Dovunque e a tutti

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Dominik Jurczak OP Convento Santa Sabina Piazza Pietro d'Illiria, 1 00153, Roma, Italia email

DOVUNQUE E A TUTTI Senz’altro l’anno prossimo sarà speciale per l’Ordine dei Predicatori, e mi riferisco non solo ai predicatori istituzionali, quasi “professionali”, che, dai loro amboni proclamano la Parola di Dio, ma anche a tutti coloro che – a volte in modo meno udibile dei frati, oppure meno visibile delle monache, quasi granello di sale per l’occhio del mondo – sono legati alla spiritualità domenicana e che ogni giorno cercano di realizzare la verità del Vangelo. Infatti, gli otto secoli dell’Ordine sono un lungo percorso e forse proprio per questo, ancora prima di accendere le candeline sulla torta di compleanno, bisogna soffermarsi un po’ per porsi coraggiosamente qualche domanda. Tutto ciò per non rimanere ad un livello superficiale – era bello, divertente e simpatico: abbiamo visto le vecchie fotografie, gratificato un’altra volta il nostro “ego”, e dato conferma di quanto siamo necessari, e... in forma splendida, senza riflettere troppo, andiamo avanti! Diciamoci la verità: lo Spirito Santo ce la farà anche senza l’Ordine dei Predicatori, dunque, se invece risveglia in esso vocazioni, in modo diverso da quanto possiamo immaginare, se ancora riesce a raggiungere gli uomini attraverso la nostra predicazione, a volte goffa, vuol dire che aspetta da noi qualcosa di concreto. In questo “noi” naturalmente sono inclusi non solo i membri dell’Ordine dei Predicatori ma anche tutti coloro che, in modo più o meno formale, ai Predicatori sono legati o si sentono tali. Cominciamo nondimeno da una domanda.

Perché celebrare il Giubileo? Questa domanda è indispensabile perché nella moltitudine degli eventi straordinari, che si susseguono senza soluzione di continuità, ci possiamo perdere, ricordiamo solo il Grande Giubileo dell’Anno 2000, l’Anno di San Paolo, l’Anno Sacerdotale, l’Anno della Vita Consacrata oppure l’Anno Santo, recentemente annunciato, dedicato alla misericordia di Dio. Se nelle attività straordinarie l’Ordine dei Predicatori ha deciso di celebrare il suo anniversario, in questa formula di fatto per la prima volta nei suoi ottocento anni, lo vuole non per mettersi al centro e neppure, cercando di imitare la “moda ecclesiastica”, per mostrare che egli stesso è straordinario. Al contrario. Come all’inizio del XIII secolo, vale a dire quando nasce l’Ordine, la Chiesa aveva bisogno di rinnovamento interiore, così anche oggi – dopo otto secoli – gli stessi Predicatori hanno bisogno di sentire nuovamente da Cristo: “Andate e predicate!”. Il Giubileo è dunque la grande occasione per rinnovare il carisma. Per vederne la grandezza, ovvero, in altre parole, per scoprire la brillante intuizione di san Domenico e dei primi predicatori non c’è bisogno di esagerare nella narrazione dei fatti, come se la Chiesa stesse in totale sfacelo per cui l’Ordine appariva come provvidenziale e quasi unica ancora di salvezza. Basti ricordare che la Chiesa era guidata da dal grande Innocenzo III, il Papa che convocò il più importante Concilio del Medioevo, il Lateranense IV (1215), passato alla storia come l’autore di una nuova formula del primato del Vescovo di Roma, etc. Ugualmente oggi, senza aver bisogno di mistificare la realtà è possibile vedere la grandezza dell’invio domenicano, discreto nella sua formula e talmente 1

“opportuno” che se desideriamo rinnovarci come Predicatori, dobbiamo riscoprire ciò che si trova all’origine della nostra predicazione. La vita di un predicatore non comincia tuttavia dal predicare, ma di “qualcosa” che lo precede. Qui si trova la difficoltà, ma anche il mistero della spiritualità domenicana, cioè, in questo “qualcosa” che non è necessariamente visibile. È importante perché la presenza dei predicatori nella Chiesa e nel mondo si giustifica dai frutti: lecitamente siamo orgogliosi che la sobrietà del pensiero e la sagacia intellettuale di Tommaso d’Aquino, nonostante tanti secoli, continui ad essere ancora oggi fonte di ispirazione; ci inorgoglisce che, non limitandoci solo agli esempi del passato, che grazie alla predicazione dei domenicani – come ci piace sottolineare, dovunque e a tutti, senza limitazioni di sorta – ci siano quelli che ritornano a Dio, scoprendo la nuova faccia della Chiesa. Cercando di guardare onestamente la storia dell’Ordine, senza mai dimenticare i momenti più critici, davvero abbiamo un motivo di essere fieri! La vita domenicana tuttavia non si può costruire esclusivamente basandosi sulla missione neanche concentrandosi solo sulla efficacia di predicazione. Paradossalmente, non essa sta nel centro della vocazione dei Predicatori.

Cosa è, dunque, questo enigmatico “qualcosa”? Per rispondere a questa domanda, vorrei fare un riferimento alla persona di san Domenico, anche se di lui sappiamo molto poco. Nella stessa maniera, più vogliamo descrivere le origini dell’Ordine, più ci si trova di fronte a difficoltà e indeterminatezze. Corriamo il rischio di dare risposte affrettate o dettate dal sentimento, magari sostituendo la storia con ideologie di poca qualità, nel tentativo, un po’ ingenuo di sentire solo ciò che più ci piace. Spesso mi chiedo, mentre leggo ciò che hanno scritto su san Domenico, se lui stesso si riconoscesse nella sua biografia. Volendo essere chiaro: non sapremo mai tutti i dettagli della sua vita e nello stesso modo non scruteremo mai il mistero degli inizi dell’Ordine. Questo non significa che siamo in una situazione senza speranza. Esaminando i primi testi liturgici dei Predicatori, ad esempio quelli composti in occasione della canonizzazione di san Domenico – aggiungerei: non sono le composizioni nuove, ma anche quelle che si ispirano a testi già esistenti – ci troviamo di fronte a identici interrogativi. Chi li ha composti non era interessato a scrivere la storia del santo, ma di trasmettere qualcosa più importante, che oltrepassa il tempo, epoche e culture. In realtà non è nemmeno la biografia o l’atto di fondazione dell’Ordine a formare la base della predicazione, non è l’imitazione del fondatore “uno per uno”, come se ognuno dei predicatori dovesse diventare san Domenico stesso, neanche, come abbiamo visto in precedenza, la consapevolezza della missione né l’impostazione sulla sua efficacia. E allora?

Il nucleo del mistero della predicazione Durante la lettura dei testi a cui accennavo mi hanno colpito alcune affermazioni. Cominciamo con questo: san Domenico viene presentato come un combattente per il primato di Dio nella Chiesa e nel mondo, il Dio che spesso sembra essere assente o nel migliore dei casi che ci guarda da lontano. Domenico è consapevole del fatto che in tutto lui è una figura del tutto marginale, e Dio il vincitore. “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). Tenendo presente che l’efficienza non è un fine, cerchiamo di capire il significato di “inutilità”, quel “qualcosa” che avviene tra Dio, il suo servo e colui al quale è inviato. E’ sorprendente come i testi liturgici facciano esplicito riferimento all’ultimo discorso di Gesù dal Quarto Vangelo, indicando la 2

sua parte centrale, in cui Gesù, poco prima della morte, agli Apostoli riuniti nel Cenacolo spiega con pazienza, per non dire: predica, ciò che caratterizza una comunità di credenti: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,1-9). Dal passo citato emerge chiaramente che la vita della comunità si consiste nel suo rimanere (restare, essere costante, stare saldo, dal greco menein) nel Figlio e il Figlio nei credenti – solo così la comunità può portare frutto. Come in tutto il Quarto Vangelo, ove il verbo menein appare quaranta volte, il “rimanere” ha un valore programmatico, così nella vita dei Predicatori: solo la costante e permanente comunione con Gesù conforma la pietra angolare del loro funzionamento; non trucchi umani, ma una profonda unione con Lui e in Lui è la garanzia del successo della predicazione. Quindi, come possiamo “restare nel Figlio”, in modo che Lui possa abitare in noi? Il menein è veramente realizzabile? Mi permetto citare un bellissimo, e non facile, frammento del Concilio Lateranense IV, menzionato in precedenza: “Quando, allora, la Verità prega il Padre per i suoi fedeli, dicendo: Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola in noi, come noi siamo una cosa sola, il termine una cosa sola quando si tratta dei fedeli si deve prendere nel senso di unione della carità nella grazia; per le persone divine, invece, deve intendersi come unità di identità nella natura, come altrove dice la Verità: Siate Perfetti com’è perfetto il vostro Padre celeste. È come se dicesse, più chiaramente: Siate perfetti della perfezione della grazia, come il vostro Padre celeste è perfetto della perfezione che gli è naturale, cioè ciascuno a suo modo, perché tra il creatore e la creatura per quanto la somiglianza sia grande, maggiore è la differenza”. (can. 2)

Proviamo a sistemare Il Predicatore, per non far la figura di un giocoliere che inganna se stesso e gli altri, deve rimanere in Dio, ovvero, come creatura deve costruire una perfetta unità con il Creatore: non per natura ma per grazia; non deve diventare un dio per gli altri ma simile a Dio. Devi dare l’accesso a Lui, rivelando la sua perfezione e unicamente basandosi su di essa. Naturalmente, questo “deve” non si può forzare con la volontà come pure la trasparenza nella predicazione non si acquisisce di botto, all’improvviso. Si tratta di una apertura a Dio che guida l’opera, dove si scopre e si accetta di essere “inutili” in senso umano. Un compito difficile. Sì, e probabilmente non pochi potrebbero soffrire sconfitta in questo senso della missione, se non ci fosse un piccolo dettaglio: i testi indicati non riguardano tanto l’individuo quanto la comunità. L’ultimo sermone Gesù non lo predica al vuoto del Cenacolo, ma agli apostoli riuniti lì; si sa, non a tutti, perché Giuda – di propria volontà, con i suoi progetti per la vita – è uscito prima. La missione della predicazione Gesù la affida non agli individui, ma al collegio dei suoi discepoli. Essi 3

diventeranno apostoli, cioè letteralmente inviati (dal greco apostolos, inviato) per condividere con gli altri l’esperienza del Cenacolo. Per questo i Predicatori si riuniscono in preghiera, anche più volte al giorno, per celebrare pubblicamente la liturgia delle ore. Non lo fanno, perché conviene, perché l’hanno promesso, perché gliel’ha ordinato il loro superiore, etc. Ogni predicatore sa perfettamente che dalla comune preghiera ci si può dispensare senza troppa difficoltà, fornendo giustificazioni più o meno convincenti. Lo stesso vale per la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, che non essendo una norma risalente alle origini dell’Ordine, nemmeno rappresenta la continuità di una tradizione. Dunque non per tradizione un po’ nostalgica e nemmeno per “canonica sacralità” dell’atto ma per poter entrare nella dimensione fondamentale per lo stile di vita che caratterizza i Predicatori ovvero lo spazio del Cenacolo, per essere uniti con Colui che predica l’”ultima predicazione”. Questo è il motivo per cui l’intera legislazione dominicana – che nella Chiesa comporta un vero unicum – si può adattare in modo flessibile alle esigenze del tempo, tranne la Regola di Sant’Agostino, in modo tale che sin dalle prime frasi non ci sono dubbi: “Il motivo essenziale per cui vi siete riuniti insieme è che viviate unanimi nella casa e abbiate unità di mente e di cuore protesi verso Dio”. Sono convinto che per i predicatori questa casa era ed è il Cenacolo: dove Cristo prima ha lavato i piedi dei discepoli, poi ha predicato, infine ha mangiato con loro. Solo da simile Cenacolo il collegio dei predicatori esce unito con il Figlio – nel caso dei fratelli anche sacramentalmente, tramite l’ordinazione, in persona Christi – esce fuori per essere apostoli, per “andare e predicare” con il coraggio, per contemplari et contemplata aliis tradere, contemplare e comunicare agli altri ciò che si è contemplato, come ricorda uno dei motti dell’Ordine.

Solo in questa prospettiva… …si può capire il particolare atteggiamento dei Predicatori verso i loro santi, spesso causa di sorpresa, soprattutto attualmente. Esso non è però una scelta casuale ma “cercata”: basta studiare, in tal senso, i più antichi calendari, attraverso i quali si organizzavano le celebrazioni domenicane, per rendersi conto che essi sono privi di tante memorie e feste in onore dei santi. Nell’Ordine dei Predicatori non si tratta della semplice imitazione dei santi. Fondamentale è la chiamata ad essere inviato ad una missione concreta, spesso discreta, difficile da descrivere o addirittura impercettibile, udita nel Cenacolo, in unione con Cristo, un’immagine di cui – aggiungerei, solo l’immagine – sono le biografie di santi. Non si tratta quindi di tener fede a qualche testamento, come quello lasciato a suoi seguaci da san Francesco, alla fedeltà di cui si può discutere; è necessario il “rimanere in Dio” da cui nasce la compassione per i peccatori: la missione ben concepita non è un attivismo che si compiace di se stesso e cerca l’affermazione sugli altri. Ecco perché di san Domenico si dice che stava proprio in medio Ecclesiae, lacerato tra Dio e il mondo, tra la santità e il peccato, tra le cose di Dio e dell’uomo. Era lì al momento e finché era necessario. Qui si spiega anche il senso di attaccamento ai beni terreni dei Predicatori: la povertà non radicale ma volontaria, vale a dire, non tanto di non avere nulla nella comunità, come piuttosto possedere soltanto il necessario, affinché non manchi in strada... Certamente fa bene quando non si torna a mani vuote dalla missione, ed è eccezionale e bellissimo che si possa godere i frutti della predicazione, spesso dei veri e propri miracoli. In questa euforia però, nell’anno giubilare, vale la pena che i predicatori si confrontino con le domande difficili, ricordando tutti quelli che si sono persi nella vita domenicana, che hanno lasciato l’Ordine oppure che si sono scandalizzati. Può darsi come predicatori per troppo tempo, forse inconsciamente, abbiamo abbandonato il Cenacolo? Può darsi perciò che il nostro invio ad essere in medio Ecclesiae si sia indebolito, forse abbiamo trasformato i nostri conventi, la “santa predicazione”, addirittura 4

involontariamente, in pensionati che funzionano più o meno bene? Può darsi abbiamo lasciato da parte il primato di Dio, impegnandoci in efficienza o, peggio, in efficacia, alla ricerca dell’affermazione dimenticando, che la predicazione inizia nel Cenacolo, nella comunità, alla liturgia conventuale – cioè quella a cui “convengono” tutti (dal latino convenire) – nell’ascolto della Parola e nutriti da Lui stesso? Solo una comunità di questo genere ha capacità di attrarre, e la sua mancanza, trasformando la missione da comunitaria a personale, distrae dall’Ordine lentamente e spesso impercettibilmente.

Alla fine Qualcuno potrebbe eccepire: questo è un testo di fratelli e per i fratelli, ma dove sono gli altri? Dove sono le monache, le suore, i laici domenicani, i simpatizzanti dell’Ordine? Sono certo che l’invito al Cenacolo non è riservato solo per i Predicatori “professionisti”, anche se tramite l’ordinazione sono entrati in unione sacramentale con Cristo. Essa non è nessun merito, al contrario, piuttosto un’accettazione di responsabilità per gli altri, di cui, nota bene, saranno giudicati. Ciascuno deve scoprire il suo Cenacolo, nella comunità in cui vive. Là può e deve rimanere con Cristo per ascoltare l’invio ad una missione concreta. Come san Domenico era per i fratelli un uomo di secondo piano, così i Predicatori devono essere uomini del secondo piano, in medio Ecclesiae, senza la ricerca di autoaffermazione. La missione della predicazione e la missione della Chiesa non comincia con i Predicatori e sicuramente non finisce con loro. Solo in questa prospettiva – l’unione con Cristo dal quale scaturisce lo slancio della predicazione – l’ammonizione del quarto successore di san Domenico, Umberto de Romans, soltanto al primo avviso sembra iconoclasta ed eccesivo: “Amiamo l’Ordine, così utile a tutti, in cui abbiamo ottenuto la speranza della salvezza e siamo stato ricavati dalla grazia” (Diligamus Ordinem tam utilem omnibus, in quo et nos spem salutis adepti sumus, et gratiam consecuti). Solo in un tale Ordine così – insieme con gli altri avendo “unità di mente e di cuore protesi verso Dio” (Regola di S. Agostino) – vorrei rimanere.

L’articolo è stato pubblicato in “W drodze” (magazzino dei domenicani in Polonia) al novembre 2015.

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