¡España es de cine! il grande cinema spagnolo, oggi.

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¡España es de cine! Il grande cinema spagnolo, oggi. Mauro Fradegradi Dottore in lingue europee ed extraeuropee

Rapida ricognizione sulla ricezione della cultura spagnola. Dopo l’irresponsabile articolo di Pier Maria Bocchi (2017) apparso sull’ottimo settimanale di cultura cinematografica e non, FilmTv, dato il carattere radicale, perentorio, poco informato e indecente con cui è stato trattato e liquidato il cinema spagnolo, ho sentito l’esigenza di assemblare tre mie vecchi articoli, aggiornarli e pubblicarli come un solo e unico articolo dedicato a quella che credo essere una tra le migliori cinematografie europee e mondiali. Senza fare nessun distinguo e peccando di grossolana facilità, che qualcuno ha voluto invece leggere come sana provocazione critica, Bocchi non articola la sua discussione su nessun dato oggettivo. La denigrazione che fa dell’attuale cinema spagnolo è inconcepibile, senza nessuna vera base critica e culturale a sostenere le sue tesi. Apostrofato come “cinema populista, quadrato, poco coraggioso, esangue e incolore” il cinema spagnolo viene liquidato rapidamente senza un vero e profondo discorso critico. Con questo articolo cerco invece di mettere ogni cosa al suo posto e dare l’opportunità a chi non conosce il cinema spagnolo di farsene un’idea più obiettiva, anche se la mia passione potrebbe non essere percepita come tale. Innanzitutto bisogna soffermarsi sulla ricezione della cultura spagnola e latinoamericana oggi. Tutto era cominciato nel 1998 con il fenomeno di Ricky Martin, ed era proseguito sempre in campo musicale con Jennifer Lopez, Shakira, Enrique Iglesias e Christina Aguilera. Il 1998 è stato anche l’anno di The Faculty, mio piccolo oggetto di venerazione. Lo sci-fi scolastico era diretto da quel tornado tex mex di Robert Rodríguez che s’era già imposto all’attenzione degli addetti ai lavori nel 1992 con El Mariachi. Ed il 1992 è stato anche l’anno di Belle Époque, di Fernando Trueba, premiato con l’Oscar nel 1994, premio che tornerà alla Spagna nel 2000 per Todo sobre mi madre, di Almodóvar, e nel 2005 per Mar adentro, di Amenábar. L’ondata rossa non si ferma. Dal 2010, anno della vittoria dei mondiali in Sudafrica, tra calcio, ciclismo, tennis, basket, cinema, musica, letteratura, arte, cucina e turismo, congiuntamente con l’inarrestabile fascino per i paesi latinoamericani iniziato già negli anni ‘70, la Spagna si conferma, crisi politica ed economica a parte, uno dei paesi occidentali di maggior traino culturale e il suo appeal continua a non avere rivali. È difatti il terzo paese più visitato al mondo dopo Francia e Stati Uniti (Cosimi, 2017).

Con gli anni ’10 del terzo millennio il mondo conosce anche Álex de la Iglesia grazie a Balada triste de trompeta (2010), pluripremiato a Venezia, nonostante fosse già affermato autore in patria, e mio personale regista di culto fin dai primissimi anni novanta – El día de la bestia (1995), visto in videocassetta negli adolescenziali pomeriggi estivi non si dimentica facilmente. Le scoperte non finiscono qui: molti sono gli attori spagnoli seminati qua e là in produzioni internazionali, come Penélope Cruz, Javier Bardem, Jordi Mollá, Antonio Banderas e Miguel Ángel Silvestre; il regista e produttore Guillermo del Toro, è oggi uno degli uomini di maggior peso del sistema hollywoodiano; il catalano Jaume Collet-Serra dal 2011 sta riscrivendo l’action (Senza identità, 2011; Non-Stop, 2014; Run All Night, 2015) e già nel 2005 aveva giocato felicemente con l’horror dirigendo La maschera di cera; come lui, il barcellonese Juan Antonio Bayona (El orfanato, 2007) si è messo a lavorare fin da subito in produzioni americane dirigendo alcuni dei migliori episodi di Penny Dreadful (2014) e il recente Un monstruo viene a verme (2016); il regista uruguayo Fede Álvarez, grazie al reboot di Evil Dead (2013) e allo straordinario Don’t Breathe (2016), si è ritagliato a giusta ragione una posizione di prim’ordine nel panorama cinematografico di genere horror come molti suoi colleghi di lingua spagnola; inoltre, per due anni consecutivi, il premio Oscar per la miglior regia è andato a due messicani, Cuarón nel 2014 e Iñárritu nel 2015, che confermano, anzi consacrano definitivamente lo sdoganamento della cultura ispanica in America. Infine, Lorenzo Vigas porta in Venezuela il primo Leone d’Oro della storia vincendo a Venezia con Desde allá (2015), stesso anno in cui l’argentino Pablo Trapero vince il Premio Speciale della Giuria con El clan (2015), mentre il cileno Pablo Larraín, dopo il successo mondiale di Tony Manero (2008) varca i confini iberoamericani e grazie a Pablo Neruda (2016) e Jackie (2016) entusiasma la critica tanto quanto un altro uruguayo di successo di adozione messicana, Rodrigo Plá, con Un monstruo de mil cabezas (2015). Da questa prima rapida fotografia si vede come effettivamente sia l’America Latina a catalizzare maggiormente l’interesse della critica e del pubblico internazionali, oscurando la produzione spagnola. È un chiaro caso di miopia critica dei selezionatori che non si accorgono di quanto vivace, plurale e innovativo sia il cinema spagnolo, preferendovi quello latino che, dopo il boom degli anni ’70, è sempre una sicurezza in termini di intellettualismo vecchio stampo. A questo punto però, mi preme fotografare, sempre rapidamente, la situazione attuale della cultura ispanica. I numeri forniti di anno in anno dall’Instituto Cervantes non lascia spazio a dubbi sull’importanza non solo della cultura ispanica, ma anche dello spagnolo come seconda lingua più parlata, diffusa e studiata nel mondo dopo l’inglese – da qui, l’anomalia tutta italiana che vede il 67,7% degli studenti di secondaria di I grado studiare il francese, mentre il 22% lo spagnolo (Orizzonte Scuola, 2016). Ma la tendenza è al rialzo. Snoccioliamo in breve i numeri estratti dall’ultimo informe 2016 dell’Instituto Cervantes (Fernández Vítores, 2016):



con 472 milioni di madre lingua spagnola, 21 milioni di studenti nel mondo e quasi 70 milioni di persone che parlano spagnolo come seconda lingua, lo spagnolo raggiunge oggi i 567 milioni di parlanti;



è lingua ufficiale in 21 paesi e si parla anche non ufficialmente in 5 continenti;



è la seconda lingua madre del mondo dopo il cinese;



per ragioni demografiche, i nativi di lingua spagnola aumentano, mentre scendono i nativi inglesi e arabi;



lo spagnolo è la terza lingua più utilizzata in internet e nel mondo accademico;



nel 2050 gli Stati Uniti saranno il primo paese di lingua spagnola del mondo con una triplicazione degli attuali 42 milioni.



l’Italia è il terzo paese al mondo per presenza di ispanici sul territorio nazionale dopo Stati Uniti e Brasile, ed il quarto per numero di studenti di spagnolo dietro Stati Uniti, Brasile e Francia.

Ma l’Italia davanti a questi dati, a questi numeri, a questa qualità e pluralità artistica, sia cinematografica che letteraria che fa? Rimuove. Non se ne cura. Embarga la cultura spagnola, forse per non soffrirne il confronto. L’editoria italiana è stitica a riguardo. Poche e sporadiche le uscite letterarie di autori spagnoli sia classici che contemporanei. Nomi importanti come Ramón José Sender, uno dei cinque massimi scrittori in lingua spagnola (Conte, 2001), è ancora quasi totalmente sconosciuto in Italia. Lo stesso vale per Camilo José Cela, sempre uno dei cinque, le cui traduzioni ancora oggi in commercio si contano sulle dita di una mano. Se escludiamo nomi di ottimo livello letterario e culturale, con un certo appeal commerciale, come Arturo Pérez-Reverte, Almudena Grandes, Carlos Ruiz Zafón, Javier Marías, Alicia Giménez Bartlett, Francisco González Ledesma e Miguel Vázquez Montalbán, altri autori contemporanei di grandezza letteraria dieci volte superiore ai nostri, sono praticamente sconosciuti, come Víctor Álamo de la Rosa, Isaac Rosa o Luís Rodríguez – fortunatamente il grande esordio di Jesús Carrasco (Intemperie, 2013; La tierra que pisamos, 2016) ha trovato immediatamente pubblicazione anche in Italia. Ricordiamo che in Spagna oggi si fa ancora “letteratura”, mentre da noi in Italia è più difficile trovare testi visceralmente letterari. Nomi come Juan Goytisolo, Luciano González Egido, Juan Millás, José María Merino, Álvaro Pombo, Ana María Matute, Enrique Vila-Matas, Carmen Martín Gaite, Antonio Muñoz-Molina, Ignacio Martínez de Pisón, Javier Cercas, Miguel Ángel Mañas e Manuel Rivas – padre di Martiño Rivas, l’attore – insieme a moltissimi altri più incostanti, sono autori di opere fortemente letterarie, indagando sulla forma come sul linguaggio e sul contenuto. Sono anche autori che, in diversi casi, attraversano i generi, giocano con le forme e le tecniche del romanzo, coltivano il racconto che in Italia è invece bandito, hanno inaugurato narrazioni brevissime chiamate microrrelatos e sono strettamente legati alla cultura cinematografica e al passato letterario e politico del proprio paese.

Lo stesso accade con il cinema. Dagli anni novanta ad oggi, dagli anni del destape a quelli della crisi economica, dei mileuristas e degli indignados, la Spagna, oltre a scalare il tetto del mondo in più settori, si è distinta anche cinematograficamente. Che non me ne abbiano gli amici francofili o germanofili, ma il cinema spagnolo, oggi, secondo me, batte qualsiasi altro cinema europeo. Indubbiamente, il cinema francese ha delle caratteristiche peculiari che lo rendono forte e pieno di appeal. È uno dei cinema più “svestiti” del mondo, dove il corpo nudo appare tra protesta e voyeurismo – anche se ai film francesi del caso come American Translation (2011) e Chroniques sexuelles d'une famille d'aujourd'hui (2012) entrambi della coppia Jean-Marc Barr e Pascal Arnold oppure L’inconnu du lac (2013) di Alain Guiraudie, va aggiunto Diet of Sex (2014), del galiziano Borja Brun dove fa capolino la sessualità esplicita. È un cinema, quello francese, che ha fatto del poliziesco il proprio genere di bandiera, con titoli di grande impatto. È anche un cinema molto politico, che affronta senza riserve i problemi della società francese, soprattutto di tipo razziale. È un cinema che sa ancora percorrere territori difficili e raccontare storie “altre”. È però purtroppo, anche un cinema sofisticato, strettamente d’autore, con attori e attrici che personalmente non mi sanno accattivare – anche se riconosco che due femmes fatales che ossessionano tutt’ora il mio immaginario erotico provengono proprio da lì: Eva Green e Marine Vacth. Lo confesso. Il cinema francese mi piace. Anche molto. Non mi piacciono invece, quelli che continuano a parlare del cinema francese l’unico cinema possibile. Non è così. E la Spagna è lì a dimostrarcelo. Per ovvie questioni di studio e di lavoro, divoro libri, film e serial tv spagnoli. Ho visto anche non pochi film francesi e tedeschi, oltre che ovviamente italiani e inglesi, e posso assicurare, forte anche della mia competenza cinematografica, che il cinema spagnolo non è secondo a nessuno. Emilio García Fernandez, in una sua spietata diagnosi sullo stato di salute del cinema spagnolo (2008) cita il modello francese come il migliore e il più adeguato, dove i finanziamenti per l’industria cinematografica arrivano dall’industria stessa, mentre in Spagna si ricevono sempre e solo aiuti economici su aiuti economici, obbligando di fatto il cinema a dipendere dallo Stato. L’autore infatti, sostiene che si debba applicare un’imposta sulle entrate e su ciò che corrisponde al settore televisivo, del home video e di internet, per reinvestirlo nel cinema; chiede inoltre una legge che meglio definisca gli sgravi fiscali, che consolidi l’industria, che incrementi la creatività, migliori le scuole di ogni settore, dalla recitazione alla regia, dalla sceneggiatura alla produzione, che investa nella pubblicità e nella promozione del prodotto nazionale e infine che permetta alle opere spagnole di poter rivaleggiare con quelle statunitensi in termini di numero di schermi. Detto questo, a me sembra che l’industria cinematografica spagnola, se davvero non se la passa bene esattamente come la cugina italiana, ha però dalla sua, nero su bianco, una serie di punti di forza che la rendono comunque vitale e plurale. Uno di questi punti di forza del cinema spagnolo è l’inclinazione al genere. Dal poliziesco all’horror, dal thriller allo sci-fi, dal demenziale e alla commedia romantica e al dramma politico, fino

all’animazione e al classico cine de guerra, il cinema spagnolo dialoga con il proprio paese e con il mondo intero. Attraverso film più o meno riusciti, guarda con un occhio al botteghino e con l’altro alla narrazione dei temi universali. Con il genere, l’appeal sale e l’empatia e la fidelizzazione del pubblico aumentano. Si può guardare se stessi, il proprio paese e la propria storia anche attraverso lo specchio deformante di generi non prettamente autoctoni. Per non dire poi della libertà del corpo. Attori e attrici di prima linea si mostrano nudi integralmente, sia frontali che da tergo, sposando con il loro primo strumento attorico la causa della narrativizzazione del corpo, fulcro centrale di tutte le riflessioni, le patologie, le ossessioni, le gioie e i dolori del pensiero moderno e contemporaneo. Sempre García Fernández sostiene invece che non se ne può più di questi nudi gratuiti che da novità del cinema della transizione sono diventati con il tempo delle stanche abitudini del cinema di oggi. Inoltre, sostiene anche che gli attori spagnoli siano ben poca cosa e che dovrebbero vocalizzare meglio e leggere molto di più; in più dovrebbero aderire al personaggio con integrità, ovvero con meno naturalezza e con più energia interpretativa. L’intervento di García Fernández è abbastanza datato e non tiene conto degli ultimi sviluppi del cinema spagnolo, recitazione compresa. Tant’è che in Spagna si concentrano gli attori più interessanti del panorama mondiale; attori molto naturali, freschi, diretti, con un’ottima modulazione vocale e un’ottima padronanza fisica del proprio corpo, per non dire dell’uso intelligente, felice e libero che fanno proprio del loro corpo: Yon González, Mario Casas, Miguel Ángel Silvestre e Martiño Rivas i più promettenti tra i giovani, e poi Hugo Silva, Carlos Areces, Javier Cámara, Raúl Arévalo, Quim Gutiérrez, Álex González, Maxi Iglesias, Juan José Ballesta, fino ad attori di razza come Javier Barderm, Lluís Homar, José Coronado, Antonio de la Torre, José Sacristán, Luis Tosar, Santiago Segura, Jorge Sanz, Sergi López, Eusebio Poncela, Manuel de Blas e Enrique Villén; senza contare il noto fattore femminile che va da Carmen Maura a Victoria Abril, da Ángela Molina a Terele Pávez, contando con Aitana Sánchez-Gijón, Amparo Baró – scomparsa di recente, nel 2015 – Concha Velasco, Belén Rueda, Adriana Ozores, Marisa Paredes, Rosa María Sardá, Rossy de Palma e tra le più giovani Amaia Salamanca, Blanca Suárez, Carolina Bang, Maribel Verdú, Adriana Ugarte, María Valverde, Najwa Nimri, Michelle Jenner e Clara Lago. Grazie a grandi autori come Pedro Almodóvar, Álex de la Iglesia, Montxo Armendáriz, Agustí Villaronga, Cesc Gay, Alejandro Amenábar, Juanma Bajo Ulloa, Carlos Sauras, Jaume Balagueró, Daniel Sánchez Arévalo, Daniel Calparsolo, Alberto Rodríguez, David Menkes, Alfonso Albacete, Fernando León de Aranoa, gli “americani” Juan Antonio Bayona, Jaume Collet-Serra e Nacho Vigalondo ed esordienti esuberanti, vitali, colorati, provocatori e quant’altro come Juanfer Andrés e Esteban Roel, Carlos Vermut e Paula Ortiz, e i felici esordi di Daniel Guzmán, Raúl Arévalo ed Eduardo Casanova dietro la macchina da presa, il cinema spagnolo è davvero uno dei migliori cinema del mondo occidentale.

Gli anni '90. Pedro, Álex, Santiago e gli altri ragazzacci del gruppone. Dalla morte di Francisco Franco, nel 1975, fino al 1982, anno della II legislatura della Spagna democratica, con al governo il Partito Socialista Operaio Spagnolo, si è soliti indicare il periodo conosciuto come Transición. Questa periodizzazione non è condivisa da tutti gli storici, benché sia quella che gode di maggiori consensi. C’è chi la anticipa al 1973, anno dell’attentato ETA ai danni dell’allora Presidente del Consiglio Carrero Blanco – momento storico che viene narrato anche in Balada triste de trompeta (2010) di Álex de la Iglesia; e c’è chi individua la fine del periodo politico della transizione nelle prime elezioni democratiche del 1977 o nella nuova Costituzione del 1978 o addirittura nel 1986, quando la Spagna entra nella Comunità Economica Europea. Anche quest’ultima data, in corrispondenza con la fine dell’era Miró come Directora General de Cinematografía e l’istituzione dei premi Goya nel 1987, sembra abbracciare un periodo abbastanza lungo perché si possa percepire il processo di cambiamento. Con Pedro Almodóvar la Spagna della transizione trova il suo cantore più esplicito. I suoi primi titoli, Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón (1981), Laberinto de pasiones (1982), Entre tinieblas (1983) e ¿Qué he hecho yo para merecer esto? (1984) raccontano con disinvoltura la Madrid di quell’epoca appiccicandole addosso un’estetica che ne diventerà il simbolo e il decodificante barocco. Il 1983 è anche l’anno dell’Oscar a Volver a empezar, pellicola del 1981 di José Luis Garci, che permette alla Spagna di farsi conoscere con abiti nuovi. Nel 1987 arrivano i Goya, nell’88 il grande successo di Mujeres al borde de un ataque de nervios e infine il 1992: l’anno di Sevilla città dell’Expo, delle Olimpiadi di Barcellona e del secondo Oscar alla Spagna con Belle Époque di Fernando Trueba. Ecco perché considero gli anni novanta della Spagna democratica un decennio interlocutore. Il cinema che già negli ottanta stava dimostrando di essere un prometeo liberato dal supplizio dell’aquila – giusto per citare Unamuno – diventa un “luogo” di crescita culturale, di ribellione estetica e di riformulazione linguistica. Se il cinema scollacciato del destape era provocatorio e leggero, i nudi e le tematiche sessuali degli anni ’90 diventano un’esibizione del corpo politico e ribelle che si riappropria della libertà dopo quarant’anni di dittatura nazional-cattolica – il concordato del 1953 tra lo Stato spagnolo e il Vaticano è ancora oggi una lettura inquietante. Registi di spessore, nati artisticamente tra i ‘70 e gli ’80, come Bigas Luna (Tatuaje, 1976), Imanol Uribe (El proceso de Burgos, 1979), José Luis García Sánchez (Las truchas, 1979, Orso d’oro a Berlino), Montxo Armendáriz (Tasio, 1984), Josè Luis Cuerda (El bosque animado, 1987) e lo stesso Almodóvar continuano le loro traiettorie artistiche tra alti e bassi. Si distingue soprattutto il basco

Montxo Armendáriz. Poche pellicole, ma incisive e imprescindibili: con Las cartas de Alou (1990), film sull’immigrazione clandestina in Spagna, vince il Goya come Miglior film; segue Historias del Kronen (1994), tratto dal romanzo culto di José Ángel Mañas, dove l’espediente linguistico e formale diventava la nuova estetica argotica e brutale con cui rappresentare e interpretare i giovani di fine millennio; Secretos del corazón (1997), storia di misteri, segreti e scoperte tra infanzia e adolescenza, oltre ad essere nominato agli Oscar, vince come miglior film europeo alla berlinale e conquista altri vari premi tra cui quattro premi Goya – suono, direzione artistica, Andori Erburu come miglior attore rivelazione e Charo López come miglior attrice non protagonista. Sono però i nuovi registi degli anni ’90 a “transitare” il cinema spagnolo da un decennio di rinascita, di sbeffo, di goliardia e rivalsa politica verso un’epoca di consolidamento delle forme, dei generi e delle tematiche. Su tutti svettano Almodóvar da ¡Átame! (1991) a Todo sobre mi madre (1999, Oscar come miglior film straniero) e Álex de la Iglesia, che esordisce al cinema con Acción mutante (1993) e che con il successivo El día de la Bestia (1995) diventa autore di culto per un’intera generazione e mio personale regista spagnolo di riferimento. Con loro esordiscono, e soprattutto convincono, anche altri registi molto personali e indipendenti di quel decennio. Dal Cile di Allende arriva ancora in fasce Alejandro Amenábar che scampa così alla dittatura di Pinochet e nel 1996 stravolge il pubblico e la critica europei con il suo Tesis, mentre il seguente Abre los ojos (1997), con Penélope Cruz ed Eduardo Noriega, viene addirittura comprato dagli Usa e diventa Vanilla Sky (2001), sempre con la Cruz, ma con Tom Cruise al posto dell’attore originale. Dai Paesi Baschi invece arriva l’onda d’urto di Juanma Bajo Ulloa che con Airbag (1997), pellicola mascalzona, svergognata e teppista fatta di eccessi e immoralità, è ancora oggi il film spagnolo campione d’incassi. Mentre la barcellonese Isabel Coixet, dopo l’esordio flop con Demasiado viejo para morir joven (1989), trova oltreoceano, con Cosas que nunca te dije – Things I Never Told You (1996), la sua dimensione artistica internazionale. Come non parlare poi di Santiago Segura, attore feticcio di Álex de la Iglesia, che dal 1997 terrorizza pubblico e critica con le tragicomiche avventure del Commissario Torrente, “el brazo tonto de la ley”,1 come titola il primo episodio. Un uomo riprovevole, inconsapevolmente franchista dentro, un porco, laido, zozzone, protagonista di battute di cattivo gusto e di un umorismo grossolano fatto di rutti e scorregge, che diventa subito la caricatura dello spagnolo di oggi. Uno dei più importanti registi spagnoli di sempre, Luis García Berlanga, padre spirituale guarda un po’ proprio di Santiago Segura e Álex de la Iglesia, disse di Torrente: «Il film contiene una gag geniale che definisce alla perfezione il carattere spagnolo: poggiato con i gomiti sul bancone del bar, Torrente si pulisce i denti con uno stecchino… che dopo rimette al suo posto» (BELATEGUI, 2010).

1 Una curiosità molto strana. Il sottotitolo spagnolo “el brazo tonto de la ley” non arriva da una parodizzazione de Il braccio violento della legge di William Friedkin (1972), distribuito in Spagna come Contra el imperio de la droga, bensì da Cobra, el brazo fuerte de la ley con cui nel 1986 veniva distribuito in Spagna Cobra con Sylvester Stallone.

Gli anni ’90 si chiudono così col botto. Dal 1997 si susseguono diversi titoli non solo di grande richiamo per il botteghino, ma che sanno mettere d’accordo anche la critica. Film che fanno del grottesco e dell’esperpento l’estetica del famoso desengaño, il disinganno, la disillusione; e che fanno del genere nero, horror o thriller che sia, il territorio più adatto per raccontare la Spagna di oggi che dalla transizione transita nel terzo millennio.2

Autori e tendenze del terzo millennio. La Spagna lasciava il Novecento, povero, brutale e fratricida prima, colorato, disinibito ed esagerato dopo, con Todo sobre mi madre e l’Oscar a Pedro Almodóvar come miglior film straniero. Seguendo il percorso del regista todo ibérico di Calzada de Calatrava, al confine con la caliente Andalucía, la Spagna entra nel nuovo millennio con Hable con ella (2002) e non senza premi: nuovamente miglior film straniero ai Golden Globes come il precedente, più l’Oscar a don Pedro come miglior sceneggiatura originale – e la nomination come miglior regista. Il film è tra i più toccanti della sua carriera. Dopo una prima parte professionale esuberante e colorata, che vede nel melodramma di Todo sobre mi madre l’apoteosi del dramma barocco, inseguito durante tutti gli anni novanta, e non senza successo, già con Carne tremula (1997), Almodóvar entra negli anni duemila non solo con più sicurezza registica, ma anche con toni più scuri, più drammatici e più riflessivi, dove tutto si fa più sobrio e rigoroso e dove si attenua il famoso desbordamiento kitsch fatto di appartamenti colorati e look postmoderni. Nel 2004 firma il capolavoro di questi ultimi quindici anni, La mala educación, dove ritroviamo molte delle tematiche dell’autore come l’esperienza sessuale nelle sue varie declinazioni, euforica, disinibita, ambigua, problematica, omoerotica, libidica, perversa o sacrilega; e poi l’ingerenza della chiesa cattolica, la maternità, il gioco meta-narrativo e meta-visuale fatto di teatralità per nulla velate, di cinema che parla di se stesso anche attraverso inserti narrativi come pubblicità, cultura popolare, brani di altri film e così via. Lungo l’arco di questa sua seconda fase Pedro indagherà le forme e i contenuti della sua personale idea di melodramma con Volver (2006) e Los abrazos rotos (2009), toccando vette pop-gotiche in La piel que habito (2011) e regalando nel 2013 Los amantes pasajeros, un piccolo gioiello anarchico e spudorato, incompreso da critica e pubblico, dove un nutrito gruppo di attori di nuova e vecchia generazione si prestano divertiti per il ritorno al desbordamiento kitsch di don Pedro, che rientra al melodramma con l’applaudito Julieta (2016). Dopo un decennio esuberante, Álex de la Iglesia sembra aver perso il graffio degli esordi, ma è solo apparenza. Nel 2000 conquista la critica con La comunidad. L’attrice protagonista, l’almodovariana Carmen Maura, vincitrice del Goya per questo ruolo, sancisce con la sua presenza la buona relazione tra Álex de la Iglesia e Pedro Almodóvar. Una collaborazione iniziata già nei primi 2 Per completezza va detto che il cinema spagnolo degli anni novanta contava anche della presenza di nomi che arrivavano da lontano come Luis García Berlanga, Gonzalo Suárez, Imanol Uribe, José Luis García Sánchez, José Luis Cuerda e Julio Medem, registi presenti sulla scena fin dagli anni ’60 o ’70.

anni ’90, quando l’allora esordiente regista bilbaino, con il suo cortometraggio Mirindas asesinas (1991) attirò l’attenzione della Deseo di don Pedro che volle così partecipare alla produzione del suo primo lungometraggio, Acción mutante (1993). Purtroppo, il film successivo a La comunidad, ovvero 800 balas, un omaggio non solo agli spaghetti-western e all’Almería, tierra de cine, terra di leoniana memoria, ma anche un omaggio ai tanti cascatori che lavorano tutto l’anno nei villaggi western come banditi, sceriffi e cowboys, tra polvere e temperature impossibili, è un fiasco totale. Incassa infatti due volte meno dei precedenti film di Álex: El día de la Bestia incassava più di 4 milioni di euro e Muertos de risa (1999) ben 6 milioni, La comunidad se ne portava a casa quasi 7, mentre questo sfortunato 800 balas ne incassa quasi 2. Se escludiamo il meritato Goya a Sancho Gracia, uno dei più grandi attori spagnoli scomparso nel 2012, il film sembrava segnare la fine prematura dell’irresistibile cinema di Álex de la Iglesia. Fortunatamente, le cose vanno in tutt'altro modo; seguono infatti, film che incassano e piacciono alla critica e anche al pubblico: Crimen ferpecto (2004), The Oxford Murders (2008), Balada triste de trompeta (2010) che è anche un successo internazionale premiato al Festival di Venezia, La chispa de la vida (2012) e il travolgente e anarchico Las brujas de Zugarramurdi (2013). Ulteriori conferme del suo cinema esperpentico e sobredosis sono due commedie corali al vetriolo, di taglio catastrofista, che fotografano la Spagna di questo nuovo millennio con tratti popolareschi e carnevaleschi: l’anarchico e spassoso Mi gran noche (2015) e il sociofobico e folle El bar (2017). Nel frattempo si prende in carico il remake spagnolo del successo italiano Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese, Perfectos desconocidos (2017). Il nuovo millennio non è solo appannaggio dei nuovi registi degli anni ’80 e ’90 con le loro esagerazioni e parabole kitsch, ma vede ugualmente in attività i grandi autori della recente cinematografia spagnola. Con un cinema più classico e tradizionale nella forma, ma personale e intellettualmente libero nei contenuti, continuano a fare film registi come Montxo Armendáriz, incapace di fare brutti film anche se si impegnasse, come Silencio roto (2011), Obaba (2005) e No tengas miedo (2011); Fernando León de Aranoa, che dopo gli ottimi esordi conquista pubblico e critica con Los lunes al sol, pluripremiato in patria, con Javier Bardem e Luis Tosar, segue con Princesas (2005), il documentario Invisibles (2007), Amador (2010) e Un día perfecto (2015), sempre mettendo al centro delle sue storie temi di attualità e di denuncia come il lavoro, la prostituzione, il disagio sociale e l’immigrazione. Anche Alejandro Amenábar continua la sua carriera nel nuovo millennio. Poco prolifico, solo quattro film in quindici anni, il nativo cileno fa il giro del mondo con Los otros (2001) beneficiando sia della produzione internazionale e della presenza di Nicole Kidman, sia per l’attenzione che gravita intorno al nuovo cinema horror spagnolo. Il successo continua nel 2004 con Mar adentro, che porta in Spagna il quarto Oscar e che sdogana definitivamente Javier Bardem oltreoceano – Prima che sia notte è del 2000, ma è dopo il 2004 che inizia la vera carriera americana dell’attore canario.

Successivamente Amenábar sembra perdersi. Nel 2009 dirige il controverso Agorá, sulla martire pagana Ipazia, che creerà non pochi problemi alla distribuzione del film, conquistando comunque ottimi consensi in patria. Tornerà alla regia cinematografica nel 2015 con Regreción, produzione americana con Ethan Hawke e Emma Watson. Tra i migliori registi spagnoli di oggi c’è sicuramente Alberto Rodríguez. Il regista sevigliano ha ancora una filmografia corta, ma i suoi titoli sono già tra le opere più rappresentative della Spagna degli anni duemila. Il suo respiro è ampio e internazionale; l’estetica è precisa e curata nel dettaglio e sa infondere anima a ogni luogo, dagli interni alle architetture esterne fino alla natura e a ogni suo angolo; i suoi personaggi sono romanzeschi e complessi, ma sono anche maschere e simboli, affidati ad attori di grande spessore e sempre ispirati; usa il cinema di genere per rappresentare e rileggere non solo il suo paese, ma i conflitti e i torbidi dell’uomo contemporaneo. Fin dal 2005, anno del suo terzo film, 7 vírgenes, è nominato ai Goya per ogni sua successiva regia e sceneggiatura originale: After (2009), Grupo 7 (2012) e La isla mínima che finalmente gli permette di conquistare i Goya personali per film, regia e sceneggiatura più quelli alla pellicola, ai costumi, direzione artistica, montaggio, fotografia di Alex Catalán, musiche originali di Julio de la Rosa e gli attori Javier Gutiérrez e Nerea Barros. Il film successivo invece, El hombre de las mil caras (2016), pur essendo tecnicamente un ottimo film con un’ottima direzione degli attori, tra cui Carlos Santos premiato come miglior attore rivelazione ai Goya 2016, risulta molto prosaico e risente del vincolo cronachistico della vera storia dell’agente segreto Francisco Paesa, iconica immagine di una Spagna ancora fortemente legata al potere di pochi e all’ideologismo che da politico si fa economico. Insieme a Pedro Almodóvar e Álex de la Iglesia è il terzo grande regista spagnolo di oggi, con uno stile, una forma e un immaginario personali e riconoscibili. Il terzo millennio vede perdersi un po’ per strada alcuni registi dei decenni precedenti. L’enfant terrible Juanma Bajo Ulloa, dopo Frágil (2004), firmerà solo il documentario Historia de un grupo de rock (2008) e il videoclip La flor del tiempo (2011) per la rock band indipendente Cronometrobudú; Imanol Uribe, dopo il buon Plenilunio (2000) girerà solo altri tre titoli in dodici anni; anche per José Luis Cuerda pochi titoli, seppur buoni come Los girasoles ciegos (2008) e Todo es silencio (2011); Julio Medem non raggiunge più le vette di Los amantes del Círculo Polar (1998) e di Lucía y el sexo (2000), girando solo due film, Caótica Ana (2007) e Habitación en Roma (2010), più tre cortometraggi e un documentario, tornando però in gran spolvero nel 2015 con Ma Ma, film tutto incentrato su una perfetta e drammatica Penélope Cruz; più costante Vicente Aranda che resta però fermo a Luna caliente (2010), mentre Fernando Trueba, dopo qualche titolo passato inosservato, arriva nel 2016 con La reina de España, sequel de La niñas de tus ojos (1998) e sempre con Penélope Cruz, ma la fortuna del primo film non gli sorride più e la nuova pellicola è un insuccesso senza precedenti per una produzione di tale livello e budget. Di tutt’altra fortuna è il fratello scrittore, David Trueba che tra Soldados de salamina (2002), Bienvenido a casa (2006), Madrid, 1987 (2010) e il successo limpido e

cristallino di Vivir es fácil con los ojos cerrados (2014), selezionato dalla Spagna per correre agli Oscar di quell’edizione, è tra gli autori spagnoli più interessanti del momento. Caratteristica di questo particolare momento estetico e narrativo è la rielaborazione di generi non autoctoni come l’horror e il thriller che, come nel resto d’Europa, erano già stati risemantizzati tra i ’60 e i ’70. Inoltre si consolidano e si cristallizzano altre tendenze narrativo-estetiche tipiche del cinema spagnolo come la commedia sentimentale o treintañera, di ambientazione urbana, senza dirette e forti denunce sociali, basata su problemi d’amore, problemi famigliari, problemi lavorativi, crisi dei trent’anni e così via, a volte commedia degli equivoci, a volte commedia di caratteri, a volte road movie o avventura picaresca come Las razones de mis amigos (2000), En la ciudad (2003), Fuga de cerebros (2009), Primos (2011), Por un puñado de besos (2014), Perdiendo el norte (2015) o l’intera filmografia della coppia David Menkes e Alfonso Albacete da Más que amor, frenesí (1996) a Entre vivir y soñar (2004), a cui fa da contraltare una commedia divertente e intelligente allo stesso tempo, più amara, più sociale, figlia di questa contemporaneità, una commedia d’autore che con il sorriso e la leggerezza del vivere non teme di puntare il dito su questioni di un certo peso etico o politico o esistenziale, come hanno fatto Krámpack (2000), A mi madre le gustan las mujeres (2002), AzulOscuroCasiNegro (2006), Spanish Movie (2009), La gran familia española (2013), Tres bodas de más (2013), Stockholm (2013), Vivir es fácil con los ojos cerrados (2013), Ismael (2013), Ocho apellidos vascos (2014), il suo sequel Ocho apellidos catalanes (2015), Felices 140 (2015), Tenemos que hablar (2016), Kiki, el amor se hace (2016), Quatretondeta (2016), La noche en que mi madre mató a mi padre (2016), Es por tu bien (2017); un tipo di commedia i cui registi di riferimento sembrano essere Daniel Sánchez Arévalo e Javier Ruiz Caldera, mentre il volto più rappresentativo sembra essere quello di Quim Gutiérrez, tra l’altro un ottimo attore drammatico, molto fisico e allo stesso tempo sottrattivo. Per non contare il recente fenomeno delle commedie comico-demenziali come l’infelice ritorno di Juanma Bajo Ulloa con Rey gitano (2014), ma i notevoli successi di Anacleto: agente secreto (2015), Cuerpo de élite (2016) e ovviamente l’intera serie del Comisario Torrente di Santiago Segura (1998; 2001; 2005; 2011; 2014; 2017) – e al volto di Segura va aggiunto il miglior corpo comico dell’attuale cinema spagnolo, Carlos Areces, che tra il demenziale, la commedia brillante e anche il dramma, grazie a una comicità misurata alla Keaton o alla Pozzetto, riesce a destabilizzare ogni pellicola in cui partecipa. A queste tipologie di commedia va aggiunta quella strettamente, tipicamente e unicamente spagnola: l’esperpento. Chi non ha fatto studi spagnoli forse non sa che “esperpento” significa tradizionalmente “spauracchio, mostriciattolo” e divenne a inizi del Novecento la parola chiave della poetica e dell’estetica di uno dei più grandi autori spagnoli della storia, Ramón María del Valle-Inclán, significando così “grottesco, caricaturale, deformato”. I tratti principali sono la cosificazione e l’animalizzazione dei personaggi e quindi anche degli attori e della loro recitazione a teatro; il gioco stilizzato dei contrasti; il miscuglio tra realtà e incubo, con ciò che comporta in termini estetici, tra cui

la deformazione sensibile della realtà e un linguaggio popolaresco e colloquiale letteraturizzato; inoltre, queste varie forme di degradazione suggeriscono da un lato l’uso di ambienti marginali della società come taverne malfamate, bordelli, osterie popolari e comunque qualsiasi tipo di luogo misero, desueto, abbandonato o in rovina, e dall’altro personaggi tipici di questi ambienti o di questa società marginale e deformata, come ubriaconi, prostitute, mendicanti, poveracci, ladruncoli e artisti squattrinati. Questa poetica prettamente spagnola, seguendo l’eredità del barocco secentesco e mutuandosi con il coevo espressionismo tedesco, è la miglior forma di rappresentazione del famoso desengaño spagnolo, l’insanabile contrasto tra la grandezza e l’anima grottesca del regno di Spagna, che nel Novecento vedrà nella fratricida Guerra Civile l’apice di questo contrasto. Anche nel terzo millennio gli artisti spagnoli non si dimenticano di questa loro naturale forma di creazione che prende le mosse già tra quattro e cinquecento con La celestina e il Lazarillo de Tormes per certi versi, e l’opera di Francisco de Quevedo per altri, senza contare i dipinti di Francisco de Goya tra sette e ottocento. Squisitamente esperpenticos sono i film di Álex de la Iglesia e Santiago Segura, a cui si accodano Juanma Bajo Ulloa con Airbag (1997) e Isaki Lacuesta con Murieron por encima de sus posibilidades (2014). I toni sono estremamente grotteschi ed è immediata la percezione di fuga ludica e intellettuale dal realismo attraverso i ricorsi estetici dell’esagerazione, della deformazione e dell’esasperazione dei caratteri, degli ambienti, delle situazioni e del linguaggio: le persone diventano personaggi. La Spagna, terra di grandi contrasti, ha anche un’ottima tradizione drammatica. Oltre alle commedie sentimentali, d’autore ed esperpentiche, ci sono numerosi esempi pienamente riusciti di drammi sociali, con un massimo di naturalismo e di denuncia civile e politica come Techo y comida (2015) di Juan Miguel del Castillo, il piccolo cult A cambio de nada (2015) di Daniel Guzmán, Truman (2015) di Cesc Gay, Amar (2016) di Esteban Crespo, El olivo (2016) de Icíar Bollaín, La puerta abierta (2016) di Marina Seresesky e il capolavoro d’esordio di Raúl Arévalo, Tarde para la ira (2016), più ovviamente i film del già citato Fernando León de Aranoa o la svolta severa della coppia Menkes y Albacete con Mentiras y gordas (2009). Allo stesso modo, ma su binari opposti, viaggia il dramma mitico, fatto di metafore, simbologie, echi onirici e letterari, che si allontana dal tipico realismo sociale iberico pur restando ancorato ad un estetica naturalistica, e per il quale potremmo parlare di realismo magico. Da Las Hurdes di Luis Buñuel (1933) a La madre muerta di Juanma Bajo Ulloa (1993), Los amantes del Círculo Polar (1998) di Julio Medem, Secretos del corazón (1997) di Montxo Armendáriz, fino alle recenti produzioni in bilico tra realismo e fantasy, come Verbo (2010) di Eduardo Chapero-Jackson, Fin (2012) di Jorge Torregrossa, Todos están muertos (2014) di Beatriz Sanchís o la commedia adolescenziale Promoción fantasma (2012), per non parlare delle numerose pellicole costumbriste, ovvero di impianto realista con procedimenti naturalistici, che o per un elemento magico e fantastico o per uno sguardo registico che strizza l’occhio alla favola, soprattutto quando i protagonisti sono dei bambini, ammantano di

magia il racconto realista, tanto da poter parlare di realismo magico costumbrista come Pa negre (2010) e El rey de La Habana (2015) entrambi del grande autore maiorchino Agustí Villaronga, Entrelobos (2010) di Gerardo Olivares, Alacrán enamorado (2013) di Santiago Zannou,3 La novia (2015) di Paula Ortiz, ai quali va aggiunta la poesia della natura di Guadalquivir (2013) e Cantábrico (2017) di Joaquín Gutiérrez Acha. Anche la Spagna ha il suo cinema di avanguardia e sperimentale. Non solo Arrebato (1979)4 di Iván Zulueta, e prima ancora il cinema surrealista di Buñuel, ma anche il recente cinema di Jaime Rosales, vincitore del Goya nel 2007 con La soledad, che con Tiro en la cabeza (2008) filma i pedinamenti di un uomo lasciando allo spettatore soltanto rumori di fondo e dialoghi lontani. Lo sperimentalismo si sa non paga, ma può aiutare nella crescita del linguaggio cinematografico. L’osservazione di un oggetto in immagine fissa e in movimento in Unas fotos en la ciudad de Sylvia/En la ciudad de Sylvia (2007) di José Luis Guerín, tra documentario e narrazione; il silenzio o la sinfonia musicale come narrazione in El silencio antes de Bach (2007) di Pere Portabella; piani sequenza fissi o in movimenti come riflessione sullo sguardo e sulla narrazione come in La mujer sin piano (2010) di Javier Rebollo; possono tutti portare nuovi orizzonti linguistici e narrativi al racconto cinematografico. Un capitolo a parte andrebbe redatto apposta per i due generi più emblematici del nuovo cinema spagnolo, ovvero l’horror e il poliziesco anche declinato al thriller. Già autori come Rodríguez, Monzón, Arévalo o Sorogoyen (Que dios nos perdone, 2016), hanno dato prova di saper riutilizzare i codici di generi ben definiti e dalle attese chiare per sviluppare narrazioni autonome e autoctone, puntando su uno spettacolo che regala anche ottime prove attoriali e spunti riflessivi mai del tutto banali. Stesso discorso per il genere horror che rimesso in marcia dalla coppia Balagueró-Plaza con la serie REC (2007; 2009; 2012; 2014), dopo i fasti degli anni ’60, ’70 e ’80 e le buone produzioni dei ’90, oggi gode di ottima salute. Non parliamo magari di capolavori assoluti, ma sicuramente di film godibilissimi e in linea con gli standard internazionali come Sweet Home (2015) di Rafa Martínez, Campamento de verano (2016) di Alberto Marini, il già citato Regresión di Amenábar, l’ottimo La cueva (2015) di Alfredo Montero, Extinción (2016) dell’interessante Miguel Ángel Vivas, La mina (2016) di Miguel Ángel Jiménez Colmenar, la co-produzione franco-spagnola di Thierry Poiraud No crezcas o morirás (2016), Anomalous (2016) di Hugo Stuven Casasnovas, Marrowbone (2017) di Sergio G. Sánchez e il già citato Un monstruo viene a verme di J. A. Bayona che non è proprio un horror, ma un fantastico che sfugge anche ai canoni del realismo magico.

È interessante vedere come la boxe, lo sport più cinematografico di tutti, è particolarmente presente nel cinema spagnolo: Segundo asalto (2005) e Alacrán enamorado (2013) hanno come boxeador Álex González, mentre La distancia (2006), di nuovo Alacrán enamorado e la serie tv Sin tetas no hay paraíso (2008) hanno come corpo guerriero l’attore Miguel Ángel Silvestre; la serie Gran Hotel (2011) invece usa l’ottimo Yon González come pugile per incontri clandestini; e Toro (2015) metterà sul ring Mario Casas. 4 Arrebato è un film del 1979, forse la prima pellicola di culto del cinema spagnolo: avanguardista, maledetta, perfettamente inserita nell’ideologia eterodossa della movida madrileña. Il regista era l’artista visuale Iván Zulueta, autore di una ventina di cortometraggi, di due soli film per il cinema e di un gran numero di opere grafiche, tra cui anche numerose locandine cinematografiche, tra le quali alcuni titoli di Luis Buñuel e Pedro Almodóvar. 3

È comunque il thriller che sta interessando maggiormente le produzioni spagnole con una fila corposa e interessante di titoli, trame, regie e attori. Giusto per citarne alcuni come La distancia (2006) di Iñaki Dorronsoro e con due attori di gran calibro come José Coronado e Miguel Ángel Silvestre, El cuerpo (2012) di Oriol Paulo con José Coronado, Hugo Silva e Belén Rueda, l’ottimo El cadáver de Ana Fritz (2015) di Héctor Hernández Vicens, Secuestro (2016) di Mar Targarona che vanta oltre all’interpretazione di Blanca Portillo anche quella di Marc Domenech, il piccolo protagonista, e poi Acantilado (2016), El mal que hacen los hombres (2016), Contratiempo (2017) e La niebla y la doncella (2017). Un caso a parte è la filmografia di un oggetto strano come Daniel Calparsoro. Il regista barcellonese dirige negli anni ’90 film tra il genere, il dramma e l’indipendente come Salto al vacío (1995), Pasajes (1996) e A ciegas (1997), per poi buttarsi sul genere action tra polizieschi e thriller commerciali pienamente riusciti come Guerreros (2002), Invasor (2012), Combustión (2013) e 100 años de perdón (2016), oppure incostanti come Asfalto (2000) e Ausentes (2005). Sicuramente i suoi film, compresi i tv-movie come El castigo (2008), La ira (2009) e Inocentes (2010) sono molto godibili, giocano con il genere e con le trame ad effetto, ma peccano di alcuni scivoloni di stile e di credibilità. Va anche detto che tra i drammi più interessanti e di maggior successo ci sono quelli che trattano il mondo adolescente. Raramente in Italia si vedono film incentrati esclusivamente sui più giovani, se non addirittura i giovanissimi, cosa che invece succede con regolarità e ottimi risultati in Europa, negli Stati Uniti, in America Latina e nel cinema australiano. Gli spagnoli, in questo preciso filone drammatico, a cui certo non sono nuovi – basti rivedersi i migliori titoli del celebre cine quinqui degli anni a cavallo tra i settanta e gli ottanta, dove disagio giovanile e poliziesco si amalgamavano in un genere senza eguali – sanno perfettamente cosa raccontare, chi raccontare e come raccontarlo. Ci sono titoli emblematici, alcuni studiati pure sui banchi di scuola tanto è il potenziale e la forza dell’immaginario che evocano. El bola (2000), i già citati Krámpack, 7 vírgenes e Mentiras y gordas, e inoltre Jóvenes (2004), Héctor (2004), La noche del hermano (2005), Castillos de cartón (2009), 15 años y un día (2013), Els nens salvatges (2013), A cambio de nada, Los héroes del mal (2015), Novatos (2015) e La propera pell (2016) sono solo alcuni dei titoli più importanti a cui va aggiunto lo sci-fi Segundo origen (2015) di Carles Portas su un progetto mai realizzato di Bigas Luna, e che ci porta ad accennare ad un altro genere a cui il cinema spagnolo guarda sempre con interesse, appunto la fantascienza. A parte la commedia divertentissima Extraterrestre (2011) di Nacho Vigalondo che già con Los cronocrímenes trattava con occhio nuovo il genere a cui ritorna nel 2016 con Colossal, si segnalano appunto Segundo Origen, Los últimos días (2013), Autómata (2014) e Órbita nueve (2017). Questa panoramica si può chiudere citando registi che pur discontinui o con una filmografia breve, hanno saputo colpire con uno o più titoli ben assestati, come Daniel Monzón (Celda 211, 2009; El Niño, 2014), Enrique Urbizu (La vida mancha, 2003; No habrá paz para lo malvados, 2014; 2.014 hijos de puta, 2015), Juanfer Andrés e Esteban Roel (Musarañas, 2014), Carlos Vermut (Magical Girl, 2014),

Pablo Berger (Blancanieves, 2012), Achero Mañas (El bola, 2000; Noviembre, 2003), Manuel Martín Cuenca (La flaqueza del bolchevique, 2003; Caníbal, 2013), Fernando Franco (La herida, 2013), Albert Serra (El cant dels ocells, 2008; Història de la meva mort, 2013) e Jonás Trueba, il più piccolo dei fratelli Trueba (Todas las canciones hablan de mí, 2010; Los exiliados románticos, 2015). In conclusione, parlare del cinema spagnolo come il peggiore del mondo (Bocchi, 2017), è irresponsabile e per nulla professionale. Inoltre tradisce una miopia critica, un uso improprio del linguaggio critico e la mancanza di una solida conoscenza della materia trattata tali per cui si condanna, non certo il punto di vista, bensì la forma e la mancanza di distinguo, di discussione critica e soprattutto di sana obiettività e onestà intellettuale. Un cinema vivace, colorato, vario, plurale, polifonico, radioso, coraggioso, tecnicamente sempre più perfetto, legato alla tradizione teatrale di un paese che appunto a livello teatrale non è secondo nessuno; un cinema che pur ispirandosi a modelli cinematografici stranieri, come appunto i generi horror, thriller e poliziesco, non perde di vista le questioni puramente spagnole come succede per esempio nel cinema di Álex de la Iglesia (Blanes Picó, 2017), ma anche nel cinema di Rodríguez o Sorogoyen, Arévalo o Calparsoro, proprio perché il genere viene rivisto e riformulato attraverso le tre poetiche e le tre forme estetiche tipiche delle forme di rappresentazione dell’identità spagnola: il costumbrismo, l’esperpento e il tremendismo.

Mauro Fradegradi Abbiategrasso – giovedì 13 aprile 2017

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