Esegesi, commento e sistema nel medioplatonismo

May 27, 2017 | Autor: Franco Ferrari | Categoria: Ancient Philosophy
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ARGUMENTA IN DIALOGOS PLATONIS TEIL 1: PLATONINTERPRETATION UND IHRE HERMENEUTIK VON DER ANTIKE BIS ZUM BEGINN DES 19. JAHRHUNDERTS

AKTEN DES INTERNATIONALEN SYMPOSIONS VOM 27.–29. APRIL 2006 IM ISTITUTO SVIZZERO DI ROMA HERAUSGEGEBEN VON ADA NESCHKE-HENTSCHKE UNTER MITARBEIT VON KASPAR HOWALD, TANJA RUBEN UND ANDREAS SCHATZMANN

SCHWABE VERL AG BASEL

Inhaltsverzeichnis

Vorwort zu den Bänden Argumenta in dialogos Platonis, Teil I und II Ada Neschke-Hentschke ............................................................................................ VII Einführung zu Argumenta in dialogos Platonis, Teil I Ada Neschke-Hentschke ............................................................................................

1

Die Antike Der Platonische Dialog als Prototyp der Gattung «Philosophischer Text» und Gegenstand der Exegese Ada Neschke-Hentschke ........................................................................................

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Übersicht über die Auslegungsgeschichte der Platonischen Dialoge in der Antike (1.Jh. v.Chr. bis 6. Jh. n.Chr.) Ada Neschke-Hentschke ............................................................................................

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Esegesi, commento e sistema nel medioplatonismo Franco Ferrari ..........................................................................................................

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Instruction and Hermeneutics in the Didascalicus Harold Tarrant ....................................................................................................

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Esegesi e sistema in Plotino Riccardo Chiaradonna .............................................................................................. 101 Philosophieunterricht und Hermeneutik im Neuplatonismus Gyburg Radke-Uhlmann .......................................................................................... 119 Le «but» et le «caractère» du Timée dans l’In Timaeum de Proclus. La fonction herméneutique des kefãlaia énumérés dans les prologues aux commentaires néoplatoniciens Alain Lernould ......................................................................................................... 149 L’interpretazione di Platone e la fondazione della teologia nel tardo Neoplatonismo Michele Abbate ......................................................................................................... 183

Inhaltsverzeichnis

VI

Die Neuzeit Übersicht über die Auslegungsgeschichte der Platonischen Dialoge in der Neuzeit (15. Jh. bis zum Beginn des 19. Jh.) Ada Neschke-Hentschke ........................................................................................... 197 I Decembrio e la Repubblica: Prologhi, argumentula e marginalia Mario Vegetti ........................................................................................................... 235 Das Sokratesbild in Ficinos argumenta zu den kleineren Platonischen Dialogen Michael Erler ........................................................................................................... 247 Germana philosophia – gemina veritas. Platonhermeneutik und -didaktik im frühen Calvinismus (Jean de Serres 1540–1598) Ada Neschke-Hentschke ............................................................................................ 267 Platon in der Renaissance: Marsilio Ficino und Francesco Patrizi Thomas Leinkauf ..................................................................................................... 285 The Cambridge Platonists: An Overview Christopher Gill ....................................................................................................... 301 Thomas Taylor the Platonist Christopher Rowe ..................................................................................................... 315 Le démon de Socrate et la joie de Descartes Autour de l’Apologie de Socrate dans la Lettre à Elisabeth Stéphane Toussaint .................................................................................................. 327 Eclairer l’obscurité. Brucker et le syncrétisme platonicien André Laks ............................................................................................................... 351 Platon und Kant Rafael Ferber ............................................................................................................ 371 The Construction of Herbart’s Thought Through the Hermeneutics of Plato’s Theory of Ideas Francesco Aronadio ................................................................................................... 391 Von Brucker über Tennemann zu Schleiermacher. Eine folgenreiche Umwälzung in der Geschichte der neuzeitlichen Platondeutung Thomas Alexander Szlezák ....................................................................................... 411 Die Autorinnen und Autoren .............................................................................. 435 Indices ..................................................................................................................... 441

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I. Le ragioni dell’esegesi nel medioplatonismo I dialoghi di Platone furono letti, commentati e interpretati fin dalla loro comparsa. In questo senso non è sbagliato sostenere che l’attività esegetica rivolta agli scritti del corpus platonico è antica quanto lo sono i dialoghi. Già all’interno dell’Accademia, Platone vivente, non mancarono proposte esegetiche concorrenti intorno ai principali problemi della sua filosofia; la prima parte del Parmenide, ad esempio, sembra richiamare le difficoltà alle quali si espone un’interpretazione scorretta (per esempio eudossiana) della teoria delle idee.1 Sappiamo poi che i principali allievi di Platone si impegnarono fin da subito a chiarire il significato di alcuni passi particolarmente complessi e problematici; essi tentarono di portare soccorso (boÆyeia) al dettato del testo platonico, laddove questo si presentava, almeno a una prima lettura, difficile, suscettibile di interpretazioni differenti, o anche attaccabile dal punto di vista filosofico.2 Il caso più celebre di boÆyeia è sicuramente rappresentato dall’esegesi didascalico-metaforica (didaskal€aw xãrin) della cosmogenesi del Timeo. Le difficoltà cui dava luogo il testo platonico a proposito della generazione dell’universo indussero i primi allievi, e in particolare Senocrate (seguito poi da Crantore), a proporne un’interpretazione didattica, in base alla quale le parole di Platone relative alla genesi del mondo non andavano intese in senso letterale bensì metaforico, e alludevano al fatto che il cosmo, pur essendo eterno, costituisce un’entità «generata», vale a dire soggetta a generazione (g°nesiw); come ogni realtà di questo tipo, anche il mondo rinvia a una o più cause, da cui dipende dal punto di vista ontologico. Si tratta di una dipendenza di ordine metafisico, la quale viene presentata da Platone, per esigenze didattiche, in forma di posteriorità temporale. Questo significa, secondo i sostenitori di questa esegesi, che l’anteriorità metafisica dei principi (idee, demiurgo, chora) nei confronti del cosmo viene espressa in forma temporale, attraverso il ricorso alla narrazione (scandita in un prima e in un poi) e soprattutto all’immagine metaforica della nascita (g°nesiw).3 Sappiamo anche che Aristotele si oppose a questo tipo di esegesi, affermando il carattere temporale della cosmogenesi del Timeo e poi respingendo la posizione platonica. Anche il passo relativo alla composizione ontologica e alla divisione numerica dell’anima del mondo del Timeo venne immediatamente discusso e commentato dagli allievi di Platone. Speusippo e Senocrate, come è noto, proposero un’interpretazione matematico-cosmologica, in base alla quale l’anima rappresenta la forma dell’estensio1

Cfr. Graeser 2003.

2 Sull’esigenza che i primi allievi di Platone avvertirono di portare soccorso al testo dei dialoghi cfr. Isnardi Parente 1998, 216. 3 I testi relativi all’esegesi didascalico-metaforica della cosmogenesi del Timeo sono raccolti e commentati da Baltes 1998: Test. n. 138–145 e comment. 426–535.

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ne in generale (Speusippo) o un numero che muove se stesso (Senocrate); mentre Crantore intese la composizione dell’anima in senso epistemologico, dedicando poi grande attenzione alla celebre divisione numerica.4 È probabile che a causare l’insorgere della pratica del commento analitico al testo platonico, oltre all’esigenza di fornire soccorso alle affermazioni più problematiche, intervenne, almeno a partire da Crantore, anche la necessità di rendere intelligibile una lingua, l’attico, che cominciava a non essere più parlata, sostituita ormai dalla koine.5 I dialoghi platonici, dunque, furono subito commentati con attenzione e puntiglio da coloro che si richiamavano in qualche modo all’insegnamento del fondatore dell’Accademia. Questa attenzione per gli scritti platonici non venne meno neppure durante il periodo ellenistico, segnato, come noto, dall’egemonia esercitata sul platonismo dall’indirizzo scettico (che ebbe in Arcesilao e Carneade i suoi massimi esponenti). Anche in questa fase i dialoghi vennero letti e commentati all’interno dell’Accademia, nella convinzione che in essi si potessero trovare conferme alla validità dell’impostazione scettica.6 Non ci sono dubbi, tuttavia, che il periodo in cui la pratica dell’esegesi testuale e del commento alle opere platoniche conobbe un vero e proprio boom fu quello che coincide con i primi secoli dell’epoca imperiale, ossia quella fase della storia del platonismo che gli studiosi sono soliti indicare con il termine medioplatonismo.7 Se è vero che solo qualche secolo dopo, con i grandi commentari sistematici neoplatonici, l’attività di commento ai dialoghi raggiunse l’apice, non ci sono dubbi che tra il I e il III secolo d.C. la filosofia platonica, almeno nei suoi aspetti più interessanti e originali dal punto di vista teorico, si identificò sostanzialmente con la pratica del commento testuale. E anche i documenti che non possono veramente essere considerati alla stregua di veri e propri ÍpomnÆmata testuali, come il celebre Didascalicus di Alcinoo, il De Platone et eius dogmate di Apuleio e larga parte della produzione dossografica di

4 Per Speusippo cfr. fr. 96–97 Isnardi Parente; per Senocrate e Crantore si veda la testimonianza in Plut. An. procr. 1012 D–1013 A. Commento ad locum in Ferrari/Baldi 2002, 221ss. 5 Sedley 1997, 113 e Manetti 1998, 1204. Rimane tuttavia in dubbio se Crantore, da Proclo considerato ı pr«tow toË Plãtvnow §jhghtÆw (In Tim. 1.75,30 Diehl), abbia scritto un commentario continuo al Timeo oppure abbia ritagliato e commentato solo alcune sezioni del dialogo. In questo secondo caso, l’argomento linguistico perderebbe evidentemente di efficacia. Sul commento di Crantore cfr. Tarrant 2000, 53ss. 6 Così fece, ad esempio, Arcesilao (cfr. in proposito Neschke 1991, 174). Sull’esegesi scettica di Platone cfr. Annas 1990. Sulla diffusione in epoca ellenistica della pratica di lettura e commento dei dialoghi cfr. Baltes 1993, 171. Significativa la testimonianza in Cic. Tusc. disp. 2.8: Platonem … legunt omnes, etiam qui illa aut non adprobant aut non studiosissime consectantur. 7 Una buona difesa della legittimità di questa categoria storiografica si trova in Donini 1990, 81–85; cfr. anche Ferrari 2003, 343–348.

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questo periodo, in verità presuppongono in modo considerevole un simile tipo di attività esegetica, anche se raramente sembrano esplicitarla.8 Perché dunque a partire dal I secolo a.C. la filosofia più impegnativa, sia in ambito platonico che aristotelico (basti pensare ad Alessandro e alla tradizione esegetica che lo precede), assunse largamente la forma del commento ai testi del caposcuola? A questo interrogativo sono state fornite due risposte, che non sembrano in realtà contraddittorie, bensì in qualche modo complementari, e che possono dunque venire entrambe accettate in un quadro di reciproca integrazione. Secondo Pierre Hadot la rottura della continuità istituzionale delle scuole filosofiche, che cessarono di esistere a seguito degli avvenimenti collegati all’assedio di Atene da parte dell’esercito di Silla, determinò nei seguaci di un certo indirizzo filosofico il venire meno di quel senso di appartenenza che, per tutto il periodo ellenistico, era stato garantito dalla presenza fisica, ossia dalla partecipazione ai seminari e alle attività della scuola. A partire dal I secolo a.C. le scuole filosofiche cessarono di essere organismi viventi per trasformarsi in indirizzi culturali; l’appartenenza a una setta, non potendo più definirsi sulla base della concreta presenza, assunse la forma del rapporto diretto con i testi dei capiscuola. In altri termini, l’appartenenza cessò di essere istituzionale e iniziò a profilarsi sulla base della lettura dei classici: il testo scritto e la scrittura intorno ad esso si sostituirono in qualche modo all’oralità.9 L’altra ipotesi è stata avanzata da Pierluigi Donini in un monumentale articolo dedicato alle forme dell’attività filosofica nei primi secoli dell’era imperiale. Lo studioso ha sostenuto che l’importanza dell’esegesi testuale presso i platonici fu in larga parte collegata all’esigenza di dotare il platonismo di una configurazione sistematica, che ancora nel I secolo a.C. risultava largamente assente. Così facendo, i platonici si proponevano in realtà l’obiettivo di trasformare la loro filosofia, finalmente dotata di una organizzazione coerente e sistematica, in un concorrente credibile dello stoicismo, che già nel I secolo a.C. poteva vantare, secondo Cicerone, un’admirabilis compositio disciplinae incredibilisque ordo.10 Il platonismo non si presentava all’inizio della nostra era come una filosofia unitaria e compatta. L’egemonia esercitata sull’Accademia nei due secoli precedenti dallo scetticismo aveva trasformato in modo radicale la filosofia platonica, affievolendo 8 Sul passaggio dalla pratica del commento alla stesura di esposizioni manualistiche (come il Didascalicus) o di riassunti dossografici (come l’opera di Aezio) cfr. Manetti 1998, 1217–1218. Che il manuale di Alcinoo si limiti a mostrare i risultati di un pregresso lavoro di commento ai dialoghi è stato sostenuto da Donini 1994, 5062: «si è continuamente costretti a presupporre che esso [il Didascalicus] esponga i risultati di tentativi di interpretazione del testo platonico e gli argomenti messi in opera per ottenere quei risultati». 9 Hadot P. 1987, 14ss. Sulla natura del commento come scrittura dipendente da un’altra scrittura cfr. Romano 1994, 599. 10 Cic. Fin. 3.74. Sul progetto di sistematizzazione del platonismo cfr. Donini 1994, 5027ss. e Ferrari 2003, 343–348. Sulla perfectissima disciplina degli stoici Bonazzi 2005, 127.

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fino quasi ad eliminare la sua natura propositiva. E anche nel periodo di cui ci stiamo occupando non si può dire che lo scetticismo accademico si fosse del tutto eclissato, come recenti studi hanno dimostrato in modo convincente.11 Si deve poi aggiungere che la stessa rinascita di uno spirito sistematico non presentava affatto contorni definiti e univoci: accanto a un platonismo di stampo pitagorizzante, quale quello proposto da Eudoro (ed ereditato poi da Numenio), circolavano un platonismo nel quale si fondevano motivi stoici e peripatetici, come quello rinvenibile nelle testimonianze relative ad Antioco (e di cui si trova traccia nelle lettere platoniche di Seneca e nel Didascalicus di Alcinoo) e, all’opposto, un platonismo ferocemente avverso ad Aristotele (come quello professato nel II secolo da Attico).12 Al di là delle singole opzioni filosofiche, che segnarono in modo anche considerevole le differenze tra i medioplatonici, non ci sono dubbi che l’impegno esegetico degli autori di questo periodo fu in gran parte motivato dalla comune esigenza di costruire un sistema filosofico compatto e coerente, e soprattutto di rintracciarlo all’interno dei dialoghi. Del resto, che gli interpreti medioplatonici considerassero se stessi come i protagonisti di una fase nuova della storia del platonismo viene confermato dal graduale imporsi di un nuovo uso terminologico, consistente nel definirsi épÚ toË didaskãlou platonici (platvniko€), e nel distinguersi così dagli accademici, termine con il quale venivano invece indicati i rappresentanti della fase scettica della storia della scuola platonica. Platonici cominciarono a considerarsi autori come Gaio, Albino, Galeno, Calveno Tauro e Massimo di Tiro, i quali riservarono, spesso con intento polemico e denigratorio, l’appellativo di accademici ai sostenitori, nuovi e vecchi, dell’interpretazione scettica di Platone.13 Non c’è dubbio, in ogni caso, che il programma di unificazione e sistematizzazione del platonismo che questi autori condivisero ebbe un esito positivo, come testimonia Attico, il quale, nel II secolo, dunque ben prima di Plotino, poteva reclamare a Platone la primogenitura dell’unificazione della filosofia (Plãtvn pr«tow ka‹ mãlista sunage€raw efiw ©n pãnta t∞w filosof€aw m°rh), finalmente concepita come s«mã ti ka‹ z“on ılÒklhron.14 Del resto, non sembra azzardato affermare che la trasformazione del platonismo in sistema (che poi è la forma che questa filosofia assunse nei secoli successivi) si deve in larga parte agli sforzi esegetici degli interpreti medioplatonici, cui bisogna dunque riconoscere il merito di avere segnato una tappa fondamentale nella storia di questo indirizzo filosofico.

11 Sulla sopravvivenza di motivi scettici nell’ambito della filosofia medioplatonica cfr. Opsomer 1998 e Bonazzi 2003, 179ss. 12 Sulle diverse varianti del platonismo imperiale resta fondamentale Donini 1982, 100–159. 13 Su questo ordine di problemi Bonazzi 2003, 203–211. 14 Attic. fr. 1,19–23 des Places. Cfr. in proposito Donini 1994, 5033 e Ferrari 2001, 537–538.

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II. La natura polifonica dei dialoghi e la cosiddetta inconstantia Platonis Rispetto all’obiettivo di dotare il platonismo di una configurazione sistematica e compatta, la natura stessa dei dialoghi rappresentava un formidabile elemento di resistenza. In misura molto maggiore degli interpreti di Aristotele, impegnati nello stesso periodo in un’impresa analoga, gli esegeti platonici si trovavano di fronte a un problema preliminare ed estremamente difficile da superare: i dialoghi non sono trattati, essi non espongono in modo diretto una dottrina filosofica e tantomeno un sistema; anzi, molto spesso i personaggi che prendono la parola sostengono posizioni diverse, talora esplicitamente contraddittorie. Inoltre, anche a prescindere dalla questione (oggi così di moda)15 del portavoce del pensiero di Platone, il lettore dei dialoghi si trova spesso a dovere fare i conti con atteggiamenti filosofici molto diversi tra un’opera e l’altra: molti dialoghi sembrano dominati da uno spirito aporetico e apertamente scettico; in altri l’intento propositivo e costruttivo pare chiaramente prendere il sopravvento. Si comprende dunque come Diogene Laerzio, volendo fotografare la situazione conflittuale degli studi platonici, potesse parlare di una pollØ stãsiw circa la natura della filosofia di Platone: un conflitto che riguardava in particolare il problema se nei dialoghi fosse contenuto un pensiero scettico oppure dogmatico.16 Già nel resoconto di Diogene sono contenute alcune utili indicazioni circa le strategie che i platonici adottarono allo scopo di neutralizzare l’insieme di queste difficoltà. Egli accenna, ad esempio, alla celebre interpretazione §k (épÚ) pros⋲pou, mediante la quale si stabiliva il grado di adesione di Platone a una certa dottrina in base al personaggio (dramatis persona, appunto prÒsvpon) cui essa veniva affidata; così, ad esempio, secondo Diogene (e la sua fonte), Platone avrebbe attribuito a Socrate, Timeo, lo Straniero di Elea e l’Ateniese le concezioni che si sentiva di condividere; avrebbe invece messo in bocca a Trasimaco, Callicle, Polo, Gorgia, Protagora e ad altri sofisti le dottrine che intendeva confutare.17 La lÊsiw §k pros⋲pou dovette certamente costituire uno degli strumenti più largamente utilizzati per respingere le accuse di inconstantia, ossia contraddittorietà, che a Platone vennero rivolte con una certa regolarità dai rappresentanti delle scuole rivali, come testimonia Cicerone, il quale riferisce di un certo Velleio, aderente alla scuola epicurea, per il quale de inconstantia Platonis longum est dicere.18 Una procedura esegetica di questo tipo dovette rivelarsi estremamente utile laddove ci si trovava

15 Cfr. i saggi raccolti in Press 2000. 16 Diog. Laert. 3.51; sulla sezione dedicata da Diogene alla natura dei dialoghi platonici cfr. Brisson 1992, 3697– 3721. Anche in Sext. Emp. Pyrr. hyp. 1.222 si trovano echi di questa polemica: cfr. Bonazzi 2003, 141ss. 17 Diog. Laert. 3.52. Anche in Alb. Prol. 2. 148,2–9 si trovano accenni alle differenti funzioni dei tipi umani (filosofo e sofisti) che partecipano ai dialoghi. Sull’esegesi fondata sulla dramatis persona cfr. Mansfeld 1994, 12 nota 7 e 80–82. 18 Cic. Nat. deor. 1.30. Sulla inconstantia Platonis cfr. Erler 1996, 520 e Ferrari 2001, 538ss.

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di fronte al problema di conciliare tesi opposte assegnate a personaggi diversi. In questi casi l’interprete poteva spiegare che solo uno di questi personaggi andava legittimamente considerato come il portavoce del pensiero di Platone.19 Diogene accenna poi a un altro tipo di strategia, questa volta di carattere più globale, alla quale i platonici si affidarono per difendere i dialoghi dal rimprovero di contradditorietà e mancanza di sistematicità (o anche semplicemente per neutralizzare l’esegesi scettica). Si tratta, come è noto, di una strategia che condusse a una vera e propria classificazione per carattere dei dialoghi. Allo scopo di assumere nei confronti di ogni dialogo un atteggiamento corretto dal punto di vista ermeneutico, se ne stabiliva preventivamente l’oggetto, la natura e la finalità; così, a un primo livello, ogni dialogo veniva definito sulla base del carattere e poteva dunque essere istruttivo (ÍfhghtikÒw), ossia dogmatico (mirante cioè a stabilire dei dogmi), oppure indagativo (zhthtikÒw); nel primo caso, poi, in base all’oggetto il dialogo poteva risultare teoretico (trattante di questioni logiche o fisiche) o pratico (intorno a problemi etici o politici), mentre nel secondo esso rientrava nel genere ginnastico (maieutico o peirastico) oppure agonistico (accusatorio o confutatorio).20 La natura dicotomica della divisione per carattere riportata da Diogene può venire rappresentata in modo schematico come segue: logikos theorematikos hyphegetikos praktikos Dialogos gymnastikos

physikos ethikos politikos peirastikos maieutikos

zetetikos

anatreptikos agonistikos

endeiktikos

19 Utilizzando forse una strategia di questo tipo Severo tentò di risolvere l’inconstantia Platonis relativa alla concezione dell’anima, definita immortale, semplice e incomposta nel Fedone (da Socrate), e composta nel Timeo (da Timeo). Egli rigettò la concezione del Timeo (forse proprio servendosi del principio della dramatis persona), accettando invece quella esposta dal personaggio Socrate: cfr. Sev. fr. 17 Gioè; discussione in Gioè 2002, 325–333. 20 Diog. Laert. 3.49 (cfr. anche 58). Analoga (ma non identica) classificazione in Alb. Prol. 3. 148,19–37 e 6. 150,30ss. Cfr. Mansfeld 1994, 74–97 e Opsomer 1998, 27–33. Sul Prologo cfr. Neschke 1991, 172ss.; sui rapporti tra queste due classificazioni è fondamentale Reis 1999, 53–104.

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In base a questa classificazione per carattere un platonico poteva districarsi con maggiore facilità nel mare magnum dei problemi connessi all’interpretazione dei dialoghi. In questo modo egli aveva per le mani uno strumento indispensabile sia alla costruzione di una filosofia unitaria e organica (ossia non contradditoria), sia alla difesa di Platone dalle accuse di inconstantia provenienti dalle scuole rivali. In realtà, la classificazione per carattere fu originariamente elaborata al preciso scopo di supportare un’esegesi anti-scettica dei dialoghi di Platone, ossia per mostrare che in modi diversi – insegnando direttamente dottrine oppure confutando quelle ritenute errate – tutti i dialoghi convergevano nella costruzione di una filosofia sistematica.21 Nello schema classificatorio prodotto dalla divisione per carattere la diairesi fondamentale è la prima, quella tra dialoghi istruttivi e dialoghi indagativo-confutatori, perché essa corrisponde ai due momenti fondamentali del sistema filosofico attribuito a Platone: la pars construens (lo stabilimento dei dogmi) e la pars destruens (la confutazione delle opinioni sbagliate). Questo motivo viene spiegato nel modo più chiaro da Quintilliano, il quale, a proposito dei dialoghi platonici, afferma che alii sunt eius sermones ad coarguendos, qui contra disputant, compositi, quos §legktikoÊw vocant, alii ad praecipiendum, qui dogmatiko€ appellantur.22 Al medesimo contesto ermeneutico tendente ad attribuire a Platone una filosofia sistematica e propositiva appartiene un altro importante motivo, destinato a imporsi tra gli interpreti neoplatonici, ma già presente in forma significativa tra gli autori medioplatonici. Mi riferisco alla questione dell’ordine nel quale va affrontata la lettura degli scritti platonici. Nel IV capitolo del suo Prologo Albino affronta questo tema, partendo dalla convinzione che il corpus costituisca una sorta di programma didattico, segnato da un disegno unitario, nel cui ambito ogni dialogo esercita una funzione precisa.23 Nel discutere la questione dell’ordine di lettura dei dialoghi, Albino respinge la celebre classificazione in tetralogie, per lui collegata ai nomi di Dercillide e Trasillo; nel farlo, egli lascia chiaramente intendere che anche la disposizione tetralogica risultava funzionale all’ordine di lettura dei dialoghi e dunque, sia pure indirettamente, al progetto sistematico, ossia a quel programma esegetico tendente a presentare la filosofia platonica come un sistema compatto, coerente e organico.24 21 Scrive in proposito Tarrant 1993, 47: «The purpose of the classification is more to show how all Plato’s works contribute to philosophy’s ends than to emphasise a rift between opposing groups of dialogues». 22 Quint. Inst. or. 2. 15,26. Analoga posizione, sebbene notevolmente più articolata, si incontra in Alb. Prol. 6. 150,13ss., che spiega come i dialoghi zetetici rivestano un’importante funzione purificatoria (rispetto alle false opinioni), mentre quelli istruttivi siano finalizzati al vero e proprio apprendimento delle dottrine. 23 Alb. Prol. 4. 149,1ss. Importanti osservazioni in Neschke 1991, 175ss.; cfr. anche Reis 1999, 105ss. 24 Sul funzionamento del sistema tetralogico come ordo lecturae cfr. Dunn 1976. Sul ruolo di Trasillo nel processo di sistematizzazione del platonismo cfr. Tarrant 1993. Rimane tuttavia dubbio se Trasillo abbia approntato, come ritiene Tarrant e contesta Mansfeld 1994, 198–199, una vera e propria edizione del testo dei dialoghi.

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Alle spalle di questo insieme di strategie agiva un principio ermeneutico di ordine generale che tutti gli esegeti di Platone dovettero costantemente tenere presente. Esso ci è noto grazie a Stobeo, il quale attingendo ad Ario Didimo riporta il dettato di una norma che dovrebbe risalire ad Eudoro. Per quest’ultimo Platone avrebbe presentato la celebre concezione della ımo€vsiw ye“ da tre differenti punti di vista: logico nel Teeteto, fisico nel Timeo ed etico nella Repubblica; per rafforzare la sua tesi Eudoro si richiama al principio generale secondo il quale tÚ d° ge polÊfvnon toË Plãtvnow oÈ polÊdojon, ossia il pensiero di Platone è polifonico, caratterizzato cioè da differenti voci, senza tuttavia risultare privo di unità dal punto di vista dottrinario (esso presenta molte voci, ma non consiste di molte opinioni).25 La norma ermeneutica formulata da Eudoro costituisce la versione più esplicita a noi nota del principio sistematico, al quale si affidarono pressoché tutti gli interpreti medioplatonici dei dialoghi. In verità, l’intera esegesi di Platone condotta in questi secoli (con la sola eccezione dei rappresentanti superstiti dello scetticismo accademico) fu attraversata dalla convinzione che quella contenuta nei dialoghi fosse una filosofia sistematica, unitaria e coerente.26 Intorno a questa convinzione presero corpo le differenti strategie ermeneutiche adottate dai singoli autori.

III. Il principio sistematico e la norma «Platonem ex Platone s a f h n € z e i n » Un corollario direttamente dipendente dal principio sistematico consiste nell’invito a chiarire Platone attraverso Platone, ossia appunto Platonem ex Platone safhn€zein. In effetti, se il corpus dei dialoghi contiene un pensiero coerente e unitario, risulta del tutto legittimo spiegare un passo poco chiaro (o comunque suscettibile di interpretazioni diverse) ricorrendo a un altro luogo del corpus. Questa norma di esegesi testuale conobbe la sua prima formulazione in riferimento a Platone solo con Proclo, ma fu ampiamente utilizzata dai platonici anche nei secoli precedenti, in parte sotto l’influenza dell’esegesi omerica. Proclo invitava a portare chiarezza (safÆneia) nei passi che presentano formulazioni enigmatiche (§n afin€gmasi), «non affidandosi a ipotesi estranee, ma a partire dagli scritti autentici di Platone (oÈk §j éllotr€vn Ípoy°sevn, éllÉ §k t«n gnhsivtãtvn toË Plãtvnow suggrammãtvn)».27 Di fronte alla difficoltà di interpretare una certa affermazione, gli interpreti ricorsero ampiamente a 25 Stob. Anth. 2.49,25–50,1. Cfr. Baltes 1998, 226ss., Tarrant 2000, 73 e Ferrari 2001, 543 (con bibliografia relativa). 26 Non solo la dottrina doveva essere coerente, ossia sinfonicamente organizzata; anche il bios, ossia la vita, doveva risultare coerente con la dottrina (si spiega così il fatto che tanto le esposizioni manualistiche quanto le edizioni delle opere di un autore venivano fatte precedere dalla biografia): Mansfeld 1994, 179ss. 27 Procl. Theol. plat. 10,1–4 Saffrey-Westerink. Su questo principio cfr. Ferrari 2001, 533–538. Per Omero cfr. l’epocale studio di Schäublin 1977.

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questo principio, tentando di spiegare il passo in questione attraverso il ricorso a un altro testo del corpus, nella convinzione che il pensiero platonico fosse appunto sistematico, e che dunque risultasse sensato (e perfino inevitabile) interpretare un luogo per mezzo di un altro. I casi di applicazione di questa norma esegetica sono davvero numerosi. Vorrei qui limitarmi a segnalare un esempio in qualche modo macroscopico, perché concerne un’opera nella sua quasi totalità. In effetti, l’intera prima parte del trattato di Plutarco De animae procreatione in Timaeo, che è in realtà una monografia (énagrafÆ) incentrata intorno all’esegesi testuale del passo del Timeo dedicato alla composizione e alla divisione numerica dell’anima cosmica, sembra articolarsi sulla base del principio sopra richiamato. Di fronte al problema di spiegare il senso dell’espressione meristØ oÈs€a per‹ tå s⋲mata gignom°nh (Tim. 35 A), che indica una delle componenti fondamentali della mescolanza dell’anima del mondo, Plutarco si rivolge ad altri testi platonici e in particolare al celebre e misterioso passo del X libro delle Leggi in cui si accenna a un’anima disordinata e produttrice di mali (êtaktow ka‹ kakopoiÒw). Ciò gli consente di identificare la sostanza divisibile nei corpi del Timeo con un’anima, e per la precisione con l’anima precosmica malvagia, la quale costituisce, ai suoi occhi, la causa prima del disordine, dell’irrazionalità e dunque del male presenti nell’universo (e nell’anima dell’uomo). Quest’anima precosmica irrazionale (definita anche ênouw cuxÆ) viene poi identificata, sempre sulla base di una rigorosa applicazione del principio sistematico (sia nella versione universale secondo cui Platone è polÊfvnow, ma non polÊdojow, sia nella sua applicazione per mezzo della norma del Platonem ex Platone), con l’épeir€a del Filebo, con la énãgkh del Timeo e con la sÊmfutow §piyum€a del Politico.28 Gli esempi potrebbero, come detto, moltiplicarsi. Gli interpreti platonici dimostrano di fare largo uso del principio sistematico in tutte le sue versioni e soprattutto di servirsi della norma esegetica che invita a chiarire Platone attraverso Platone. È evidente che alle spalle di un simile atteggiamento ermeneutico si intravede la convinzione che Platone fosse un pensatore non solo sistematico, ma anche del tutto coerente con se stesso (sÊmfvnow •aut“). Questo aspetto emerge molto bene da uno degli ÍpomnÆmata contenuti nel Commento alle parti mediche del Timeo dovuto a Galeno. Dopo avere risolto la difficoltà contenuta nel passo 78 B–C relativo alla struttura dell’apparato respiratorio e digerente del corpo umano, il grande medico afferma che se si ammette tutto ciò, ossia l’esegesi da lui stesso proposta, tutti gli elementi si accordano tra loro sulla base del ragionamento successivo, cioè sulla base della parte di

28 Plut. An. procr. 1014 D–E. Su questo passo cfr. il commento ad locum in Ferrari/Baldi 2002, 247–250.

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testo che segue (toÊtou går Ípotey°ntow ëpanta éllÆloiw ımologe›tai katå tÚn •j∞w lÒgon).29 L’esigenza di rendere Platone del tutto coerente con se stesso risulta particolarmente avvertita proprio in relazione a quegli aspetti della sua dottrina che hanno in qualche modo giustificato l’accusa di inconstantia (ésumfvn€a). Un caso esemplare è rappresentato dalla concezione dell’anima, che viene considerata «eterna» nel Fedro e «generata» nel Timeo. La soluzione che Plutarco propone di questa aporia – tale mi sembra che si possa definire – merita di venire analizzata con attenzione perché dovette essere, anche in questo caso, paradigmatica di un certo modo di procedere. Essa, come vedremo, comporta l’applicazione di un principio di esegesi testuale antico e di grande significato. Plutarco spiega che non esiste veramente contraddizione (ésumfvn€a ka‹ diaforã) tra l’affermazione dell’eternità dell’anima e la dichiarazione della sua nascita (e composizione), per la semplice ragione che le due tesi non si riferiscono alla medesima realtà, ma a due entità diverse: quella del Fedro all’anima precosmica malvagia, che è infatti ingenerata ed eterna, quella del Timeo all’anima cosmica, ossia all’anima del mondo, la quale viene generata dal demiurgo a partire dalla sostanza psichica originaria, cioè a partire dall’anima precosmica (la misteriosa oÈs€a meristØ per‹ tå s⋲mata ginom°nh). La contraddizione è dunque solo apparente e può essere avvertita da coloro che non possiedono una conoscenza sufficientemente approfondita della psicologia e della cosmologia di Platone.30 Certo, un interprete contemporaneo può forse sorridere della soluzione escogitata da Plutarco; ma se per un attimo proviamo a mettere da parte le perplessità che una simile proposta suscita in noi sul piano del contenuto filosofico, concentrandoci unicamente sugli aspetti metodologici, non possiamo non concedere alla strategia di Plutarco dignità e coerenza. Un giudizio come quello appena formulato sulla validità dello schema difensivo plutarcheo non può che venire confermato dalla constatazione che, nell’attuarlo, il filosofo si è servito di un principio esegetico importante e di grande prestigio, essendo stato formulato addirittura dal grande Aristotele. Quest’ultimo, nel 25° capitolo della Poetica, uno dei documenti più significativi della filologia antica, di fronte alle difficoltà connesse alla presenza nei testi di affermazioni contraddittorie (tå Ípenant€vw efirhm°na), invitava infatti a valutare se esse veramente dicono «la stessa cosa a propo-

29 Gal. In Tim. 19,18–19 Schröder. Cfr. Ferrari 1998, 21–22. Sull’esigenza ermeneutica di rendere un autore sÊmfvnow •aut“ cfr. ancora Mansfeld 1994, 204–205. 30 Plut. An. procr. 1015 F–1016 D. Cfr. il commento ad locum in Ferrari/Baldi 2002, 260–264. Sulla soluzione plutarchea delle difficoltà implicite nelle dichiarazioni platoniche relative alla natura dell’anima cfr. Opsomer 2004, 147ss.

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sito della medesima realtà» (efi tÚ aÈtÚ ka‹ prÚw tÚ aÈtÚ).31 Nel precisare che le affermazioni platoniche non si riferiscono alla stessa entità (non sono dunque prÚw aÈtÒ), Plutarco non fa dunque che applicare l’indicazione aristotelica, seguendo una procedura che doveva essere piuttosto diffusa tra gli interpreti medioplatonici dei dialoghi. Bisogna però riconoscere che la strategia conciliatoria messa in atto da Plutarco non fu l’unica alla quale i platonici ricorsero per eliminare eventuali contraddizioni dai testi platonici. A proposito del medesimo problema sollevato da Plutarco, quello della natura ingenerata e insieme generata dell’anima, sembra che Severo abbia perseguito una soluzione ben diversa. Egli avrebbe infatti optato decisamente per una delle due concezioni (quella del Fedro e del Fedone), respingendo altrettanto chiaramente l’altra (quella assegnata a Timeo nel dialogo omonimo). Come detto sopra, è possibile – ma l’eseguità della disponibilità documentaria non consente di acquisire nessuna certezza – che Severo sostenesse, in base al principio dell’interpretazione §k pros⋲pou, che le dottrine attribuite al personaggio di Timeo non esprimono la posizione di Platone. Non ci sono dubbi, comunque, che l’atteggiamento conciliatorio dovette essere di gran lunga il più seguito. Il senso complessivo dell’esegesi medioplatonica dei dialoghi sembra consistere nella riconduzione della loro polifonia a una sostanziale sinfonia, ossia unità, dottrinaria.

IV. La Platonis obscuritas e le strategie per risolverla I medioplatonici leggevano i dialoghi allo scopo di rintracciare in essi una filosofia organica e sistematica, che corrispondeva evidentemente alle convinzioni teoriche dell’interprete. Del resto, l’idea intorno alla quale si costruisce l’intera esegesi medioplatonica (ma poi anche neoplatonica) dei dialoghi è che in essi sia contenuta la verità, e che quest’ultima dunque non debba venire scoperta, bensì ri-scoperta.32 Il fatto è che questa verità si trova spesso espressa in modo oscuro e talora viene celata consapevol-

31 Arist. Poet. 25. 1061b17–19. Cfr. Ferrari 2001, 539. Il problema della contraddittorietà dei dati fu particolarmente avvertito nell’ambito della giurisprudenza, da cui l’ermeneutica testuale ricavò più di un principio: cfr. ad esempio Quint. Inst. orat. 7. 6,4. 32 Cfr. Hadot P. 1987, 23: «la caractéristique de cette philosophie exégétique c’est de considérer que, d’une part, la vérité est donnée dans les textes du fondateur … , d’autre part, qu’il faut savoir faire découvrir la vérité dans ces textes, même si elle n’apparaît pas clairement». I lettori medioplatonici dei dialoghi reputavano se stessi semplici esegeti di una verità già data: Baltes 1993, 162.

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mente ricorrendo a una sorta di oscurità intenzionale, allo scopo di toÁw gnhs€ouw §k t«n nÒyvn diakr€nein, come dirà un tardo commentatore neoplatonico.33 A dire il vero, tra i commentatori medioplatonici, con la parziale eccezione di Plutarco, sembra trovare poco spazio l’idea che Platone si sia espresso in modo volutamente oscuro allo scopo di distinguere il lettore degno da quello impreparato. Il caso di Plutarco è comunque interessante; nel De Iside, egli colloca al culmine di una ricostruzione della storia del dualismo, chiaramente finalizzata a confermare la giustezza di questa concezione filosofica, proprio Platone, il quale avrebbe solitamente presentato in forma enigmatica e velata la teoria dualistica dei principi, per riservare solo alle Leggi la formulazione chiara e inequivoca della stessa (oÈ di’ afinigm«n oÈd¢ sumbolik«w).34 Il compito che Plutarco si assume è dunque quello di rintracciare la presenza di questa concezione dualistica in quegli scritti dove essa si presenta in forma enigmatica e simbolica. Del resto, anche Diogene Laerzio allude all’intento da parte di Platone di impedire agli ignoranti la conoscenza della sua filosofia, perseguito attraverso il ricorso all’uso di una certa varietà terminologica (ÙnÒmasi d¢ k°xrhtai poik€loiw prÚw tÚ mØ eÈsÊnopton e‰nai to›w émay°si tØn pragmate€an).35 Come detto, tuttavia, gli interpreti medioplatonici dei dialoghi furono generalmente poco propensi ad assegnare a Platone una obscuritas intenzionale. Se il testo dei dialoghi è difficile e oscuro, questo dipende in larga misura da ragioni intrinseche, e in particolare dalla natura della materia trattata. Secondo Cicerone, l’obscuritas Platonis, a differenza di quella di Eraclito che è intenzionale (de industria), dipende dalla materia: rerum obscuritas non verborum qualis est in Timaeo Platonis.36 Molto interessante lo schema dei differenti tipi di oscurità esposto da Calcidio, che dovrebbe dipendere da una fonte medioplatonica. Il commentatore latino spiega che la causa dell’oscurità può collocarsi dalla parte dell’autore (iuxta dicentem), oppure da quella del lettore (iuxta audientem), oppure ancora risiedere nella materia trattata (ex natura rei de qua tractatus est); nel primo caso l’autore può decidere di nascondere la propria dottrina (in questo modo si comportarono Aristotele ed Eraclito), ma l’oscurità può anche prodursi in virtù della debolezza del linguaggio (ex imbecillitate sermonis); nel caso risieda nel lettore, essa può dipendere dal carattere inusuale delle dottrine presentate (che sono dunque ignote al lettore), oppure dai

33 David, In Porph. Isag. 106,25 Busse. In realtà ancora in questo testo l’oscurità di Platone viene distinta da quella di Aristotele, essendo la prima dipendente dalle teorie (diå t«n yevrhmãtvn), la seconda dal linguaggio: 105,9–28; cfr. Mansfeld 1994, 151 nota 273. 34 Plut. Is. et Os. 370 E–F. Cfr. anche Def. orac. 420 F e Quaest. conv. VIII 2. 719 A. Sul dualismo plutarcheo rinvio a Ferrari 1995, 74–80. 35 Diog. Laert. 3.63 con commento ad locum di Baltes 1993, 352ss. 36 Cic. Fin. 2.15. Cfr. Barnes 1992, 272 e Mansfeld 1994, 156ss.

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limiti di quest’ultimo (cum is qui audit pigriore ingenio est ad intellegendum); il terzo caso, quello in cui l’obscuritas risiede nella materia trattata, viene esemplificato proprio dal Timeo, il cui locutore, ossia Timeo, non è un orator instabilis, così come non sono privi di intelligenza gli ascoltatori, cioè i lettori, ma la difficoltà dipende dalla cosa stessa, vale a dire dalla materia, che risulta difficilis et obscura.37 Ma l’oscurità dei dialoghi platonici può anche dipendere da una certa sermonis brevitas, come ipotizza Galeno nel proemio del suo Compendium Timaei; secondo il grande medico, lo stile platonico, solitamente ampio, diventerebbe conciso (constrictus) in questo dialogo, che dunque richiede un particolare sforzo esegetico (consistente, presumibilmente, nello sviluppare i nessi argomentativi presentati in forma concisa).38 Naturalmente la causa principale delle difficoltà che può incontrare il lettore del Timeo risiede comunque nella oggettiva oscurità della materia trattata (che richiede spesso una competenza specialistica) e nel fatto che Platone ricorre, per esporla, a una terminologia poco precisa dal punto di vista tecnico.39 Nel caso delle sezioni mediche, ad esempio, il primo compito del commentatore consisterà nel trasferire le riflessioni platoniche in una terminologia più accurata e precisa, rendendole così disponibili a una fruizione di natura disciplinare. Obscurity demands treatment and the treatment lies in the hands of scholarship and of the commentators scrive Jonathan Barnes a proposito dell’affermarsi della pratica del commento testuale. Gli interpreti medioplatonici dei dialoghi si inserirono in modo organico all’interno di questa prassi esegetica, e per molti aspetti furono i veri responsabili della sua diffusione nell’ambito della tradizione del platonismo antico.

V. L’esegesi k a t å z h t Æ m a t a La difficoltà che il testo dei dialoghi metteva di fronte all’interprete – fosse essa prodotta dall’inconstantia o dall’obscuritas – poteva assumere la forma di una vera e propria aporia testuale. In effetti, una modalità diffusa dell’esegesi antica, che conobbe proprio nei commentari medioplatonici un significativo successo ma che aveva origini molto antiche, consistette nell’interpretazione katå zhtÆmata. Si tratta di un metodo esegetico che consiste nel ritagliare dal testo platonico un problema (zÆthma), cercando poi di fornire ad esso una o più soluzioni.

37 Calc. In Tim. 317,15–22 Waszink. Cfr. Ferrari 2001, 532; importanti osservazioni anche in Manetti 1998, 1215–16. 38 Gal. Comp. Tim. 1,8–23 Kraus-Walzer. Cfr. Ferrari 1998, 18ss. 39 In generale l’oscurità platonica può venire considerata ˆntvw (di’ •autÒ); sulle differenti forme di obscuritas e sulla relazione tra oscurità e commento cfr. Barnes (1992) passim.

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Il più celebre esempio di questa pratica testuale è fornito dalle Quaestiones platonicae di Plutarco, in cui vengono presentati e risolti dieci problemi ricavati dalla lettura di un passo o dal confronto tra più luoghi platonici (contenenti affermazioni apparentemente contraddittorie). Non sarebbe difficile dimostrare che una parte consistente della speculazione medioplatonica prese le mosse proprio dall’interrogazione del testo del caposcuola effettuata attraverso una serie di zhtÆmata, col tempo ormai trasformatisi in veri e propri topoi esegetici.40 La diffusione del metodo esegetico katå zhtÆmata non è solo provata dall’esistenza di opere formate da un insieme di quaestiones testuali; ancora più significativo è il fatto che questo genere di procedura esegetica si ritrovi anche in un trattato come il De animae procreatione, la cui seconda parte è interamente costruita intorno a tre problemi testuali, annunciati proprio all’inizio della sezione. Dopo avere riportato in forma lemmatica il passo relativo alla divisio animae intorno al quale verte il commento, Plutarco dichiara che l’interprete deve interrogarsi intorno alla quantità dei numeri menzionati da Platone, alla loro disposizione grafica e infine alla loro funzione (§n toÊtoiw zhte›tai pr«ton per‹ t∞w posÒthtow t«n ériym«n, deÊteron per‹ t∞w tãjevw, tr€ton per‹ t∞w dunãmevw).41 Molto simili, se non proprio del tutto identici, risultano i tre problemi menzionati a proposito di questo passo del Timeo da Calcidio, a conferma del carattere topico degli zetemata intorno ai quali verteva l’esegesi del testo della divisio animae.42 Del resto, un rapido sguardo sulla tradizione anteriore a Plutarco dimostrerebbe che simili problemi furono affrontati e risolti anche dai commentatori precedenti, e in particolare da Crantore, Teodoro ed Eudoro (che rappresenta probabilmente la fonte della conoscenza di Plutarco della esegesi accademica della divisio animae). L’esiguità della nostra disponibilità documentaria, che nel caso delle raccolte di quaestiones testuali è sostanzialmente limitata all’opera di Plutarco sopra menzionata, non deve indurre a sottovalutare la diffusione e l’importanza di questo metodo. Un attento esame di alcune testimonianze a nostra disposizione prova anzi che l’esegesi per problemi costituì davvero uno dei pilastri dell’interpretazione medioplatonica. Sappiamo che Plutarco dedicò una quaestio, la II della sua raccolta, al problema di stabilire il significato del passo del Timeo in cui Platone sostiene che «è difficile trovare l’artefice e il padre di questo universo» (28 C); in particolare egli si propose l’obiettivo di spiegare il significato dei due appellativi (patØr ka‹ poihtÆw) che ricorrono nel testo platonico. Il fatto che, nel presentare la quaestio Plutarco 40 Cfr. Ferrari 2000, 204–213 e Ferrari 2001, 552–558. 41 Plut. An. procr. 1027 C. Commento ad locum in Ferrari/Baldi 2002, 328ss. 42 Calc. In Tim. 83,20–27 Waszink: quaeritur hoc loco primo quidem, cur in tantum produxerit divisionem … deinde, quos oporteat numeros imponere partibus … tertio, qualis debeat esse forma descriptionis. Sulle analogie tra i tre problemi di Plutarco e quelli di Calcidio cfr. Ferrari 2001, 554 e Ferrari/Baldi 2002, 328.

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modifichi il dettato platonico, induce a ritenere che ai suoi tempi l’esegesi di questo luogo fosse ormai indipendente dalla lettura del dialogo platonico, e avesse il carattere di un’aporia topica. Plutarco non fu certamente l’unico platonico del II secolo a affrontare la questione del significato dei due appellativi di Timeo 28 C. Anche Numenio si cimentò con il problema e ne fornì una soluzione diametralmente opposta a quella di Plutarco. Se infatti quest’ultimo aveva spiegato i due appellativi riferendoli a due differenti funzioni di un’unica divinità, che è artefice (poihtÆw) del corpo del mondo e padre (patÆr) della sua anima, Numenio li aveva assegnati a due divinità diverse, ossia al primo Dio, trascendente e separato (patÆr), e al Dio demiurgico (poihtÆw).43 Il problema della natura della divinità nel Timeo aveva dunque assunto i caratteri di una vera e propria aporia testuale, come i documenti appena menzionati sembrano dimostrare in modo evidente. Sempre nell’ambito della teologia, il testo del Timeo sembra avere dato luogo a un’altra importante aporia. Mi riferisco al problema del rapporto tra il demiurgo e il vivente intelligibile, che attraversa l’intera prima parte del discorso di Timeo. Una preziosa testimonianza intorno a questa aporia ci viene fornita da Attico, il quale, secondo Proclo, si era appunto domandato (±pÒrhsen) se il demiurgo fosse incluso o meno nel vivente intelligibile (tÚ nohtÚn z“on). Entrambe le risposte si presentano, come è noto, problematiche, dal momento che, se fosse incluso, il demiurgo risulterebbe essere una parte e dunque non potrebbe ambire alla qualifica di ente perfetto; se invece non fosse incluso nel vivente intelligibile, quest’ultimo non conterrebbe più tutti gli intelligibili.44 Anche in questo caso sembra del tutto plausibile ipotizzare che il problema affrontato da Attico avesse ormai assunto i caratteri di una vera e propria aporia testuale, alla cui soluzione gli interpreti medioplatonici dei dialoghi si dedicarono con impegno non disgiunto da una certa profondità filosofica. Quanto detto avvalora dunque l’ipotesi che la pratica di sottoporre il testo platonico a un’interrogazione fondata sul metodo delle épor€ai ka‹ lÊseiw fosse diffusa tra gli esegeti dei primi secoli dell’epoca imperiale.45 I medioplatonici non furono gli inventori di un simile metodo, ma se ne servirono in modo sistematico. In effetti, proprio sulla base della nostra disponibilità documentaria, l’ipotesi che l’esegesi dei dialoghi in questa fase della storia del platonismo venisse condotta in larga misura proprio secondo la procedura katå zhtÆmata va presa in seria considerazione.

43 Plut. Quaest. plat. 2. 1001 B–C e Numen. fr. 21 des Places. Ho affrontato nel dettaglio le due soluzioni all’aporia in Ferrari 2006. 44 Attic. fr. 34 des Places. Si veda Ferrari 2005, 10–12. 45 Emblematico dovette essere lo scritto di Arpocrazione di Argo, che presentava esattamente la forma della raccolta di aporiai kai lyseis: Baltes 1993, 180–182.

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Se poi si ammette che la lettura e l’esegesi degli scritti platonici (soprattutto del Timeo) risultavano ampiamente condizionate dall’esistenza di un insieme di aporie testuali, non credo sia azzardato ipotizzare la diffusione di qualcosa di simile a un corpus zhthmãtvn ka‹ lÊsevn, non dissimile da quello che ormai caratterizzava l’interpretazione dei poemi omerici. Sarebbe un’ulteriore conferma dell’influenza esercitata dal 25° capitolo della Poetica di Aristotele (che si apriva con le parole per‹ problhmãtvn ka‹ lÊsevn) sulla pratica di lettura ed esegesi dei classici.46

VI. Esegesi e filologia: la manipolazione testuale L’esegesi medioplatonica si distinse anche per la particolare attenzione rivolta agli aspetti filologico-testuali dell’interpretazione. Numerose sono, tra i documenti a nostra disposizione, le testimonianze di discussioni relative all’opportunità di emendare un testo e di scegliere una lectio in luogo di un’altra; non mancano poi veri e propri interventi manipolatori, non dichiarati dal commentatore, volti a supportare la validità di una determinata interpretazione del testo in esame. Gli esempi sono davvero numerosi, ma i limiti di spazio consigliano di accontentarsi di una selezione estremamente ridotta.47 Uno dei più celebri casi di discussione testuale concerne l’affermazione contenuta in Timeo 27 C, dove vengono annunciati i discorsi relativi al cosmo √ g°gonen µ ka‹ égen°w §sti. Proclo riporta tre differenti modi di scrivere le due eta, che davano all’affermazione platonica significati molto diversi.48 Da Giovanni Filopono sappiamo poi che Calveno Tauro propose di trasformare (metagrãfein) la congiunzione disgiuntiva o dubitativa ≥ nella concessiva efi, in modo da poter intendere l’affermazione platonica nel senso che il mondo è nato anche se è ingenerato, ossia secondo la sua prospettiva esegetica, mirante a concepire in senso metaforico la cosmogenesi descritta nel Timeo.49 Particolarmente diffusa fu la pratica della manipolazione in usu citandi, che consisteva nell’alterazione del testo platonico, sia per mezzo dell’introduzione (surrettizia, ossia non dichiarata, oppure esplicita) di un emendamento, sia attraverso la mutilazione del passo. Plutarco fece largo uso di tutte queste strategie testuali, come una lettura attenta dei suoi scritti esegetici dimostra ad nauseam. Egli modifica in modo surrettizio a fini esegetici il dettato del brano platonico relativo alla composizione

46 Arist. Poet. 25. 1060b6. 47 Si rimanda a Dillon 1989, Gioè 1996 e Ferrari, 2001, 544–549. 48 Procl. In Tim. 1. 218,28–219,31 Diehl. Cfr. Dillon 1989, 58 e Gioè 1996, 297–298. 49 Ioh. Phil. Aet. mun. 123,19–24 Rabe = Calv. Taur. Test. 25 A Lakmann = 29 Gioè (commento ad locum in Gioè 2002, 362–366).

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dell’anima del mondo;50 evita poi di riportare per esteso il dettato di alcuni passi, che potrebbero contraddire la sua personale interpretazione della psicologia e della cosmologia platoniche;51 allude infine, senza in realtà farla propria, a una modifica del testo tradito che potrebbe risolvere la difficoltà posta dal passo del Timeo in cui i pianeti sembrano definiti «organi del tempo».52 Questi non sono che pochi esempi, che testimoniano comunque in modo significativo l’interesse che gli interpreti medioplatonici ebbero per gli aspetti filologici della lettura e dell’esegesi dei testi del maestro. In realtà, il cosiddetto dioryvtikÒn, ossia l’esame del testo dal punto di vista della sua costituzione e delle varianti possibili, rappresentò uno dei momenti fondamentali dell’esegesi; esso muoveva probabilmente dalla consapevolezza che la tradizione non fosse unitaria e che comunque il dato testuale non rappresentasse un’ovvietà stabilita in via definitiva.

VII. I commentari disciplinari: medicina, matematica, astronomia, teoria musicale La forma caratteristica dello scritto esegetico alla quale si è soliti pensare è quella del commento continuo (fortlaufender Kommentar), stabilita in via definitiva nelle grandi opere dei commentatori neoplatonici. Il testo commentato viene qui seguito passo a passo, senza che vengano saltate sezioni, e di ogni proposizione il commentatore fornisce un’interpretazione completa, sia sul piano linguistico (l°jiw) sia su quello propriamente contenutistico (yevr€a).53 Quest’ultima distinzione fu certamente attiva, come si dirà tra breve, anche nei commentari medioplatonici; a proposito dei quali risulta tuttavia difficile stabilire se presentassero la forma continua tipica del commento neoplatonico. Se si eccettua infatti il caso del Commento anonimo al Teeteto (il quale non può comunque essere del tutto equiparato a un commentario continuo),54 tutti gli ÍpomnÆmata a noi disponibili (sia pure in forma frammentaria e parziale) risalenti ai primi due secoli dell’era imperiale sono consacrati solo a determinate sezioni del dia50 Plut. An. procr. 1012 B–C. Discussione in Ferrari/Baldi 2002, 217–219; ma cfr. anche Opsomer 2004, 159– 161, il quale, forse a ragione, ipotizza che Plutarco si sia limitato a riprodurre un testo (diverso dal nostro) che aveva a disposizione. 51 In An. procr. 1015 A, per esempio, citando Pol. 273 B, Plutarco evita di riportare il sintagma tÚ svmatoeid¢w t∞w sugkrãsevw. Se lo avesse fatto, avrebbe rischiato di avvicinare eccessivamente l’anima precosmica, di cui sta parlando, a un’entità materiale e somatica: cfr. Gioè 1996, 304 e Ferrari 2001, 548. 52 Plut. Quaest. plat. 8. 1006 D. Cfr. Gioè 1996, 303. 53 Sulla forma del commentario continuo Hadot I. 1997. 54 Il Commentario al Teeteto non costituisce un vero e proprio fortlaufender Kommentar dal momento che l’Anonimo tralascia le parti di testo che non giudica interessanti, riportando e commentando quasi solo gli interventi di Socrate. Anche i commenti al Timeo di Severo e Tauro non si riferiscono a tutto il dialogo; Severo, per esempio, non reputa opportuno fornire l’esegesi del proemio del dialogo (Test. 3 Gioè). È probabile, poi, che il commento di Tauro fosse limitato alle sezioni del Timeo dedicate al tema della cosmogenesi.

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logo di cui si occupano, e in molti casi presentano la forma di monografie tematiche, talora organizzate in base alla struttura dell’esegesi katå lÆmmata, dedicate a un aspetto particolare e circoscritto dei dialoghi (in particolare del Timeo). Accanto al De procreatione animae, che è una monografia per‹ cux∞w organizzata intorno all’esegesi testuale del passo del Timeo dedicato alla composizione ontologica e alla divisione numerica dell’anima cosmica, le nostre fonti tramandano un lungo estratto ricavato dal terzo libro di uno scritto (in quattro libri) di Galeno sulle sezioni mediche del Timeo (tå katå tÚn T€maion fiatrik«w efirhm°na). In tradizione indiretta possediamo poi ampi stralci derivati da un ÍpÒmnhma efiw tÚn T€maion dovuto al peripatetico Adrasto di Afrodisia e riportati nello scritto Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium di Teone di Smirne; il commento di Adrasto era dedicato ai passi matematici e astronomici del Timeo, mentre alle sezioni armonico-musicali doveva essere consacrato il commento di Eliano (in due libri), di cui sono conservati pochi estratti all’interno del Commento agli Elementi di armonica di Tolomeo dovuto a Porfirio.55 Un ÍpÒmnhma al Timeo poté forse essere stato composto da Eudoro di Alessandria, ma dovette certamente trattarsi di uno scritto dedicato a singole sezioni del dialogo (compositio et divisio animae, generazione del mondo, forse teoria dei principi).56 Come si vede, tutti questi scritti, con la parziale eccezione del commento anonimo al Teeteto, si concentravano su singoli passi o su sezioni limitate del dialogo che commentavano. L’esame di queste opere induce a ritenere che in esse fosse attiva, quantomeno in forma incoativa, la distinzione tra l°jiw e yevr€a, destinata poi a imporsi in via definitiva nei commentari neoplatonici. Di fronte al problema di eliminare l’oscurità di un testo, chiarendo il significato dei vari termini in esso presenti, gli interpreti medioplatonici sottoponevano il passo a un’accurata esegesi katå l°jin (o katå ÙnÒmata), mirante a stabilire l’esatto significato delle espressioni che vi ricorrevano (spesso cercando di stabilire l’uso linguistico dell’autore). Seguiva poi l’interpretazione katå prãgmata (corrispondente alla yevr€a), finalizzata a determinare il contenuto teorico del passo platonico, magari inquadrandolo all’interno delle conoscenze disciplinari raggiunte nel frattempo.57 Adrasto e Galeno, ad esempio, non rinunciarono, una volta ricostruita una certa concezione, a trasferire il linguaggio platonico, spesso generico e metaforico, in una terminologia più accurata dal punto di vista scientifico.58

55 Sullo stato della nostra disponibilità relativamente ai commentari disciplinari al Timeo cfr. Ferrari 2000, 179– 186. 56 Sull’esegesi di Eudoro del Timeo cfr. Bonazzi 2005, 150ss. 57 Evidenti tracce di questa distinzione si trovano in Gal. In Tim. 10,31–33 e 16,7 Schröder. Cfr. Ferrari 2001, 549–552. 58 Sul tipo di fruizione del testo attiva nei commentari specialistici cfr. Ferrari 1998 e Ferrari 2000.

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Molto spesso l’esegesi katå l°jin si rivolgeva a un termine pollax«w legÒmenon (così fece Adrasto con il vocabolo lÒgow); il caso più interessante è quello di Calveno Tauro, il quale, nel suo Commento al Timeo, sottopose l’aggettivo genetÒw a una spregiudicata analisi mirante a evidenziarne tutti significati non temporali (che sarebbero almeno quattro).59 Non di rado i commentatori avevano il problema di risolvere la cosiddetta sermonis brevitas, ossia l’eccessiva concisione della trattazione platonica. Nel campo dell’astronomia, per esempio, Adrasto dovette sviluppare le poche indicazioni relative al movimento degli astri contenute nel Timeo. Come è noto, Platone lasciò in sospeso la trattazione dei moti planetari e dei fenomeni di eclissi e riapparizione prodotti da questi moti; una parte consistente del commento superstite di Adrasto è appunto consacrata al completamento della trattazione platonica, attraverso un vero e proprio riempimento delle lacune in essa presenti. In effetti, Adrasto realizzò il programma, da Platone solo accennato e poi lasciato in sospeso, relativo all’esposizione di tutti i fenomeni di giustapposizione, congiunzione ed eclissi prodotti dai movimenti dei pianeti. Talora egli si servì del celebre metodo del Platonem ex Platone, ad esempio quando, per chiarire la questione della collocazione delle orbite planetarie nel Timeo, si richiamò ai passi astronomici del X libro della Repubblica. Sembra poi che Adrasto abbia messo in atto un programma di vera e propria attualizzazione dell’astronomia del Timeo, che ebbe il suo punto culminante nell’attribuzione a Platone del modello planetario fondato sull’ipotesi degli epicicli (¶oike d¢ ka‹ Plãtvn kurivt°ran ÍpÒyesin ≤ge›syai tØn katå §p€kuklon).60 Ma anche Galeno, sia pure con maggiore prudenza e spirito critico, non rinunciò ad assegnare a Platone concezioni sviluppatesi solo nei secoli successivi. Per arrivare ad attribuire a Platone concezioni che non si trovano formulate nel testo dei dialoghi, i commentatori si servirono, sia pure implicitamente, di un’altra regola di esegesi testuale destinata a conoscere un notevole successo tra i tardi interpreti di Platone e di Aristotele. Si tratta della norma che invita a estrapolare dal testo ì d¢ mØ l°gei m¢n aÈtÒyen, ossia ciò che non dice direttamente, ma consegue necessariamente dalle sue premesse (•pÒmena d° §sti énagka€vw oÂw t€yhsi), per usare la formula che Siriano adotterà a proposito dell’interpretazione di Aristotele.61 Si tratta di un metodo di esegesi testuale che nacque in ambito giuridico, come testimonia la versione che ne diede Cicerone, il quale invitava a ex eo quod scriptum sit ad id quod

59 Calv. Taur. apud Iohan. Phil. De aeter. mund. 145,1–147,25 Rabe = Test. 22B Lakmann = 23 Gioè. Commento in Baltes 1998, 452–460 e Gioè 2002, 346–355. 60 Adrast. apud Theon. Exp. rer. math. 188,25–26 Hiller. Cfr. in proposito Ferrari 2000, 216. 61 Syrian. In Metaph. 11,11ss. Kroll. Cfr. Donini 1992, 89ss., Ferrari 2001, 564–565 e più in generale Mansfeld 1994, 161.

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non sit scriptum pervenire.62 Assegnando ai platonici l’uso di questo principio ermeneutico (che si potrebbe definire di iper-interpretazione), si riesce a comprendere come essi arrivarono ad attribuire all’autore dei dialoghi dottrine che ai nostri occhi sembrano del tutto estranee al dettato degli stessi. In ogni caso, lo scopo dei commentari in genere (e di quelli disciplinari in particolare) non consisteva solo nell’eliminare l’oscurità del testo o nel respingere l’accusa di inconstantia; essi svolsero un ruolo decisivo anche nell’ambito di un radicale e spregiudicato processo di aggiornamento del testo platonico che aveva il suo fine in una vera e propria attualizzazione del pensiero dell’autore dei dialoghi.63

VIII. Conclusioni: quae philosophia fuit facta philologia est Il tipo di esegesi condotta dai commentatori in questa fase della storia del platonismo (ma anche dell’aristotelismo) valse loro la celebre accusa di Seneca, il quale lamentava la trasformazione della filosofia in filologia: quae philosophia fuit facta philologia est.64 Analogo rimprovero verrà mosso, poco più di un secolo dopo, da Plotino al «medioplatonico» Longino, ossia quello di essere filÒlogow m°n … filÒsofow d¢ oÈdam«w.65 Si tratta, tuttavia, di un rimprovero in larga parte immeritato. Sarebbe infatti poco generoso non riconoscere che la migliore filosofia di questa epoca fu appunto quella prodotta attraverso la pratica dell’esegesi testuale. L’ontologia medioplatonica, con le sue raffinate e brillanti distinzioni tra i diversi livelli del divino, la stessa cosmologia, con le sue complesse discussioni sulla natura della generazione di cui si parla nel Timeo, non sono neppure pensabili senza il riferimento all’attività esegetica sui testi del maestro e in particolare sul Timeo. La costruzione di un sistema di filosofia platonica fu resa possibile proprio dalla pratica dell’esegesi testuale; in essa trovarono espressione tutto l’acume, l’intelligenza e la sottigliezza di cui i filosofi medioplatonici furono capaci.66 Due parole merita la questione della preminenza del Timeo, che fu di gran lunga il dialogo più letto e commentato in questo periodo. La centralità di questo dia-

62 Cic. Invent. 2.152. Sull’applicazione di questa norma nell’ambito dell’esegesi dei testi filosofici cfr. Hadot P. 1987, 21 (il quale segnala anche la formulazione presente in Mario Vittorino: de lectis non lecta componere) e Donini 1994, 5081ss. Anche Eudoro dovette servirsene con una certa frequenza: cfr. Bonazzi 2005, 151. 63 Ferrari 2001, 558–564. 64 Sen. Epist. 108,23. Un’analoga ripulsa nei confronti della cultura ex commentario si incontra in 33,7–8 dove Seneca rimprovera coloro che semper interpretes sub aliena umbra latentes. Cfr. anche Epict. Diatr. 1. 4,22. Barnes 1993, 134 osserva che «Middle Platonism was essentially directed towards philology». 65 Porph. Vita Plotini, 14,19–20. Cfr. Gioè 1996, 309 e soprattutto Männlein-Robert 2001, 142–145. 66 Cfr. Barnes 1993, 138ss.

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logo durante tutto il medioplatonismo dipende da molteplici fattori. Certamente esso presentava un andamento eccezionalmente sistematico, che si adattava perfettamente alle esigenze dei lettori medioplatonici. Inoltre, come osserva Barnes, se la «fisica» (ossia l’ontologia) rappresenta il cuore del platonismo, il Timeo non può che esserne il cardiological text.67 Il dialogo conteneva poi un abbozzo di saldatura tra fisica, teologia, etica e perfino prospettiva salvifica; ciò lo rendeva particolarmente attraente ai lettori dei primi secoli della nostra era; infine, nel Timeo anche lo specialista di medicina, astronomia e matematica poteva trovare motivo di interesse.68 Per concludere, credo che valga la pena gettare un rapido sguardo al programma esegetico presentato da Diogene Laerzio nel terzo libro delle Vite dei filosofi. Secondo Diogene (e la sua fonte) l’esegesi dei discorsi di Platone presenta tre aspetti. Prima bisogna illustrare quale sia il significato di ciascuna affermazione (˜ ti §st‹n ßkaston t«n legom°nvn); in secondo luogo, bisogna stabilire il fine per cui è stata fatta (t€now e·neka l°lektai), se in senso proprio (katå prohgoÊmenon) o in forma di immagine (§n efikÒnow m°rei), e se serve a stabilire la dottrina (efiw dogmãtvn kataskeuÆn) oppure a confutare l’interlocutore (efiw ¶legxon toË prodialegom°nou); in terzo luogo, bisogna dire se è corretta (efi Ùry«w l°lektai).69 La lettura dei commentari medioplatonici sembra dimostrare che gli interpreti di questo periodo si sono in larga parte attenuti a questo programma esegetico. Il primo punto corrisponde all’interpretazione katå l°jin, ossia alla determinazione del significato dei termini che ricorrono nel testo. Il secondo punto contiene richiami a vari aspetti dell’esegesi medioplatonica: nell’accenno al problema di determinare se una certa affermazione va intesa in senso proprio e in senso metaforico si trovano allusioni al metodo spesso seguito da Galeno mirante a determinare il senso preciso di una certa metafora; mentre l’accenno alla questione della funzione drammatica di una dottrina (e del personaggio che la espone) rimanda al tema della classificazione per carattere dei dialoghi (Albino) e alla celebre interpretazione §k pros⋲pou (il commentatore del Teeteto). Il terzo punto venne affrontato da quei commentatori per i quali la dottrina platonica non corrispondeva necessariamente alla verità (e qui il caso più significativo

67 Barnes 1993, 140. Sulla centralità del Timeo cfr. anche Donini 1994, 5072 e Baltes 1993, 174. 68 Ferrari 2005, 1–2. 69 Diog. Laert. 3.65. Cfr. Hadot P. 1987, 19ss., Mansfeld 1994, 81ss., Baltes 1993, 169ss. e 354ss. e Ferrari 2001, 566ss.

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è certamente rappresentato da Galeno, il quale, a proposito di Platone, invitava a §jhge›sya€ te ëma ka‹ kr€nein ì katå tÚn T€maion e‰pen).70 In conclusione credo che si possa formulare una valutazione di ordine generale. Le analisi qui condotte hanno dimostrato che il celebre giudizio di Pierre Hadot, secondo il quale l’intera attività filosofica dell’epoca imperiale va ricondotta alla categoria di exercices spirituels,71 andrebbe, se non del tutto riveduto, quantomeno attenuato. I platonici (ma analoga considerazione si dovrebbe fare a proposito degli interpreti di Aristotele) svilupparono attraverso l’esegesi testuale una filosofia teoreticamente impegnativa, escogitando soluzioni spesso brillanti e stimolanti.72 Se è vero che la filosofia rischiò di trasformarsi in filologia, si trattò comunque di una filologia filosofica, che gettò le basi per la grande stagione del neoplatonismo.

70 Gal. De trem. 7. 631,10 Kühn. Cfr. Ferrari 1998, 30–32. 71 Hadot P. 2002. 72 In direzione di una revisione di questo giudizio si muove Donini 1994, 5093.

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