Etica e responsabilità

June 19, 2017 | Autor: Giulia Iacometti | Categoria: Bernard Williams, Filosofía, Etica, Storia della filosofia antica, Tragedia Greca
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Università degli Studi di Pisa a.a. 2014-2015 Dipartimento di Civiltà e forme del sapere Corso di laurea in Filosofia Corso di Storia della filosofia antica

Etica e responsabilità Giulia Iacometti

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Se consideriamo l'etica come “scienza della condotta”1 umana, delle sue finalità e dei suoi moventi, è evidente che ci riferiamo a uomini che decidono autonomamente di compiere una certa azione; di tenere, appunto, una certa condotta. Dove non c'è autonomia, volontà, deliberazione, responsabilità… non ci può essere giudizio etico. In un mondo nel quale l'uomo appare spesso de-responsabilizzato perché (si sente) in balìa della Natura - fisica e umana - “personificata” negli dei, pre-destinato da un fato contro il quale a niente vale opporsi, è possibile parlare di etica? Ovvero, è possibile parlare di etica nel mondo omerico popolato com'è da eroi che sembrano sovrastati da forze superiori che ne segnano il destino? Si tratta di una domanda sulla quale molti studiosi hanno investito molte energie e che non ha trovato, né forse poteva trovare, risposta definitiva.

In un passo molto famoso (e molto citato) dell'Iliade, Agamennone viene privato da Apollo della schiava Criseide, suo bottino di guerra e figlia di un sacerdote del dio. Agamennone si rivale su Achille prendendo la schiava di lui, Briseide, e Achille, offeso, decide di non scendere più in battaglia contro i troiani. Si tratta di un colpo molto duro per l'“esercito greco”2 perché Achille è il combattente più valoroso. Per questa ragione Agamennone è infine costretto a “chiedere scusa” ad Achille e ad accollarsi le conseguenze della propria azione anche se, in realtà, dichiara di non sentirsi affatto colpevole perché ritiene di essere stato costretto dagli dèi a compiere il rapimento della sacerdotessa

1

Cfr. Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Etica, UTET, Torino, 1971, p. 362.

2

In realtà, come mostra Mario Vegetti ne L'etica degli antichi (p. 20), non si può parlare in senso proprio di “esercito greco” nell'epoca della guerra di Troia (XIII secolo a.C.), soprattutto nel senso in cui ne parleremmo noi. 2

“Spesso gli Achei mi biasimarono per questo fatto; tuttavia io non sono colpevole: Zeus, e la Moira, e l'Erinni che vaga nell'ombra, essi, in quell'assemblea, mi ispirarono l'errore funesto il giorno in cui tolsi ad Achille il suo dono d'onore. Che cosa potevo fare? Sono gli dèi che compiono tutte le cose.”3

Agamennone assume su di sé le conseguenze (e infatti vorrebbe porre rimedio al proprio errore offrendo ad Achille ricchissimi doni), ma dichiara di essersi trovato in una condizione che potremo definire di “incapacità di intendere e di volere” “E così anch'io, quando Ettore dall'elmo lucente faceva stragi di Achei presso le navi, non potevo scordarmi di Ate che un giorno mi indusse in errore. Ma poiché ho errato e Zeus mi ha tolto il senno, voglio offrire una ricompensa, voglio offrire doni infiniti”. 4

Si osservi come nella versione di Maria Grazia Ciani non è esplicitato il richiamo all'accecamento da parte di Ate come invece avviene nella versione di Rosa Calzecchi Onesti

“Giacché, accecato da Ate, ho errato, e Zeus mi ha tolto il senno, voglio fare ammenda e offrire doni immensi”5

Agamennone, dunque, dichiara di essere stato accecato. Per inciso, ate è un termine di difficile traduzione che in generale si può rendere con “accecamento” anche se questa parola non va presa alla lettera dal momento che non si riferisce ad un accecamento fisico, ma bensì ad un accecamento “psichico”, un “obnubilamento”, un “annebbiamento”, una perdita di lucidità come quando una persona, in preda all'ira, cessa di ragionare e compie atti non propriamente volontari.

3

Omero, Iliade, XIX, 63-91, UTET, Torino, 1998, a cura di Maria Grazia Ciani, p. 863.

4

Omero, Iliade, XIX, 137-138, p. 867.

5

Omero, Iliade, XIX, 137-138, Einaudi, Torino, 1982, versione di Rosa Calzecchi Onesti. 3

Nella stessa condizione di Agamennone si viene a trovare anche l'Aiace dell'omonima tragedia di Sofocle allorché, accecato dalla dea Atena, pensando di uccidere Odisseo e gli altri, senza rendersene conto, uccide invece un branco di pecore e del bestiame; poi, in preda alla vergogna, decide di suicidarsi. Nonostante si rassegni a prendere in carico le conseguenze della propria azione, Agamennone tuttavia non ne assume la responsabilità. Dice infatti: “Sono gli dèi che compiono tutte le cose”. Ma non solo. Come ulteriore elemento di de-responsabilizzazione ricorda che persino Zeus è stato accecato da Ate6

“Figlia maggiore di Zeus è Ate - funesta - che tutti trascina in errore; ha i piedi leggeri e non sfiora la terra, ma cammina sulla testa degli uomini per la loro rovina: e cattura ora l'uno, ora l'altro. Trasse in errore anche Zeus, un tempo, sommo tra gli dèi e tra gli uomini” 7

Il richiamo a Zeus è astuto in quanto, se persino il “sommo tra gli dèi e gli uomini” è stato ingannato da Ate, come avrebbe potuto Agamennone sfuggirle? In questo modo, mentre riconosce di fronte all'assemblea degli Achei l'inganno, Agamennone, ne riduce la portata.

Nella tragedia di Eschilo Sette contro Tebe c'è un altro esempio di etero-direzione e di incapacità di imporsi alla volontà divina. Eteocle sa che sta per andare ad uccidere il proprio fratello e riconosce ciò che sta facendo a causa della maledizione lanciata dal padre Edipo. Eteocle resiste al tentativo del Coro di persuaderlo a non compiere il delitto che invece compie per giustizia, onore e vergogna. Alla domanda del Coro: “Vuoi mietere sangue

6

Cfr. Stefano Dentice di Accadia Ammone, Omero e i suoi oratori: Tecniche di persuasione nell'"Iliade”, de Gruyter, Berlin/Boston, 2012.

7

Omero, Iliade, XIX, UTET, Torino, 1998, a cura di Maria Grazia Ciani, pp. 863-5. 4

fraterno?”8 Eteocle risponde: “Quando gli dèi dispongono, non si possono schivare le sventure”.9

Possiamo ricordare anche un momento, nella Medea di Euripide, in cui Medea ricorda a Giàsone tutto quello che ella ha fatto per lui. Giàsone risponde (peraltro in maniera poco convincente e molto irritante, tanto da far dire al Coro “a me sembra che, tradendo tua moglie, tu non agisca con giustizia”10) che Medea ha fatto quello che ha fatto non per sua volontà, ma sotto l'influsso di Afrodite

“Dato che esalti troppo i tuoi meriti, io credo, invece, che Cipride sia stata la salvatrice della mia spedizione, lei sola fra gli dèi e gli uomini. Tu hai di sicuro una mente sottile, ma per te è un discorso odioso spiegare che Eros con le sue ineludibili frecce ti ha costretto a salvare la mia persona”11

La salvatrice della spedizione non è stata dunque Medea, ma Afrodite che, attraverso Eros, l'ha fatta innamorare di Giàsone, spingendola ad aiutarlo nella sua impresa; è stata la divinità a determinare l'azione di Medea e le sue conseguenze. Siamo dunque di fronte ad un nuovo “caso Agamennone” ovvero ad una traslazione della responsabilità (dell'azione) dalla persona alla divinità? Allo stesso modo in cui Agamennone, obnubilato dagli dèi, prende il bottino di Achille, Medea agisce accecata dall'amore che Cupido le instilla sotto la regia di Afrodite? L'affermazione di Giàsone è tanto più paradossale se si pensa al fatto che Euripide

8

Eschilo, Sette contro Tebe, 717, Bompiani, Milano, 2013, p. 145.

9

Eschilo, Sette contro Tebe, 718-719, p. 145.

10 Euripide, Medea, 576-577, Biblioteca Universale Rizzoli, 1982, p. 157. 11 Euripide, Medea, 520-530, p. 153. 5

usa molto spesso termini come "boulèumata" o "boulèo" (che hanno a che fare con il decidere, con il progettare piani, con il prendere decisioni…) per sottolineare il carattere di piena consapevolezza - e non certo di etero-direzione - che hanno le azioni di Medea. Del resto Medea è una figura che si presta a più interpretazioni: se da un lato la tesi più attestata è quella della “Medea anti-socratica” che sceglie consapevolmente di operare il male sebbene sappia che esso sia tale, dall'altro lato ci sono anche interpretazioni - come per esempio quella legata a “The Medea complex”12 - in cui si suggerisce persino una condizione che si avvicina all'incapacità di intendere e di volere. Un “caso Agamennone”, appunto.

“Individuare nelle parole di Medea l'assenza di una prospettiva morale, invece, significa riconoscere in questa assenza la riprova del fatto che siamo sempre all'interno di una dimensione arcaica in cui il concetto di colpa ancora non si è affacciato sulla scena con tutti i connotati della responsabilità etica.”13

Maggiore è la distanza cronologica dall'affermazione della polis e più rilevante è l'intervento divino nella vita greca. Questo emerge anche dalle tragedie: infatti, nel tragediografo più antico, Eschilo, l'intervento divino è ancora molto forte, mentre in Euripide, il tragediografo più giovane, gli dèi intervengono in misura molto minore e la responsabilità delle azioni è sempre più riconducibile all'uomo. La decisiva influenza degli dèi fa dire a Dodds e Snell che i personaggi omerici sono sostanzialmente etero-diretti, con l'azione dell'eroe che sembra essere governata dall'intervento “psichico” - così si esprime Dodds - di un dio che agisce sull'individuo. Dodds parla anche di “io indebolito” (appunto, dall'intervento psichico), di debolezza della coscienza

12 http://medical-dictionary.thefreedictionary.com/Medea+complex 13 Giulia Cupido, L'anima in conflitto, Il Mulino, p. 39 6

dell'io. Snell parla invece di mancanza dell'io “tout court” nell'uomo omerico che non può decidere in maniera autonoma perché non ha coscienza di sé come ente unitario. Secondo Snell i greci non hanno neppure una nozione di corpo se non come di puro assemblaggio di parti (testa, gambe, braccia...). Snell giunge a questa conclusione perché osserva che nella lingua greca antica sembra non esistere una parola che designi il corpo (del vivente), ma solo il cadavere (sòma); e dall'inesistenza della parola deduce l'inesistenza del concetto. Giunge poi ad un'analoga conclusione per quanto riguarda il concetto di anima (psychè). La parola psyché in origine non designa infatti l'anima, ma solo il “soffio vitale” e si usa quando qualcuno sta morendo o svenendo.

“Il documento più importante per la concezione arcaica della psychè è costituito dai poemi omerici. In alcuni passaggi, in effetti, psychè sembra indicare direttamente il respiro. Nell'Iliade Sarpedone viene ferito da una lancia che gli penetra nella coscia; all'estrazione della lancia

Lo abbandonarono i sensi (psychè), sugli occhi gli scese una nebbia; Ma riprese fiato di nuovo, e il soffio di Borea, spirando all'intorno, gli ridava la forza vitale (thymòs), che annaspava a fatica (Hom.Il. V 696-8, tr. G. Cerri)”14

Poiché non esiste una parola per l'anima, non esiste il concetto di anima. Questo è il ragionamento di Snell a cui si oppongono, dall'altro versante del dibattito, autori come Bernard Williams o anche, per alcuni versi, Mario Vegetti. Williams è convinto che nel poema omerico in realtà l'idea di corpo come ente unitario ci sia

14 Dispense di Bruno Centrone, Istituzioni di storia di filosofia antica, a.a. 2014-2015 7

e per dimostrarlo porta l'esempio dei versi in cui Priamo si reca al campo acheo per reclamare il corpo del figlio Ettore, ucciso in duello da Achille. Secondo Williams “Nel volere che il corpo di Ettore sia intatto, Priamo vuole che Ettore sia come da vivo. L'integrità del cadavere, l'integrità desiderata da Priamo, non è acquisita solo con la morte: essa è l'integrità di Ettore” […] trascurava l'unità che essi, e noi, e tutti gli esseri viventi, hanno riconosciuto: la stessa persona viva” 15

L'unità del figlio che Priamo concepisce è il figlio vivo. Williams è convinto che l'uomo omerico abbia coscienza di sé come ente unitario, che possa deliberare, che possieda volontà, autonomia. Il filosofo giustifica questa tesi a partire da due elementi: 1) il primo è quello che gli dèi non intervengono sempre e spesso i personaggi agiscono senza l'intervento divino. Gli dèi agiscono più che altro per offrire ulteriori ragioni all'individuo (anche se questi non manca di ragioni sue) per compiere una determinata azione. Spesso, dunque, il dio interviene solo per spingere il personaggio incerto a prendere la propria risoluzione; 2) il secondo elemento - piuttosto convincente - è quello che gli stessi dèi deliberano. Non si può dunque non dedurre che l'uomo greco ha la nozione di deliberazione (fosse pure riservata solo agli déi i quali sono, in definitiva, essi stessi delle produzioni degli uomini oltre che loro simili, anche se potenziati e immortali). Un ulteriore esempio portato da Williams a favore della propria tesi è quello di Telemaco che si scusa con il padre Odisseo per aver lasciato aperta la porta della stanza dove erano custodite le armi dei Proci

“O padre, sono io che ho sbagliato, nessun altro ne ha colpa,

15 Bernard Williams, Vergogna e necessità, Il Mulino, p. 34 8

io che ho lasciato socchiusa la salda porta del talamo; la loro spia è stata più attenta.” 16

Williams osserva che c'è una vera e propria ammissione di responsabilità da parte di Telemaco il quale infatti si definisce àitios. Possiamo dunque concludere che in Omero sussiste la nozione di intenzione anche se non esiste un termine che la denoti.

“i greci avevano una nozione di intenzione. Ciò deriva da due verità: i greci consideravano le azioni delle persone tra le cause possibili di ciò che accade, e ritenevano che le decisioni delle persone, i loro pensieri circa il da farsi, si esaurissero nelle loro azioni.”17

E' in questo modo che Williams critica Snell: la mancanza di un termine non significa la mancanza di una nozione. Oltretutto, aggiunge Williams, nell'Iliade e nell'Odissea si usa spesso la parola hekon, che significa “intenzionalmente” o “deliberatamente”.

Agamennone è dunque colpevole? Poteva rifiutare di fare ciò che il dio gli suggeriva di fare? La conclusione di Snell è questa: poiché l'uomo omerico non ha “coscienza” di sé, non è capace di deliberare in maniera autonoma: di conseguenza, Agamennone non è responsabile per la sua azione (il rapimento della schiava Briseide). Il grecista tedesco aggiunge che in un mondo in cui l'uomo non può essere considerato responsabile delle proprie azioni non si può parlare di etica. Dodds conferma questa tesi proponendo una classificazione, peraltro abbastanza condivisa dagli studiosi, in “civiltà di vergogna” e “civiltà di colpa”

16 Omero, Odissea, XXII, 154-156, Marsilio, a cura di Maria Grazia Ciani 17 B. Williams, op. cit., p. 78 9

“Sappiamo che nella nostra società il senso intollerabile di colpa viene eliminato proiettandolo con l'immaginazione sopra un'altra persona; possiamo presumere che l'uomo omerico si servisse per lo stesso fine del concetto di ate, che gli permetteva di proiettare, in piena buona fede, il proprio insostenibile senso di vergogna sopra una potenza esterna. Dico vergogna, non colpa, perché alcuni antropologi americani ci hanno insegnato a distinguere le "civiltà di vergogna" dalle "civiltà di colpa", e la società descritta da Omero è sicuramente una civiltà di vergogna”18

Secondo Dodds il passaggio, nel mondo greco, dalla civiltà della vergogna (com'è la società omerica) a quella della colpa avviene intorno al VI-V secolo a.C.. Nella civiltà della vergogna primeggiano valori competitivi e il sentimento della vergogna per l'insuccesso di un'impresa prevale sulla colpa per la propria condotta; al contrario, nella civiltà della colpa si affermano virtù più prettamente cooperative. Non bisogna pensare che nella civiltà della colpa non ci siano più i valori presenti nella civiltà della vergogna; ci sono ancora, ma non sono più dominanti. E' importante sottolineare che si può parlare di (civiltà di) colpa solo nel momento in cui esiste una concezione morale dell'azione; ovvero nel momento in cui, di una azione, si può dire se sia giusta o ingiusta: non a caso non possiamo chiamare civiltà di colpa la società omerica dove vigono valori di onore (timè), vergogna e soprattutto forza (la legge fondamentale è, in definitiva, la legge del più forte e manca un nòmos condiviso). Se Agamennone non fosse in grado di sottomettere Achille (imponendogli, con un atto di hybris, la propria supremazia attraverso la sottrazione del bottino di guerra), Achille avrebbe il diritto di imporsi su di lui. I capi non muoiono di vecchiaia perché, come tra gli animali, si presenta sempre un competitore che, per diventare il capo successivo, deve superare in forza il capo attuale. Nella società eroica i doveri che governano la vita individuale derivano dal

18 Eric Robertson Dodds, I greci e l'irrazionale, p. 59 10

ruolo del singolo, secondo un sistema rigido, tanto rigido da apparire inderogabile. Il termine stesso agathòs, comunemente tradotto con “buono”, secondo Snell non ha, in origine, alcuna connotazione morale: Achille deve riconoscere che Agamennone è agathòs, seppure si sia comportato in modo ingiusto, perché essere agathòs in quel contesto significa far valere la propria forza e la forza è uno dei valori fondamentali riconosciuti da eroi come Achille e Agamennone. I valori del mondo omerico sono molto diversi rispetto a quelli del V secolo: poiché la hybris è necessaria per imporsi, in un mondo in cui imporsi è un valore la hybris è accettata socialmente e addirittura valorizzata; invece, nel periodo della polis, peccare di hybris è l'atto peggiore che un uomo possa compiere. Mario Vegetti sostiene a buona ragione che Agamennone avrebbe agito allo stesso modo anche se non fosse stato “accecato” dagli dèi in quanto la sua azione era dettata dal suo status ed anzi si può persino supporre che quella dell'accecamento sia soltanto una scusa. Nella società eroica, il “cosa si deve fare” non è scritto nelle leggi perché deriva immediatamente dai ruoli nella società che, tra l'altro, non è una vera comunità politica come quella che si affermerà solo successivamente. E se è dal ruolo che nascono le consuetudini a cui ciascuno deve fare riferimento, c'è davvero la possibilità si sottrarsi ad esse - in definitiva è questa la nozione di libertà - oppure è possibile sottrarsi a quelle consuetudini solo sottraendosi a quel ruolo? E' il mondo stesso in cui viviamo che ci vincola a determinati comportamenti e non altri, che ci vengono suggeriti - o forse si potrebbe dire imposti - attraverso l'educazione e la tradizione? Fino a che punto le nostre azioni sono veramente volontarie e fino a che punto il personaggio “che decide consapevolmente” agisce davvero in maniera completamente autonoma e senza condizionamenti esterni?

11

Sofocle, ad esempio, esprime nelle sue tragedie - e specialmente nel Filottete19 - queste “presenze antagoniste” che impongono una scelta tra valori opposti. D'altro canto, Platone dedicherà tutto il suo progetto filosofico alla critica delle virtù competitive che hanno portato alla crisi della polis.

Nella tragedia di Sofocle Edipo re è posto il problema della volontarietà o meno dell'azione. Edipo, non sapendolo, si accoppia con la madre e uccide il padre. L'oracolo di Delfi svela a Creonte, inviato di Edipo, che le cause della pestilenza di Tebe sono dovute alle azioni di un abitante della città (Edipo, appunto) che ha dato origine ad un miasma, ovvero ad una “contaminazione” che, in questo caso, è dovuta al parricidio e all'incesto, e che deve essere purificata. A.W.H. Adkins sottolinea che il “fenomeno della contaminazione si fa più intenso di fronte a situazioni alle quali la società non può trovare né una spiegazione né un rimedio”20. Il miasma, osserva dal canto suo Bernard Williams

“era determinato tanto dall'omicidio intenzionale quanto da quello involontario, poiché era concepito semplicemente come un effetto dell'omicidio e l'estensionalità della relazione causale”21.

19 Cfr. Maria Antonietta Foddai, Tracce di responsabilità,: “Ulisse, suggerendo a Neottolemo di mentire per impadronirsi dell’arco, rappresenta il modello delle virtù competitive: usare l’astuzia e l’inganno per riuscire nell’impresa è una condotta onorevole, che rientra nel concetto di aretè. Neottolemo, rifiutandosi di ingannare un uomo già maltrattato dai compagni, che non ha alcuna colpa della sua condizione, rivela una diversa concezione della virtù umana, ispirata alla giustizia” 20 M. A. Foddai, op. cit., nota 114 21 B. Williams, op. cit., p. 71 12

Edipo dirà, nell'altra tragedia di Sofocle, Edipo a Colono, che non intendeva fare ciò che ha fatto, ma che tutto era stabilito dal fato

“Evidentemente piacque così agli dei, forse adirati da tempo remoto contro la mia stirpe. Si, perché di certo non troverai da rinfacciare a me personalmente alcuna colpa volontaria, per la quale dovessi perpetrare i delitti che ho compiuto contro di me e contro i miei consanguinei. […] senza sapere quel che facevo e a chi lo facevo, come potresti a ragione accusarmi di questo atto involontario?”22

Quando, nell'Edipo re, il protagonista scopre ciò che ha fatto ha una reazione “auto-lesionista”

“Apollo fu, Apollo, miei cari, che ha voluto questi miei patimenti atroci. Ma nessuno mi ferì gli occhi con le sue mani: io sono stato, io, sciagurato!”23

La volontarietà dell'atto e il principio di responsabilità sono, come si è detto, fondamentali per definire il carattere etico di tale atto

“… distinguere il volontario dall'involontario è certo necessario, per coloro che esaminano il campo delle virtù, ed è utile anche ai legislatori, per quanto riguarda i premi e le punizioni.” 24

(si osservi lo stretto legame istituito da Aristotele tra ambito giuridico e ambito etico). Mentre nell'Iliade e nell'Odissea sembra non sussistere il concetto di azione volontaria,

22 Sofocle, Edipo a Colono, 962 e seguenti, a cura di Franco Ferrari, p. 329 23 Sofocle, Edipo re, 1330 e seguenti, a cura di Franco Ferrari, p. 239 24 Aristotele, Etica Nicomachea, 1109b, Laterza, 1999, p. 77 13

nell'Etica Nicomachea Aristotele (si) pone il problema dell'involontarietà e della volontarietà dell'azione, cercando anche di darne una definizione. Un'azione è involontaria, secondo Aristotele, quando si è costretti a compierla oppure quando la si fa per ignoranza. Quest'ultimo caso si riconosce quando, successivamente all'atto, la persona prova dolore, dispiacere e si rammarica per averlo compiuto. Un'azione si può compiere in uno stato di ignoranza o a causa dell'ignoranza: e solo la seconda può dirsi davvero involontaria. Se compio un'azione in uno stato psico-fisico alterato essa non può dirsi involontaria nel senso che ne avrei ignorato le sue conseguenze: sapevo a cosa andavo (potenzialmente) incontro, ma ho deciso di andare avanti: ho compiuto l'azione nell'ignoranza. In questa parte dell'Etica Nicomachea emerge un'eco “socratica”

“Ora, tutti i cattivi ignorano ciò che si deve fare, e ciò da cui ci si deve astenere, ed è a causa di questo errore che diventano ingiusti e in generale viziosi” 25

Qui Aristotele parla letteralmente di vizio prodotto da un errore consistente nella mancanza di conoscenza di ciò che è giusto (bene) in modo sorprendentemente simile a quanto potrebbe aver fatto Socrate per il quale vige, appunto, l'equazione di virtù e conoscenza. Le azioni involontarie possono essere perdonabili o imperdonabili. In entrambi i casi le persone agiscono in uno stato di ignoranza; ma, mentre delle prime fanno parte gli errori che le persone compiono a causa dell'ignoranza, delle seconde fanno parte quelli che “non avvengono a causa dell'ignoranza, ma in uno stato di ignoranza non dovuto a un'azione

25 Aristotele, Etica Nicomachea, 1110b, Laterza, 1999, p. 81 14

umana o naturale.”26 Inoltre dice Aristotele:

“E' dubbio se siano volontarie o involontarie le azioni che vengono compiute per paura di mali peggiori, o a causa di qualcosa di bello - come, per esempio, nel caso in cui un tiranno che si sia impadronito dei nostri genitori e dei nostri figli ci comandi di compiere qualcosa di turpe, e se noi lo compiremo quelli si salveranno, mentre saranno messi a morte se non lo compiremo. […] Ora, azioni del genere sono miste, ma somigliano di più a quelle volontarie. Infatti nel momento in cui vengono compiute sono frutto di una scelta, e il fine dell'azione dipende dalle circostanze”.27

Su questo tema Abelardo propone l'esempio dello schiavo che, inseguito dal padrone per ucciderlo, decide di ucciderlo a sua volta per legittima difesa

Un tizio è innocente; il suo crudele padrone, lasciandosi trascinare dall'ira, si infuria talmente contro di lui, da inseguirlo con la spada sguainata per ucciderlo; quegli lo sfugge a lungo, cercando di impedire, per quanto gli è possibile, di lasciarsi uccidere; ma alla fine, per non venir ucciso dal suo padrone, costretto e contro la sua volontà, egli stesso lo uccide. […] Ma poiché diede il suo assenso, che non avrebbe dovuto dare, all'uccisione, questo suo ingiusto consenso che precedette l'uccisione fu peccato.” 28

Ovviamente, essendo cristiano, Abelardo parla di “peccato”, ma l'aspetto significativo di questo esempio è che costituisce un caso limite: anche se compiuta per legittima difesa, l'azione dello schiavo è comunque da considerarsi volontaria perché, in definitiva, poteva scegliere di farsi uccidere piuttosto che uccidere (come fa intendere lo stesso Abelardo quando

26 Aristotele, Etica Nicomachea, 1136a, Laterza, 1999, p. 207 27 Aristotele, Etica Nicomachea, 1110a, Laterza, 1999, p. 77 28 Pietro Abelardo, Conosci te stesso o l'Etica, pp. 12-13 15

dice: “volendo sfuggire alla morte, voleva conservare la propria vita”29).

“Colui infatti che costretto uccise il suo padrone, non ebbe la volontà nell'atto di uccidere, ma commise tale azione indubbiamente per una qualche volontà, poiché voleva appunto sfuggire o differire la morte.”30

Solo di un'azione compiuta volontariamente si può giudicare se sia giusta o ingiusta perché solo in quel caso si può indagare la sua “ragion pratica”, la motivazione e il fine che hanno spinto a compierla. Se invece l'azione è involontaria essa può essere, secondo Aristotele, per accidente, sia giusta che ingiusta.

“Quindi ciò che è ignoto, o non è ignoto ma non dipende da chi agisce, o avviene per costrizione, è involontario. Infatti molte sono le cose che avvengono per natura e che noi facciamo e subiamo consapevolmente, e nessuna di queste è volontaria o involontaria, come per esempio invecchiare e morire.” 31

In conclusione, il rapporto tra libertà e necessità entro cui si colloca il tema della responsabilità (e dunque dell'etica) ha molte sfaccettature ed è arduo stabilire fino a che punto le nostre azioni siano frutto di una scelta autonoma e consapevole e fino a che punto esse siano invece necessitate dal contesto culturale, sociale, psicologico32…; le diverse interpretazioni possono darci molti spunti di riflessione, ma non risposte definitive. Che forse non esistono.

29 Pietro Abelardo, Conosci te stesso o l'Etica, p. 12 30 Pietro Abelardo, Conosci te stesso o l'Etica, p. 22 31 Aristotele, Etica Nicomachea, 1135a, Laterza, 1999, p. 203 32 Si pensi ad esempio alla “temporanea” incapacità di intendere e di volere che si determina per effetto di un “accecamento” dovuto all'ira, alla rabbia... 16

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