti i trattati rinascimentali, era una sintesi efficacissima di questa teoria. Questa tradizione si incrina a partire dal Quattrocento in modo molto sommesso ma registra un momento decisivo alla fine del Seicento quando con Claude Perrault e Christopher Wren viene messa in evidenza l’arbitrarietà del «bello» a partire dalla constatazione che i canoni classici differiscono non poco sia nei trattati tra di loro sia rispetto ai reperti dell’antichità. Ma il fenomeno è più profondo: è un riflesso infatti dell’impatto del pensiero cartesiano. Ed è al contempo l’inizio di quella generale crisi della scienza europea di cui Husserl ci ha edotto. A partire da quel momento, con una crescente progressione, l’architettura perde il suo statuto simbolico e metaforico e si rivela nel suo aspetto più drasticamente pragmatico: è la condizione contemporanea. L’architettura non è più metafora di verità trascendentali ma solo «strumento» di una società tecnologica. È chiaro quindi come in questo contesto la funzione abbia preso il sopravvento. Le considerazioni fatte nella prima parte di questo scritto, pensate in 4 Gadamer, H.G., Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1960 (citiamo dalla tr. it. Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 192). 5 Cfr. Rykwert, J., «Lodoli on Function and Representation», The Architectural Review, luglio 1976, pp. 21-26. 6 Dobbiamo questo termine a Dalibor Vesely. Cfr. i suoi articoli «Architecture and the Conflict of Representation», Architectural Association Files, 8, 1984, pp. 21-38, e «Architecture and the Poetics of Representation», Daidalos, 22 (1987), pp. 24-35, oggi ripresi nel recente Architecture in the Age of Divided Representation, MIT Press, London 2004.

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365 senso assoluto, se vogliono essere riportate allo specifico della condizione contemporanea devono tenere conto di tale presupposto. E veniamo al secondo degli elementi utili alla comprensione dei modi del «fare estetica» al quale ho fatto riferimento: la nozione di «carattere». Il carattere, la cui importanza è fondamentale e di antica origine per l’architettura, permette di accedere ad aspetti dell’architettura legati all’adeguatezza, al decoro, che prescindono quindi da questioni più eminentemente tipologiche. La genesi di tale idea è ben nota: è il vecchio concetto di prepon che diventa decorum nella retorica ciceroniana7. Esso permea la teoria dell’architettura attraverso Vitruvio e ne costituisce elemento fondamentale specialmente nel Settecento e nell’Ottocento. In epoca moderna, però, la fortuna della nozione di tipo ne annebbia il ruolo così che nei dibattiti degli architetti si fatica a comprendere che le questioni, molto spesso, riguardano un aspetto preciso, quello del carattere dell’edificio. La bellezza di un edificio non si determina solo in termini assoluti, come si tende a fare guardando al solo aspetto tipologico, ma attraverso quella nozione di «bello effettivo» o di «bello adeguato» che si manifesta appunto nel carattere. Nell’obliterare la nozione di carattere si rende il «dire estetico» sull’architettura vago, parziale, confuso.

7 Cfr. Perniola, M., «Dal prepon al decorum. Note sulla bellezza effettiva», Rivista di Estetica, 12 (1982), pp. 44-52.

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