Enrico Testa [Parola plurale]

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Enrico Testa

Enrico Testa ha ricevuto dalla critica molto meno di quanto le abbia dato. Vittima del diffuso pregiudizio per cui il poeta-professore è zavorrato dalla sua stessa autoconsapevolezza, nonché dell’apparente epigonismo tematico e formale (restando fermi alla somma pelle del testo), la poesia di Testa è stata a dir poco trascurata dai lettori militanti e dalle canonizzazioni antologiche. Il percorso poetico di Testa era iniziato con Le faticose attese (Genova, San Marco dei Giustiniani, 1988), sotto l’egida – nella forma di una sentita prefazione – di Giorgio Caproni. Proprio dall’eredità dei maggiori della terza generazione, autori di quella svolta che – come più volte dimostrato dal Testa studioso – segna negli anni Sessanta il turning point della poesia italiana del secondo Novecento (da Sereni e Caproni, insomma) parte la scrittura del giovane autore. Ma con un ulteriore passo indietro dell’io-soggetto, quasi esiliato dalla pagina, che riveste di un tono talora fiabesco talora quotidianeggiante – di una naturalezza però solo superficiale – elementi tematici non di rado tendenti all’inquietudine. Anche nella sua seconda raccolta, In controtempo (Torino, Einaudi, 1994), approdato alla collana bianca, Testa si dimostra ancora sensibile alla lezione di Caproni e Sereni. Tuttavia sarebbe sbagliato sopravvalutare l’influenza dei due: non dovrebbe accadere con l’atmosfera sereniana (che fondamentalmente consiste nella vocazione per un modello semiotico teatrale), ma nemmeno deve costituire una eccessiva tentazione con i più vistosi elementi caproniani (riprese metriche – principe il corto circuito della rima in clausola, che però non ha in Testa una funzione sempre epigraficizzante, ma talvolta anche di sordina –, tematiche e lessicali – l’“incerata”, la “latteria” per esempio). Soprattutto le tessere più marcate si rivelano talvolta quasi specchietti per le allodole: consapevoli hommages, ma altrettanto consapevoli segnali di distanziamento, quasi verbali di una discussione (si pensi al capronianissimo “riascolto sempre / ciò che non ho mai sentito”, quasi citazione che però revoca in dubbio la matrice ontologica per trasferire il discorso su un piano memoriale-esistenziale, e in fin dei conti etico). E in generale i lacerti narrativi di Testa non sono allegorici come in Caproni: non stanno al posto di alcun significato di ordine superiore, perché nella contingenza del senso immediato risiede il loro unico valore. La lingua di In controtempo non esorbita per lo più dall’italiano standard, con lievi escursioni verso la colloquialità (soprattutto dal punto di vista sintattico – ma talora con contromovimenti improntati a una pronuncia più alta; il lessico offre talvolta qualche elemento più eletto, per quanto non di preziosismi letterari in genere si tratti), anche se sotto la specie di un’apparente naturalezza, di movenze che a volte sfiorano la filastrocca, di ambientazioni quotidiane, si disserrano inquietanti porte

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metaforiche. L’‘io’, soggetto dell’enunciazione, si inserisce nel testo tentando un processo di identificazione, ma ne riesce spaurito, frustrato (si pensi ai molti ma che introducono la seconda strofe, commentativa, di diverse poesie), costretto così ad accettare il suo ruolo di esiliato, con un misto di composta rassegnazione e di fanciullesco abbandono; lo scacco non comporta però riflessioni di carattere metafisico, alla maniera di Caproni (se una divinità compare, non gli si mostrano – capronianamente – i pugni, perché non è crudele, piuttosto senza onnipotenza, come il dio di Jonas), ma semmai conduce sul terreno dell’etica: “ruoto tra i quattro punti / del quadrilatero oscuro del tango: / il mio sé vuoto lo prendo, / di fronte al mare, / in controtempo; / il ritmo della morale / è uno solo: / a levare a levare”. La morale dunque osserva un ritmo sincopato, con gli accenti spostati sul levare, appunto. Ciò che dà conto anche del titolo della raccolta, In controtempo, la cui pregnanza offre però altre concomitanti soluzioni: in controtempo, perché ci si mette di fronte al tempo fuggente (“se si ha contro il tempo / e si ruota in assenza di vento”); in controtempo, nell’accezione sportiva di spiazzamento; in controtempo, infine, perché all’‘io’ enunciante si contrappongono molte altre voci, a volte mimetizzate, ma spesso aggettanti in quanto comprese tra ben visibili virgolette; difatti, Testa si inserisce in una linea di poesia dialogica che dai già detti Caproni e Sereni (e anche da Giudici) arriva almeno sino al Viviani degli anni Ottanta-Novanta: costante la messa in scena di un ‘io’ che si confronta – più o meno cruentemente – con altre voci, sulla scena di un solo testo o nel territorio più esteso di un macrotesto. Non è a ciò indifferente che al centro della poesia di Testa ci sia il tema della responsabilità, l’attenzione nel trattenere sfuggenti relazioni umane, che testimonia la sproporzione, l’asimmetria della relazione dialogica nel tentativo di preservare l’alterità dell’altro mettendo fine a un imperialismo del soggetto in cui metafisica e poesia tradizionale sono alleati. A proposito della continuità tra i vari testi, non è possibile individuare una linea narrativa che li tenga incastonati, ma piuttosto un disegno fluido ed ellittico: di un presunto ma inverificabile continuum narrativo, cui pure alludono gli incipit senza lettera maiuscola e i finali senza punto fermo, non restano che membra disiecta, lacerti eterogenei di origine autobiografica mediata o fittizia, spesso onirici, dove infatti non si realizza un’isotopia di persone (il “tu”, per esempio, può corrispondere a entità del tutto diverse da testo a testo), ma una varietas che induce un movimento centrifugo. Con la terza stazione del suo itinerario poetico, La sostituzione (Torino, Einaudi, 2001), Testa raggiunge senza dubbio il risultato maggiore della sua scrittura, venendo a occupare un posto di assoluto rilievo tra i poeti della sua generazione. Non è difficile individuare il centro del libro, che pure è costruito non senza una vena pluritematica. Basso continuo e insieme cuore sanguinante della raccolta è il dialogo come ascolto della voce altrui: in particolare il dialogo con i perduti, con i morti. Si può anzi dire che il centro stesso del libro sia la

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tematizzazione – insieme continuamente accennata e differita – della morte stessa: è d’altronde proprio l’autore che ci avverte nella Nota finale: “a un verso di Dylan Thomas si potrebbe riportare gran parte dei testi di questo libro, nati ‘for the country of death is the heart’s size’: ‘perché il paese della morte è la misura del cuore’” (p. 99). Nella folla dei perduti, il volto che emerge nella sua insoffribile assenza è, su tutti, quello materno: ma il corredo autobiografico di date (celanianamente intese) listate in nero è disinquinato da qualunque sinistra elegia consolatrice del tradizionalmente monumentale io lirico. Nel momento della perdita (“ed io la guardai e il suo viso / sul mio non si fermava più: / a poco a poco e poi all’improvviso / dio mio! – indietro e lontano – insieme, nel vano / corridoio della notte: nel ristagno del pianto”), il soggetto si elide in un abbraccio con il lettore nella comune esperienza di una scena – primaria e ultima – da tutti già sempre temuta e vissuta ogni giorno in sogno e in veglia: il destino di orfanità, osteso e offerto come pegno della comune e plenaria souffrance. Per questo sentiero si può arrivare anche al titolo della raccolta e della sua sezione centrale (che contiene la poesia sopra citata): nella morte, si scopre il gioco delle relazioni, si constata che La sostituzione non è un rischio o una colpa (non solo, almeno), ma è strutturalmente organica al nostro stato di essere-con. L’accusa che sorge dal venire meno nel dialogo con l’altro, venire meno che dalla morte altrui è sanzionato e per sempre amplificato, è in realtà allo stesso tempo il silenzio che ci consente (che ci necessita) alla gioia e al trauma (al rischio) della comunicazione. Parla la madre, la perduta: “e di me ti prego non se ne parli più / ché questa soltanto è la risposta celeste / alla domanda del nome”. Ma di fronte al silenzio, nasce l’invocazione: “comunque sia, la parola / – risuona anche adesso / che l’ora è svanita – / era una soltanto / (eccomi)”. Si intuisce qui la declinazione levinassiana di questo dialogo, il richiamo che sempre invoca e convoca chi resta, fino all’impossibilità della sottrazione, all’instaurarsi di una sostituzione (d’altronde termine-chiave del Levinas di Altrimenti che essere) con l’altro già sempre perduto che si rivela inderogabile struttura ontologica, oltre che richiamo etico: una sostituzione che chiama nel presente, nell’ora, alla sfuggente reciprocità delle relazioni umane, incontrollabile e rischiosa, ma anche punto focale dell’esistenza. Così Testa stesso: “non l’assenza delle relazioni che si presume essere propria, nell’immobilità e nel silenzio, della condizione del dopo e che segna – geroglifico sul suo sepolcro o nebbia che vela il lontano limbo dell’essere – tanta parte della storia del pensiero occidentale, ma proprio l’inafferrabile fuga delle relazioni è il punto di gravitazione della nostra realtà: l’elemento dominante della nostra permanenza qui” (Testa 1996, 56). Alla poesia non resta dunque che disegnarsi come un’accorata e cordiale testimonianza, tra coraggio e paura, di quella che, in La sostituzione, è memorabilmente definita “la sfolgorante moneta del passaggio”. Che essere quindi: “Faccia a faccia: dialogo solcato dai segni del silenzio e della reticenza ma anche aperto all’inaudi-

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to e all’impossibile; movimento del dire; spossessamento dell’io che abiura al repertorio lirico della soggettività esibizionistica; voce che è eco di plurime voci; allusione mimetica al volto dell’Altro” (ivi, 12). Dove importa soprattutto cogliere il rapporto tra rinuncia all’esibizione dell’io e dilatamento e moltiplicazione delle voci: molte delle poesie di Testa sono aperte e chiuse da virgolette, a indicare la presenza di una persona diversa dal soggetto enunciante comune al resto del libro. La lingua di Testa, prossima allo standard, ma non ignara della tradizione novecentesca, si impegna in una ricerca del quotidiano e della sua ineffabile dicibilità che procede oltre sulla linea di un risparmio di mezzi alla cui declinazione l’autore ha dedicato intanto un decisivo libro da studioso, Lo stile semplice. Ma, seguendo il dettato di quel libro, bisogna tenere ben presente che lo “stile semplice” non soffre di un’ipoteca realista o immediatamente referenzialista nel suo rapporto con la rappresentazione del reale: anzi, affrontare il reale nella sua specie più familiare, quella quotidiana e discorsiva, permette di mostrarne le aporie più inquietanti. La folta presenza della figuralità non contrasta con la semplicità dello stile, perché la natura delle molte metafore non esorbita dalla scelta di figuranti tolti dalla quotidianità, al centro della quale anzi isola zone di spaesamento. 562

Enrico Testa è nato a Genova nel 1956. Laureatosi a Genova in Storia della lingua italiana con una tesi sulla lingua degli ermetici minori, si è occupato soprattutto di lingua letteraria, distinguendosi come uno dei maggiori studiosi italiani di stilistica. Ha pubblicato, tra le altre cose, Simulazione di parlato (Firenze, Accademia della Crusca, 1991) sulla novella quattrocentesca e cinquecentesca, Lo stile semplice (Torino, Einaudi, 1997) e diversi studi sulla poesia italiana novecentesca, dal volume Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali (Genova, il melangolo, 1983), a Montale (Torino, Einaudi, 2000) a importanti saggi e recensioni su Caproni, Sereni, Zanzotto, Viviani, parzialmente raccolti in Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999 (decisivi i contributi sulla figura del personaggio e sulla testualità, specie per i fenomeni di deissi opaca). Ha curato Giorgio Caproni, Quaderno di traduzioni (Torino, Einaudi, 1998), e la traduzione di Philip Larkin, Finestre alte (Torino, Einaudi, 2002) e, recentissimamente, l’antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (Torino, Einaudi, 2005). Notevole – frutto di un’autocoscienza quasi impressionante – anche il volumetto di pensieri di etica e di poetica Pronomi (Torino, il Segnalibro, 1996). I suoi libri di poesia sono: Le faticose attese (Genova, San Marco dei Giustiniani, 1988, prefazione di Giorgio Caproni); In controtempo (Torino, Einaudi, 1994); La sostituzione (Torino, Einaudi, 2001). Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Genova. Di Testa hanno scritto: Giovanni Giudici, “l’Unità”, 12 settembre 1994; Paolo Zublena, “Resine”, 67, 1996, pp. 85-86; Enrico Capodaglio, “Corriere Adriatico”, 13 giugno 2001; Paolo Zublena, “L’indice dei libri del mese”, 7, luglio-agosto 2001; Giovanni Giudici, “Corriere della Sera”, 1 settembre 2001; Andrea Cortellessa, Sé come un altro, “Poesia”, XV, gennaio 2002, 157, pp. 63-67; Viviani 2004, 21-24.

[p.z.]

da Le faticose attese le lame dei sogni incidono il corpo della notte con infinita pazienza: alla stazione di Vienna i calciatori vanno via alla spicciolata * oh le infinite le faticose attese: i nascondigli le sorprese i tuoi denti gli occhi ridenti i nostri sudori i tremori: c’è sempre qualcosa da fare anche nei giorni passati ad aspettare che il buio abbracci il sole * il tamburello che suonerai ai quattro venti con le mie ossa sarà la musica più allegra: agitando il sonaglio dei miei denti dimenticherai tutti i tuoi tormenti * la gioia di ritrovarti, di far prendere aria alle tue ossa per i viali (dalla fossa alla cassetta di zinco) toglieva rancore alla passione livore all’ironia: esumavo me stesso nella tua salma, capivo finalmente il perché della tua calma. Dammi dunque i segni del tuo conforto, fammi sentire dalla foce solo il suono – non le parole – della tua voce. Fuori qui intorno sonnecchiano i forti – qualche vecchio lavora negli orti – ma, mentre ancora mi specchio sopra il mio torto, lontano sul mare, sugli scali, sulle gru

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scende, dolce, la rugginosa cipria del porto. * amore, novembre è il mese dell’abbandono, il mese del ghigno rinsecchito, che alle inopinate questue della vita fa ‘no no’ col dito *

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la figlia del custode sperduta sulla riva del lago sente il suo padrone, il mago, che la chiama per dirle della sera, che come una fiera gli addenta le mani, gli mostra (col suo patire) quanto sia fredda e lenta (come gli inganni più cari) la musica a finire * come imprigionarla nella torre più alta di questa terra di sterpi e guardarla dal basso dalla sassaia senza paura delle sue serpi… come scordarsi del suo viso di metallo e allontanare col solo gesto dell’esclamazione la sua parola muta, la menzogna dell’esitazione, lei che rifiuta anche il nome… *

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si dovrebbe scivolare sulle rughe del serpente per toccare la carta scolorita che il nano sefardita fa volare giù dal tetto col gesto distratto dell’amore: per rompere l’assedio della premonizione, per salutarci, ubriachi d’attesa, nella sparizione

da In controtempo inventala tu la mia storia che sai i colori del carattere e le ragioni del mio nome, scegli i pezzi giusti, quelli della passione pura, che vanno infine a posto e che compongono la nostra (unica) figura * all’“Anno Nuovo” stasera le voci (un mormorio folto di senza parole) invitano allo scambio della somiglianza, alle tracce altrui e alla loro danza agosto ha il tepore gentile di una fiamma: libera il peso del nome: ci guida (finalmente) sulla scena del dramma * sotto il manto d’argento degli ulivi, rovesciato dal grecale, dispone nei distici dei solchi i semi delle fave. È nel campo a lavorare e si sussurra, per noi, nella mente – come una poesia –

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una canzone che non si può scordare (l’allegria del mai-stato) oh fossero così, senza spine, le sillabe che – come una preghiera – gli lanciamo da qui, appena ad un passo dalla frontiera…

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cingendo le ciglia di nevischio e le fronti di corone di dolorosa cartapesta oggi non brucia ciò che resta dei nostri stupori e ci prepara invece una notte chiarissima: pietà, parole, errori che al tatto suonano come filamenti di colori *

* sul sentiero delle casematte riascolto sempre ciò che non ho mai sentito: il battito del secchio vuoto del latte sul tuo vestito nero

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chi, al principio dell’estate (e sul finire della guerra) tornava a casa inseguendo tra gli ulivi il mostrarsi infido e vario della paura e del coraggio, sono adesso (con te) io: il tuo ostaggio, il tuo sfocato miraggio * per cercare Lucetta che era fuggita sull’altopiano ci siamo perduti tutti e tre. Non erano sue le tracce che seguivamo, ma di una quinta persona, di un altro che non s’è mai fatto trovare: il solo che poteva dirci che fare * come mai il gelo e il vento che ci acceca nei vicoli

“tuo padre l’hanno fatto a brani i senza pietà rinunciando alle parole nel silenzio del meriggio. Prima ospitali (piegavano i rami al passaggio, offrivano aiuto nella salita) poi attenti solo all’acciaio gelido e opaco: un guizzo nella foschia che veloce invadeva con i vessilli delle sue legioni le rupi e il bosco dei pini” * “no, non andò così: fu lui, stretto dallo sconforto, a scegliersi la fine. Un gruppo di amici partecipò per pietà alla scena, lo seguì nel bosco, ne preparò la partenza: diedero tutti prova di affetto e pazienza” * “qui il guardiano della vostra casa fu deriso dai calvinisti” spiega la guida, e così prosegue: “ma, come ogni sentinella combattè battaglie che nemmeno i guerrieri più tristi, avvolti nel fango,

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conoscono” adesso cambia tono e si rivolge ad una soltanto: “le sfide che i colori dei sogni e il nostro rancore lanciano all’attesa dell’alba, al tuo sottile amore” * se si ha contro il tempo e si ruota in assenza di vento non vale discutere la rotta o parlare di buio, di chiarore o dei versi del disonore il sale cresce sulle ciglia spente del pugile che lascia la lotta come un sottile dolore lucente 568

* quando le maree atlantiche della paura invadono la barca non resta che gettare la rete: chi sa che non porti a galla chi, per salvarci, abbiamo spinto ad annegare: l’ostaggio consegnato alle onde querule del mare * ruoto tra i quattro punti del quadrilatero oscuro del tango: il mio sé vuoto lo prendo, di fronte al mare, in controtempo; il ritmo della morale è uno solo: a levare a levare *

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e che fragori e che lampi sotto il velo fosco del tifone e poi che calma piatta… sullo specchio annerito che, tra mare e cielo, segnava un rotta curva di errori, franava silenzioso, tra lazzi e lamenti di tutto l’equipaggio, il rosario dei tremori * l’impassibile serenità del mistero se ne infischia di ogni aspetto fiero: mi tiene tacendo in iscacco mentre guardo alla pagina e a chi, dietro le righe, si agita quando le sirene marittime traversano la notte si fa la figura del matto a credere che suonino per le nostre lotte * oh Nostra Signora del Buon Cammino, che ci pedinasti sin qui senza fretta, quando l’inchiostro e il succo delle more tingeranno le sue mani e le prime forme patiranno la stretta tenera dell’arte, non cedere il passo al Maestro che, agitando le sue carte, si farà avanti a dire: “solo mia è la tutela benedetta!” * dal fiume sembrava deserta la piazza di fronte al Tempio nascosto nella trama leggera delle palme mosse dal vento

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siamo solo in due di età diversa ad ascoltare le voci calme della cerimonia del velo, a chiedere con paura la strada per gli aranceti del cielo

da La sostituzione a Lei, origine del mio disonore, i passi falsi e le fughe questi brani dispersi le rughe d’amore: i ricordi dei versi *

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ma ogni forma è ingiusta e più di tutte questa che ci scolpisce adesso nel grigio di un’improvvisata fine in Mariahilferstrasse: deposti nella polvere che vela le vetrine sotto il tamburellante cielo della pioggia avvenire * “se torno a far cena in latteria non è per imitare passi e gesti della mia lontana gioventù… è che già morto ormai, ancora debbo vivere e della mia perduta vita trovo qui chi me ne smemora il sorriso e il lucore me ne offusca sino a farne tenue traccia dentro il buio: qualche pescatore, un barabba stolto ed empio e poche donne che talvolta sul tormento del gelo che segna le mie mani piegano lo sguardo acceso e netto. Fuori – di là dai vetri – cresce il battito notturno della risacca invernale. E Genova e mare, che m’allevarono nel frastuono di carri e onde,

ora vorrei che d’incanto mi svanissero nel pianto” * sul punto di salpare e finalmente rompere i flutti del tuo dove-non-so, il prete – alla fine della messa – ci sorprese: non con un santino o un talismano, ma con una piratesca macchia nera incisa sulla mano dicendo a voce fioca “Fate la conta dei vostri lutti” e poi con forza “Buona trasfigurazione a tutti!” * al gonfiore delle tue braccia o – se voi lo preferite – al livido e gelido arcobaleno della nostra fine so che devo rispondere non sapendo cosa rispondere: ho soltanto una misera piccola storia, la balbettante (nel buio fluorescente) preghiera della tua gloria * “sin qui sei stato attento ad ogni cosa e indulgente – certo – anche più del dovuto. Ma di fronte a questo mare che ora si spalanca lévati di torno lasciami! ti prego. Non vedi come si sgrana sul filo delle labbra il requiem aeternam che recito per me nella mia mente? Sulla riga frusciante del niente si sente ora solo il tuo saluto”

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* ed io la guardai e il suo viso sul mio non si fermava più: a poco a poco e poi all’improvviso si slanciava – dio mio! – indietro e lontano insieme, nel vano corridoio della notte: nel ristagno del pianto. Sul rovescio una luce meridiana – uno schianto – e nel parco, arido e bianco, frotte di bambini in corsa *

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“se, trasfigurata dalla sorte, ritorno al mattino in cucina (tarlo passero o fiore di limone soprassalto del suo cuore) o se l’incrocio di fronte alle porte della chiesa o sul velo di brina che i prati ricopre e che il sole strugge col suo primo bagliore, ogni volta – e non so perché – allontana il viso dal mio sorriso e il suo passo trema e svaria: oh gioia mia, come ti sei fatto feroce, in pochi mesi, e indeciso e fioco! Ma ti basta così poco, questo filo di dolore per perdere in silenzio anche ciò che resta (come dopo un’atroce festa) del mio sottile onore?” * nel bosco dove né lume né torcia, anche tranciando il fosco della ramaglia, varranno a ritrovarci

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insieme e sperduti nel bosco dove non saprà stanarci neppure il losco signore che ci diede in sorte questa distratta figura: il piombo – eterno – dell’eterna paura * comunque sia, la parola – risuona anche adesso che l’ora è svanita – era una soltanto (eccomi) sottile come un ramo d’acanto: oscillando, se necessario, sul filo del fango andare l’uno al fianco dell’altro o nella canoa che taglia l’acqua gialla dello stretto remare mentre accanto ci scorrono gli alberi enormi della foresta improvvisa * ma fuggiasco dal giardino di casa, dalle rose, le ortensie, l’antico cipresso che ha ora i miei anni come posso ancora in quest’ora scura d’Islanda esser fedele a quell’ordine nel dormiveglia svanente? rispondere con questa parola che è meno di niente alla sua bianca domanda? * “taccia gentilmente il tuo cuore e di me, ti prego, non se ne parli più ché questa soltanto è la risposta celeste alla domanda del nome” *

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parlare qui non è vedere o alle nere figure annuire che sciamano nella notte sulla passeggiata lungo il porto, ma scambiarci quanto in noi c’è di più mortale in attesa d’andare, avanti giorno, per legna sulla spiaggia dopo la mareggiata *

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ne saranno rimasti ben pochi ormai di quei vecchi che allo Smeraldo sonnecchianti l’intero pomeriggio gli occhi riaprivano soltanto alle luci accecanti in caduta tra un tempo e l’altro e neppure affondando lo sguardo nel “Mercantile” riprendevano poi inquieti a dormire (fuori l’inverno e il vuoto) in quel ridotto inferno che muffa e lussuria, dipinte sulle pareti e lo schermo, tenevano in signoria. Ma aspettavano anche loro, lì nell’albume dell’antro, il passo del messia * “crescendo, molto ho dimenticato e tutto d’un tratto son rimasto senza fiato nella pausa muta del tuo accordo. Così – per quel poco che ricordo – andavo senza sosta, parlavo e andavo, parlavo e tornavo pronto soltanto a riempire il mio vuoto cesto di vento. Poi l’incontrai là dove verde e morente la tratteneva il tempo”

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* ma era questo il mio eden? questi pochi metri di terreno dietro casa né orto né giardino: rose malate, un malvissuto melo, limoni che ritrovano l’agro dello spino nei nuovi germogli dopo il gelo, le sante lumache in processione nella brina, il muschio fedele alla sua pietra anche nel crudele tremore dell’estate… no, non era questo – erano, più in alto, le ginestre puntate verso il cielo, il confuso rumorìo nel vento di foglie e ali, la sosta alla sorgente che consolò il tuo pellegrinaggio alla montagna: stremato e senza ardire io mi fermai a mezza costa e ti lasciai sparire * quante volte sono stato (per qualche istante) tuo padre! per tornare, poco dopo, nuovamente tuo figlio e definitivamente poi e anche in luoghi e stanze per i più innominabili. Ora nulla e nessuno siamo ad entrambi, seppure lambiti dal coraggio e avvolti nel sospetto del bene, che fu e che resta, nell’esaurirsi della conta, la sfolgorante moneta del passaggio

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